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Pagina:Zola - Il paradiso delle signore - 1936 - Mondadori.pdf/269

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il paradiso delle signore

Beppino, in estasi, si protendeva verso il cane, coi braccini sui ginocchi del vecchio.

— A me basta campare alla meglio! ricominciava lui, lavorando delicatamente la lingua del cane con la punta del temperino. — Quei birbaccioni m’han rubato tutti gli avventori; ma se non guadagno piú, nemmeno ci perdo; o per lo meno ci perdo poco. Piuttosto ci rimetto la pelle, che dargliela vinta!

Brandiva, ciò dicendo, il temperino, e i capelli bianchi gli si sollevavano, scossi in un gesto di rabbia.

— Ma se vi dessero una somma discreta, — s’arrischiava a dire Dionisia senza alzar gli occhi dal suo lavoro fareste meglio ad accordarvi!

Allora la feroce ostinazione si mostrava aperta:

— Neanche se mi ammazzano, giuraddio!... Anche col capo sotto la mannaia, direi di no!... La casa è mia per altri dieci anni; e prima di dieci anni non l’hanno, dovessi crepare di fame tra queste quattro mura... Son già venuti due volte a cercar d’accalappiarmi. Mi volevano dare dodicimila franchi del mio fondo; per gli anni da decorrere, altri diciottomila; in tutto trentamila... Nemmeno per cinquantamila! La casa è mia, e li voglio veder venire a leccarmi i piedi!

— Ma trentamila franchi non son pochi! — rispondeva Dionisia. — Potreste andare a stare un po’ piú in giú... E se comprassero la casa?

Il Bourras, che dava gli ultimi tocchi alla lingua del cagnolino, restò assorto per un istante con un riso da bambino diffuso incertamente sulla sua candida faccia da Padre Eterno. Poi ripigliò:


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