Wikisource:Collaborazioni/SBM/testi/C era una volta una fabbrica

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S. Anania, E. Barra, A. Bisi, Cucelli, S. Daloiso, G. Damonte, D. De Luca, D. De Poli, L. Donadello, V Lauricella, L Leka, G. Mitscheunig, A. Negri, E Pellegrini, M. Sangiovanni, A. Seminara C' ERA UNA VOLTA UNA FABBRICA LA GRAZIOLI DI MILANO La città nello spazio e nel tempo Frammenti di storia industriale e di vita operaia a cura di Giuseppe Deiana Liceo Scientifico "S. Allende" Quaderni di cultura e vita scolastica - n. 10 1 Copiright 1999 Liceo Scientifico Statale "S. Allende" via U. Dini, 7 20142 Milano Edizione fuori commercio realizzata con il contributo del Consiglio di Zona 15 - Comune di Milano della Provincia di Milano e della Fiom-Cgil/Camera del Lavoro di Milano Fotocomposizione e stampa Attilio Negri srl Rozzano (Milano Finito di stampare nel mese di giugno 1999 In copertina: muro esterno della fabbrica Grazioli in stato di abbandono S. Anania, E. Barra, A. Bisi, L. Cucelli, S. Daloiso, G. Damonte, D. De Luca, D. De Poli, L. Donadello, V. Lauricella, I. Leka, G. Mitscheunig, A. Negri, E Pellegrini, M. Sangiovanni, A. Seminara C' ERA UNA VOLTA UNA FABBRICA LA GRAZIOLI DI MILANO La città nello spazio e nel tempo Frammenti di storia industriale e di vita operaia a cura di Giuseppe Deiana Liceo Scientifico "S. Allende" Milano 1999 Laboratorio di Storia

Progetto di ricerca didattica LA CITTÀ NELLO SPAZIO E NEL TEMPO La storia come ricerca nella scuola come laboratorio Questa ricerca storica è stata realizzata dagli studenti della classe 5C del Liceo Sc. "S. Allende", negli a. s. 1997-98 e '98-99, come sperimentazione del modello didattico della storia come ricerca nella scuola come laboratorio. Essa costituisce la quinta tappa di attuazione del progetto di ricerca didattica La città nello spazio e nel tempo, con particolare riferimento al sud Milano: progetto attivato nel Liceo a partire dal 1991, come concreta strategia di innovazione nella formazione storica, che si propone le seguenti finalità formative di fondo: educazione alla ricerca, educazione al recupero della memoria storica, educazione alla cultura operaia, educazione alla nuova cittadinanza, educazione alla coscientizzazione ambientale, educazione alla scrittura di tipo saggistico. Questi i lavori precedentemente realizzati: a) Alla ricerca della cascina perduta. Frammenti di storia metropolitana milanese: progetto di storia ecologica, a cura di Giuseppe : Deiana, Liceo Scientifico "S. Allende", Milano 1992; b) Quando la fabbrica fa la storia. La cartiera Binda di Milano, a cura di Giuseppe Deiana, Liceo Scientifico "S. Allende", Milano 1995; c) Partigiani della zona 15. Frammenti della Resistenza italiana e milanese, a cura di Giuseppe Deiana, Liceo Scientifico "S. Allende", Milano 1997; d) Il Cile di Allende e noi, vent' anni dopo, per non dimenticare e per capire l' oggi, a cura di Giuseppe Deiana, Liceo Scientifico "S. Allende", Milano 1994. Nell' ambito del Laboratorio di Storia sono stati realizzati anche altri progetti di ricerca didattica, in particolare quelli coordinati dal prof. Giancarlo Pennacchietti sugli indicatori del mondo contemporaneo, sull' Unione Europea, sull' Italia degli anni '60, ecc. A cura del prof. Giuseppe Deiana sono stati ideati e attuati anche i due convegni sulla figura di Salvador Allende, quello del 1993 e quello del 1998, finalizzati a ricordare rispettivamente il 20° e il 25° anniversario del golpe militare in Cile e la morte del presidente cileno, a cui è intestato il Liceo. Presentazione Al termine di questo anno scolastico, 1998-'99, ultimo della mia "carriera scolastica", è per me un grande piacere presentare questa ricerca storica, elaborata nel corso di due anni e nell'ambito del laboratorio di storia, dagli studenti della classe 5C del Liceo "S. Allende", sotto la guida attenta e scrupolosa del prof. Giuseppe Deiana. La ricerca, seguendo una ormai consolidata tradizione di studio innovativo, ancora una volta si è attivata verso uno studio volto, essenzialmente, al recupero della memoria storica di una zona della periferia di Milano poco conosciuta ai più, ma che tanto ha contribuito allo sviluppo economico, industriale e civile della città. Gli studenti hanno eseguito uno scrupoloso, direi quasi meticoloso, lavoro che li ha portati ad esplorare storicamente il contesto sociale ed urbano di una zona della città che, nel corso di sessant'anni, ha visto radicalmente modificata la propria struttura, il tipo di lavoro che impegnava i suoi abitanti e gli abitanti stessi: la conoscenza vicina dei fatti ha senza dubbio contribuito all'educazione alla cittadinanza di questi giovani, così come li desidera, forse non tanto la società attuale, ma ogni singolo docente-educatore. L'augurio migliore che mi sento di formulare, non solo a questi giovani ricercatori, ma a tutti i lettori di questo volume, è che questo tipo di educazione allo studio della storia si diffonda e diventi patrimonio comune, per una crescita civile e responsabile dei cittadini di domani. Il Preside prof. Olga Cafiero "Entrando in fabbrica ho maturato una sensibilità politica concreta e non solo ideale, all' insegna della solidarietà" "C' era una forte solidarietà allora, che oggi non c' è più. Anche perchè non ci sono più le fabbriche" "Perchè la fabbrica dà la possibilità di vivere in democrazia. Questa è la convinzione che mi porto ancora dentro e che vorrei che restasse ai giovani di oggi" "Sono stati anni in cui ho vissuto bene, proprio perchè c'era l' aspetto solidaristico, che fa parte della mentalità operaia, soprattutto di quella sindacalizzata e politicizzata" "Con la sua chiusura e l'abbattimento della struttura se ne va un pezzo della nostra vita e della nostra storia" (Dalle testimonianze degli ex-operai della Grazioli) Alla memoria di Duccio Bigazzi, studioso di storia dell'impresa. di Paolo Gufanti, partigiano e testimone vivente delle lotte operaie a Milano e di quegli uomini e quelle donne che hanno vissuto la storia operaia e che la deindustrializzazione ha cancellato Indice Presentazione, di Olga Cafiero P. 5 I. Introduzione. Quando la fabbrica lascia il segno e fa la storia. Insegnamento della storia e qualità dell' istruzione, di Giuseppe Deiana p. 9 II. Il contesto urbano: Milano industriale dagli anno '30 ad oggi, di Andrea Bisi e Luca Cucelli p. 25 III. La storia della Grazioli, dalle origini alla guerra, di Daniele De Luca e Giulia Damonte p. 33 IV. La figura del fondatore Giacomo Grazioli, di Salvatore Daloiso e Davide De Poli p. 39 V. Gli anni della Resistenza e delle lotte operaie alla Grazioli, di Vanessa Lauricella e Massimiliano Sangiovanni p. 47 VI. Il sistema produttivo della Grazioli come industria meccanica di Emanuela Barra e Stefania Anania p. 59 VII. La Grazioli dal dopoguerra alla chiusura, di Giorgio Mitscheunig e Andrea Negri p. 69 VIII. Le aree dismesse e la trasformazione economico-industriale di Milano negli anni '80 e '90, di Lorena Donadello e Annamaria Seminara p. 81 IX. La crisi della fabbrica fordista, di Ingrid Leka e Francesco Pellegrini p. 89 X. Testimonianze, a cura di Giuseppe Deiana p. 97 XI. Appendice documentaria p. 127 - I - Giuseppe Deiana Introduzione QUANDO LA FABBRICA LASCIA IL SEGNO E FA LA STORIA Insegnamento della storia e qualità dell' istruzione I. Premessa. La storia tra ricerca e didattica: la storia d' impresa a scuola L' impresa è una delle componenti più importanti dell' economia e della società. Al suo interno si realizza la produzione, si definiscono rapporti sociali, si formano culture e si prendono decisioni che hanno un forte impatto nella vita civile. Essa non può essere studiata come realtà a sé stante: è parte del sistema nel quale si intrecciano l' evoluzione dei mercati e il mutamento tecnologico, il conflitto sociale e le scelte manageriali. Ripercorrerne la vicenda in ambito scolastico ha un grande valore culturale e storiografico, didattico e formativo, in quanto consente una più vasta comprensione e spiegazione dell' epoca contemporanea, e in tal senso anche un forte significato metodologico, nella prospettiva dell' innovazione didattica nell' insegnamento della storia, con particolare riferimento alla storia del Novecento. Nei limiti dell' orario e del carico di lavoro scolastico ho proposto agli studenti di una classe di liceo scientifico di approfondire il tema attraverso lo studio di un caso specifico, quello della Grazioli di Milano, una fabbrica sorta nel 1938 nella semiperiferia della città e chiusa nel 1985; abbattuta nel 1997, al suo posto sta sorgendo un complesso residenziale. Ma la fabbrica ha lasciato il segno, materiale e simbolico, che un gruppo di studenti del vicino liceo hanno voluto riconoscere, valutare e valorizzare come un esempio del patrimonio storico-industriale di Milano, cuore degli oltre cento anni dell' industrializzazione italiana. Lo stabilimento è stato "adottato"' non per curiosità passeggera o per spirito di "campanile", ma in base ad un organico progetto didattico che può essere sintetizzato nella formula "la storia come ricerca nella scuola come laboratorio". In quest' ottica l' insegnamento è posto in stretta relazione con il concetto di qualità dell' istruzione (come è stato elaborato di recente dagli interventi più significativi degli studiosi2), che è condensabile nell' esigenza di insegnare secondo epistemologia, intesa nel duplice senso di epistemologia storica ed epistemologia didattica. La prima ha trovato 1' interpretazione forse più ricca e problematica nella cosiddetta "nuova storia" proposta dalla scuola francese delle "Annales"3, il cui concetto di storia globale (o totale) è quello che più si adatta alle finalità di una formazione storica qualificata come educazione alla complessità. Lo statuto epistemologico della didattica è, invece, un' acquisizione più recente -per quanto controversa -tra i pedagogisti, che sottolineano l' autonomia scientifica della didattica, che "già dispone di una propria epistemologia (ovviamente aperta, problematica: da verificare nei reciproci 'banchi di prova' della teoria e della prassi). Dispone cioè di una propria logica formale (di natura razionalistica e pro blematicistica: essendo i propri assunti teorici legittimabili e/o confutabili soltanto dalla prassi scolastica), di una propria metodologia (è la procedura della Ricerca-Azione), di un proprio linguaggio (è la Programmazione, educativa e didattica), di una propria logica empirica (è la Sperimentazione)" 4. L' insegnamento-apprendimento non può limitarsi alla storia generale condensata nei manuali, che producono negli studenti per lo più noia e disaffezione, disinteresse e rigetto (come se dessimo ai nostri figli -si fa per dire -pastasciutta a colazione, a pranzo, a merenda e a cena: dopo un po' la nausea è sicura). La didattica che si limita a trasmettere solo i contenuti di un manuale (la storia generale) è definibile in sintesi come "didattica di senso comune". Quella invece di "senso critico-scientifico" (corrispondente all' esigenza di insegnare secondo epistemologia) fa riferimento ad un' ampia rete concettuale che evidenzia la complessità e le molteplici dimensioni dell' insegnamento e apprendimento della storia, e che esigono dall' insegnante la capacità di controllare e ricomporre in una unità, significativa sotto 1' aspetto culturale e formativo, la storiografia, la metodologia storica, la ricerca scientifica in campo storico, la saggistica storica, la storia generale, la storia settoriale, la storia locale e anche la ricerca didattica in storia. Quest' ultima costituisce, forse, l' aspetto più originale di un' azione didattica innovativa ed efficace. Essa va intesa in due significati distinti ma complementari: a) quello generale, come studio critico della storia generale, rivolto a conoscere i contenuti ("macrostoria") e padroneggiare la "grammatica" della storia, cioè gli elementi della complessa struttura disciplinare; b) quello particolare, orientato a riconoscere e possedere la "sintassi", cioè le regole e le convenzioni per la produzione del sapere storico, praticabili soprattutto nella "microstoria". Nell' insieme, il primo è la dimensione del sapere, il secondo quella del saper fare, che per comodità chiamo "ricerca simulata" (o limitata) 5. La ricerca didattica in questo secondo senso è come il tetto di un casa: per svolgere la sua funzione necessita di buone fondamenta, di solidi pilastri, di muri ben distribuiti, di scale comuni, di ascensori, ecc. Essa, quindi, è la punta più elevata di un processo ampio e complesso in cui si articola 1' insegnamento e apprendimento della storia. Ma va subito detto che la ricerca didattica è solo uno degli obiettivi di un insegnamento storico rinnovato e riqualificato. In questo senso, fare ricerca storica in classe significa molte cose, che ho condensato nel seguente decalogo, come "paletti" di una strada impervia ma esaltante: a) insegnare e apprendere secondo epistemologia storica; b) insegnare e apprendere secondo epistemologia didattica; c) rendere operativa 1' idea di laboratorio di didattica della storia; d) avere consapevolazza dello scarto tra ricerca professionale e ricerca didattica; e) scegliere temi mirati di microstoria; f) conoscere e mettere a frutto esperienze già realizzate, soprattutto negli aspetti più generalizzabili; g) riconoscere il primato della storia contemporanea; h) individuare e metter in atto le sequenze operative idonee; i) avere una visione "olistica" della storia insegnata e appresa; 1) fare del buon artigianato didattica e lavorare come in un cantiere sempre aperto. E significa tante altre cose, che vengono dopo di queste6. Questi dieci punti fermi fanno giustizia in qualche modo di interpretazioni distorte, che indicano quello che la ricerca didattica non deve essere e che, invece, corrisponde all' immagine forse più comune. Sono pseudo-ricerche, soprattutto nella scuola di base, quel- le assegnate d' autorità, consistenti in una raccolta di informazioni passivamente trascritte da enciclopedie, che sono la parodia della didattica attiva; e anche quelle ispirate in senso ideologico, da motivazioni "populistiche" e "localistiche", che stigmatizzano le identità particolari e sono chiuse al pluralismo e all' integrazione multiculturale. Tutt' altra cosa è la storia locale intesa nel senso del nuovo paradigma storiografico, che pone in stretta e inscindibile correlazione il locale e il globale, il particolare e il mondiale come poli dialettici della spiegazione storica complessa e ricca. Lo dimostra molto bene Piero Bevilacqua (noto come uno dei massimi esponenti italiani della storia ambientale o "ecostoria"), che scrive: "Ho spesso riflettuto sulla mia personale formazione scolastica e universitaria. Sono uscito dal liceo classico di una città di provin- cia, con una buona conoscenza manualistica della storia universale, ovviamente secondo un' ottica irriducibilmente eurocentrica... E tuttavia, uscendo dal liceo, nulla o quasi sape- vo della vicenda storica della città in cui sono nato, ancor meno delle caratteristiche e delle evoluzioni economiche e sociali della mia regione. La storia non mi aveva insegnato alcunché sul luogo in cui mi sono formato...Solo più tardi, per essere diventato uno storico di mestiere - e per aver posto la mia regione al centro di specifici studi e ricerche - ho cominciato a farmi un' idea del luogo in cui si era svolta una parte della mia vita e della mia formazione. Ebbene questa esperienza - che è certamente non dissimile da quella di milioni di italiani nei decenni di questo dopoguerra - merita oggi una particolare riflessio- ne. Induce a interrogarsi con nuove ragioni su un vecchio problema. E' ragionevole che la scuola continui a fornire ai giovani una formazione universale senza riscontri e senza legami con le realtà locali in cui essi vivono? Un insegnamento della storia tutto fondato sui grandi processi ed eventi mondiali non rischia di creare, nella mente dei ragazzi, una sorta di sopramondo astratto che si snoda al di sopra di ogni realtà materiale locale? Senza un fondo di conoscenza storica di una realtà territorialmente delimitata, la stessa qualità di percezione dei fenomeni sociali rischia di essere fortemente impoverita. Nell' epoca del dominio dei media essa si candida ad essere facilmente alterata e manipolata, a sprofonda- re nell' irrealtà di una rappresentazione falsamente universale. Eppure la storia si è svolta in luoghi determinati. Ha percorso il tempo lineare, ma anche lo spazio accidentato delle geografie. E il villaggio, la città, la regione in cui siamo nati non hanno fatto parte della storia mondiale che i manuali ci raccontano? Credo che esistano buone ragioni oggi per ridare alla storia locale una nuova presenza e funzione nella formazione dei giovani... Non bisogna dimenticarlo, l' insegnamento della storia locale nei percorsi della storia generale potrebbe costituire un elemento importante nella formazione delle strutture cognitive degli allievi. E' in questa intersezione di locale e universale che gli studenti possono imparare ad apprendere, attraverso la storia, alcuni meccanismi fondamentali della conoscenza, che sono poi anche i modi di procedere della scienza: il gioco continuo di particolare e generale, concreto e astratto" 7. Nel nuovo paradigma didattico, dunque, la storia locale-particolare non deve certo sostituire la storia generale-mondiale: deve invece integrarla e arricchirla, in un rapporto dialettico in cui la "grande storia" e la "piccola storia" sono coinvolte in un' interazione continua, anche in ambito didattico. Ciò è in qualche modo riconosciuto, per quanto timidamente, dal decreto del ministro Berlinguer (D.M. n. 682 del 4 novembre 1996) relativo alle modifiche al programma di storia, dove si legge che "nell' ambito della programmazione didattica potrà altresì procedersi alla integrazione del quadro storico generale con riferimenti ad aspetti delle realtà storico-culturali locali che siano coerenti con le peculiarità formative del curricolo". L' esigenza, allora, di arricchire la proposta culturale e formativa comporta per i docenti la capacità di reimpostare l' insegnamento della storia, che è "certamente difficile da mettere in pratica, [ma che] può spingere a trovare soluzioni di insegnamento non solo inedite, ma forse anche di non comune efficacia formativa"8. Una di queste soluzioni è appunto la ricerca storico-didattica in classe, che ho praticato nel mio liceo seguendo il metodo galileiano delle "sensate esperienze e necessarie dimostrazioni", dopo aver costituito il "laboratorio di didattica della storia" per migliorare 1' insegnamento della disciplina. I risultati sono confortanti, nonostante le non poche difficoltà, che non sono dovute solo a limiti di tempo, ma anche alle rigidità culturali e psicologiche dei docenti. L' esemplificazione che segue costituisce 1' ultima delle cinque esperienze di ricerca storica in classe realizzate dagli studenti sotto la mia guida, nell' arco di quasi un decennio. La fabbrica Grazioli ha costituito, negli anni d' oro della sua storia, un unicum nella tipologia produttiva del settore meccanico: quella delle macchine utensili. Essa è stata per quasi cinquant' anni una delle principali tra le miriadi di medie e piccole aziende dell' intera area di Milano e della Lombardia, qualificando il sistema produttivo industriale e dando un' impronta originale alla storia del movimento operaio milanese. L' unità produttiva prescelta rappresenta, quindi, uno spaccato significativo di una fase storica caratterizzata dal sistema di fabbrica. Da qui l' interesse eccezionale che essa riveste sia dal punto di vista storiografico sia da quello didattico. Studiare la Grazioli significa per le nuove generazioni, pertanto, conoscere da vicino - sul campo - quanto vi è stato di visibile del processo di industrializzazione, che oggi non esiste più, o è in via di sparizione, insieme alla sua memoria, che è anche la memoria della coscienza operaia. II. Finalità e obiettivi. Imparare a leggere e a vivere la città mondializzata Quali, dunque, le esigenze culturali e formative ispiratrici del lavoro realizzato come sperimentazione possibile di un modo nuovo di fare storia in classe? . a) Quella di saper mettere in atto aspetti di una nuova modalità di stare a scuola, ispirato non dalla competitività ma dalla collaborazione, e finalizzato non solo a consumare cultura, ma anche a produrla in modo autonomo e creativo. La scuola infatti deve essere un luogo dove si sta bene lavorando insieme e dove si può fare cultura viva a partire da tanti aspetti della realtà e in particolare dal territorio. A scuola dunque per soddisfare l' esigenza di acquisire la cultura ambientalista, ben espressa dalla formula ecologista "pensare globalmente, agire localmente". Questa è la modalità forse più efficace per comprendere "come il presente che abbiamo sotto gli occhi non è un insieme arbitrario e casuale di dati oggettivi, indiscutibili e immodificabili, ma semplicemente il risultato di un processo, di una storia, quindi di azioni umane ispirate da interessi e progetti. In questo modo allo sguardo degli allievi anche le pietre dei manufatti cominceranno ad apparire quali forme viventi, che parlano un linguaggio umano, comprensibile. A poco a poco l' intera città cessèrà di apparire 1' esistente per eccellenza, cioè la realtà pietrificata in cui ci è capitato di vivere, per mostrarsi come il frutto di interessi, di conflitti: per dispiegarsi ai nostri occhi come la solidificazione di rapporti sociali e di culture storicamente determinate. Il risultato, giudicabile e modificabile, dell' opera di persone in carne ed ossa. Senza la consapevolezza storica gli uomini rimangono schiacciati dalle cose: ma la conoscenza profonda del passato sbriciola la roccia e ridà ad essi la gioiosa liberazione del comprendere e del giudicare. Per noi, comprendere e giudicare il rapporto tra la modernizzazione e la globalizzazione nella metropoli mondializzata attraverso la storia di una fabbrica che ha lasciato il segno, emblema a suo modo di una Milano industriale e terziaria, capitale economica d' Italia, oggi alla ricerca di un nuovo futuro, condensato di un insieme di contraddizioni, come coesistenza di vecchio e di nuovo all' interno di una realtà sempre in fase di sviluppo, tra processi involutivi ed evolutivi. b) Quella di capire il mutamento del paradigma produttivo nella transizione capitalistica in atto, dalla crisi del fordismo all' affermazione del modello della "fabbrica integrata", accompagnata da trasformazioni sociali di natura epocale, che fanno emergere i segni di una rottura antropologica in riferimento alla vita materiale e ai valori che ispirano i soggetti e le organizzazioni, la divisione del lavoro e la democrazia economica. Capire, insomma, i meccanismi di funzionamento dell' economia mondiale, sempre più competitiva e globalizzata, attrezzandosi a rispondere alla domanda di fondo: quali sono i cambiamenti materiali e culturali mediante i quali una società diventa più equa e solidale? c) Quella di sviluppare la capacità di aprirsi al confronto con i problemi del territorio e riconoscersi come cittadini che, a partire dalla salvaguardia del patrimonio storico-architettonico, progettano la città del futuro, vivibile e accogliente, come spazio e tempo del possibile, luogo di cittadinanza matura e solidale. Ciò significa dotarsi di nuove catogorie interpretative per imparare a leggere stratigraficamente il territorio della città diffusa, valorizzando le testimonianze scritte e orali, per cogliere i segni dei cambiamenti storici e delle persistenze attuali nel paesaggio urbano, con particolare riferimento alle aree dismesse, viste in un rapporto complessivo con la città. Si tratta, in altri termini, di maturare una coscienza responsabile, attenta ai problemi della difesa dell' ambiente inteso come un insieme unitario nel quale convivono, interagendo tra loro, le dimensioni individuali e collettive, quelle private e quelle pubbliche, in modo da ottenere una migliore qualità urbanistica, accompagnata da una maggiore integrazione sociale nella Milano di fine secolo e di inizio millennio. E' la prospettiva dell' intreccio globale, nella realtà locale, tra scuola, territorio e società, come osmosi ricca e dialettica all' interno di un sistema formativo che fa suo in modo serio la prospettiva dell' educazione ambientale. d) Quella di saper sviluppare la capacità di rendere concretamente e storicamente visibili sul territorio milanese le vicende del lavoro umano nel mondo contemporaneo, con particolare riferimento ai connotati della vita operaia'° fatta di bisogni e di passioni, di organizzazione e di lotta, di successi e di sconfitte. Attraverso queste ed altre forme si è espressa, nel nostro secolo, la vitalità etica e politica di quegli operai di fabbrica che oggi sono sempre più una "razza in via di estinzione", lontana dall' orizzonte culturale ed esistenziale delle giovani generazioni, le quali, per i mutamenti strutturali avvenuti negli ultimi anni, del lavoro operaio non conoscono quasi nulla. Fissare 1' attenzione sui processi che sono stati alla base dell' industrializzazione significa saper rispondere a domande come: che cos' è una fabbrica, perchè c' è stata, chi 1' ha voluta, che cosa produceva, chi vi lavorava, perchè è stata chiusa e abbandonata, ecc.? E' un modo per rendere leggibile la cultura complessiva della fabbrica, che è un condensato di cultura industriale, cultura sindacale, cultura tecnologica, cultura etica, ecc.; che si esprime nei segni della presenza e della vita operaia, segni che nel tempo si sono modificati, o sono stati cancellati. Riscoprirli oggi significa coltivare 1' incontro tra generazioni (quella operaia e quella giovanile); significa individuare tracce di soggetti storici che nella fabbrica hanno lavorato, lottato, gioito, sofferto e sperato e che sono quasi scomparsi dal paesaggio presente; significa diventare testimoni consapevoli del tempo presente; significa saper porre in termini nuovi il tema della occupazione per cimentarsi con le nuove relazioni del lavoro dettate dal postfordismo e dalla globalizzazione, dalla rivoluzione tecnologica e dalla crisi del "welfare state". III. Metodologia utilizzata: un lavoro collettivo per gruppi coordinati Le modalità organizzative del lavoro sono state condotte giocoforza entro i limiti dello spazio orario attribuito alla storia (abbinata alla filosofia), che per il triennio del liceo scientifico prevede due ore al primo e secondo anno e tre al terzo e ultimo anno del ciclo secondario. Dal monte ore complessivo per la ricerca storica è stato ritagliato circa il 15%, sfruttando però anche alcuni spazi extradidattici (qualche pomeriggio, ma soprattutto i lunghi periodi di vacanze (come quelle estive). Si è cercato di armonizzare i tempi materiali con i tempi psicologici di maturazione lenta dell' idea di ricerca (nel quadro della normale attività didattica rivolta a realizzare il "tradizionale"-"ministeriale" programma di storia). In questo senso nella classe terza è stato preparato il terreno, che è stato "seminato" in quarta e in quinta si sono "raccolti i frutti", prestando particolare attenzione a distinguere quello che la ricerca non è e non deve essere, da quello che è e deve essere da un punto di vista epistemologico e culturale, formativo e didattico; cercando di rispondere alle obiezioni, di risolvere le difficoltà, di smuovere gli studenti scettici e pigri, di soddisfare le curiosità degli entusiasti o semplicemente disponibili a sperimentare forme non consuete di studio e apprendimento della storia in classe, con la preoccupazione di creare un gruppo-classe amalgamato e omogeneo, che si muove con sufficente uniformità e unità. Ciò perchè la ricerca seria proposta dall' insegnante deve risultare educativamente valida e psicologicamente coinvolgente attraverso la discussione preliminare e ricorrente, capace di suscitare interesse e piacere (il piacere della ricerca, appunto) se non in tutti, almeno in buona parte degli allievi. Tale impostazione richiede agli studenti un impegno e un' elasticità notevoli per scoprire e ricostruire a mano a mano fenomeni complessi e, più in generale, per cogliere e impadronirsi delle funzioni che regolano la ricerca storica, per quanto "simulata", o limitata. Strategica in questo senso risulta l' individuazione del tema (che deve risultare parte integrante del programma e del piano complessivo di lavoro riguardante 1' intero triennio), che nel nostro caso è stato finalizzato a cogliere, attraverso una realtà "microscopica" ma significativa, le trasformazioni complesse della città, nello spazio e nel tempo, da industriale a terziaria (nell' ottica di una collaborazione pluridisciplinare tra storia e disegno-storia dell' arte). Il materiale informativo necessario, soprattutto scritto (libri, articoli, manifesti, volantini, ecc.) è stato fornito in buona parte dall' insegnante, che ha guidato gli studenti, divisi in sottogruppi coordinati, ad interpretarlo ed elaborarlo, facendo attenzione all' assegnazione delle competenze. Le fonti orali, fotografiche e iconografiche sono state reperite dagli allievi, opportunamente orientati, attraverso interviste a testimoni (ex-operai, dirigenti, amministratori, ecc.) e rilevazioni sul campo, nella convinzione che "è possibile usare i manufatti e i segni nel territorio come fonti documentarie, ed è possibile scrivere un resoconto delle osservazioni sul campo"12. Le relazioni dei diversi sottogruppi, dopo essere state corrette, amalgamate e uniformate nei contenuti e nella forma scritta, sono state composte in modo unitario per dare vita ad un libro, che è stato presentato e discusso prima nella scuola e successivamente nella sede del decentramento amministrativo, alla presenza di docenti, studenti, cittadini, amministratori, ex-operai, sincacalisti e studiosi dei fenomeni urbani. Ovviamente gli studenti-autori hanno fatto da primi relatori, preparando il terreno per comunicazioni e per il dibattito del pubblico. Particolare cura è stata rivolta alla scrittura degli studenti, con il proposito di migliorarla, valorizzandola e indirizzandola ad acquisire gli elementi forti di un modello di scrittura di tipo saggistico, colto nella sua processualità attraverso un lavoro di ricerca didattica fortemente strutturato e fondato sulla manipolazione di fonti scritte e orali (oltre che sul controllo di alcuni aspetti delle trasformazioni tecnologiche come la videoscrittura): un lavoro finalizzato a consolidare l' educazione alla scrittura, intesa come uno degli assi portanti della formazione secondaria qualificata. Muoversi in questa direzione, però, significa per docenti e studenti, saper lavorare insieme, nel senso che è necessario superare "l' aristocratico individualismo" che continua a caratterizzare 1' attività di insegnamento e sviluppare un solidarismo orizzontale e verticale, capace di rompere i meccanismi che riducono ancora, molto spesso, la scuola a "compitificio", "interrogatorificio" e "votificio", per farne un luogo di esperienza formativa ispirata alla creatività culturale ed alla convivenza democratica. IV. Contenuti. Quando la fabbrica risucchiava la città industriale 1. Il contesto urbano: Milano industriale dagli anni '30 ad oggi La storia della fabbrica Grazioli è la storia di cinquant' anni di attività imprenditoriale, entro i cento anni dell' industria italiana e i centocinquanta di quella milanese; non è solo la storia di un' azienda tra le migliaia che hanno fatto l' economia del nostro Paese: è un segmento significativo, uno spaccato concreto, un campione sociologico rappresentativo che ha consentito di capire 1' itinerario complesso percorso dall' Italia (che nella seconda metà dell' Ottocento era ancora un Paese arretrato) per realizzare il suo decollo industriale ed entrare nel sistema economico del capitalismo maturo e in quello sociale del "welfare state"". Il primo gruppo di lavoro ha cercato di tratteggiare le linee generali di quel processo strutturale, ampio e complesso, che ha trasformato Milano in capitale economica e anche "morale" (in riferimento agli anni in cui si è conquistata il merito di capitale della Resistenza e dell' antifascismo). Ne è uscito un quadro e un bilancio sufficientemente articolato dei punti di forza e di debolezza, del ruolo della grande impresa e delle piccole-medie aziende, come la meccanica Grazioli nata alla fine degli anni '30 in regime di autarchia. Negli anni '30, in pieno regime fascista, si verifica il rimodellamento e il consolidamento del sistema industriale milanese, che vede sempre più al centro, come più dinamico, il settore meccanico, con il raddoppio del numero degli addetti, anche a seguito delle scelte autarchiche e della mobilitazione militare". Gli anni del fascismo sono anni prima di ristagno, poi di modernizzazione, che segna la fortuna delle aziende specializzate in meccanica di precisione, le quali ampliano i loro impianti e introducono nuovi metodi di organizzazione del lavoro, su cui si fonda la capacità di esportare i manufatti prodotti. Gli anni della ricostruzione post-bellica sono quelli della riconversione dell' economia, caratterizzata da drastici interventi di ristrutturazione aziendale - accompagnati anche da pesanti licenziamenti - che pongono le premesse della ripresa e della maturazione del capitalismo italiano e dell' affermazione della società dei consumi. Ma, sia nel periodo della ricostruzione sia in quello del cosiddetto "miracolo economico" il settore della meccanica leggera di precisione svolge un ruolo decisivo nell' "esplosione" del sistema industriale. Gli anni '50 e '60 vedono Milano e la Lombardia in prima fila a reggere e alimentare il volano dell' economia nazionale, come economia di trasformazione, attraverso non solo i grossi com- plessi industriali, ma anche un vasto tessuto di piccole e medie imprese che costituiscono una delle principali caratteristiche economiche della Città e della Regione. L' attività industriale più diffusa, comunque, è la meccanica, che produce automobili, aerei, treni, macchine utensili (come nel caso della Grazioli), e macchinari vari. Milano, inoltre, è sede delle più importanti imprese italiane. Nel corso degli anni '60, dunque, si assiste all' "ascesa di Milano e della Lombardia ad asse portante e strategico dell' economia italiana. Nel senso che qui più che altrove I' industria era strettamente incrociata alla finanza, poteva contare su un vasto entroterra di ricerche applicate, e disponeva inoltre di due stantuffi di particolare importanza, come il settore immobiliare e quello della grande distribuzione. Non senza, tuttavia, alcuni vizi congeniti, come la forte dipendenza dal sistema bancario, la tendenza a far conto sulla protezione dello stato nei settori più vulnerabili, la scarsità di nuove competenze manageriali. Nel corso del decennio successivo molte cose sarebbero cambiate in seguito agli scricchiolii sempre più allarmanti della grande industria"15, che hanno portato al declino vecchie e nuove famiglie imprenditoriali, più o meno blasonate, come i Binda, i Motta, i Borletti, i Crespi, i Rizzoli, ecc., i Grazioli compresi. La causa è la crisi internazionale, nota anche come crisi petrolifera, che dal '73 travolge improvvisamente anche 1' Italia, costretta all' "austerity", colpita dalla caduta degli investimenti e segnata da una forte conflittualità operaia tendente a impedire i licenziamenti derivanti da quel processo di ristrutturazione dell' industria che porta alla contrazione delle grandi industrie del "boom" e alla diffuzione di un' economia sommersa, costituita da piccole imprese (la cosiddetta "fabbrica diffusa"). "Insomma, negli anni '70 vennero al pettine i nodi dello sviluppo industriale italiano e di quello lombardo in particolare. Sembrava che dovesse durare in eterno, ma ora si vedeva che non era così". E' I' inizio di una nuova fase, difficile e conflittuale, in cui la recessione economica, dovuta all' aumento dei prezzi petroliferi e alla flessione della domanda internazionale, colpisce pesantemente la grande industria, sia pubblica che privata, imponendo il decentramento produttivo e I' innovazione tecnologica per reggere la sfida dell' internalizzazione del mercato. Innovazione e internazionalizzazione, automazione e decentramento, ristrutturazione e flessibilità sono le nuove sfide all' economia italiana, entro cui la piccola impresa svolge un ruolo essenziale per la sopravvivenza e il rilancio dell' "azienda Italia", che negli anni '80 è la "locomotiva" della ripresa europea. Pertanto, nonostante il difficile equilibrio tra sviluppo e crisi, 1' Italia entra e resta nel novero dei maggiori paesi industrializzati, riacquistando competitività sulla base della compressione salariale, della flessibilizzazione del lavoro e dell' adozione di tecnologie robotizzate e di quelle elettroniche, risparmiatrici di manodopera. Gli svilippi più recenti segnano il passaggio da una società industriale a una società neo-industriale, o post-industriale, caratterizzata da una forte presenza del cosiddetto "terziario avanzato". Con la ristrutturazione delle aziende industriali e con il ridimensionamento del movimento operaio, alla Milano operaia e industriale subentra la città della moda e del nuovo terziario. Tuttavia, "i cambiamenti dell' ultimo decennio hanno creato molta ricchezza, ma non per tutti. Anzi, si sono create forme di 'nuova povertà'. Tra i nuovi poveri molto spesso ci sono gli stranieri immigrati dal Terzo Mondo in cerca di lavoro, che vivono in condizioni di sfruttamento ed emarginazione"r. E' solo un aspetto delle nuove frontiere del capitalismo, soprattutto di quello incontrollato e selvaggio. 2. La storia della Grazioli, la fabbrica dei torni L' itinerario dell' economia milanese e la maturazione dei suoi tratti distintivi evidenzia un processo di sviluppo che non è stato nè lineare nè univoco, come si può riconoscere più analiticamente prendendo in considerazione da vicino la vicenda della fabbrica Grazioli. Essa ci aiuta a capire il sistema di fabbrica nei cinquant' anni di industria (dagli anni '30 agli anni '80), in cui 1' Italia è passata da paese ancora complessivamente arretrato a società industriale avanzata. Secondo la ricostruzione realizzata da un altro gruppo di lavoro, le sue origini sono sotto il segno dell' autarchia fascista e della politica delle commesse pubbliche, che comporta ingenti ordini da parte dello stato di torni, da destinare ai laboratori delle scuole, alle officine delle ferrovie dello stato, ecc. Negli anni '30 il mondo economico milanese assiste al rafforzamento delle vecchie dinastie imprenditoriali e all' avvento sulla scena di nuovi personaggi, "fatti da sè" (si fa per dire), che per quanto piccoli hanno lasciato qualche segno: uno di essi può essere considerato anche Giacomo Grazioli. Egli, specializzandosi nelle macchine utensili (torni e fresatrici) ha saputo approfittare della poderosa crescita delle industrie di base, di quella siderurgica e meccanica in particolare, interessate al mercato interno, all' esportazione e anche, in ultimo, alla produzione bellica. Dopo la riconversione post-bellica e la ricostruzione, negli anni del "miracolo economico" il settore meccanico continua a svolgere un ruolo decisivo nella crescita del sistema industriale, anche con un forte contributo dell' intervento pubblico, di cui continua a beneficiare anche la Grazioli (commesse di torni per gli istituti tecnici e professionali, per le officine dell' Alitalia, ecc.), che però non riesce a superare la crisi degli anni '70. Dopo una lenta agonia, che vede la cessione della proprietà da parte dei Grazioli ad altri gruppi industriali, che però non effettuano un rilancio produttivo, fatale è la chiusura all' inizio degli anni '80. Il fallimento, secondo diverse testimonianze, è dovuto, per alcuni, alla sconfitta nella sfida dell' innovazione e modernizzazione, per altri alla cattiva gestione finanziaria e manageriale, per altri ancora all' eccesso di conflittualità sindacale, o forse a tutte queste cause insieme. Oggi la fabbrica dei torni è cancellata. Al suo posto un complesso residenziale in costruzione. Determinante in quest' esito è la prematura e improvvisa morte del suo fondatore alla vigilia dell' insurrezione e della liberazione nella primavera del '45, che è stata fatta oggetto di ricostruzione da parte di un terzo sottogruppo di studenti della classe protagonista della ricerca. 3. Giacomo Grazioli, piccolo "capitano d' industria" Oggi tutti i testimoni concordano nel sostenere che la prima e forse decisiva causa della fine della fabbrica è da imputare alla scomparsa improvvisa del fondatore, il pomeriggio del 24 aprile '45, per motivi ancora poco chiari, che oscillano tra quelli politici e quelli personali. Un dato è certo, comunque: nessun altro industriale milanese è stato ucciso nei giorni violenti dell' insurrezione e della liberazione, in cui una parte di imprenditori ha fatto subito una scelta antifascista, schierandosi con la resistenza e attivando i contatti con il CLN". Ma chi era Giacomo Grazioli? Uno dei tanti piccoli imprenditori, "self-made", che al seguito dei primi e grandi "capitani d' industria" (Pirelli, Falck, Richard, Breda, Cantoni, Ponti, De Angeli, Binda, ecc.) hanno fatto la storia industriale di Milano. La conoscenza del sistema imprenditoriale, nelle diverse tipologie di imprenditori, ha consentito al gruppo di lavoro di avvicinarsi al modello italiano di capitalismo, come sistema complesso, che è "1' esito di un processo che non ha portato al superamento definitivo, alla scomparsa delle forme di impresa affermatesi con tipologie dissimili in periodi diversi via via sedimentatesi, e si è intrecciato per tempi e modalità alla formazione e crescita di un' economia - e una società - industriale matura come specificamente si costruisce in Italia a partire dagli inizi dell' Ottocento"'9. La tipologia in cui rientra Giacomo Grazioli è quella dell' imprenditore paternalista, tutto dedito al lavoro nella sua azienda, "rubando le ore al sonno" per coltivare "la nobile arte meccanica", da trasmette ai giovani tramite la scuola interna alla fabbrica. "Ricordatevi che è ancora e sempre la scuola che vi insegna e non si stanca di ripetervi tutto quanto vi è di più necessario per la riuscita della vostra professione. E' come la madre che ripete al figlio, in modo sempre più categorico e preciso, ciò che già altre volte ha detto, ma che forse non è stato, dall' anima irrequieta del figliuolo, del tutto compreso. Io penso, giovani allievi, che se avete dimenticato qualche verso di Dante, o la più o meno precisa posizione latitudinaria di qualche isola dell' Oceano Indiano, poco importerà per la vostra vita futura, fatta di lavoro. Ma se non avete imparato a distinguere la ghisa dall' acciaio, e a ben calcolare il ruotismo di una macchina utensile, questo sì che potrà influire sulla vostra carriera, sul vostro domani"20. 4. La produzione meccanica Compito di un quarto sottogruppo è stato quello di spiegare la specializzazione produttiva della fabbrica, che è concentrata sulle macchine utensili (torni, fresatrici e alesatrici), impostesi in Italia ed in Europa per la solidità e la precisione tecnologica: un vanto per la meccanica milanese e nazionale. Gli anni migliori della Grazioli sono quelli in cui la meccanica fa da traino alla crescita industriale già nella seconda metà degli anni '30: il settore metalmeccanico è il più diffuso a Milano perché il più necessario agli scopi bellici. Durante la guerra si verifica un ulteriore aumento della produzione meccanica. "Secondo le stime postbelliche, nel settore metalmeccanico il valore del macchinario e degli impianti sarebbe in effetti aumentato del 40% tra il 1939 e il 1943...Ad aumentare la produzione contribuì...naturalmente la crescita del numero degli addetti, resa possibile dall' ampliamento di quasi tutti gli impianti pre-esistenti."2' e l' aumento dell' orario di lavoro a 48 ore, fino a 60 settimanali. Da qui la forte presenza giovanile, anche nella Grazioli. "Si trattava, in sostanza, di fabbriche con una manodopera mediamente molto giovane, in cui la componente costituita da veri e propri ragazzi assumeva dimensioni ragguardevoli"22, che spingono Giacomo Grazioli a creare una scuola interna di preparazione professionale triennale per i giovani neo-assunti. Ad essi il piccolo "capitano d' industria" rivolge i seguenti ammonimenti, contenuti nella prefazione al libro di tecnologia meccanica: "Voi che siete sulla soglia della vita e che state per entrare nel lavoro tumultuoso degli stabilimenti, sappiate che oltre all' insegnamento al banco e alle macchine, queste lezioni sono per voi indispensabili per fare di voi il vero uomo, il lavoratore perfetto e cosciente del proprio lavoro. Se questi tre anni di apprendistato non li lascerete passare infruttousi, voi sarete rispettati e considerati durante tutta la vostra vita futura di lavoro...Chi scrive queste poche righe di introduzione ha vissuto quarant' anni negli stabilimenti e può dirvi, con convinzione e con coscienza, che la preparazione che voi state facendo è una necessità vitale. L' operaio meccanico non preparato, alla prima difficoltà si trova a disagio e in condizioni di inferiorità morale rispetto all' operaio seriamente aggiornato. Le lavorazioni meccaniche moderne hanno continuamente nuove esigenze e per camminare di pari passo con esse occorre una preparazione solida, non improvvisata"23. 5. Resistenza e lotte operaie Le testimonianze dirette dei protagonisti e gli articoli di stampa hanno consentito agli studenti di un quinto sottogruppo di scoprire che la Grazioli è sempre stata una fabbrica fortemente politicizzata e sindacalizzata, sia negli anni della lotta contro il nazifascismo sia nel dopoguerra, per la presenza al suo interno di una cellula del PCI e per il consistente radicamento della FIOM, che ha egemonizzato le forze sindacali anche - e soprattutto - nel periodo delle FLM. Si può ben dire anche della Grazioli che la fabbrica plasmava "una classe lavoratrice composta da operai specializzati, tecnici e impiegati, dotata di grande competenza professionale, di capacità di confronto, di consapevolezza sociale e politica. Una classe lavoratrice in possesso di un' etica del lavoro' particolarmente sentita che, nella milizia antifascista, nella Resistenza, nella ricostruzione, nelle lotte per la democrazia, in difesa dell' occupazione e per lo sviluppo sociale e civile, si è conquistata un posto di primo piano nella storia"" del movimento operaio milanese e della giovane democrazia repubblicana. Dopo la soppressione delle libertà sindacali e politiche nella seconda metà degli anni '20, anche la Grazioli è attivamente coinvolta nei primi scioperi del marzo '43. Le motiva- zioni sono le stesse che animano le agitazioni operaie milanesi: la propaganda delle forze antifasciste e, soprattutto, la condizione economico-sociale, cioè, la "sempre più diffusa coscienza che era necessario lottare per uscire da una condizione di vita intollerabile"". "La fabbrica costituiva infatti la sola possibilità di sopravvivenza per gli operai e per le loro famiglie e un forte ridimensionamento dell' occupazione avrebbe reso insostenibile la crisi sociale. E' questa una delle condizioni che resero possibile la ripresa delle agitazioni operaie"26. L' altra è costituita dall' attività antifascista clandestina che ha solidi legami con gli operai delle fabbriche, le quali sono la struttura portante dello schieramento resistenziale milanese durante i venti mesi della guerra di liberazione. La Grazioli fa capo al III settore della città, in cui operano la 113a e la 114a brigata Garibaldi27, animate soprattutto da una numerosa presenza giovanile, in quanto per la generazione più giovane il lavoro in fabbrica è occasione di socializzazione e maturazione sindacale e politica. Volantinaggi, sabotaggi, co- mizi, attentati, arresti, rappresaglie, fucilazioni e deportazioni sono la manifestazione concreta della combattività della classe operaia milanese, che sfida apertamente i tedeschi e i fascisti, pagando un prezzo altissimo, come l' eccidio di piazzale Loreto 28. L' imperativo della lotta aperta al nazifascismo è fatto proprio da alcuni giovani operai della Grazioli (come risulta dalle loro testimonianze), che per sottrarsi all' arresto riparano nelle valli e nelle montagne bergamasche, comasche e lecchesi, o sulle colline dell' Oltrepò pavese, a combattere, oppure restano in città, attivi nella lotta clandestina come gappisti o sappisti, sotto il peso - oltrettutto - dei bombardamenti e le strette della "borsa nera". Nella stagione della lotta clandestina antifascista affonda le radici il nuovo sindacalismo italiano, che segna 1' apertura di una fase nuova rispetto all' epoca del fascismo, seppellito dalla guerra". Nel conflitto industriale del secondo dopoguerra "vittorie e sconfitte sono sempre state marcate, radicali, o come tali percepite dall' una e dall' altra parte, caricate di forti - e in qualche caso eccessive - valenze politiche"", che comunque hanno la loro fonte nella condizione produttiva e nella struttura del lavoro, come si sono articolate negli anni della ricostruzione, del "miracolo economico", della lunga stagione del movimento operaio e della ristrutturazione e modernizzazione tecnologica e organizzativa. Anni che, nel caso della Grazioli, sono di opposizione operaia dura e forte anche di fronte alla chiusura, nella prima metà degli anni '80, senza però riuscire a scongiurarla, nonostante che intorno ai lavoratori in lotta nello stabilimento si sia creata una vastissima solidarietà da parte delle strutture sindacali, delle istituzioni politiche e anche di quelle religiose della città, riconoscendo un forte senso di identità aziendale, alimentata da valori professionali, etici, umani e politici. Oggi della Grazioli non si parla più. Per trovarne traccia bisogna frugare nella memoria storica del lavoro industriale e operaio di Milano. Con la Grazioli e con le altre unità produttive abbandonate se ne va una parte della storia della città, cancellata dallo sconvolgimento tecnologico e dal nuovo paradigma produttivo che avanza decisamente e in modo travolgente. Si porta via un pezzo di industria milanese e insieme uno spaccato di storia operaia. Un sedimento di complesse relazioni industriali e una lunga memoria di lotte che per molti è causa di smarrimento di fronte alla disgregazione di un nucleo di classe che è stato per decenni uno dei cardini del movimento operaio milanese. Per gli stessi è fonte di non poca preoccupazione il problema di come Milano, ormai città postindustriale, saprà modificare il suo assetto urbanistico e recuperare le vaste aree disattivate e abbandonate dell' industria. Tema affrontato da un altro sottogruppo di studenti. 6. Le aree dismesse e le trasformazioni economico-sociali di Milano Quella della Grazioli, nel suo piccolo, è una delle prime aree dismesse del capoluogo lombardo, che oggi nel loro insieme costituiscono il segno più tangibile delle profonde trasformazioni economico-sociali della città: una vera e propria svolta epocale, che è destinata a cambiare il volto e la storia della capitale economica del nostro Paese. Le industrie naturalmente ci sono ancora, ma gli addetti sono poco più di un terzo del totale degli occupati; gli altri due terzi circa lavorano nel commercio, nelle banche, nei servizi, nella pubblicità, ecc. Milano è dunque sempre più una città del terziario come tutte le metropoli del paesi sviluppati. Di fronte ai processi di deindustrializzazione c' è chi prospetta una immagine ottimistica del futuro sostenendo che, tutto sommato, la città nuova, postmoderna, comincia a prendere forma anche da noi. "In Italia 1' ondata postmoderna è considerata lontana anche perchè il postmoderno costruito è più scarso che altrove...Eppure anche il Italia si avverte un mutamento nel clima della città...La nuova città prende forma prima ancora che nelle architetture nelle culture, nei valori, negli stili di vita. Con i piedi siamo nella scena fisica della città consueta e con la testa nella città mediale delle iper-realtà e dell' immaginario. La città nuova italiana tende, sia pure lentamente per la vischiosità delle norme e delle prassi consolidate, a trasformarsi in un patchwork di stili e di identità sotto la spinta di una nuova domanda sociale in cui compaiono elementi nuovi come bellezza, sicurezza, significatività, varietà, che si affiancano ai tradizionali"". Ma è più facile dar ragione, forse, a chi vede nella città delle aree in disuso e nelle fabbriche disattivate i detriti del fordismo: un paesaggio di rovine, migliaia di ettari abbandonati, terra di nessuno e come tale terra di conquista per la speculazione più o meno selvaggia, conseguenza dell' eliminazione di tutta una fascia storica di forza lavoro. Ma i luoghi ormai non hanno più importanza, perchè le attività produttive possono essere disseminate ovunque nel mondo, secondo le possibilità della globalizzazione. Lo smantellamento delle grandi fabbriche continua senza controllo e senza limiti. Il grande capitale scopre che la speculazione immobiliare e finanziaria in alcuni casi rende di più dell' attività imprenditoriale". A partire dalla metà del decennio scorso il processo diventa inarrestabile, passa attraverso la distruzione di ampie aree industriali, di centri produttivi che sono anche poli aggregativi. Cadono i pilastri dell' industrialismo storico e i gruppi finanziari si lanciano nella corsa verso la speculazione immobiliare, mettendo in atto una vasta operazione di espulsione della manodopera, che si realizza in modo anarchico, senza alcun progetto occupazionale e senza progetti urbanistici alternativi, per la scelta da parte della politica di abdicare al compito di riprogettare la città secondo nuove esigen- ze e possibilità, a partire dalla questione occupazionale e sociale. Infatti, la moltiplicazione e la frantumazione dei lavori, scaturita dall' implosione del fordismo, ha prodotto la rottura delle reti sociali tradizionali. Un fenomeno che a Milano, città fordista per eccellenza, è particolarmente visibile, osservando i dati della disgregazione lavorativa, della desertificazione dei quartieri, dell' invecchiamento delle periferie, dove della vecchia "company town", cresciuta massicciamente attorno alle grandi fabbriche, è rimasto solo lo "scheletro". L' "anima" invece è trasmigrata altrove, nel Terzo mondo dove pulsano le vene del mercato globale, il cui cuore però batte sempre nella metropoli finanziaria, che trasforma il tessuto umano e civile in una rete virtuale, alternativa ai luoghi e alle forme della città industriale, dove le periferie si pauperizzano e si svuotano e l' equilibrio del territorio appare sempre più precariom. Una deriva antropologica in cui il lavoro si è fatto invisibile, smaterializzato nel computer e si aggira come uno spettro nel mercato mondiale e nelle borse valori ("Uno spettro si aggira per 1' Europa..."), in cui è vivo e pulsante il cuore della città postmoderna, la città postfordista. 7. La crisi della fabbrica fordista A conclusione della ricerca, il tentativo di delineare, da parte di un altro sottogruppo, i connotati del mutamento di paradigma in corso, cioè il passaggio strategico dalla fase fordista al modello postfordista (detto anche della "produzione snella", della "fabbrica integrata", del "just in time", dello "spirito Toyota", ecc.), che fa corrispondere il nuovo paradigma produttivo con 1' innovazione organizzativa consistente essenzialmente nell' imperativo della flessibilità assoluta. Si tratta del mutamento strategico nella transizione capitalista che esige 1' adeguamento dell' organizzazione e delle macchine, dell' orario e del lavoratore alle esigenze della competitività totale. Anche se persistono le forme del fordismo, a Milano e in Lombardia i fenomeni provocati dal declino della fabbrica fordista sono più evidenti, come la trasformazione del tem- po e della vita degli uomini e delle donne, la desertificazione produttiva, 1' esclusione sociale, ecc. La fabbrica muta, siamo sempre più spinti, forse, oltre l' età della fabbrica, quella della fine della produzione di massa, del lavoro serializzato e della forza-lavoro socializzata, tutelata dalle garanzie collettive. Il vecchio modello produttivo si rovescia nella produzione flessibile che deve adeguarsi ai ritmi di un mercato imprevedibile e volubile e imporre alla nuova forza-lavoro la prospettiva del precariato, della disoccupazione strutturale, della mobilità totale nella forma del "lavoro autonomo di seconda generazione"". Così, nel "capitalismo molecolare"" il sistema urbano-industriale come quello milanese è investito dalla spinta a ridefinirsi come metropoli del terziario e si avvia ad essere rappresentato sempre meno dagli occupati e sempre più dai cassintegrati, dai pensionati, dai disoccupati, dagli emarginati, ecc. Sono questi solo alcuni aspetti di una realtà "in fieri", di un profondo processo di ristrutturazione produttiva che, con 1' innovazione organizzativa, sta trasformando la fab- brica fordista in fabbrica integrata e che, con lo smantellamento delle grandi fabbriche tradizionali, sta mutando il volto di Milano, pesantemente segnato dall' atomizzazione competitiva che scava un fossato sempre più profondo tra chi è dentro e chi è fuori dalla competizione totale, tra ricchezza e nuove povertà, tra privilegio ed esclusione sociale", come conseguenza della rottura della vecchia organizzazione fordista del lavoro e del sistema di "welfare". Questi brevi cenni sono sufficienti a convincerci che - proprio nella transizione epocale dal fordismo al postfordismo che, cambiando il concetto di fabbrica, muta la struttura produttiva e sconvolge gli assetti consolidati dell' economia, coinvolgendo soggetti e sistemi di valore, organizzazioni sociali e conquiste storiche - emerge la necessità di un ripensamento profondo e di un nuovo progetto culturale e sociale, a cui non può restare estranea neppure la scuola, come luogo di istruzione e di formazione, se non vogliamo che le nuove generazioni siano colpite dalla sindrome dell' inutilità e perdano la speranza in futuro degno di essere vissuto. V. Conclusione. Per una nuova fase culturale e istituzionale nella formazione delle nuove generazioni L' esperienza di ricerca didattica di storia urbana qui sintetizzata ha focalizzato alcuni temi riguardanti le trasformazioni di una grande città come Milano, presa come campione significativo per cogliere i contrasti e gli squilibri tra le funzioni storiche della fase industriale e quelle nuove della fase postindustriale. Il lavoro costituisce la quinta tappa della realizzazione di un progetto generale di sperimentazione del modello di storia insegnata come ricerca in una scuola trasformata sempre di più in un laboratorio didattico; modello che si prefigge traguardi alti, come l' educazione alla ricerca, l' educazione alla complessità, l' educazione alla scientificità, l' educazione al recupero della memoria storica, l' educazione alla contemporaneità, l' educazione alla scrittura di tipo saggistico, l' educazione alla collaborazione,ecc. In una fase in cui si ridiscutono i contenuti dei programmi scolastici (con il cosiddetto "documento dei saggi", ad esempio) in questo modello sperimentato e sperimentabile si ritrovano non pochi spunti per avanzare ipotesi di rinnovamento del curricolo, con particolare riferimento alla storia contemporanea, nella prospettiva della qualità dell' istruzione e del rendimento scolastico", dell' autonomia didattica e gestionale della scuole). In esso si trovano anche risposte alle domande generali come "che cosa vale la pena di studiare oggi?", "che cosa significa studiare la storia per le nuove generazioni?", ecc. Risposte che trovano terreno fertile soprattutto nel protagonismo progettuale del docente e della scuola, che oggi, nel concreto della prassi scolastica, affonda le radici soprattutto nell' autoaggiornamento-autoformazione, in attesa degli esiti della scuola di specializzazione universitaria per la formazione degli insegnanti della scuola secondaria (DPR 31 luglio 1996, n.470), che dovrebbe partire nell' anno accademico 1998-99. Questa congiuntura storica è particolarmente favorevole al ripensamento generale dell' impianto concettuale del curricolo di storia e della strategia del suo insegnamento, che, a monte e a valle delle soluzioni istituzionali, deve vedere in prima fila e all' opera gli insegnanti e la loro capacità progettuale, che sono la risorsa più importante della scuola. Essi hanno, perciò, il diritto-dovere di sperimentare soluzioni ancorate al nesso stretto tra epistemologia e didattica, come asse portante di ogni innovazione. Ad essi è richiesto un radicale cambiamento di mentalità, senza cui non ha senso, ad esempio, I' obiettivo di trasformare gli studenti - anche con una sola esperienza di ricerca "simulata" - in "piccoli storici"40, che non è un' ipotesi suggestiva, ma scarsamente praticabile e forse neppure necessarie; è invece un progetto generalizzabile, praticato da docenti ricercatori-sperimentatori, che esistono molto di più di quello che comunemente si pensa, sepolti nel "sommerso" della scuola, privi di visibilità perché "sparare" sulla scuola è diventato da tempo uno "sport nazionale". Gli insegnanti, infatti, in genere non hanno spazio sulle riviste e credibilità nell' editoria, di conseguenza non scrivono o lo fanno saltuariamente: sono a tutti gli effetti "secondari" rispetto ai docenti universitari, con i quali invece ci dovrebbe essere uno stretto collegamento, di fronte soprattutto al fenomeno della "licealizzazione" dell' università. Trasformare infatti la scuola in luogo di "sensate esperienze" di ricerca (nel senso ampio e complesso, articolato e dialettico che ho accennato in precedenza), secondo le esigenze del curricolo verticale, è un modo per porre nei giusti termini e forse risolvere anche il problema del raccordo tra gli studi superiori e quelli universitari, sulla base dei nuovi traguardi culturali e formativi sottesi alla cultura dell' educazione 42. In quest' ottica "la scuola può porsi il fine di fornire le strutture cognitive e il patrimonio di valori di un nuovo cittadino del mondo che ha profonde radici nella sua città e nella cultura nazionale del suo Paese" 43. Questa è la funzione culturale ed etica del docente, che dalla scuola può continuare a trarre emozioni e passioni: l' emozione del conoscere e la passione del vivere civile. 1 Il "Progetto Adozione" elaborato dalla Legambiente costituisce una delle proposte più mature, presentate nell' ultimo decennio, per introdurre nella scuola la cultura ecologica e I' educazione ambientale. 2 Cfr., ad esempio, N. Bottani, La ricreazione è finita. Dibattito sulla qualità dell'istruzione, Il Mulino, Bologna 1986. 3 Cfr. J. Le Goff (a cura di), La nuova storia, A. Mondadori, Milano 1980; E Braudel, Scritti sulla storia, A. Mondadori, Milano 1980. 4 F. Fabbroni, Manuale di didattica generale, Laterza, Roma-Bari 1992, p. Xl. 5 Ho sviluppato questi temi nel mio volume Io penso che la storia ti piace. Proposte per la didattica della storia nella scuola che si rinnova, Ed. Unicopli, Milano 1997 (rimando anche ai riferimenti bibliografici ivi citati) e nell' articolo Identità e multiculturalità a scuola tra particolarismo e planetarizzazione. La storia locale tra ricerca e didattica, in "La ricerca", gennaio e febbraio 1998. Cfr. il mio Ricerca e didattica. Che cosa significa fare ricerca storica a scuola: considerazioni dal fronte interno, in La storia tra ricerca e didattica. Materiali per l' autoformazione nella didattica della storia, a cura di Giuseppe Deiana, Liceo Sc. "S. Allende", Milano 1997. P. Bevilacqua, Sull'utilità della storia per l'avvenire delle nostre scuole, Donzelli, Roma 1997, pp. 71-72. Ivi, p. 80. 9 P. Bevilacqua, op. cit., pp. 86-87. 10 Cfr. G. Manzini, Una vita operaia, Einaudi, Torino 1979. 11 Cfr. Aa.Vv., Il welfare italiano. Teorie, modelli e pratiche dei sistemi di solidarietà sociale, Donzelli Ed., Roma 1995; A. Martinelli, La modernizzazione, Laterza, Roma-Bari 1998; T. Ohno, Lo spirito Toyota, Einaudi, Torino 1993; B. Coriat, Ripensare l' organizzazione del lavora, Ed. Dedalo, Bari 1991; G. Lafay, Capire la globalizzazione, Il Mulino, Bologna 1996; P. Hirst e G. Thompson, La globalizzazione dell' economia, Ed. Riuniti, Roma 1997. 12 L. Pes, Descrivere il territorio: il punto di vista storico, in "I viaggi di Erodoto", n. 34, 1998, p. 46. 13 Cfr. V. Castronovo, Storia economica d' Italia. Dall' Ottocento ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1995; G. Balcet, L' economia italiana. Evoluzione, problemi e paradossi, Feltrinelli, Milano 1997. 14 Cfr. gli interventi di A. Cova, Gli imprenditori milanesi tra economia e politica, e A. Moioli, Il consolidamento della struttura industriale nelle turbolenze dell' economia e della politica, in Milano durante il fascismo, 1922-1945, a cura di G. Rumi, V. Vercelloni e A. Cova, Milano 1994; I. Granata, Milano negli anni del fascismo, in Storia illustrata di Milano, a cura di F. Della Peruta, vol. III, E. Sellino Ed., Milano 1997. 15 V. Castronovo, II miracolo economico, in Storia illustrata di Milano, cit., vol. IV, p. 210. 16 G. Cavalazzi e G. Falchi, Storia di Milano, Zanichelli, Bologna 1989, p. 211. 17 ivi, p. 219. 18 Cfr. G. Petrillo, La Resistenza a Milano, in Storia illustrata di Milano, cit., vol. IV, p. 171. 19 P. Rugafiori, Imprenditori e manager; in Dizionario storico dell' Italia unita, a cura di B. Bongiovanni e N. Tranfaglia, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 435. 20 G. Grazioli, Introduzione a C. Cangioli, Tecnologia meccanica, Ed. fuori commercio delle Scuole Professionali "G. Grazioli", Milano (s.d.), pp. 1-2. 21 D. Bigazzi, La fabbrica nella crisi del regime: gli scioperi del marzo-aprile 1943, in Aa.Vv., Conoscere la Resistenza, Ed. Unicopli, Milano 1994, p. 79. 22 ivi, p. 81. 23 G. Grazioli, Introduzione, cit., p. 2. 24 A. Bassi, G. Petrillo e G. Vignati, La fabbrica lascia un segno, in "I viaggi di Erodoto", n. 8, 1989, p. 107. 25 L. Ganapini, Milano nella seconda guerra mondiale, in Storia illustrata di Milano, cit., p. 145. 26 D. Bigazzi, op. cit., p. 79. 27 Cfr. L. Borgomaneri, La 113° e la 114° Garibaldi nel 111 settore, in Partigiani della Zona 15. Frammenti della Resistenza italiana e milanese, a cura di Giuseppe Deiana, Liceo Sc. "S. Allende", Milano 1997, pp. 63-66; Id., Due inverni, un' estate e la rossa primavera. Le brigate Garigaldi a Milano e provincia 1943-1945, F. Angeli, Milano 1995. 28 Cfr. L. Borgomaneri, Hitler a Milano. I crimini di Theodor Saevecke capo della Gestapo, Datanews, Roma 1997. 29 Cfr. S. Turone, Storia del sindacato in Italia dal 1943 al crollo del comunismo, Laterza, Roma-Bari 1992. 30 S. Musso, Operai, in Dizionario storico dell' Italia unita, cit., p. 665. 31 Cfr. V. Foa, Sindacati e lotte sociali, in Aa. V v., Storia d' Italia, Einaudi, Torino 1979, p. 1828. 32 G. Amendola, La città postmoderna.Magie e paure della metropoli contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 7. 33 Lo abbiamo dimostrato concretamente con una precedente ricerca didattica sulla storica cartiera Binda (Cfr. Quando la fabbrica fa la storia. La cartiera Binda di Milano, a cura di Giuseppe Deiana, Liceo Sc, "S. Allende", Milano 1995. 34 Due film possono aiutare a vedere le forme dei detriti del fordismo: La fabbrica sospesa (1986) di Silvio Soldini e Nirvana, di Gabriele Salvatores (più recente). 35 S. Bologna e A. Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, Feltrinelli, Milano 1997; cfr. anche J. Rifkin, La fine del lavoro. Il declino della forza-lavoro globale e l'avvento dell'era post-mercato, Baldini-Castoldi, Milano 1995; D. Méda, Società senza lavoro. Per una nuova filosofia dell'occupazione, Feltrinelli, Milano 1997. 36 A. Bonomi, Il capitalismo molecolare. La società al lavoro nel Nord Italia, Einaudi, Torino 1997. 37 Cfr. Caritas Italiana e Fondazione E. Zancan, I bisogni dimenticati. Rapporto 1996 su emarginazione ed esclusione sociale, Feltrinelli, Milano 1997. 38 Cfr. G. Gasperoni, Il rendimento scolastico, Il Mulino, Bologna 1997. 39 Cfr. A. Malinvemo, Gestire l'autonomia scolastica. Analisi dei processi. Ed. Unicopli, Milano 1998. 40 I. Mattozzi, Che il piccolo storico sia!, in "I viaggi di Erodoto", n. 16, 1992. 41 Cfr. C. Tesio, Insegnare o fare storia nella scuola secondaria, in "Contemporanea", n. 2, 1998, p. 377. 42 Cfr. J. Bruner, La cultura dell'educazione, Feltrinelli, Milano 1997. 43 P. Bevilacqua, L' identità fragile della terra d' Italia, in "Il manifesto", 8 maggio 1998, p. 28. - II - Andrea Bisi e Luca Cucelli IL CONTESTO NAZIONALE E URBANO MILANO INDUSTRIALE DAGLI ANNI '30 AD OGGI 1. Premessa Lo scopo di questo capitolo è descrivere la situazione della Milano industriale dagli anni del primo dopoguerra al periodo fascista, fino ad arrivare al secondo dopoguerra e successivamente ai nostri giorni, prendendo in considerazione non solo l'aspetto economico, ma anche quello politico e sociale e mettendo in evidenza come questa città abbia sempre avuto un importante ruolo nello sviluppo industriale e civile. 2. Le principali fasi dell'industrializzazione milanese durante il nostro secolo a) Il primo dopoguerra. Nel 1918 si concluse la prima guerra mondiale. Lo sforzo bellico aveva decisamente alterato il normale assetto della struttura dell'industria milanese; bisogna far presente però che alterare non significa peggiorare la situazione preesistente. Le industrie milanesi infatti si erano ingrandite (alcune anche enormemente) per far fronte alla mobilitazione bellica, ma dopo la fine della guerra si sono venute e trovare in una situazione abbastanza difficile, senza più le commesse militari e con molti lavoratori in eccedenza. Questa situazione mise in moto un processo di riconversione produttiva a cui dovettero ricorrere molte industrie per non rischiare il fallimento. Nel periodo di guerra si sono anche riscontrati sviluppi nell'industria aeronautica, oltre all'emergere di nuove specializzazioni: è il caso, ad esempio, della Ercole Marelli che produceva magneti per diversi tipi di motore a scoppio, oppure dei nuovi stabilimenti sorti per la fabbricazione di seta artificiale o degli opifici (a Cesano Maderno, Rho e Niguarda) per la produzione di coloranti. "La fase bellica ha dunque fatto registrare sviluppi in grado di arricchire e non soltanto di alterare la struttura preesistente. E se anche si sono generati processi di ingrandimento anomali, questi hanno pur sempre interessato un numero ristretto di imprese e non sono comunque apparsi nell'immediato inconciliabili con le urgenze della riconversione. Anzi, nella congiuntura di mercato favorevole apertasi alla fine della guerra e nel clima di particolare euforia finanziaria che l'ha accompagnata, è sembrato di poterli ancora alimentare, sia pure su basi diverse. Infatti tra il 1919 e il 1920 i crescenti fabbisogni finanziari che vi erano connessi sono stati agevolmente affrontati dalle aziende interessate, in quanto queste hanno potuto attingere ai profitti realizzati nel periodo bellico e alle grandi riserve di liquidità di cui disponeva ora il sistema creditizio, oltre che a un mercato azionario molto vivace, in grado di sostenere i numerosi aumenti di capitale varati, e alle prime erogazioni compiute, in particolare sotto forma di sconto, di cambiali, dalla sezione di Milano del Consorzio per sovvenzioni su valori industriali."1 La crisi di riconversione venne quindi ben superata da molte delle grandi aziende meccaniche come la Breda (secondo polo industriale di Sesto San Giovanni) che riuscì a portare a termine il processo di integrazione di un impianto idroelettrico nella valle del Lys e di un cantiere navale a Marghera, accentuando il suo carattere di impresa multidivisionale. Nel biennio 1920-21 l'ambiente industriale milanese venne messo a dura prova a causa della crisi di mercato che era scoppiata in Italia: infatti erano sorti degli squilibri dal lato dei costi seguiti alle lotte salariali messe in atto dagli operai; inoltre non vi è stata neanche una tempestiva politica economica del governo nei confronti della Lombardia e il repentino crollo della Banca italiana di sconto sul finire del 1921 ha ulteriormente appesantito la situazione. In questo modo le industrie furono costrette a cercare soluzioni di ripiego per superare la loro precarietà economico-finanziaria: la Romeo, ad esempio, grazie alle commesse ferroviarie ristabilì almeno temporaneamente una situazione di equilibrio, oppure l'Isotta Fraschini che, dopo aver svalutato per ben due volte il suo capitale sociale, fu costretta, per poter reggere, a dividere la produzione in motori per aviazione e marina, e in motori per automobili. La Caproni invece ridusse il suo impegno nel campo dell' areonautica e si attrezzò per la riparazione e costruzione di materiale ferroviario. "Ci sono stati per altro nell'area milanese complessi aziendali che, lungi dal subire flessioni di sorta, si sono addirittura rafforzati. Così è avvenuto per la Pirelli che, consolidando la sua posizione nel settore dei pneumatici e allargando alla telefonia, attraverso la creazione della Sirti, il raggio della sua azione nel campo della fabbricazione dei cavi, era giunta proprio ora a rappresentare la maggiore concentrazione operaia locale con oltre 7.600 addetti."2 Ma non è solo il caso della Pirelli, infatti anche le Acciaierie e Ferriere lombarde (metallurgia), la Magneti Marelli (equipaggiamenti elettrici per motori), la Montecatini (chimica) e l'Edison (energia elettrica) hanno potenziato la loro dotazione impiantistica rafforzandosi ulteriormente. In questo modo "Il sistema industriale milanese, attraverso un riposizionamento interno che non significava certo il suo arretramento, stava rapidamente giungendo, proprio in forza della crisi, ad un riequilibrio del suo assetto."' b) Il periodo del fascismo. Fin dalla seconda metà del 1922 si ha dunque una ripresa economica: dopo l'avvento del partito fascista la politica economica ricevette un indirizzo liberista e produttivista. "Il rilancio produttivo di questi anni si è del resto accompagnato a programmi di rinnovamento e di ampliamento degli impianti anche nel caso di alcune delle più importanti aziende operanti in altri comparti industriali."4 Il Partito Nazionale Fascista reclutò in breve tempo trecentomila iscritti di cui dodicimila solo a Milano; in quegli anni si insediò nella città la giunta Mangiagalli costituita da assessori di partiti diversi. Luigi Mangiagalli era un simpatizzante fascista non iscritto al partito: "La giunta di coalizione durerà fino all'inizio di novembre del 1925, quando, in seguito alle mutate condizioni politiche, i seguaci di Mussolini imporranno la costituzione di un'amministrazione formata unicamente da fascisti, ma retta ancora da Mangiagalli."5 Egli riuscì a realizzare diversi punti che si era prefissato: ad esempio la creazione dell'Università e il completamento della Città degli Studi o la ristrutturazione dell'Azienda tramviaria, oltre che a diversi studi sulla possibilità di costruire la metropolitana. Sistemò inoltre la rete fognaria, sviluppò l'attività edilizia costruendo case popolari e sostituì l'illuminazione a gas con quella elettrica. Il risultato più importante fu però il risanamento del bilancio, attuato anche attraverso un'accorta politica di contenimento della spesa pubblica, che però impedì la realizzazione di quello che era l'obiettivo principale voluto dallo stesso Mussolini, ossia la creazione della "Grande Milano" (una metropoli europea, prototipo della nuova città fascista). Un altro motivo per cui non si realizzò il progetto della "Grande Milano" furono le elezioni politiche del '24 che dimostrarono che, nonostante gli sforzi fascisti per avvicinare la popolazione, Milano rimaneva ancora una città antifascista: "Alcuni credevano veramente nell'ideologia del regime, ma i più si limitavano a un'adesione puramente formale. Il dissenso esplicito era notoriamente pericoloso, come ben sapevano gli antifascisti in esilio (che tuttavia continuavano la loro lotta dall'estero, cercando di smuovere l'opinione pubblica europea e facendo circolare clandestinamente in Italia volantini contro il fascismo) e ancor più quelli che avevano scelto di restare in Italia e che rischiavano il confino e il carcere, se non di peggio: questi erano soprattutto i militanti comunisti, che continuarono clandestinamente per tutto il ventennio il loro lavoro di propaganda antifascista."6 Nel '25 la produzione industriale era fortemente migliorata (si produceva addirittura dieci volte di più che nel '14) ma, a causa del deficit e dell'inflazione, Mussolini nel `26 decise di rivalutare la lira provocando un calo delle esportazioni che mandò in crisi molte delle piccole industrie: una prima conseguenza fu la diminuzione dei salari. La situazione fu successivamente aggravata dalla crisi mondiale del '29: "Gli anni '30 incominciarono al buio: la crisi economica era grave, il reddito nazionale precipitò a livelli mai visti e stentò molto a riprendersi. I salari diminuirono ancora e nel '34 arrivarono a ridursi alla metà di quel che erano stati nel '26. In Italia c'era un milione di disoccupati, ma la censura impediva che si sapesse."' In quegli anni, con la conquista dell'Etiopia, il fascismo ottiene il massimo consenso tra la popolazione: infatti quell'impresa diede la speranza di realizzare ottimi affari all'industria e tirò su il morale della gente con il miraggio di una nuova terra tutta da sfruttare. La Società delle Nazioni, però, condannò l'Italia per l'aggressione dell'Etiopia e stabilì delle sanzioni per le quali non poteva più commerciare con nessun paese: l'Italia si trovò, in questo modo, isolata politicamente ed economicamente. Iniziarono così gli anni dell'autarchia (forma estrema di protezionismo), "tutto il Paese fu mobilitato a produrre, consumare e riciclare solo prodotti integralmente italiani." 8 In quel periodo si sviluppò molto l'industria delle fibre sintetiche come il lanital, il rayon e il bemberg; anche le altre industrie si ripresero non avendo concorrenza straniera sul mercato italiano e il fascismo raggiunse il suo momento di massimo assenso, infatti l'ideologia era entrata anche nella vita quotidiana: "E quando nel '36 la stessa voce [quella di Mussolini] annunciò che l'Italia aveva finalmente il suo Impero, fu il delirio. Il fascismo arrivò allora al massimo della sua popolarità. Tutti si sentivano dei guerrieri e l'entusiasmo nazionale contagiava la gente." 9 Intanto l'Italia si stava militarizzando sempre di più avvicinandosi alla Germania nazista: nel 1938 furono varate le leggi razziali contro gli ebrei: essi non potevano possedere case e terreni, né lavorare nell'amministrazione pubblica. Nel 1940 l'Italia entrò in guerra, la folla era entusiasta e osannava il Duce pensando che si trattasse di una guerra lampo come affermava Mussolini, ma già dopo pochi giorni di guerra cominciarono i primi bombardamenti su Milano. "Il culmine della distruzione fu l'agosto '43: un'incursione ogni due, tre giorni. Interi isolati crollarono, trasformati in nubi di polvere. Si aprirono voragini.[...] Corso Garibaldi era pieno di macerie, l'ospedale Fatebenefratelli venne colpito, la Galleria era a terra, corso Vittorio Emanuele non c'era più, la Rinascente era distrutta; incendiato il Palazzo Reale, colpiti l'arcivescovado e il Palazzo di Giustizia; la Scala, Palazzo Marino, Brera, la chiesa delle Grazie offrivano uno spettacolo desolante. Il Duomo restò in piedi: una bomba aveva colpito proprio l'edificio con l'orologio che c'è sul retro, solo pochi metri più in là e parve un miracolo. Per giorni il fumo continuò ad alzarsi dalle macerie. Sotto c'erano più di mille morti e duemila feriti gravi."10 Inizialmente i milanesi affrontarono la guerra con ottimismo anche grazie alle prime vittorie dei tedeschi, la gente cercava di condurre ancora una vita normale guardando i varietà o andando a teatro. Nei primi tempi c'era ancora da mangiare e da riscaldarsi d'inverno, ma via via il cibo cominciò a scarseggiare e si dovette ricorrere al razionamento, più avanti esteso anche ai vestiti; chi poteva, per paura dei bombardamenti, portava la famiglia al sicuro nelle campagne e ogni mattina tornava a lavorare a Milano. Nonostante i salari fossero sempre gli stessi, fiorì un mercato nero a prezzi esorbitanti. Anche se scioperare era reato, i lavoratori della Pirelli, dell'Alfa, dell'Innocenti, della Borletti e di molte altre fabbriche, nel marzo del '43 smisero di lavorare mettendo a rischio non solo il posto di lavoro ma anche la propria vita. "Fu la prima manifestazione di massa contro il fascismo. I giornali non ne parlarono, ma il regime era ormai in crisi."" Il 10 luglio gli alleati sbarcarono in Sicilia e quindici giorni dopo il re fece arrestare Mussolini; 1'8 settembre fu firmato l'armistizio: l'Italia si arrese agli angloamericani. I tedeschi riuscirono comunque a tenere occupato il nord Italia e a diventare padroni di Milano; misero Mussolini a capo di un governo fantoccio con sede a Salò. I tedeschi si guadagnarono l'odio della gente deportando migliaia di soldati italiani nei campi di concentramento e saccheggiando la pianura Padana di tutto quello che poteva loro offrire (riso, farina, frutta, ortaggi, ecc.). Ormai si viveva nel terrore, la notte non si poteva più uscire dopo il coprifuoco per i bombardamenti aerei, mancavano cibo e legna per riscaldarsi. "Nella primavera del '45 gli alleati sfondarono le difese tedesche della linea gotica sull'Appennino. I partigiani scesero dalle montagne. Il 25 aprile Mussolini provò a trattare, ma poi si decise per la fuga verso la Svizzera. [...] Quella notte [del 26 aprile] i GAP occuparono tutti i punti strategici della città, e in giornata tutto il centro venne liberato, mentre entravano in città, accolte dalla gente in festa, le brigate partigiane e cecchini isolati sparavano ancora dai tetti. I tedeschi si arresero definitivamente solo il 1° maggio, quando già Mussolini era stato catturato e fucilato dai partigiani e portato in piazzale Loreto."12 La guerra era finita. c) Il secondo dopoguerra. Subito dopo la guerra la vita era durissima, ma c'era coraggio e ottimismo perché si era arrivati alla pace; ancora nel '46 c'era il razionamento e i prezzi salivano notevolmente. Nel referendum istituzionale tra monarchia e repubblica votarono per la prima volta anche le donne. "Ma l'economia stentava a riprendersi. Molti erano gli impianti distrutti; le fabbriche, che prima lavoravano per la guerra, avevano il problema di riconvertire la produzione; erano sovraccariche di dipendenti senza lavoro che però non potevano essere licenziati e nel frattempo anche i disoccupati erano moltissimi (erano i reduci che tornavano dalla guerra).[...] Negli ultimi mesi del '45 i lavoratori occupati dovettero rassegnarsi allo sblocco dei licenziamenti (e furono soprattutto le donne a perdere il lavoro); la settimana lavorativa fu ridotta da 48 a 40 ore settimanali e in certe fabbriche si lavorava addirittura a turno, pur di lavo- rare tutti. Alla fine dell'anno però i lavoratori ottennero la scala mobile, quel meccanismo che fa aumentare automaticamente i salari con l'aumento del costo della vita."13 Dal punto di vista politico ebbe il sopravvento la DC sul fronte social-comunista, anche perché gli Stati Uniti avrebbero interrotto i finanziamenti se fosse successo il contrario. Iniziò così la fase della ripresa economica che avvenne grazie agli aiuti del Piano Marshall e ai sacrifici dei lavoratori. Gli anni '50 furono segnati dall'enorme crescita industriale italiana, ossia il cosiddetto "boom economico"; Milano e tutta la regione lombarda furono al centro di questo fenomeno. Si venne a creare un'economia di trasformazione: si compravano dall'estero tecnologia e materie prime e si rivendeva poi sui mercati stranieri i prodotti finiti. "L'attività industriale più diffusa era certamente la meccanica (automobili, aerei, treni, macchinari, apparecchiature e motori in genere), con l'Alfa che aprì lo stabilimento di Arese, la Bianchi, la Breda, la Magneti; veniva poi l'industria siderurgica (Breda, Falck), quella chimica (Pirelli, Montedison, Carlo Erba), quella edile e quella tessile, ma anche quella editoriale (Mondadori, Rizzoli) e alimentare (Motta, Alemagna). Tutte le più grandi imprese italiane avevano poi a Milano la loro sede. E non c'erano solo questi grossi complessi industriali, ma anche una folta schiera di imprese medie e piccole, che costituivano pur sempre una delle principali caratteristiche economiche di Milano e della Lombardia: la Brianza espandeva la sua industria del mobile, conquistando i mercati esteri, mentre i comuni della cintura di Milano si popolavano di piccole industrie meccaniche."14, sull'esempio della Grazioli che qui ci interessa direttamente. Anche la popolazione aumentò notevolmente: ogni anno arrivavano circa cinquantamila persone in più, soprattutto meridionali; Milano arrivò così a 1.600.000 abitanti nel '61. Insieme al "boom economico" si aprì una nuova epoca: quella del consumismo, che travolse molte consuetudini e modi di vivere. Appena poteva, ogni famiglia comprava la macchina, la televisione, la lavatrice, ecc. facendo ricorso anche alle cambiali; comparvero la prime boutique, i night, gli snack bar e i supermarket, che sostituirono i tradizionali negozi. Gli immigrati meridionali rappresentarono l'altra faccia del "boom": essi infatti erano cercati dalle grandi industrie per farli lavorare nelle catene di montaggio e pagarli poco, poiché si accontentavano facilmente di salari bassi. Non erano visti di buon occhio dai lombardi, erano considerati scansafatiche e ignoranti; nonostante questo riuscirono ad integrarsi in città e incominciarono ad essere stimati come lavoratori riuscendo ad entrare anche nei sindacati. E' sempre di questo periodo (1953) l'approvazione e l'entrate in vigore del piano regolatore, che cambiò notevolmente l'assetto urbanistico della città, con la costruzione d'ampie e lunghissime strade, migliorando la circolazione delle automobili che erano sempre più numerose. d) Il movimento operaio e la crisi economica. Nel '68 le lotte studentesche, che si manifestarono attraverso l'occupazione delle università, si collegarono ben presto al movimento operaio generando una lotta di massa contro il sistema capitalistico. Le migliaia d'ore di sciopero permisero agli operai di ottenere aumenti salariali notevoli (i più forti del dopoguerra), il diritto di assemblea e i consigli di fabbrica (costituiti da delegati dei lavoratori). "Il movimento operaio scendeva in piazza anche su questioni non direttamente legate al lavoro, ma che riguardavano la società nel suo insieme e la "qualità della vita": il diritto alla casa, la riforma sanitaria, le pensioni, ecc. Così a Milano quasi ogni giorno per la strada si incontrava un corteo di manifestanti, con cartelli, striscioni, bandiere rosse, campanacci, tamburi di latta e slogan ritmati scanditi da operai in tuta insieme a studenti con l'eskimo."15 A seguito di questi movimenti sociali, vennero a formarsi gruppi politici extraparlamentari di estrema sinistra e iniziarono scontri con i sostenitori del vecchio partito fascista. Il fatto più clamoroso che avvenne a Milano fu l'esplosione di una bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura in Piazza Fontana, il 12 dicembre 1969: questa prima strage aprì un periodo di tensione in tutto il paese a causa dei continui attentati. Intanto nel 1973 la crisi economica internazionale travolse anche l'Italia: i paesi arabi aumentarono notevolmente il prezzo del petrolio mettendo in difficoltà tutto l'occidente, ci fu una diminuzione delle importazioni e si scatenò l'inflazione; la crisi portò allo sviluppo di una sorta di economia "sommersa" poiché le grandi fabbriche, per evitare le resistenze operaie, decentrarono la produzione in piccole fabbriche fuori città o ricorsero al lavoro nero. Questo provocò una ristrutturazione dell'industria milanese: le grandi fabbriche scomparvero da Milano spostando la loro sede fuori città e cambiarono l'organizzazione del lavoro (si passò dalla catena di montaggio all'uso sempre più frequente di robot). Si arrivò così agli anni '80: in questo periodo è avvenuta l'esplosione dei settori della pubblicità, delle TV private, dell'informatica e telematica, della consulenza aziendale e di moltissimi altri servizi, che costituiscono il cosiddetto "terziario avanzato". La popolazione milanese cambiò radicalmente, infatti non c'erano più tanti operai, poichè avevano preso il sopravvento gli impiegati: alla Milano operaia e industriale era subentrata la Milano della moda, del commercio e del terziario avanzato. "Che fine fanno gli operai? O si 'riconvertono' riqualificandosi e seguendo le industrie fuori Milano, oppure vanno in pensione anticipata o sono licenziati. Alcuni se ne tornano al loro paese, al Sud. Ma generalmente restano e cambiano lavoro, trasformandosi in lavoratori autonomi o impiegandosi nei servizi." Le industrie, però, non sono sparite del tutto: ad esempio l'Alfa è stata annessa alla Fiat, l'Olivetti, oltre a produrre computer, investe nei campi più svariati sia in Italia che all'estero, la Montedison (grande industria chimica) si occupa delle attività più varie, ecc. La Milano odierna ormai è una città postindustriale dove i settori più sviluppati sono le banche, il commercio, i servizi e la pubblicità che danno occupazione al 63% dei lavoratori. 3. L'importanza di Milano La città di Milano durante tutto questo secolo subì un forte sviluppo sotto tutti i suoi aspetti, quali possono essere i vari rami dell'industria, i trasporti e le condizioni di vita, riuscendo a riprendersi brillantemente dalle difficili condizioni in cui era venuta a trovarsi nel primo e nel secondo dopoguerra. La normale struttura dell'industria milanese venne decisamente alterata dallo sforzo bellico della prima guerra mondiale; questo, infatti, richiese un'ingente quantità di armi e materiale bellico per la cui produzione erano necessari molti lavoratori. Alcune industrie quindi si ingrandirono enormemente aumentando il numero dei dipendenti e cambiando il tipo di produzione. Dopo la prima guerra mondiale però, ci fu un periodo di crisi e di stagnazione della produzione; molte piccole e medie industrie furono costrette ad operare tagli e licenziamenti provocando una serie di pesanti scioperi da parte degli operai che, in alcuni casi, riuscirono anche ad occupare e autogestire alcune fabbriche, anche se con scarsi risultati. Alcune delle industrie che si erano allargate per far fronte alla guerra, riuscirono a superare quel periodo di crisi facendo ricorso a diverse soluzioni: riconversione della produzione, aumento del capitale mediante finanziamenti dello Stato, prestiti internazionali o assorbimento di aziende minori. Per questi motivi si può parlare di un cambiamento del tessuto industriale milanese e di un suo successivo assestamento. Dopo la guerra la città industriale si era fortemente ingrandita verso nord-est, nel '23 altri undici comuni vennero aggregati a Milano che arrivò ad avere ottocentosessantamila abitanti ed un'economia ottimamente avviata. Nel '29 però si fece fortemente sentire la crisi mondiale importata dall'America. Negli anni '30 la situazione era grave: i salari diminuirono fortemente e si arrivò a un milione di disoccupati; la censura fascista riuscì a impedire però che si sapesse. Furono gli anni dell'autarchia, infatti le sanzioni stabilite dalla Società delle Nazioni, a causa della guerra contro l'Etiopia intrapresa dall'Italia, impedirono agli italiani di commerciare con altri paesi. Tutta la nazione fu occupata a produrre, consumare e riciclare prodotti esclusivamente italiani; per le industrie fu un periodo di ripresa dato che poterono vendere i loro prodotti senza la concorrenza straniera. La Milano degli anni del fascismo cambiò completamente faccia: dei trecentomila iscritti al Partito Nazionale Fascista dodicimila erano a Milano, ma erano pochi quelli che credevano realmente nell'ideologia fascista (i più si limitavano ad un consenso formale dato che il dissenso esplicito era troppo pericoloso); molti quartieri vennero ricostruiti secondo l'architettura di regime, un'architettura dallo stile grandioso; in periferia vennero costruite moltissime case popolari che però non bastarono a far fronte al bisogno di alloggi per i tantissimi immigrati e soprattutto non riuscirono a sostituire il gran numero di case vecchie demolite nel centro della città. Il 10 giugno del '40 l'Italia entrò ufficialmente in guerra accanto alla Germania. All'inizio i milanesi erano ottimisti grazie alle vittorie dei tedeschi che tenevano alto il morale; ma già nel '41 iniziò il razionamento del cibo in modo leggero, e via via le condizioni peggiorarono a causa dei bombardamenti sempre più frequenti. I bombardamenti distrussero gran parte della città (fortunatamente il Duomo rimase in piedi) e alcune fabbriche tra le quali l'Alfa, la Pirelli e l'Innocenti. Durante la guerra l'opinione pubblica non si schierò più dalla parte del fascismo, infatti i ceti medi urbani e la classe operaia mostrarono dissenso nei confronti di Mussolini. Per questo nel '43 gli operai milanesi iniziarono a scioperare seguendo l'esempio di Torino: i ritmi di lavoro nelle fabbriche erano diventati intensi e insostenibili. Si riaprì così il conflitto sociale che il fascismo vantava di aver definitivamente abolito. Dopo la Liberazione ad opera degli americani e dei partigiani la vita rimase in ogni caso durissima a causa dei prezzi troppo alti rispetto ai salari; le fabbriche erano sovraccariche di dipendenti che non potevano essere licenziati. Grazie agli aiuti del Piano Marshall e dei provvedimenti del governo che cercò di frenare l'inflazione, la produzione industriale riprese e rifiorì anche se a scapito del tenore di vita della popolazione. Nei primi anni '50 avvenne in tutta Italia un "boom" economico. Milano fu al centro di questo fenomeno: l'attività più diffusa fu sicuramente quella meccanica (automobili, treni, motori, ecc.) seguita da quella siderurgica, chimica, edile e tessile; infine si svilupparono anche quella editoriale e alimentare. Il numero di abitanti, in quel periodo, aumentò notevolmente arrivando a contare più di 1.500.000 persone. Con il boom economico si aprì l'epoca del consumismo: la gente cominciò a comprare in massa la televisione, l'automobile e la lavatrice, anche facendo debiti. Una conseguenza dell'enorme sviluppo delle fabbriche meccaniche fu l'incremento delle aziende dei trasporti: l'ATM di Milano sostituì molti tram e filobus con autobus e nacque il primo tratto di metropolitana. Inoltre, con il fenomeno dell'immigrazione, Milano si ingrandì enormemente occupando gran parte dell'hinterland con centri abitati enormi, come il quartiere Gratosoglio nella zona sud della città. Si arrivò così alla fine degli anni '60 quando iniziarono i movimenti sociali sia studenteschi sia operai. Anche a Milano vennero occupate le università (a cominciare nel '67 dalla Cattolica) e alcuni licei come il Berchet e il Parini; nacquero inoltre alcuni gruppi politici extraparlamentari orientati verso l'estrema sinistra. 11 12 dicembre 1969 in Piazza Fontana scoppiò una bomba nella Banca Nazionale dell'Agricoltura: inizialmente la colpa ricadde sugli anarchici, ma in seguito vennero assolti e i colpevoli non furono mai trovati. I primi anni '70 si presentarono molto difficili, infatti anche l'Italia (in particolare l'area lombarda) risentì della crisi del petrolio: la gente iniziò a pensare che il benessere non poteva durare per sempre e tornò la paura della povertà. I primi a soffrire di questa crisi furono i giovani che si ritrovarono senza futuro: è in questi anni che iniziò a farsi sentire pesantemente la piaga della droga nell'hinterland di Milano. Le grandi fabbriche hanno subito delle trasformazioni, quali ristrutturazione e decentramento, con l'inevitabile licenziamento di una parte degli operai. Negli anni successivi lo sviluppo economico della città è diventato indipendente dalle industrie e si è radicato sempre di più in settori quali la pubblicità, il commercio, la moda, l'informatica e i servizi. Sono gli anni della deindustrializzazione e della ricerca di un nuovo modello di sviluppo da parte della capitale economica d'Italia. Il fenomeno è ancora in atto. I A. Moioli, Il consolidamento della struttura industriale nelle turbolenze dell'economia e della politica, in G. Rumi, V. Vercelloni, A. Cova, Milano durante il fascismo, 1922-1945, Milano 1994, p.383 2 Ivi, p.388 Ivi, p.389 Ivi, p.39I 5 I. Granata, Milano negli anni del fascismo in F. Della Peruta (a cura di), Storia illustrata di Milano. Dall'età giolittiana al fascismo, vol. 111, Ed. E. Sellino, Milano 1997, p.I87 6 G. Cavalazzi, G. Falchi, La storia di Milano, Zanichelli, Bologna 1989, p.164 7 Ivi, p.155 " Ivi, p.157 9 Ivi, p.163 '° Ivi, p.166 " Ivi, p.I67 12 Ivi, pp.I68-169 '3 Ivi, p.172 14 Ivi, p.181 15 Ivi, p.203 16 Ivi, pp.223-224 Giulia Damonte e Daniele De Luca LA STORIA DELLA FABBRICA GRAZIOLI DALLE ORIGINI ALLA GUERRA I. Introduzione La fabbrica, fondata da Giacomo Grazioli, "un piccolo artigiano col pallino della meccanica"', ha operato per oltre cinquant'anni "nel settore delle macchine utensili, fornendo sul mercato macchine di varia gamma (torni paralleli, fresatrici, ecc. ) a elevato livello di precisione con una rete commerciale di livello internazionale e con una notevole capacità di penetrazione in particolare in Europa" 2. Potrebbe sembrare una fabbrica come tante altre, ma merita una trattazione particolare: ha, infatti, rappresentato un punto di riferimento politico e sociale per la zona sud di Milano. Nonostante la presa del potere da parte di Mussolini, infatti, il fascismo, come in molte altre fabbriche, non attecchì completamente nella Grazioli, dove rimase consolidata una componente antifascista particolarmente impegnata e attiva dopo l'entrata in guerra dell'Italia. Oltre a questo l'importanza della Grazioli è data anche da un episodio quasi unico nella storia di Milano: l'omicidio del proprietario, all'interno della stessa fabbrica, alla vigilia della liberazione. Dopo la guerra altre vicende hanno accompagnato la Grazioli fino alla sua chiusura, a metà degli anni '80, vicende i cui protagonisti sono stati quasi sempre gli operai, battutisi, senza successo, per evitare la chiusura di una fabbrica che ha rappresentato un pezzo della loro vita. A partire dal '46 la gestione della fabbrica è passata ad un consiglio formato da operai, e nel '47, con l'abolizione della gestione operaia delle fabbriche decretata dal governo De Gasperi, è tornata ad essere gestita dalla famiglia Grazioli, con Aldo Grazioli, figlio del fondatore, giovane "libertino" e poco interessato all'attività industriale. Con il fallimento del '59-'60 dovuto, secondo gli operai, ad una cattiva gestione, la fabbrica è passata alla Carle-Montanari e, in seguito, al Gruppo Rosso. È stata definitivamente chiusa nel 1987, nonostante operai, famiglie e il consiglio di zona avessero fatto di tutto per trovare chi comprasse la fabbrica in modo da farle riprendere la sua attività produttiva, che non si era per nulla esaurita e aveva, anzi, ancora notevoli potenzialità. 2. Gli inizi: la produzione e la gestione Il primo stabilimento della fabbrica Grazioli è stato costruito nel 1928 in via Pezzotti 6, per poi essere trasferito, dieci anni più tardi, nello stabilimento di via De Sanctis, dove è rimasta fino alla sua chiusura. Giacomo Grazioli aveva incominciato la sua carriera lavorativa alle dipendenze della ditta Breda, per poi mettersi in proprio con il piccolo stabilimento di via Pezzotti. Si può dire che egli, dimostratosi artigiano veramente valido nel campo della meccanica, avesse capito che "siccome in Italia non c'era una fabbrica di macchine utensili, cioè di torni, frese, alesatrici, ecc. (le macchine arrivavano dalla Germania e dalla Cecoslovacchia, paesi più avanzati dal punto di vista meccanico), si poteva cominciare a costruire i primi torni italiani. Egli è arrivato a costruire la fabbrica di via De Sanctis nel 1938. Già allora la fabbrica è stata costruita con un sistema molto moderno per i tempi: aveva un grosso capannone con due terrazze laterali e delle gru in mezzo, ecc. Insomma, funzionava molto bene per la produzione di macchine utensili"3. La destinazione dei torni della Grazioli si divideva tra piccoli artigiani, scuole professionali, ferrovie dello Stato, diversi enti pubblici e società private. Durante gli anni della guerra le macchine furono vendute soprattutto a fabbriche che producevano armi, tra cui l' Ansaldo, che era sotto stretto controllo del regime nazi-fascista. Tra i prodotti di maggior successo vanno ricordati il Fortuna, un tornio di piccole dimensioni, così battezzato per la sua grandissima richiesta da parte di artigiani, scuole e fabbriche, e il Dania 180, un altro tornio che portava il nome del suo disegnatore e che "è stata la macchina più completa e tecnicamente più riuscita. Si può considerare il pezzo pregiato della Grazioli"4. Ancora oggi, comunque, è possibile trovare torni Grazioli con molta facilità. "Andavano molto nelle scuole, nei laboratori degli istituti tecnici e professionali, come quelli, per esempio, dell'istituto Feltrinelli. Credo che in questa scuola ci siano ancora i torni Grazioli"5. Per quanto riguarda la gestione della fabbrica, Giacomo Grazioli ne era il titolare, "ma il direttore tecnico era un certo ingegner Nerviani. Poi c'era il capo dell'ufficio progetti, ingegner Graziosi, con un figlio antifascista, universitario. Poi c'era un certo Zani, che era direttore amministrativo, e i vari capi reparto" 6. 3. Gli operai e la scuola: quando la modernità facilita il lavoro L'essere operaio della Grazioli era un'aspirazione di molti per l'alta qualità del lavoro, la modernità dell'ambiente che preparava operai specializzati in grado di lavorare in quasi tutti i tipi di fabbrica, per i servizi extra-lavorativi forniti agli operai (dopolavoro, mensa, ecc.), e forse anche perché gli operai della Grazioli venivano pagati più degli altri, come dimostra la seguente testimonianza: "La fabbrica era molto integrata nel quartiere, era anche un prestigio entrare a lavorare alla Grazioli. Io da ragazzo volevo entrare alla Grazioli perché era famosa...Ho fatto la domanda scritta anche alla Caproni e all'AlfaRomeo. Tutte e tre mi hanno richiesto, ma ho scelto la Grazioli. Allora chi voleva lavorare trovava con facilità"7. La maggiorparte degli operai proveniva da Milano, ma la fabbrica raccoglieva anche molta gente proveniente da fuori: "La gran parte degli operai erano di Milano e vivevano vicino alla fabbrica, però molti venivano da fuori: dalla provincia di Pavia, di Bergamo, ecc. Viaggiavano, facendo i pendolari, sui carri-merci al freddo: una vita durissima. Gran parte degli operai venivano dalla zona circostante in particolare dal quartiere Baia del Re"8. Accanto alla fabbrica c'era la villa di abitazione della famiglia Grazioli, ma soprattutto il dopolavoro per gli operai comprendente campi di bocce, di pallacanestro e di tennis, una pista da ballo all'aperto, nonché la mensa. In più ciò che sicuramente rappresentava un esempio di modernità e validità era la scuola per la formazione degli operai. "Sono entrato come operaio alla Grazioli nel '39. In quell'anno fu aperta la scuola per operai (foto 4), fummo assunti in 40 dopo la selezione. Io quindi ho fatto la scuola interna utilizzando il libro di un perito industriale, direttore della scuola di nome Cangioli. La cultura generale era insegnata dal maestro elementare o studente universitario, che si chiamava Patrosso o Patrasso. Poi c'era un istruttore tecnico di nome Moders, tedesco. C'erano alcune ore teoriche ed alcune pratiche, in un reparto per conto nostro. Dopo il primo anno, per un totale di tre, le lezioni di teoria diminuivano e aumentavano quelle pratiche"9. Chiunque avesse frequentato la scuola della Grazioli era in grado, in seguito, di trovare lavoro in altre fabbriche. "C'era una diversità tra la scuola e la fabbrica: a scuola si imparava, non si produceva, però si veniva fuori come operaio specializzato. Infatti, devo dire che tutti gli operai che sono usciti dalla scuola della Grazioli, che poi sono stati licenziati o se ne sono andati, hanno fatto tutti un'ottima carriera in altre fabbriche. Io stesso sono diventato direttore di una fabbrica di cuscinetti a sfera, grazie proprio alla scuola di meccanica che ho fatto alla Grazioli". Abbiamo già accennato a come, una volta finita la scuola, si diventasse operai specializzati, ma si poteva già avere uno stipendio fisso solamente frequentando la scuola della Grazioli e diventando apprendista, stipendio che, ovviamente, era molto più basso della normale paga di un operaio. "Durante la scuola eravamo pagati: in quei tempi si prendeva una lira e tre centesimi all'ora. Facendo quarantotto ore alla settimana non ho mai portato a casa più di venticinque lire. Un operaio prendeva tre lire e sessanta centesimi all'ora. Quindi la nostra paga era meno di un terzo. Nella paga di un apprendista erano comprese anche le lezioni teoriche. Ma, con le trattenute fiscali e non (per la tuta, per il calibro, per lo stemma della Grazioli, per la divisa fascista anche per chi non la voleva, ecc.), più di venticinque lire io non portavo a casa"11. Le ore lavorative alla Grazioli erano inizialmente più di cinquanta alla settimana, aumentarono considerevolmente durante gli anni della guerra, per far fronte alla maggior richiesta di macchinari destinati a produrre materiale bellico, e solo a seguito degli scioperi degli operai dei primi anni '60 furono ridotte a quarantasei ore e mezza: "All'inizio le ore di lavoro settimanali erano anche cinquantaquattro e noi eravamo contenti di farle pensando ai soldi ed alla possibilità di avere qualche cosa in Più". "Nel '42, quando sono entrato, le ore di lavoro non erano quarantotto alla settimana, ma più di sessanta. Durante la guerra furono aumentate le ore perché c'era bisogno di macchinari. La Grazioli forniva l'Ansaldo e le altre fabbriche grosse"13. 4. L'attività della Grazioli durante il fascismo e la guerra L'importanza della fabbrica Grazioli è data, oltre agli elementi di modernità precedentemente citati, soprattutto dal suo coinvolgimento politico durante gli anni della guerra, e da un episodio unico nella storia di Milano: l'assassinio non ancora chiarito (si parla di partigiani e di vendette personali) del fondatore Giacomo Grazioli. La fabbrica era nata intorno agli anni '30, quando il regime fascista di Mussolini si era già stabilizzato. Questi anni '30 furono segnati da una grande crisi economica: il reddito nazionale precipitò a un livello veramente basso, con grandi difficoltà di ripresa; i salari diminuirono fino a dimezzarsi nel '34, rispetto al 1926. In più aumentavano considerevolmente i disoccupati, che toccarono, in tutta Italia, la soglia del milione 14. Nonostante questo e la repressione da parte della polizia di qualsiasi manifestazione per la mancanza di lavoro, e i frequenti rastrellamenti tra disoccupati allo scopo di impedire che nel loro ambito si potessero creare pericolose solidarietà e attività antifascista, furono anche gli anni di un maggior consenso popolare: aumentarono sensibilmente le iscrizioni al partito fascista. Iscriversi al partito fascista voleva dire in pratica avere la possibilità, rispetto ai non iscritti, non solo di ottenere maggiori aiuti assistenziali, ma anche di essere avvantaggiati nell'assegnazione di un posto di lavoro. Grazie all'attività assistenziale, quindi, il PNF riusciva ad ottenere il consenso da strati Popolari sempre più vasti, anche se si trattava di un consenso passivo più che attivo, legato a stati di necessità piuttosto che a una reale convinzione di fondo 15. In questo clima di consenso, sebbene costretti all'obbedienza, gli operai furono generalmente antifascisti; non facevano eccezione quelli della Grazioli, che infatti era una fabbri- ca molto coinvolta dal punto di vista politico. "La Grazioli era una fabbrica molto politicizzata, tutte erano politicizzate le fabbriche di allora: gli operai volevano essere qualcuno e quindi lottavano per migliorare la condizione dei lavoratori. Ci si organizzava: nelle fabbriche c'era molta politica tra rossi, bianchi, ecc." 16. Facevano parte del tessuto industriale della zona anche molte altre fabbriche, tra cui, secondo la testimonianza di Paolo Guffanti, erano particolarmente impegnate politicamente e sindacalmente la Vedemè, fabbrica a maggioranza femminile che produceva divise militari; la Mammoli, fabbrica di rubinetteria, e la Fisem, che produceva componenti per telefoni, l'unica dove il dirigente era un socialista. All'interno della fabbrica già dagli anni '30 si era formata una cellula clandestina del PCI, gran parte degli operai erano comunisti e socialisti, una maggioranza che andava controcorrente rispetto a coloro che gestivano la fabbrica, compreso il fondatore Giacomo Grazioli, che per convinzione, o perché così era imposto agli imprenditori del regime, tendeva ad un orientamento filofascista. "Grazioli dal punto di vista politico era molto vicino al fascismo: si vestiva da fascista. Il problema però è che allora tutti gli industriali dovevano fare i fascisti. Ma non tutti sono stati uccisi, anzi quasi nessuno" 17. Come risulta anche da quest'altra testimonianza: "Grazioli sapeva fare il suo mestiere pur essendosi fatto dal nulla. Determinante però è stato il "concime" (aiuto finanziario) che ha avuto dal regime. Personalmente non so che rapporti avesse con il fascismo. Alle manifestazioni ufficiali egli era sempre in divisa, in camicia nera. Però con noi non si è mai comportato male, almeno con me" 18. Data la grande presenza di persone impegnate politicamente, la fabbrica Grazioli non fu estranea agli scioperi che si verificarono nei primi anni '40, come dimostrano queste due testimonianze: "Agli scioperi del '43 la fabbrica ha partecipato attivamente subito, e ha protratto l'agitazione per alcuni giorni. Infatti quattro operai erano stati arrestati e portati a S. Vittore: allora noi per protesta ci siamo fermati per la liberazione dei quattro, che non erano neppure attivisti. Si chiamavano Orlandi, Mussi, Del Conte, il quarto non me lo ricordo. Era quindi una fabbrica molto attiva dal punto di vista politico e sindacale, tanto è vero che nei giorni dei primi scioperi solo due operai su circa cinquecento (tra impiegati e operai) non hanno scioperato. In mensa si sono messi da parte, separati dal resto dei lavoratori che erano scesi in lotta. La vasta adesione allo sciopero fu dovuta ad una reazione spontanea, ma anche ad una forte azione politico-sindacale. Durante gli scioperi alcuni fascisti sono venuti in fabbrica per convincerci a riprendere il lavoro, ma gli operai per poco non li buttavano giù dalle finestre del primo piano. Io da uno dei fascisti mi sono preso anche uno schiaffo, ma non ho ceduto. I quattro fascisti allora hanno portato via il capo del reparto di torneria, di nome Santoni (che non era né fascista né antifascista: era uno che lavorava e basta), accusandolo di non saper far lavorare gli operai. Allora si è visto un fatto clamoroso: tutti gli operai si sono messi in fila indiana per seguire il Santoni, come segno di solidarietà. Sulla porta i quattro fascisti con Santoni hanno incontrato il Grazioli che, vedendo la mobilitazione degli altri operai, ha fatto liberare il capo reparto e umiliato i fascisti mandandoli via a malo modo. La mattina dopo ci siamo subito interessati per vedere che non avessero portato via nuovamente il Santoni, ma l'abbiamo trovato al suo posto e lo sciopero si è fermato. Da quel momento è nata un'organizzazione sindacale e politica vera e propria, che è esplosa il 25 luglio e 1'8 settembre del '43 (...). In questa seconda circostanza, io e un compagno di nome Negri abbiamo avuto la lettera di licenziamento in quanto indesiderati per motivi politici e sindacali, come ritorsione. Io perché ero in prima fila nell'agitazione. C'erano anche Dulevio, Santagostini, Gasperini e altri compagni. Questi facevano lavoro politico: a noi giovani spiegavano che non si trattava solo di mandare via i fascisti, ma anche di realizzare un mondo nuovo, un ideale politico di democrazia, ecc. Dulevio era un esponente dei Gap, che è sfuggito alla morte quando furono presi e fucilati i quattro partigiani di via Tibaldi: Abico, Del Sale, Clapiz e Alippi. Veri e propri partigiani combattenti erano pochi: c'ero io ed un altro. Partigiani nel senso che siamo andati in montagna a combattere". Mentre questa prima testimonianza indica la partecipazione attiva agli scioperi degli anni '40, la seconda fa risaltare l'attività politica clandestina all'interno della fabbrica: "Io sono entrato in fabbrica nel '43, quando eravamo nel pieno delle lotte operaie contro la guerra. Ancora prima della caduta di Mussolini, nel mese di luglio del '43, in primavera sono partiti gli scioperi delle fabbriche, che hanno sicuramente accelerato la caduta del capo del fascismo. Come ho detto prima, la Grazioli era una fabbrica molto politicizzata. In quella fabbrica c'erano uomini come Pietro Ricaldone, che è stato sette anni in galera per antifascismo e che è venuto ad abitare a casa mia, da dove ha diretto la lotta partigiana della zona, a partire dall'attività politica in fabbrica. Nella Grazioli c'era una cellula clandestina che era organizzatissima...Facevamo recupero d'armi, distribuzione di volantini e cose di questo genere. Cioè, la fabbrica è uscita molto politicizzata perché c'era molta gente che faceva lotta politica clandestina già dagli anni '30, anche se era vietato per legge. Uno dei capi era Pietro Ricaldone, operaio della fabbrica, era membro attivo del partito comunista clandestino. Un altro operaio, politicamente molto attivo, era Giuseppe Santagostini. Finita la guerra l'abbiamo fatto capo reparto. Lui faceva il partigiano in città. Poi c'era Luigi Dulevio, che era uno di quelli che doveva essere fucilato in via Tibaldi con Clapiz, Del Sale, Abico e Alippi. Dunque la fabbrica era molto politicizzata e naturalmente ben vista nel quartiere...In fabbrica c'era questa cellula clandestina. Io non so quanto eravamo veramente clandestini. Non doveva saperlo nessuno, però naturalmente - una parola adesso e una domani - tutti sapevano pressappoco chi erano gli uomini che facevano i clandestini nell'azienda, all'infuori naturalmente dei pochi fascisti che c'erano, perché tra gli operai erano presenti anche alcuni fascisti e poi c'erano le guardie, formate da fascisti e da tedeschi" 20. L'attività clandestina all'interno della Grazioli si intensificò con la caduta del fascismo e con la resistenza partigiana, un fenomeno che ha interessato tutto il nord-Italia, in particolare Milano. Nello stabilimento, ad esempio, per contrastare l'avanzata dei mezzi mobili tedeschi, si produceva un arma molto efficace, i chiodi a quattro punte (foto 5), che venivano posti su strade molto trafficate, nonostante la loro produzione comportasse seri rischi in quanto un'eventuale scoperta avrebbe comportato la fucilazione del proprietario e degli operai. In seguito, nella fabbrica Grazioli, che abbiamo visto molto attiva in questo periodo, si creò un clima di disordine nel quale si verificò l'assassinio di Giacomo Grazioli. Sulle motivazioni che hanno portato a questo omicidio si hanno opinioni discordanti, anche se l'orientamento generale tende ad escludere il coinvolgimento dei veri partigiani, e ad identificare la causa in una vendetta personale. 5. Una frammento di vita di chi vi ha lavorato Le fabbriche con la loro produzione basata sul lavoro di gruppo, almeno inizialmente non del tutto caratterizzato dalla catena di montaggio, permettevano il formarsi di un grande sentimento di solidarietà, che lasciava spazio anche "all'inventiva, alle capacità personali e alla collaborazione" 21. Il clima della fabbrica, quindi, permetteva che si creasse un grande sentimento di gruppo. Tutti gli operai lavoravano insieme per la creazione di qualcosa che poteva essere solo il frutto di una grande collaborazione; provenivano per la maggior parte dallo stesso quartiere e tutti dallo stesso ambiente sociale; si ritrovavano nella mensa e nei luoghi adibiti al dopolavoro, il famoso CRAL della Grazioli dove si ritrovava tutto il quartiere in occasione delle feste. La Grazioli, come molte altre fabbriche, era insomma punto di riferimento del quartiere: non solo dava lavoro a molti, ma si presentava anche come luogo di incontro e di solidarietà; come, per esempio, avvenne in occasione degli scioperi e delle lotte operaie, quando intere famiglie portavano il loro aiuto, non solo finanziario, agli operai in sciopero. In più era anche diverso il modo di lavorare. Gli operai, come emerge dalle testimonianze, erano più attaccati al proprio lavoro, vi si dedicavano con coscienza e passione. C'era buona armonia, nonché rispetto, tra gli operai stessi e il padrone, tanto che la fabbrica Grazioli è rimasta un ricordo positivo nel cuore di chi vi ha potuto, oltre che lavorare, viverci. "Oggi la fabbrica è quasi del tutto abbattuta. Ma io mi sono portato a casa alcuni mattoni e un macigno come ricordo. Li ho portati nell'orticello che ho in campagna. I venticinque anni di lavoro sono stati un pezzo della mia vita, un pezzo importante. A fare ciò mi ha spinto il fatto che ho vissuto, mi sono fatto una cultura e un'esperienza di lavoro alla Grazioli (...); ai nostri tempi la preoccupazione degli operai era soltanto il lavoro, ci dedicavamo a lavorare bene perché una macchina doveva durare (...). Tutta questa esperienza è finita con la distruzione della fabbrica, anche se io mi sono portato via sei mattoni, una piastra di recinto, ecc., e me le sono messi nell'orticello che ho fuori della città. Essi rappresentano una parte della mia vita a cui sono affezionato. Io non so se la storia della Grazioli può interessare ai giovani di questa generazione, che sono abituati ad altro, anche ad altri lavori chiamati "terziario". I tempi sono completamente cambiati. Io voglio ricordare come ero e come erano i miei compagni di lavoro. Una fabbrica di macchine e di uomini che lavoravano con sacrificio e dedizione"22. La storia di una fabbrica coincide spesso con la storia di un intero quartiere: è il caso della Grazioli. Queste memorie di vita operaia, non riportate nei libri, formano forse la vera storia di una città come Milano, fatta non solo da grandi personaggi, ma anche e soprattutto dalle clàssi popolari. 1 Intervista a Paolo Guffanti, operaio della Grazioli dal '43 al '64. 2 Consiglio di fabbrica Grazioli, La situazione della Grazioli, volantino 1982. 3 Intervista a Paolo Guffanti, cit. 4 Intervista a V. S., operaio della Grazioli dal '39 al '62, che desidera mantenere l'anonimato. 5 Intervista a Maria Grazioli, figlia di Giacomo Grazioli. - IV - Salvatore Daloiso e Davide De Poli LA FIGURA DEL FONDATORE, GIACOMO GRAZIOLI 1. Premessa Lo scopo di questo lavoro è quello di delineare la figura di un piccolo imprenditore, Giacomo Grazioli, nel quadro della storia industriale milanese. Titolare dell'omonima fabbrica, Giacomo Grazioli era "ingegnere onoris causa in ingegneria meccanica. Era un tecnico che veniva dalla gavetta: non era nemmeno perito. Originariamente aveva un'officina sotto il ponte ferroviario, tra via Pezzotti e via Tibaldi, dove lavoravano in quattro. Con gli appoggi del regime ha messo su la fabbrica in via De Sanctis" 1. La difficoltà di questo lavoro di ricostruzione sta nel fatto che le fonti e i materiali da cui possiamo attingere sono esclusivamente orali, tratte da interviste raccolte tra i suoi operai ed i suoi familiari, in quanto sulla vita di Giacomo Grazioli, a differenza di quanto è stato fatto per altri famosi industriali milanesi, finora non è stato scritto nulla. Con questo lavoro ci proponiamo di dare un'immagine di questo piccolo capitano d'industria il più possibile corrispondente alla realtà; le difficoltà non sono poche, visto che, come abbiamo già detto, le uniche testimonianze di cui siamo in possesso sono solamente orali. 2. La storia straordinaria e drammatica di un industriale "fattosi da sé" a) Un piccolo imprenditore: dagli anni '30 alla guerra Giacomo Grazioli iniziò a lavorare per la ditta Breda dove fu il braccio destro dell'anziano titolare; durante gli anni della prima guerra mondiale, mentre era ancora dipendente di quella fabbrica, studiò un pezzo del famoso cannone modello della Breda costruito per la guerra, dando così prova delle sue qualità produttive, le quali gli sarebbero servite in seguito per fare la propria fortuna e quella della sua fabbrica. Successivamente, nel 1928, aprì un'officina in proprio in via Pezzotti al n. 6: qui iniziò la sua fortuna con un tornio che appunto per questo chiamò Fortuna. Inoltre poco più tardi mise sul mercato un altro tornio di nome Dania dal nome del suo disegnatore, che Grazioli volle ricordare per la sua bravura. Inizialmente Giacomo Grazioli affidava ad altri la vendita dei propri torni, ma in seguito decise di occuparsene in prima persona, estendendola in tutta Europa. Con i proventi ricavati dal periodo passato in via Pezzotti aprì, nel 1935, una nuova fabbrica in via Brioschi, nella quale lavorarono solamente una ventina di operai. Nel 1938 Grazioli aprì la fabbrica in via De Sanctis (che è stata chiusa poco tempo fa in seguito al suo fallimento), dove l'impresa si espanse vendendo le proprie macchine in tutto il mondo. Dopo la morte del fondatore la direzione è stata assunta dal figlio Aldo, il quale, a detta di tutti, ha portato la fabbrica alla rovina. Probabilmente le qualità di Aldo Grazioli non si possono mettere in discussione, ma, da ciò che ci ha insegnato Giacomo Grazioli, affinchè una fabbrica funzioni bisogna sentirla come parte di sè stessi, mettendoci il cuore, perchè gli aspetti importanti della fabbrica non si riducono al solo campo amministrativo, bisogna anche saper trattare con gli operai, nonchè saper gestire la vendita dei propri prodotti. Dopo la breve esperienza di Aldo Grazioli lo stabilimento è stato acquistato da altre aziende, fino al definitivo fallimento avvenuto oltre dieci anni fa. Grazioli cercò di rendere la fabbrica più vivibile per i suoi operai inserendovi attrezzature dedite allo svago quali campi da bocce, una mensa, e altro. Inoltre, per la formazione professionale dei suoi operai, istituì, sempre all'interno della fabbrica, una scuola professionale per nuove maestranze (foto 4). L'aspetto che più emerge dalle interviste agli operai è il rapporto fra Giacomo Grazioli e i suoi subalterni: era infatti possibile avere con Grazioli un rapporto quasi di "amicizia", il che è testimoniato dal fatto che i suoi dipendenti hanno un buon ricordo di lui e un grande rammarico per la brutta morte in cui è incorso. Per meglio cogliere alcuni aspetti della personalità di questo piccolo "capitano d'industria" riportiamo questi due brevi brani scritti da lui, come introduzione al libro di Corrado Cangioli, che veniva usato nella scuola professionale interna. - "Questo volume di Corrado Cangioli contiene la raccolta delle lezioni tutte di tecnologia meccanica che, nei tre anni di insegnamento teorico-pratico, vengono illustrate, sviluppa- te, sempre più approfondite, sia nelle aule, che nell'altisonante salone-officina della nostra Scuola Professionale Meccanica. E' un libro asciutto, modesto nella sua veste certosina, apparentemente arido nella forma, ma nutrito e robusto nel contenuto. Corrado Cangioli sapeva di non dover limare dei versi, ma del metallo... E c'è riuscito con quest'opera maschia, vigorosa, che ha - soprattutto - un grande pregio: la chiarezza. Voi, giovani allievi, che frequentate la nostra scuola, o che provenite da altre scuole professionali, avete già avuto sentore di ciò che questo libro vi darà...Ricordatevi che è ancora e sempre la scuola che vi insegna e non si stanca di ripetervi tutto quanto vi è di più necessario per la riuscita della vostra professione. E' come la madre che ripete al figlio, in modo sempre più categorico e preciso, ciò che già altre volte ha detto, ma che forse non è stato, dall'anima irrequieta del figliuolo, del tutto compreso. Io penso, giovani allievi, che se avete dimenticato qualche verso di Dante, o la più o meno precisa posizione latitudinaria di qualche isola dell'Oceano Indiano, poco importerà per la vostra vita futura, fatta di lavoro. Ma se non avete imparato a distinguere la ghisa dall' acciaio, e a ben calcolare il ruotismo di una macchina utensile, questo sì che potrà influire sulla vostra carriera, sul vostro domani. Voi che siete sulla soglia della vita e che state per entrare nel lavoro tumultuoso degli stabilimenti, sappiate che oltre all'insegnamento al banco e alle macchine, queste lezioni sono per voi indispensabile per fare di voi il vero uomo, il lavoratore perfetto e cosciente del proprio lavoro. Se questi tre anni di apprendistato non li lascerete passare infruttuosi, voi sarete rispettati e considerati durante tutta la vostra vita futura di lavoro. Quanti operai adulti si dolgono di non avere in gioventù rubato le ore al sonno per apprendere quelle nozioni tecniche che avrebbero potuto migliorare le loro condizioni economiche e sociali. Forse vi meraviglia questa frase: rubare le ore al sonno! Sì, perchè allora - non molti anni fa - chi voleva col proprio lavoro innalzarsi un po'sopra gli altri, e quindi istruirsi, non poteva che rivolgersi alle poche, e non sempre perfette, scuole serali di un tempo!!! Solo da pochi anni esistono scuole industriali diurne complete, i cui benefici, che voi ora godete, saranno da voi stessi giudicati e soppesati fra non molti anni. Quello che vi viene insegnato e ribadito dalla nostra scuola è tutto ciò che in pratica vi occorrerà conoscere nel lavoro quotidiano al quale andate incontro. Questo volume dovete quindi tenerlo vicino a voi, anche dopo i corsi, anzi, il suo posto dovrà essere nel cassetto del banco o nell'armadietto della macchina utensile. Qualche volta lo rileggerete e non sarà fatica sprecata. Chi scrive queste poche righe di introduzione ha vissuto quarant'anni negli stabilimenti e può dirvi, con convinzione e con coscienza, che la preparazione che voi state facendo è una necessità vitale. L'operaio meccanico non preparato, alla prima difficoltà si trova a disagio e in condizioni di inferiorità morale rispetto all'operaio seriamente aggiornato. Le lavorazioni meccaniche moderne hanno continuamente nuove esigenze e per camminare di pari passo con esse occorre una preparazione solida, non improvvisata. Per gli operai adulti questa scuola supplirà in parte alla mancata scuola. Leggetelo. Studiatelo anche voi, aiutandovi con la vostra faticosa esperienza. Apprenderete anche voi , operai anziani, quel tanto che occorre per non farsi subito superare dai giovani. A Corrado Cangioli, che insegna a voi con tanta passione e tanto amore e che ha raccolto le sue chiare lezioni in questo volume, vada il mio incitamento. Egli è la dimostrazione evidente dell'asserto di quanto scrivevamo più sopra: volere! E Cangioli col sacrificio, con la volontà, rubando ore al sonno, ha saputo da semplice operaio portarsi al rango di Perito Tecnico di alto valore, quale è. E voi, giovani allievi, lasciate che ve lo dica come se lo dicessi al mio stesso figliuolo: ricordatevi che al mondo si vale per quanto si sa e non per quello che si ha. E' un vecchio detto. Ma pieno di verità e di sapienza. Avete davanti a voi un avvenire che vi può essere radioso. La Patria ha bisogno di voi, delle nuove generazioni che come valanghe avanzano, e noi, ben volentieri vi cediamo il passo, gridando: - Largo ai giovani! - Siatene degni" 2 - "Nel licenziare alla stampa - a distanza di soli tre anni dalla prima - questa seconda edizione di Tecnologia Meccanica edita dalla nostra Scuola Professionale Meccanica, creata al fianco della nostra industria, poco ho da aggiungere a quanto già scrissi nella prima prefazione. Questo libro, il cui contenuto è stato forgiato fra i banchi di lavoro della nostra scuola, si è dimostrato completo sotto ogni riguardo. Tanto felice ne è stata la creazione - e di ciò ne va giusta lode al nostro Cangioli - che numerose sono state le richieste di copie pervenuteci dall'estero, sia da scuole, che da privati. Richieste che non abbiamo potuto esaudire perchè la prima edizione (poche centinaia di copie!) era stata fatta ad uso esclusivo dei nostri allievi... Ma anche questi, succedendosi un corso all'altro, hanno esaurito la prima tiratura, ed ecco la seconda - non più dattilo/stampata - ma tipografica e arricchita di aggiunte, appunti, note, disegni, illustrazioni, diagrammi, ecc. Ci conforta il pensiero che Ogni copia, affidata a giovane creatura perchè apprenda le mozioni basilari della nobile arte meccanica, ispiri e crei - sempre più - giovani meccanici finiti che rappresentano, sulla bilancia dei valori, le energie nuove dell'Italia Industriale di domani."' Da questi testi ricaviamo il senso di una forte speranza di Grazioli nei giovani, tanto che essi "rappresentano le energie nuove dell'Italia Industriale di domani". Egli quindi ripone tutta la sua fiducia in essi; inoltre li sprona a lavorare e a specializzarsi con passione nel loro lavoro studiando per poter poi essere qualcuno, perchè "al mondo si vale per quel che si sa e non per quanto si ha". Grazioli stesso può essere preso come esempio vivente di quello che egli dice, perchè partendo dal nulla, con la sola volontà di lavorare ed un grande impegno, è riuscito a fondare un'impresa capace di vendere in Italia e all'estero i propri torni ed a rendere famoso il suo nome nel settore meccanico. Questo è stato reso possibile sicuramente dalle sue doti di tecnico, ma anche dall'enorme lavoro svolto e dalla passione messa in esso. La posizione politica di Giacomo Grazioli è alquanto confusa; non si è mai chiaramente schierato né da una parte né dall'altra; infatti, nelle manifestazioni ufficiali indossava la divisa fascista (foto 1, 2, 3), mentre in tutte le altre circostanze non prendeva posizioni estremiste, tanto che in varie occasioni prese le difese dei suoi operai contro i fascisti. Dalle testimonianze degli operai si desume che la posizione controversa di Giacomo Grazioli era evidente solo durante le manifestazioni ufficiali, visto che con loro non si è mai atteggiato da fascista, bensì da amico, aiutandoli nel momento del bisogno e difendendoli dai fascisti stessi. Ricordiamo ad esempio questo episodio: "durante gli scioperi alcuni fascisti sono venuti in fabbrica per convincerci a riprendere lavoro, ma gli operai per poco non li buttavano giù dalle finestre del primo piano. Io da uno dei fascisti mi sono pure preso uno schiaffo, ma non ho ceduto. I quattro fascisti allora hanno portato via il capo del reparto di torneria, di nome Santoni (che non era né fascista né antifascista: era uno che lavorava e basta), accusandolo di non saper far lavorare gli operai. Allora si è visto un fatto clamoroso: tutti gli operai si sono messi in fila indiana per seguire il Santoni, come segno di solidarietà. Sulla porta i quattro fascisti con Santoni hanno incontrato il Grazioli che, vedendo la mobilitazione degli altri operai, ha fatto liberare il capo reparto e umiliato i fascisti mandandoli via a malo modo."4 b) La morte violenta Grazioli venne ferito in fabbrica nel pomeriggio del 24 aprile 1945 e morì il giorno seguente in ospedale. Ci sono diverse e contrastanti versioni riguardo agli esecutori del delitto, forniteci sia dai suoi familiari che dagli operai che hanno assistito all'omicidio. Le versioni sono di diversa natura e significato. Secondo la figlia Maria, gli assassini facevano parte di una "scheggia impazzita" del partito comunista: questa versione è confermata da operai che hanno assistito all'omicidio, dato che questo fatto è avvenuto in fabbrica durante il lavoro. Secondo Paolo Guffanti, operaio politicizzato all'interno della fabbrica, la morte di Giacomo Grazioli è dovuta "alla spedizione in Germania dei sedici operai. Grazioli dal punto di vista politico era molto vicino al fascismo: si vestiva da fascista. Il problema però è che allora tutti gli industriali dovevano fare i fascisti. Ma non tutti sono stati uccisi, anzi quasi nessuno. "5 Tra l'altro, colui che comandava il CLN del quartiere, Piero Ricaldone, si rifugiava a casa di Guffanti, quindi, l'operaio sarebbe stato messo al corrente dell'ordine di uccidere il suo principale; ma essendo Guffanti all'oscuro di tutto, questi propende per l'omicidio da parte di un gruppo che ha agito autonomamente per motivi personali. Un'altra versione, sostenuta tra l'altro da Giovanni Pesce, capo della struttura partigiana di Milano, è quella secondo cui Grazioli è stato ucciso a seguito di una tentata rapina. Infatti, secondo Maria Grazioli, "la mattina del 24 aprile ha mandato in banca mio fratello a prelevare dei soldi, tanti. Mezz'ora prima che l'uccidessero, alle quattro e mezzo del pomeriggio, ha radunato gli operai e ha detto: 'Oggi, domani e nei prossimi giorni passeremo alle giornate di rivoluzione, perchè sta finendiì tutto. Vi lascerò a Casa' . Ha dato ordine di distribuire i soldi agli operai per i bisogni delle loro famiglie. 3. Conclusione Abbiamo cercato di mettere in risalto la figura di un piccolo "capitano d'industria" che dal nulla ha creato una fabbrica capace di competere sul mercato nazionale e internazionale e che, insieme agli altri piccoli imprenditori di Milano, ha fatto la storia della città in cui viviamo. Giacomo Grazioli è stato uno degli artefici di un tessuto industriale diffuso, realizzato dai grandi magnati dell'industria ma anche dai piccoli imprenditori formatisi da sé, come lui stesso; infatti egli ha cominciato come semplice operaio e, solo con il suo impegno costante, è riuscito a realizzare una fabbrica che ha dato lavoro a centinaia di operai. La semplicità e la dedizione al lavoro di questo piccolo imprenditore sono però state rovinate da una morte oscura, avvenuta alla vigilia del 25 aprile; da quel momento tutto il suo operato è stato gradualmente distrutto fino ad arrivare alla chiusura e demolizione della fabbrica da lui creata e diretta, con buoni risultati tecnologici ed economici. E' triste passare per via De Sanctis e vedere una fabbrica in via di demolizione per far posto ad un complesso residenziale, perchè si pensa al lavoro svolto da Giacomo Grazioli, il quale ha passato tutta la vita per costruire qualcosa di più di una fabbrica. Tutto il lavoro di Grazioli è stato vanificato a causa dell'errata gestione di altri imprenditori che non hanno saputo salvare e potenziare la fabbrica. Giacomo Grazioli è stato uno di quei tanti piccoli imprenditori che, con il loro lavoro, hanno creato la Milano industriale che tutti conoscono. Ma adesso le fabbriche dell' industrializzazione milanese vengono piano piano smantellate per dare spazio ad altre e diverse attività (il cosiddetto "terziario avanzato") con il risultato di far dimenticare il lavoro importante svolto da tanti - più o meno sconosciuti - Giacomo Grazioli. 1 Intervista a Virginio Gallazzi, ex operaio della Grazioli. 2 Giacomo Grazioli, Introduzione alla prima edizione, in Tecnologia Meccanica, di Corrado Cangioli, Milano s.d. 3 Giacomo Grazioli, Introduzione alla seconda edizione, in Tecnologia Meccanica, di Corrado Cangioli, Milano s.d. 4 Intervista a Virginio Gallazzi, ex operaio della Grazioli. 5 Intervista a Paolo Guffanti, ex operaio della Grazioli 6 Intervista a Maria Grazioli, figlia di Giacomo Grazioli [didascalie immagini:]

Foto 2 Foto 1,2,3,: giornata di festa alla Grazioli nel periodo del fascismo foto 3 [didascalie immagini:]

Foto 4 Foto 4: due momenti della scuola professionale interna alla Grazioli. - v - Massimiliano Sangiovanni e Vanessa Lauricella GLI ANNI DELLA RESISTENZA E DELLE LOTTE OPERAIE ALLA GRAZIOLI I. Introduzione Questo breve lavoro vuole ripercorrere gli anni della Resistenza e delle lotte operaie verificatesi nella Grazioli, fabbrica metalmeccanica milanese apprezzata in Italia e in Europa per i suoi torni. Al fine di comprendere quello che è avvenuto nella Grazioli ci sembra Però opportuno analizzare a grandi linee il fenomeno più generale della Resistenza in Italia, e più in particolare a Milano, città che ha avuto un ruolo importante nella lotta per la liberazione del nostro paese dall' oppressione nazifascista. Indispensabili e necessarie alla stesura del nostro lavoro sono state le fonti storiche, sia scritte che orali, da noi utilizzate: abbiamo fatto ricorso, infatti, oltre che a libri riguardanti il periodo della Resistenza a Milano, anche alle interviste rilasciate dagli stessi operai della Grazioli e a vari articoli di giornale. II. La Resistenza a Milano Fenomeno nato durante l'occupazione tedesca, la Resistenza è un'importante pagina della storia italiana e in particolare della città di Milano, riconosciuta dagli storici come "capitale" e vero centro organizzativo di questo movimento finalizzato alla liberazione del nostro Paese: proprio in questa città, infatti, si sono verificate le prime azioni di rivolta contro il regime nazifascista e, di conseguenza, le prime e gravi ritorsioni da parte dei tedeschi. Lo scontento che regnava tra la gente era dovuto non solo alla riluttanza per l'entrata in guerra, di cui ben pochi capivano la necessità, ma anche e soprattutto per le Pessime condizioni di vita nelle quali si era costretti a vivere: "il fabbisogno alimentare si era dimostrato nettamente insufficiente"' e la penuria alimentare cominciava a coinvolgere tutti gli abitanti, perfino quelli che si ritenevano esclusi da un eventuale crollo economico, le condizioni abitative della classe operaia erano pessime, la situazione dei trasporti drammatica. A ciò si aggiungevano inoltre la disoccupazione e i numerosi bombardamenti degli aerei alleati i cui "obiettivi non erano affatto acquartieramenti militari o impianti industriali o ferrovie, ma zone abitate ad alta densità popolare, e non a caso vennero colpite Porta Ticinese, l' area a nord dell' Arena e Porta Genova" 2. Nonostante questo vennero comunque colpite insieme alle abitazioni anche il settanta per cento delle fabbriche attive in quel periodo, tra cui la Pirelli, l'Alfa Romeo, l'Innocenti e la De Angeli Frua. L'utilizzo degli attacchi aerei durante la guerra costituiva la parte più nota di una strategia di "guerra totale", il cui obiettivo era di seminare, con la morte, il terrore per fiaccare le capacità combattive dell' avversario. Nel '41 cominciò anche il razionamento del cibo e degli indumenti; inizialmente non sembrò così radicale, ma "poi le razioni alimentari diventarono sempre più scarse e fiorì il mercato nero a prezzi esorbitanti. I salari erano invece sempre gli stessi" 3. Principali vittime dell' indigenza, sempre più accentuata, erano gli operai e le loro famiglie, che si trovavano in condizioni di vita molto difficili. Nelle fabbriche la disciplina era durissima, di carattere militare ed i ritmi di lavoro insostenibili poiché, nonostante che dal luglio 1940 fosse stato ripristinato l'orario lavorativo di 48 ore settimanali, furono abolite le norme legislative che regolavano il lavoro straordinario, il che voleva dire che le fabbriche potevano innalzare l'orario lavorativo fino a 60 ore settimanali senza alcuna autorizzazione. A causa di queste disastrose premesse, i primi tre anni di guerra furono vissuti dalla città in un crescendo di paura e di tensione: la guerra aveva determinato l'aumento improvviso del costo della vita, un calo impressionante dell' occupazione, migliaia di senzatetto e razioni alimentari molto scarse. Questa difficile situazione determinò il verificarsi di due fenomeni che contribuirono alla liberazione di Milano dall' oppressione nazifascista. Il primo fu quello della lotta operaia di tipo economico-rivendicativo che si prefiggeva come obiettivo sia di "strappare al padronato tutto lo strappabile per poter sopravvivere e fronteggiare i bisogni immediati e quotidiani e, al contempo, attraverso le lotte in fabbrica, obbligare padroni e tedeschi a venire allo scoperto, costringendoli ad assumere posizioni chiare e inequivocabili che ne smascherino le rispettive responsabilità e la sostanziale coincidenza di interessi" 4. Il secondo fenomeno a cui si assistette fu la nascita di formazioni militari clandestine, adibite prevalentemente alla lotta armata contro i nazifascisti: i Gap (Gruppi di azione patriottica). Gli scioperi a Milano iniziarono il 13 dicembre 1943 quando si fermarono vari stabilimenti non solo nella città, ma anche a Sesto San Giovanni, a Busto Arsizio e a Legnano: fabbriche come la Breda, l' Ercole Marelli, la Redaelli, l' Innocenti, la Pirelli, l'Alfa Romeo e la Garelli decisero di scioperare per contestare le condizioni a cui gli operai erano sottoposti. A organizzare la lotta nelle fabbriche era principalmente il Partito Comunista Italiano; nonostante che fosse costituito da pochi uomini rappresentava l' unica forza antifascista che contasse su una presenza organizzata in tutte le fabbriche, mantenuta a fatica negli anni di repressione solo con la clandestinità. Le altre forze politiche preferivano invece scegliere una posizione definita dal P.c.i. di attesismo, dato che non ritenevano opportuno ingaggiare una lotta armata che contrastasse l'oppressione dei tedeschi. Ma quella dell' attesismo si rivelò essere una scelta errata poiché il regime rispose agli scioperi con numerose e violente rappresaglie. Per quanto riguarda invece 1' azione gappista è importante ricordare la data del 18 dicembre 1943, giorno in cui venne ucciso il nuovo segretario della Federazione fascista, Aldo Resega: "quella brumosa mattina del 18 dicembre 1943, alle ore 8,15, sul portone di casa sua in via Bronzetti qualche colpo di pistola lo stendeva morto a terra" 5. La mattina seguente vennero fucilati all'Arena otto giovani antifascisti già da tempo in carcere ed inoltre non mancarono numerosi arresti tra gli operai e tra le persone facenti parte dei Gap. L'ultima azione memorabile del gappismo milanese fu l' attacco alla sede fascista di Sesto San Giovanni, durante la quale venne però arrestato Felice Lacerra collaboratore dei Gap che in seguito a numerose torture rivelò il nome di alcuni compagni, determinando così il verificarsi di numerosi arresti che causarono la cattura dei Gap milanesi. " L'intensificarsi dell'attività porta ad imprudenze e leggerezze che nel febbraio 1944 conducono all'arresto di tutti i gappisti. E' quello che viene spesso ricordato come la caduta della I Gap"6. Tutto il '44 fu caratterizzato dagli scioperi nelle fabbriche a cui seguivano rappresaglie più o meno forti da parte dei tedeschi: il I ° marzo Milano si fermò completamente, paralizzata dal più massiccio sciopero mai verificatosi in territori occupati dal regime nazista; tale sciopero passò alla storia come " la più grande e riuscita mobilitazione di massa mai avvenuta nell'Europa occupata'. Per otto giorni il traffico tranviario fu totalmente assente e questo costrinse addirittura i fascisti ad improvvisarsi guidatori, le fabbriche rimasero vuote e gli scioperanti erano ricercati in tutta la città. Mancando l'appoggio armato da parte dei Gap, colpiti duramente pochi giorni prima, lo sciopero che aveva avuto una soddisfacente riuscita, non portò, però, miglioramenti economici alla classe operaia, ma la espose ad una dura repressione da parte dei nazifascisti: " gli operai sono costretti a tornare in fabbrica senza aver ottenuto nulla". In seguito allo sciopero Milano si trovò in una situazione di vuoto assoluto, dovuta soprattutto alla sconfitta dei Gap, che continuerà fino a quando non scenderanno in campo le Squadre d' azione patriottica, meglio note con il nome Sap. A questo punto ci sembra opportuno fare una chiarificazione riguardo a ciò che erano e il ruolo che hanno svolto i Gap e le Sap durante il periodo della Resistenza a Milano e capire quali sono stati i motivi della caduta dei Gruppi di azione patriottica e della nascita delle Squadre di azione patriottica. I primi erano "nuclei ristrettissimi composti da militanti comunisti prevalentemente operai, che dovevano vivere nella Clandestinità assoluta, osservare il massimo di quella che si chiama la vigilanza cospirativa, vivere quindi nell'isolamento più totale e svolgere un'attività armata di tipo terroristico"9, che nel 1964 sarà definita da Giorgio Bocca come un atto di moralità rivoluzionaria che permette di allargare la lotta su basi di massa. La difficoltà iniziale che si ebbe nel trovare uomini era un fenomeno abbastanza comprensibile, dato che si preferiva combattere in montagna con i partigiani dove, sebbene vi fosse il pericolo dei rastrellamenti, non si era isolati come invece lo era il gappista. E proprio questo isolamento dalle masse si è dimostrato essere stato il punto debole dell'organizzazione gappista; come infatti disse Italo Busetto, avvocato di estrazione borghese e uomo di grande cultura, " un' organizzazione gappista può svolgere un' insostituibile funzione detonante ma, per la natura stessa dei suoi compiti, è e deve essere isolata dalle masse e il protrarsi dell' isolamento la rende alla lunga vulnerabile" 10. Nell' inverno 1943-44 presero vita le Squadre di difesa su iniziativa del Pci, ma la stessa concezione di difesa da cui avevano tratto origine, risultò essere limitante per l'azione. Nel marzo del 1944 si ebbe la nascita delle Sap costituite da lavoratori che proseguivano la propria vita normale e ad essa intrecciavano la lotta armata: le azioni svolte dalle Sap comprendevano "la distribuzione di volantini, scritte sui muri, distruzione dei cartelli segnaletici stradali in lingua tedesca, ai quali segue il disarmo per strada prima di qualche milite fascista e in seguito di soldati tedeschi". Nonostante le loro azioni non fossero di tipo terroristico, ma soprattutto di propaganda e di disturbo che nel loro insieme non davano respiro al nemico, il ruolo svolto dalle Squadre d'azione patriottica risultò oltremodo importante poiché determinò le condizioni insurrezionali e portò ad una diretta partecipazione della classe operaia. Contemporaneamente alla nascita delle Sap, che determinò un aumento della pressione partigiana testimoniata da una crescita degli attacchi che dal 30 maggio al 28 giugno 1944 furono addirittura 132, la Repubblica Sociale per opporsi all'emergente forza dei partigiani chiamò alle armi le classi 1923, 1924 e 1925, ma molti disertarono la chiamata rischiando di essere condannati a morte. Tra giugno e luglio del '44 le azioni dei partigiani di città andarono di pan passo con quelle delle formazioni di montagna che occupavano interi territori, ridando la speranza di vedere l'Italia liberata: la risposta da parte dei tedeschi non si fece aspettare, e la tragedia arrivò all'alba del 10 agosto. Piazzale Loreto, terminale dei pendolari che ogni mattina si recavano a lavorare nelle fabbriche di Niguarda e Sesto San Giovanni, fu scelto come scenario della repressione tedesca, a causa della quale morirono quindici persone che, dopo essere state prelevate tra i carcerati antifascisti di San Vittore, furono fucilate per vendicare l'assalto ad un camion tedesco fatto saltare pochi giorni prima in viale Abruzzi. I tedeschi non si limitarono solamente a questo: " per tutta la giornata i cadaveri vennero tenuti in mostra sotto guardia armata e per tutta la giornata furono meta di un corteo ininterrotto di uomini e di donne in muto e raccolto pellegrinaggio"12. La risposta partigiana non si fece comunque attendere: la sera seguente una bomba garibaldina colpiva l'interno di un comando tedesco. L'inverno a cavallo tra il '44 e '45 si rivelò durissimo, con un susseguirsi di scontri tra le organizzazioni di rivolta e i militari nazifascisti. A ciò si aggiunse un peggioramento delle condizioni di vita dovute a razioni alimentari sempre più scarse, alla totale mancanza di combustibile e all'aumento vertiginoso del costo della vita. Come se non bastasse il 13 novembre il generale H.R. Alexander, comandante in capo dello scacchiere del Mediterraneo centrale, annunciò che "le operazioni alleate sul fronte italiano e l'invio di rifornimenti alla Resistenza venivano sospesi fino alla primavera. Nel frattempo i partigiani se ne tornino nelle loro case in attesa della buona stagione"13. Questo proclama demoralizzò ulteriormente i cittadini milanesi e permise ai nazifascisti di effettuare dei rastrellamenti più duri per ridimensionare la forza partigiana. Ancora una volta si dimostrò, però, indispensabile 1' intervento delle Squadre di azione patriottica che il 6 febbraio presero d'assalto contemporaneamente venti caserme e comandi nazifascisti collocati in diverse zone della città: questo episodio metteva in chiara luce la rinnovata e crescente forza raggiunta dalle formazioni partigiane. In quest'ultima fase un dato, di importante valore politico e sociale, risulta inoltre essere acquisito: la lotta contro l'oppressione nazifascista non era più prerogativa delle sole organizzazioni partigiane ma di tutti i cittadini milanesi. "Si passò quindi a un'ampia lotta di massa, che moltiplicava, oltre ai sabotaggi, agli assalti alle caserme a ai posti di guardia e alle uccisioni di militari isolati, i volantinaggi, le manifestazioni nei mercati rionali, nei luoghi di studio, nei cinema, i comizi volanti sempre sotto la protezione dei partigiani armati che godevano di crescenti margini di impunità davanti all'apparato repressivo nazifascista"14. Per il 25 aprile 1945 venne fissato lo sciopero insurrezionale che ebbe inizio alle ore 14.00; tutti i punti strategici della città vennero occupati dai partigiani. Il giorno seguente la città era completamente nelle mani delle forze sappiste; l' unico presidio che rimase in mano ai tedeschi fu il collegio dei Martinitt, ma questo oramai non costituiva più alcun tipo di pericolo. Il 29 aprile giunsero a Milano le forze alleate americane, ma ormai l'intera città aveva ripreso a vivere liberamente. "La città era ormai completamente libera da fascisti e da tedeschi in fuga"'s. Gli sforzi e i sacrifici compiuti dai componenti delle formazioni garibaldine, principali protagoniste della lotta armata in Milano, dai Gap e dalle Sap e da tutti i cittadini milanesi, venivano finalmente premiati con la libertà che dell' intervento americano aveva poco e nulla. Il lungo e sofferto periodo di lotte si concluse il 13 maggio 1945, giorno in cui " i partigiani consegnarono le armi: buona parte di quelli tra loro che avevano attraversato tutta la Resistenza lo faceva con il nodo alla gola e per il resto dei suoi giorni avrebbe recriminato su quanto si sarebbe potuto ottenere e non si ottenne. Ma erano in realtà solo un pugno di uomini e di donne. La stragrande maggioranza dei milanesi non era mai stata felice come in quei giorni. E forse non lo fu mai più" 16 III. La Resistenza e le lotte operaie alla Grazioli La Grazioli, fabbrica metalmeccanica apprezzata in Italia e in Europa per la produzione di torni, fresatrici, alesatrici ed altre produzioni meccaniche, ha da sempre occupato un posto di importanza rilevante nella vita di Milano e più in particolare della zona 15, sia durante gli anni della guerra sia nel periodo successivo. Per comprendere meglio gli avvenimenti che si sono verificati al suo interno, la storia della fabbrica può essere suddivisa in due grandi momenti: il primo coincidente con il fenomeno della Resistenza milanese ed il secondo riguardante il lungo periodo di occupazione della fabbrica ad opera dei lavoratori che cercarono con tutte le loro forze di evitare la chiusura dello stabilimento. 1. Gli anni della Guerra e della Resistenza alla Grazioli Nel vasto panorama di fabbriche e stabilimenti industriali che caratterizzava il tessuto urbano della Milano degli anni '40, la Grazioli si dimostrò di essere una delle più politicizzate e attive durante tutto il periodo di oppressione del regime fascista; ciò era dovuto alla presenza in fabbrica di numerosi operai antifascisti, che si riconoscevano nel Partito comunista e che abbracciavano fortemente gli ideali della libertà e della democrazia. I rapporti tra gli operai, nonostante i differenti ideali politici, erano molto buoni ed è importante sottolineare come "tra i lavoratori ci fosse un' unità di fondo e la lotta fosse sempre unitaria"17. L'unione che esisteva tra gli operai della fabbrica emergeva soprattutto nei momenti di lotta; infatti quando ci furono gli scioperi del marzo 1943, fatti dai lavoratori per ottenere migliori condizioni di vita, solo due su 500 operai e impiegati non presero Parte all'agitazione. Durante lo sciopero alcuni militari fascisti giunsero in fabbrica imponendo agli operai di riprendere l'attività lavorativa, ma nessuno di loro acconsentì alla richiesta e "per poco non li buttavano giù dalle finestre del primo piano...I quattro fascisti allora hanno portato via il capo del reparto di torneria, di nome Santoni (che non era nè fascista nè antifascista: era uno che lavorava e basta), accusandolo di non saper far lavorare gli operai. Allora si è visto un fatto clamoroso: tutti gli operai si sono messi in fila indiana per seguire il Santoni, come segno di solidarietà. Sulla porta i quattro fascisti con Santoni hanno incontrato Grazioli che, vedendo la mobilitazione degli altri operai, ha fatto liberare il capo reparto e ha umiliato i fascisti mandandoli via a malo modo"18. Lo sciopero, inoltre, venne protratto ancora per alcuni giorni rispetto alle altre fabbriche poiché quattro operai erano stati arrestati dai soldati tedeschi e portati al carcere di San Vittore; successivamente però vennero liberati. Gli episodi degli scioperi del '43 oltre a testimoniare l'unità operaia, rivelano anche che tra gli operai e Giacomo Grazioli vi era un ottimo rapporto, basato sulla stima e sul rispetto reciproco. Tra le personalità politicamente più attive all' interno della Grazioli durante il periodo della Resistenza ricordiamo in particolare Virgilio Gallazzi, comunista che negli anni '43-'45 andò a combattere nelle formazioni partigiane di montagna; Luigi Dulevio, esponente dei Gap e sfuggito alla morte quando vennero presi e fucilati in via Tibaldi Capliz, Abico, Del Sale e Alippi; Giuseppe Santagostini, partigiano di città; Pietro Ricaldone, uno dei capi della cellula clandestina presente nella Grazioli e membro del Partito comunista clandestino; ed infine Paolo Guffanti, che partecipò attivamente alle azioni di disturbo nei confronti dei nazifascisti. La testimonianza di quest'ultimo, che ci sembra particolarmente significativa, è riportata nel cap. X. Il 23 aprile 1945 un evento sconcertante, attorno al quale non è mai stata fatta chiarezza completa, sconvolse gli operai della Grazioli: l'uccisione di Giacomo Grazioli. Quel giorno un gruppo di gappisti si recò in fabbrica e dopo avergli letto la condanna a morte a nome del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) gli spararono al ventre. Secondo le testimonianze rilasciate dagli stessi operai della fabbrica, sembrerebbe che il motivo di tale atto fosse da ricercasi nella lista dei sedici operai da mandare in Germania che, alla fine del 1944, Giacomo Grazioli dovette consegnare ai soldati tedeschi. Ma sulle motivazioni, politiche o personali, di questo episodio non si è ancora fatta chiarezza. Dopo la morte di Grazioli la gestione dello stabilimento passò al consiglio di fabbrica, costituito dagli stessi operai che riuscirono a condurla nel miglior modo possibile utilizzando per la produzione dei macchinari tutto il materiale che era a loro disposizione nel magazzino, poiché in quel periodo "c'era il boicottaggio di tutte le fabbriche a direzione privata nei confronti di quelle che erano condotte da un consiglio di gestione...Il tutto per impedire che si affermassero le fabbriche a gestione politica, perché a dirigere queste c' erano ex partigiani, ex deportati: gente che aveva fatto la lotta politica nelle fabbriche e nei quartieri operai"'9. La gestione operaia durò fino al '47 quando il governo De Gasperi reinsediò la proprietà privata non riconoscendo più la precedente amministrazione politico-sindacale. La Grazioli ritornò quindi nelle mani dei proprietari e più in particolare di Aldo Grazioli, figlio di Giacomo Grazioli; ma dichiarato il fallimento nel '59-60 fu venduta alla Cale-Montanari. In questo periodo gli scioperi operai furono molto numerosi soprattutto per il contratto, ma anche per motivi politici: infatti "appena il presidente americano faceva qualcosa si faceva sciopero;...certi scioperi erano giustificati, però altri no" 20. Negli anni compresi tra il '62 e il '65, molti degli operai che appartenevano alla prima generazione e che avevano partecipato attivamente alla Resistenza e alle lotte operaie, vennero licenziati; altri invece se ne andarono di loro spontanea volontà. Ma tutti gli operai che per loro volere o per motivi di forza maggiore lasciarono la fabbrica, riuscirono comunque, per le capacità acquisite durante gli anni alla Grazioli, a trovare facilmente una nuova occupazione. 2. Le lotte operaie negli ultimi anni di vita della Grazioli Il secondo periodo che vide la fabbrica Grazioli partecipare in prima linea nella lotta sociale fu quello degli anni '70. All' inizio di questo decennio si ebbe l'entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori con cui vennero sanciti giuridicamente i diritti dei lavoratori e, tra l' altro, furono introdotti i permessi retribuiti per andare a scuola (le famose "150 ore"). Questa fase vide l'Italia coinvolta in una crisi economica dovuta alla svalUtazione della lira e al repentino aumento del prezzo del petrolio per decisione dei paesi arabi. Conseguenze principali furono la caduta degli investimenti e il ricorso massiccio alla cassa integrazione per migliaia di operai, che in molti casi si rivelò come 1' anticamera del licenziamento. Nella sua piccola ma esemplare realtà la Grazioli ha reagito alla difficile situazione con la forza e l' unità dei suoi lavoratori. Approvato lo Statuto dei Lavoratori e raggiunta l' unità sindacale che "legava il socialista al democristiano e il repubblicano al comunista" 21, fu perseguita anche l'unità tra impiegati ed operai, unità che fino a pochi anni prima era impensabile, poiché i primi si consideravano privilegiati rispetto ai secondi. Questo legame portò gli operai, nel '71 -'72, a lottare per evitare il licenziamento di nove impiegati. Camillo Cabrini, uno dei più attivi operai della fabbrica, ricorda così quell' episodio: "abbiamo discusso a lungo per convincere tutti dicendo agli operai: questi impiegati sono figli di operai, possono essere anche vostri figli, quindi vanno difesi come figli di lavoratori...Bloccammo l'azienda per costringerla a tornare sui suoi passi. Era il 1972 ed era una lotta veramente dura, fatta di sacrifici enormi, perché voleva dire correre il rischio di farsi licenziare. Da questa lotta siamo usciti vincenti costringendo la direzione della fabbrica a riassumere i nove impiegati: questo fu il risultato dell' unità tra operai e Purtroppo anche la gestione della Grazioli da parte della Carle-Montanari si rivelò infelice, nonostante che i primi due anni si siano rilevati produttivi. Il 28 luglio 1975 gli operai ricevettero 187 lettere di licenziamento a causa della mancanza di risorse finanziarie per il rinnovo dei contratti e per il rilancio dell' attività produttiva. La convinzione da Parte dei lavoratori di essere ancora competitivi sui mercati italiani ed europei e la incessante voglia e necessità di lavorare, portarono gli operai a porre un presidio davanti all'entrata della fabbrica: " una tenda da campeggio azzurra, un tavolino, qualche sedia e una lampada a petrolio per la notte. Si alternano a turni di una decina...visi tirati, occhi cerati, poco inclini al sorriso... Ancora non ci possono credere che la fabbrica chiuderà. Guardano la lettera di licenziamento e scuotono il capo. Ma con ferrea decisione ogni giorno si siedono davanti al cancello della fabbrica di via De Sanctis, a montare la guardia, a salvaguardare il posto di lavoro" 23 . Trascorse le ferie gli operai, che avevano passato tutta 1' estate nella tenda posta all' entrata della Grazioli, cercarono in tutti i modi di riprendere 1' attività lavorativa, ma ciò non fu per niente facile poiché le guardie lo impedirono; solo grazie al piano messo in atto dall' operaio sindacalista Camillo Cabrini e da alcuni suoi compagni, che inventarono la scusa di dover andare in bagno per poter entrare e occupare la fabbrica, rischiando così la galera per violazione di proprietà privata, i lavoratori riuscirono a riappropriarsi dello stabilimento. La lotta per impedire la chiusura della Grazioli durò per tre mesi e in tutto questo tempo gli operai vennero supportati dall'appoggio morale ed economico dei cittadini della zona 15: "i lavoratori della Grazioli riescono ancora a trovare tanti cittadini e democratici capaci di dimostrare loro, con la semplicità che è propria della gente che lavora, una grande, fraterna solidarietà" 24. Alla fine si riuscì a trovare un proprietario che acquistò la fabbrica, il gruppo Rosso, ma questo si dimostrò incapace e "piegò la Grazioli" 25 fino a causarne il fallimento. I nove anni di gestione da parte di quest'ultimo proprietario, infatti, si rivelarono disastrosi non solo per la produzione, che andò via via peggiorando, ma soprattutto per il clima interno alla fabbrica: il Rosso voleva infatti liberarsi degli operai sindacalizzati rap- presentanti l'unità dello stabilimento, per evitare eventuali contrasti dovuti alla gestione poco efficiente e trasparente della fabbrica. Nel '82 il Rosso venne arrestato per bancarotta fraudolenta e falso in bilancio, poiché aveva rubato alle aziende del suo gruppo ben 17 miliardi. Successivamente gli operai cercarono con tutte le loro forze di trovare un ennesimo proprietario e reinserire la Grazioli nel tessuto produttivo; vi furono sette incontri in Regione con il sostegno del Consiglio di Zona 15 nella persona del presidente Cavenaghi e del consigliere Pezzoni. Dall"84 all"87 gli operai occuparono la fabbrica, consapevoli del fatto che la situazione in cui si trovava la Grazioli era dovuta a motivi di gestione e non alla mancanza di commesse. I tre anni di occupazione della Grazioli furono caratterizzati dall'enorme aiuto apportato da tutto il quartiere agli operai attraverso il sostegno morale ed economico: infatti per quanto fossero in cassa integrazione, i lavoratori vedevano ben di rado lo stipendio. Consistenti erano le donazioni di viveri e di denaro, come risulta da un articolo di giornale di quegli anni: "le riserie Gariboldi hanno inviato un quintale di riso, i lavoratori di un supermarket che vogliono mantenere l'anonimato 85 chili di pasta, un pensionato anch'egli anonimo 5.000 lire...Gli operai del Cederna hanno sottoscritto un'ora di lavoro (558.000 lire)"26. Non solo i cittadini sostennero la causa degli operai della Grazioli, ma anche l' arcivescovado si pose in prima linea per la difesa di questa fabbrica e dei suoi lavoratori: vennero così abbattute le storiche barriere tra comunisti e democristiani, tra laici e cattolici. L'intervista a Camillo Cabrini sottolinea molto bene questo fatto, che si può ricordare come un'ulteriore conquista ottenuta dagli operai: "la cosa più impressionante è stato l'appoggio dei preti, persone estremamente oneste. Addirittura preti della curia milanese mi diedero soldi, e non pochi, per mandare avanti la lotta, a vantaggio di tutti quegli operai, senza distinzione tra comunisti e democristiani....Dai soldi della curia noi attingevamo per aiutare le famiglie più bisognose, i casi più drammatici. Con quei soldi aiutavamo a pagare l'affitto a qualche lavoratore, senza però assicurare una specie di salario minimo. Da altri enti soldi non ne abbiamo avuti". 27 Anche i bambini delle scuole del quartiere dimostrarono il loro appoggio ai lavoratori delle Grazioli: dal 1° al 7° ottobre 1984 venne organizzata infatti una settimana di solidarietà con gli operai che da oltre 300 giorni occupavano la fabbrica. Durante l'ultimo giorno di quella settimana, trascorsa tra canti, spettacoli e concerti di artisti, furono esposti su alcuni pannelli numerosi disegni eseguiti dai bambini che nei giorni precedenti avevano visitato la fabbrica e che vennero poi raccolti in un piccolo ma preziosissimo libretto. Nonostante gli sforzi compiuti dagli operai, questi non riuscirono a trovare una via di salvezza per impedire la chiusura della fabbrica, dato che gli Svizzeri, unici possibili acquirenti, preferirono abbandonare l'acquisto per il limitato margine di contrattazione sul prezzo imposto dalla Regione. Nel 1987 il curatore fallimentare decise di chiudere la Grazioli dopo oltre 700 giorni di occupazione: vendette le macchine in essa contenute e il terreno (sul quale sarebbe dovuto nascere l'hotel Quark2, che fu invece costruito su uno spazio vicino) per la cifra di sette miliardi e mezzo. Gli operai dovettero abbandonare lo stabilimento, ma molti di questi riuscirono a trovare un' altra sistemazione, grazie alla legge 444, soprattutto nell' ambito dell' amministrazione pubblica. La fabbrica è rimasta un rudere per parecchio tempo, quasi a ricordare gli sforzi e le sofferenze provate dai suoi operai, fino alla demolizione tuttora in corso per far posto ad un insediamento residenzia- le. IV. Sintesi La chiusura della fabbrica Grazioli ha segnato la fine di un'importante pagina della storia milanese, che spesso viene dimenticata dalle nuove generazioni, poiché ritenuta ormai troppo lontana dalla realtà dei giorni nostri. Ripercorrendo le vicende che si sono susseguite dagli anni della Resistenza fino ad arrivare agli ultimi giorni dell' occupazione operaia della Grazioli, ci siamo accorti che esistono piccole realtà storiche meritevoli di una maggiore attenzione poiché riguardano da vicino la vita di persone comuni che hanno lottato e si sono battute con tutte le loro forze per portare avanti e sostenere gli ideali in cui credevano. La Grazioli rappresenta una di queste realtà; i suoi operai infatti hanno sempre cercato di sostenere fino in fondo gli ideali della libertà, della democrazia e del lavoro. Per questi uomini la fabbrica non ha rappresentato solo un posto di lavoro, ma un vero e proprio centro di socializzazione che ha riempito le loro vite dando modo di maturare sia dal punto di vista delle capacità lavorative sia sul piano personale: "si andava a lavorare non solo per prendere uno stipendio... c' era la mensa e tutta una serie di altre cose, che garantivano condizioni di lavoro piuttosto interessanti... gli operai più esperti erano sempre molto disponibili... i rapporti umani erano buoni... c'era anche molta amicizia, perché capitava abbastanza spesso di trovarci tra amici fuori per andare a mangiare insieme o fare qualche altra cosa, pur non abitando nello stesso quartiere"28. I L. Borgomaneri, La Resistenza armata in Milano, in AA. VV., Conoscere la Resistenza, Unicopli, Milano 1994, p.21. 2 Ivi, pag. 20. 3 G. Gavalazzi - G.Falchi, La storia di Milano, Zanichelli , Bologna 1989, p.167. 4 L. Borgomaneri, op. cit., p. 22. 5 G. Petrillo, La Resistenza a Milano, in F. Della Peruta (a cura di), Storia illustrata di Milano. Seconda Guerra Mondiale, vol. 4, E. Sellino Ed., Milano 1997, p. 159. 6 L. Borgomaneri, op. cit., p. 26. 7 L. Borgomaneri, Due inverni, un estate e la rossa primavera, E Angeli, Milano 1985, p. 86. 8 L. Borgomaneri, La Resistenza armata in Milano, cit., p.27. 9 Ivi, p. 23. 10 Ivi, p. 27. 11 Ivi, p. 28. 12 G. Petrillo, op. cit., p. 168. 13 L. Borgomaneri, op. cit., p. 30. 14 G.Petrillo, op. cit., p. 170. 15 Ivi, pag. 173. 16 Ivi, pag. 174. 17 Intervista a Paolo Guffanti, ex operaio della Grazioli. 18 Intervista a Virgilio Galazzi, ex operaio della Grazioli. 19 Intervista a Paolo Guffanti, cit. 20 Intervista a V.S, operaio che vuole mantenere l'anonimato. 21 Intervista a Camillo Cabrini, ex operaio e sindacalista della Grazioli. 22 Ivi. 23 Cfr. Grazioli: "presidio" anche a Ferragosto, in "Il Giorno". 24 Cfr. Ferie davanti alla fabbrica per gli operai della Grazioli, in" L' Unita". "Intervista a Camillo Cabrini, cit. 26 Cfr. Secondo Natale nella Grazioli presidiata, in "L'Unità", 21 dicembre 1985. 27 Intervista a Camillo Cabrini, cit. 28 Intervista a Renzo Pignatel, ex operaio della Grazioli. [didascalia immagine: ]Foto 5: chiodi a 4 punte, preparati segretamente dagli operai della Grazioli per fermare i camion tedeschi negli anni della Resistenza. [didascalia immagine: ]Foto 6: Camillo Cabrini, delegato della Grazioli all'Assemblea Nazionale dei delegati F.L.M., Rimini 1979 (seconda fila, primo a sinistra) - VI - Emanuela Barra e Stefania Anania IL SISTEMA PRODUTTIVO DELLA GRAZIOLI COME INDUSTRIA MECCANICA 1. In che cosa consiste un'industria meccanica Per industria meccanica si intende un insieme di mezzi di produzione organizzati per trasformare materie prime (metalli) in utensili di genere meccanico. La Fabbrica Grazioli, fondata nel 1935, era un'industria meccanica che produceva macchine utensili, cioè macchine a motore, generalmente su postazione fissa, usate per eseguire lavorazioni diverse su materiali solidi. Secondo una definizione restrittiva, erano considerate macchine utensili solo quelle impiegate per eseguire lavorazioni che implicano asportazione di materiale sotto forma di truciolo; mentre, secondo la definizione più estensiva e moderna, le macchine utensili possono essere classificate in tre categorie: convenzionali ad asportazione di truciolo, convenzionali per deformazione plastica, non convenzionali. Alla Grazioli si producevano quelle convenzionali ad asportazione di truciolo: torni, fresatrici, alesatrici e rettificatrici. 2. Cenni storici Si ritiene che le prime macchine utensili nel senso moderno del termine siano l'alesatrice per superfici cilindriche interne costruite verso il 1775 dal britannico John Wilkinson e il tornio parallelo per filettature sviluppato intorno al 1794 da Henry Maudslay. Nel 1830 Joseph Whitworth diede grande impulso all'utilizzo di queste macchine, realizzando strumenti di misura che garantivano una precisione dell'ordine di un centesimo di millimetro e consentivano la produzione in serie di articoli con parti sostituibili. Nel XIX secolo le comuni macchine utensili (torni, limatrici, piallatrici, rettificatrici, segatrici, fresatrici, trapanatrici e alesatrici) raggiunsero un buon grado di precisione ed ebbero ampia diffusione nei paesi industrializzati. Macchine utensili più grandi e precise furono costruite nei Primi anni del XX secolo e a partire dal 1920 iniziò la produzione di macchine specializzate. Queste macchine consentivano una produzione di serie a basso costo, ricorrendo anche a manodopera non specializzata, ma erano poco flessibili e non adatte alla lavorazione di prodotti differenziati o a cambiamenti della produzione di serie. Per ovviare a questa limitazione, dal 1950 furono realizzate macchine utensili altamente versatili e precise, sempre più spesso comandate da una centrale computerizzata (le cosiddette macchine a controllo numerico) 1. Giacomo Grazioli, il fondatore della fabbrica, si distinse dagli altri imprenditori del suo tempo perché diede molta importanza allo sviluppo tecnologico, creando così un sistema produttivo all'avanguardia e incoraggiò l'utilizzo di manodopera altamente qualificata. 3. Come e cosa produceva la Grazioli Il successo della Fabbrica Grazioli fu dovuto principalmente al suo fondatore che, pur non avendo un titolo di studio qualificato, ideava da sé le macchine per poi affidarne il progetto a ingegneri e tecnici, i quali comunque rappresentavano un'esigua parte del personale. Alcuni operai raccontano che disegnasse in modo approssimativo il macchinario sul pavimento servendosi di gesso, per spiegare ai suoi collaboratori quali fossero le sue aspettative. Queste macchine erano così innovative e precise che furono richieste da tutti gli Istituti Tecnici e da molte fabbriche, italiane (Ansaldo) e straniere (foto 7, 8, 9, 10, 11 e 12). La qualità dei prodotti finiti era molto apprezzata anche perché nella Grazioli si trovava solo manodopera altamente specializzata, che di conseguenza riceveva uno stipendio leggermente più alto rispetto alla media. A questo fine fu aperta nel 1939 una scuola per apprendisti (foto 4), che prevedeva un corso di tre anni retribuiti, in cui venivano impartite nozioni sia di cultura generale, sia di tecnologia meccanica alternate a ore di laboratorio. Nel libro di testo utilizzato, scritto da Corrado Cangioli, si parla innanzitutto di unità di misura e strumenti di misurazione, proprietà chimico-fisiche dei metalli e della loro lavorazione a mano o a caldo (altiforni), di leghe metalliche e delle loro proprietà, di formatura (ossia della preparazione di stampi in terra di utensili utilizzando dei modelli), di tutti i possibili difetti di produzione per poi arrivare a illustrare il funzionamento delle macchine utensili. In questo modo gli operai acquisivano un'alta consapevolezza del loro lavoro. Inoltre, la precisione dei macchinari Grazioli era garantita da una serie di rigidi controlli che venivano eseguiti sul prodotto finito. Queste le ragioni per cui anche al momento della chiusura, dovuta ad una cattiva gestione dell' impresa, la domanda di macchinari non ebbe mai periodi di crisi, nonostante che il reparto di verniciatura non fosse organizzato al meglio. Il tornio è senza dubbio la macchina utensile più antica e più importante; "più antica, in quanto ce ne danno un esempio gli schizzi e modelli del grande Leonardo da Vinci, il cui tornio nella sua rudimentalità è senza dubbio un diretto progenitore dei torni moderni; più importante, poiché con esso si possono fare un'infinità di organi meccanici con una rapidità che non è consentita a nessun altro tipo di macchina."' Il moto fondamentale è un moto rotatorio del pezzo intorno al proprio asse, mentre il moto di alimentazione viene impresso all'utensile per mezzo di opportune slitte, cioè viene avvicinato, allontanato o fatto avanzare parallelamente all'asse del pezzo in lavoro. Nel frattempo un utensile tagliente asporta il materiale in eccesso rispetto alla forma voluta. Esistono diversi tipi di tornio: il revolver semiautomatico o automatico, il tornio a patrona, il tornio verticale e il tornio parallelo. Tra tutti questi, il più richiesto e, di conseguenza quello che veniva prodotto in quantità maggiore nella Fabbrica Grazioli, era il tornio parallelo, una macchina utensile che permette di produrre superfici cilindriche, coniche e piane e di eseguire lavori di foratura, alesatura (ossia di ingrandimento di buchi già esistenti) o di filettatura. Esso è costituito da un banco di ghisa che sostiene tutti gli altri meccanismi e serve da superficie di scorrimento per il carro. La parte superiore, ben piana e levigata, possiede due o più guide perfettamente parallele all'asse del tornio (ciò è indispensabile per la buona riuscita del lavoro). Questo banco viene sottoposto ad una stagionatura artificiale, rimanendo esposto in maniera alternata a temperature molto elevate o molto basse, e rettificato per le deformazioni avvenute. All'estremo sinistro del banco è fissata la testa motrice (punta), che sostiene a sua volta l'albero principale, il quale è internamente cavo e rende possibile la lavorazione della sbarra. Inoltre, dispone di sei o otto velocità che permettono di scegliere la più adatta, a seconda dei diametri e del materiale che si lavora. Per ottenere una buona esattezza nelle lavorazioni, è da osservare in modo scrupoloso che l'asse dell'albero sia perfettamente parallelo al piano ed alle guide del bancale. All'altro estremo del banco vi è la contro punta (tappo mobile), scorrevole sulle guide (vi è in fatti un volantino a vite che consente i piccoli movimenti del manicotto nel quale è contenuta) e munita di un bullone e di una leva per poterla fissare nella posizione voluta. La punta, situata nella testa motrice, e la contropunta determinano l'asse geometrico del tornio, attorno al quale deve ruotare il pezzo da lavorare; quindi è importantissimo che la retta che unisce punta e contropunta sia perfettamente parallela alle guide del tornio, in qualunque posizione del banco si trovi la contropunta. Per la produzione di superfici coniche vi è una vite di registro , che permette di muovere trasversalmente il manicotto rispetto alla base; in questo modo l'asse di lavorazione del tornio si inclina di un certo angolo rispetto all'asse dell'oggetto da tornire. Nella parte centrale del bancale e parallelamente all'asse del tornio, scorre il carrello, che è formato da quattro slitte sovrapposte: la prima, disposta in senso trasversale, serve da base e sostiene tutte le altre; la seconda, scorrevole sulla prima attraverso guide, è comandata da una vite che può essere mossa sia a mano, sia per mezzo di un apposito meccanismo; la terza ruotante attorno ad un asse verticale, serve da sostegno alla quarta slitta porta utensile, la quale, mossa solo a mano e per piccoli spostamenti, può assumere qualunque orientamento nel piano orizzontale. Con i movimenti combinati della seconda e della quarta slitta è possibile ottenere qualunque forma di solido. Nella parte anteriore del carrello è sistemato il grembiale, in cui sono racchiusi i meccanismi per il comando longitudinale del carro e trasversale della slitta. Il moto del grembiale viene trasmesso dalla testa motrice attraverso una scatola cambio e una sbarra (cadela) sistemata parallelamente al bancale, oppure attraverso una quaterna di ruote dentate e una vite (vite madre). Un altro ingranaggio, posto nella testa motrice e comandato da una leva esterna, permette di ottenere l'inversione di moto del carro e della slitta. Il collaudo del tornio studia e verifica tutta la sua costruzione nei più minuti particolari, poiché questa macchina deve essere eseguita con la massima cura e con la più grande Perfezione per poter assicurare la dovuta precisione degli organi che da essa verranno prodotti. " Ai nostri tempi la preoccupazione degli operai era soltanto il lavoro, ci dedicavamo a lavorare bene, dato che una macchina doveva durare, doveva essere precisa, doveva essere fatta coscientemente. Le nostre macchine dovevano essere precise perché servivano a fabbricarne altre: macchine da scrivere, ecc.."3 I controlli sui singoli pezzi e sul prodotto finito erano così severi da accettare errori di fabbricazione solo nel caso in cui fossero dell'ordine dei centesimi di millimetro. "Tutti i Pezzi, quindi, erano accompagnati da fogli di collaudo e c'era, evidentemente, il collaudo finale della macchina, con due meccanici che si occupavano di questo. Su un centinaio di persone, nel periodo in cui lavoravo io, c'erano un addetto al collaudo dei pezzi e due addetti al collaudo finale. C'erano insomma alcune persone distaccate dalla produzione che avevano il compito di "fare le pulci" a chi produceva, il che era abbastanza significativo".4 I torni che garantirono il successo della Grazioli furono il Fortuna e il Dania, richiesti in grande quantità a causa della loro ottima efficienza. Dopo il tornio, la fresatrice è la macchina più importante per l'officina meccanica, in quanto ci dà la possibilità di eseguire infinite lavorazioni più o meno complesse. Con essa si possono fare piani, sagomature, scanalature varie (rettilinee o ad elica), raccordi dentature di ruote, viti, lavori di alesatura, canali interni. Il moto fondamentale o di lavoro è un moto rotatorio dell'utensile intorno al proprio asse e un moto di avanzamento del pezzo in lavoro. Nell'avanzamento si possono avere tre movimenti, dei quali uno è verticale e gli altri due orizzontali a croce; inoltre è possibile ottenere anche il moto rotatorio del pezzo in lavoro, il quale a sua volta può essere contemporaneo a quello trasversale. La macchina si compone del corpo principale in ghisa il quale sostiene tutte le altre parti. Nella parte superiore è sostenuto il mandrino che è collegato ad una serie di ruote dentate per il cambio di velocità. Nella parte anteriore del mandrino vi è un cono interno che serve per il fissaggio degli alberi porta utensili, mentre la parte posteriore è collegata ad un ingranaggio che trasmette il moto a tutti i comandi automatici. La parte anteriore del corpo in ghisa serve da piano di scorrimento verticale con guide laterali per una robusta mensola sulla quale sono poggiate due slitte: la prima, scorrevole su guide, si muove trasversalmente all'utensile; su di essa poggia una base di sostegno ruotante per circa 90° in un piano orizzontale e porta una lunga slitta che si muove parallelamente all'utensile per mezzo di una lunga vite e che serve come piano d'appoggio e fissaggio per il pezzo in lavoro. Tutti i movimenti delle diverse slitte possono venire effettuati sia a mano sia automaticamente, attraverso cambi, per ottenere la velocità di spostamento desiderata. Nelle normali lavorazioni la punta tagliente è portata da un albero infisso nel cono del mandrino, mentre all'altro estremo è sostenuto da un robusto supporto che ne ostacola le vibrazioni. Invece, per lavorazioni più complesse, come per esempio il taglio di ruote dentate, si rende indispensabile il divisore che è l'organo più caratteristico delle fresatrici universali perché è quello che permette il moto rotatorio del pezzo. Esso è composto da una vite madre (alla quale viene trasmesso un movimento) collegata ad una quaterna permutabile di ruote dentate; queste a loro volta, attraverso un'altra ruota, imprimono il movimento a un albero trasversale sul quale è montata una vite che, grazie ad un ulteriore ingranaggio, mette in movimento rotatorio l'albero a cui è fissato il pezzo da lavorare. La rotazione del pezzo è ottenibile anche manualmente attraverso una manovella fissata all'estremo libero dell'albero trasversale. Tutto il dispositivo di questo apparecchio è racchiuso in un blocco cilindrico che può ruotare intorno ad un asse orizzontale, anche di 360°, sopra un basamento che serve per il fissaggio sul banco della macchina. La costruzione di questa macchina, perché sia precisa, richiede molta cura e scrupolosità poiché, dato il numero delle slitte che essa comporta, ogni piccola imperfezione verrebbe sommata arrivando a valori non ammessi dalle tolleranze normali che anche in questo caso sono dell'ordine dei centesimi di millimetro. Due modelli importanti di fresatrice universale prodotti alla Fabbrica Grazioli furono la Ludor 2U e la Esse 80. Anche se in quantità minore alla Fabbrica Grazioli venivano prodotte anche alesatrici e rettificatrici. L'alesatrice è una macchina utensile con la quale si allargano fori già esistenti, principalmente con lo scopo di migliorarne il grado di finitura. Esse possono essere verticali, orizzontali o universali ( cioè con la possibilità di variare la disposizione dell'asse di lavoro) e in genere impiegano un utensile particolare, la barra alesatrice, che può lavorare su fori cilindrici o conici di notevoli dimensioni. Con queste macchine, che spesso sono automatiche e a utensili multipli, si è anche in grado di eseguire filettature o scanalature circolari. La rettificatrice attraverso mole abrasive asporta materiale dal pezzo in lavorazione ed è quindi utilizzata per lavorazioni di finitura superficiale. 4. Sintesi La nostra breve indagine storico-tecnologica spiega i motivi per cui la fabbrica Grazioli, lungo tutto il corso della sua esistenza, ha avuto un grande successo riconosciuto non solo in Italia, ma anche all'estero. In primo luogo, Grazioli fu l'unico industriale del suo tempo a fondare una scuola per apprendisti, dove essi acquisivano tutte le nozioni che avrebbero permesso loro di svolgere il proprio lavoro con maggior consapevolezza e di conseguenza in modo migliore. Per raggiungere questo obiettivo chiese l'aiuto di un perito industriale, Corrado Cangioli, per scrivere un manuale. Alla preparazione degli operai aggiunse anche un rigido controllo del prodotto finito. Inoltre, l'importanza data da Grazioli allo sviluppo tecnologico, in un periodo in cui accadeva solitamente il contrario, fece sì che le macchine utensili da lui prodotte si dimostrassero tecnologicamente avanzate rispetto alla situazione italiana e europea. Di conseguenza i torni e le frese Grazioli erano così precisi e innovativi che portarono la fabbrica alla ribalta, conferendole un'importanza storica. "La lotta contro la chiusura della Grazioli è stata intensa e molto partecipata, perché era una fabbrica storica. Con la sua chiusura e l'abbattimento della struttura se ne va un pezzo della nostra vita e della nostra storia"5 . 1 Tratto dalla voce "macchine utensili" dell'enciclopedia digitale Microsoft Encarta 1998 2 C. Cangioli, Tecnologia Meccanica, edizione fuori commercio, Milano, 1939, pag. 158 3 Tratto dalla testimonianza di un ex operaio della Fabbrica Grazioli, V. S. , che vuole mantenere l'anonimato 4 Tratto dalla testimonianza dell'ex operaio Renzo Pignatel 5 Tratto dalla testimonianza dell'ex operaio Alberto Pattè [immagine] [immagine] [immagine] [immagine] [immagine] - VII - Giorgio Mitscheunig e Andrea Negri LA GRAZIOLI DAL DOPOGUERRA ALLA CHIUSURA A METÀ DEGLI ANNI OTTANTA 1. Premessa Si pensa troppo spesso che la storia di una fabbrica riguardi e interessi solo gli operai e le persone che lavorano e sono direttamente legate ad essa: invece dall'esempio della Grazioli si può comprendere come le vicende di una azienda interessino tutto un quartiere che gravita su di essa. In questa relazione ci siamo interessati del periodo che va dal dopoguerra fino alla chiusura della fabbrica nel 1987. Questo periodo fu caratterizzato da continui alti e bassi nella produzione, che furono spesso dovuti ad una cattiva gestione dell'azienda stessa e a problemi sindacali. Ad aggravare questa situazione contribuirono i continui passaggi di proprietà della fabbrica che influivano negativamente su una produttività, che nonostante tutto, rimaneva di buon livello. La fabbrica andò incontro a due grosse crisi: una nel 1975 fu risolta grazie alla sua cessione, l'altra nel 1982 portò al definitivo fallimento ed alla chiusura. La storia di questa fabbrica è stata da sempre caratterizzata da una grande partecipazione di tutti i cittadini della zona sin dalle sue origini. Si può ricordare come nell'immediato dopoguerra la Grazioli era diventata un nucleo di resistenza politica e un esempio, un punto di riferimento di lotta sociale per tutta la zona. Così nel 1975 e nel 1982, quando la fabbrica era occupata dagli operai, i cittadini si dimostrarono molto vicini a loro attraverso aiuti economici e materiali (cibi, coperte, vestiti, ecc.), evidenziando tutto il loro attaccamento verso quella che non poteva essere considerate semplicemente una fabbrica, ma un importante nucleo d'aggregazione sociale nel Sud di Milano. 2. Grazioli: la sua storia a) La riconversione e la gestione operaia "Alla fine di dicembre del 1945, grazie alla lotta di liberazione sostenuta contro il nazifascismo, in Italia - a differenza che negli altri paesi sconfitti - il regime di occupazione era cessato, lasciando agli italiani stessi il compito di definire il nuovo assetto da dare allo Stato e alle istituzioni."' Un problema molto grave in questo senso riguardava l'industria e la sua riconversione. Nelle fabbriche, durante il periodo dell'insurrezione e della liberazione dal nazi-fascismo erano sorte forme di potere operaio che di fatto esautoravano le vecchie direzioni aziendali e gli stessi imprenditori, che di conseguenza avevano lasciato il loro posto e si erano rifugiati all'estero portandosi dietro molto spesso anche i capitali. Una di queste forme di potere operaio era costituita dai cosiddetti Consigli di gestione, organismi formati dalle rappresentanze dei lavoratori, giuridicamente riconosciuti. Ma l'opposizione a questi organismi da parte della proprietà, della Confindustria e dell'asso- ciazione lombarda dei dirigenti di azienda, fu accanita a tal punto che le elezioni dei lavoratori all' interno della fabbrica furono spesso boicottate. Il ruolo molto importante dei Consigli di gestione era quello di consentire una ripresa generale dell'economia e di ciascuna azienda, riportando all'interno di essa ordine e disciplina, condizioni necessarie per riattivare e incrementare la produzione economica attraverso una maggiore coesione fra gli operai con lo scopo della realizzazione del bene comune. In molte situazioni essi riuscirono a dare prova di grandi capacità e soprattutto di un grande entusiasmo realizzativo e costruttivo, unito ad un forte potere contrattuale e politico. L'economia, la base su cui si puntava per far superare al paese questo difficile momento, stentava a riprendersi. "Molti erano gli impianti distrutti; le fabbriche che prima lavoravano per la guerra avevano il problema di riconvertire la produzione; erano sovraccariche di dipendenti senza lavoro che però non potevano essere licenziati e nel frattempo anche i disoccupati erano moltissimi: I Consigli di gestione e le commissioni interne ebbero un ruolo fondamentale nell'opporsi alle trattative sugli "alleggerimenti di manodopera", ovvero i licenziamenti concordati con le direzioni aziendali: nonostante questi sforzi il risultato non fu quello sperato e si andò incontro a una riduzione del personale che riguardò principalmente le donne. Si cercò di ovviare ai problemi di una città, Milano, che doveva uscire dalla forte crisi dovuta alla guerra, progettando un Piano regolatore, ovvero uno strumento ordinatore della città che stabiliva la distribuzione sul territorio delle nuove industrie, inserendole in un contesto urbano già molto ricco di fabbriche. La Grazioli, nata per opera di Giacomo Grazioli nel 1928, era appunto una fabbrica già ben integrata nel tessuto milanese. Lo stabilimento, divenuto famoso grazie alla produzione di torni, fresatrici e altri macchinari utensili di questo genere, si era poi ingrandito in tempo di guerra fino ad arrivare a dare lavoro a circa ottocento operai. Questo grande sviluppo era stato permesso dai capitali accumulati grazie alla vendita a livello internazionale (oltre che nazionale) di macchine qualitativamente ottime e tecnologicamente avanzate, frutto della creatività del fondatore e della professionalità di tutto il suo gruppo tecnico e operaio. Con la morte di Giacomo Grazioli, avvenuta il 24 aprile 1945 per opera di un gruppo di sedicenti partigiani, venne meno quella forte spinta innovativa che aveva caratterizzato lo sviluppo della fabbrica sin dalle sue origini e incominciò quella fase di declino, che stava accomunando una parte del tessuto industriale milanese. La fabbrica passò in questo modo nelle mani degli operai tra gli anni '46-'47: fu una gestione molto difficoltosa per diversi motivi e sotto diversi aspetti. In primo luogo "negli anni della gestione operaia le banche avevano chiuso i finanziamenti ed i rifornimenti di ferro e di materiali"' cosicché gli operai furono costretti ad accontentarsi di quel poco materiale che era rimasto nei magazzini. Grazie proprio ai molti torni che erano stati fabbricati in sovrappiù precedentemente, la fabbrica riuscì a mandare avanti comunque l'attività durante un periodo che non favoriva la riconversione della produzione industriale; nonostante tutti questi sforzi però una parte della clientela cominciò ad allontanarsi. Su questo aspetto ci sono due posizioni nettamente distinte: l'una, portata avanti dagli operai, vede la diminuzione delle vendite come effetto della concorrenza di altre fabbriche come la Tovalieri di Busto Arsizio, la Pasquini di Milano, la Saimp di Padova ecc.; l'altra, portata avanti dalla famiglia Grazioli, vede le cause del fenomeno nella difficile gestione causata da problemi di rapporti con i dipendenti e da altre cause di secondo piano. In secondo luogo la fabbrica cominciò ad essere boicottata perché la conflittualità operaia non era vista di buon occhio dalla Confindustria e dalle associazioni locali, in quanto aveva portato come conseguenza una cattiva gestione unita ad un aumento ingiustificato degli scioperi e ad una lievitazione dei salari. C'era anche "il boicottaggio di tutte le fabbriche a direzione privata nei confronti di quelle che erano condotte da un consiglio di gestione, come la Grazioli. Per esempio, la Franco Tosi ci sabotava in quanto rallentava a mandarci i pezzi. Il tutto per impedire che si affermassero le fabbriche a gestione politica, perché a dirigere queste c'erano ex partigiani, ex deportati."' D'altro canto gli operai avevano una visione che divergeva per molti aspetti: "La gestione operaia funzionava: poteva funzionare bene, ma c'era chi si rilassava da una parte chi dall'altra, senza impegnarsi come di dovere. La fabbrica in termini produttivi in quel periodo ha retto bene perché c'erano gli operai che erano coscienti, che ce la mettevano tutta. Poi c'erano i dirigenti che o erano incompetenti, o se ne approfittavano, e allora le cose cominciarono ad andare male."' Aumentando il potere operaio all'interno della fabbrica aumentò anche la politicizzazione, ovvero la partecipazione degli operai alla vita politica e sindacale. Tutti gli operai che lavoravano in quell'epoca possono confermare questo fatto anche in base ai dati: circa il novanta per cento degli operai erano iscritti regolarmente ai sindacati (soprattutto alla CGIL), anche se c'erano persone che non vedevano di buon occhio questa situazione. Infatti la grande partecipazione alla vita sindacale aveva portato molti scioperi nella fabbrica che influivano negativamente sulla produzione industriale, già scarsa e sul guadagno di ogni singolo dipendente. b) Il ritorno della famiglia Grazioli e la prima crisi La gestione operaia è durata fino al 1947, quando il governo De Gasperi non riconobbe più ed abolì i consigli di gestione delle fabbriche e reinsediò le proprietà, cosa che riportò alla guida della Grazioli la famiglia sotto la direzione di Aldo, un giovane imprenditore poco preoccupato degli interessi della fabbrica. In realtà la proprietà era di tutta la famiglia Grazioli (madre, due figlie ed un figlio), ma chi gestiva direttamente la fabbrica era il figlio: direttore generale era Colombo mentre Zani e Falcetta erano dirigenti con differenti cariche. " La gestione di Aldo Grazioli è durata poco e non è andata bene. Il padre ha realizzato con sacrifici una grande cosa che il figlio ha sperperato, come spesso succede. Era incompetente e disinteressato, lasciava fare ai dirigenti che pensavano per lui, che non si curava di niente. La fabbrica pian pianino cominciò ad andare a sfascio."6 Il rientro dei proprietari nella società non è stato molto duro, ma può essere considerato come un semplice passaggio, in quanto anche nel periodo in cui la fabbrica era occupata i rapporti con la famiglia Grazioli erano continuati. Il rientro fu favorito anche dalle buone condizioni dell'azienda, che era rimasta in attività in tutto quel lasso di tempo, facilitando in questo modo il pieno riavvio della produzione e delle vendite. Il periodo comunque non era dei migliori per le industrie e per l'occupazione: erano Molte le persone senza lavoro poiché l'offerta di manodopera era nettamente inferiore alla domanda; le ditte avendo più operai del necessario molte volte erano costrette ad attuare tagli di personale più o meno specializzato. Di conseguenza agli operai veniva offerta una certa somma di denaro perché si licenziassero, nel tentativo di evitare che la fabbrica venisse chiusa a causa di un eccesso di lavoratori: si passò quindi attraverso un periodo di crisi dovuto appunto al licenziamento di operai altamente specializzati che non vennero sostituiti. I primi ad essere licenziati erano appunto, oltre che i più politicizzati, gli operai specializzati in quanto venivano a costare maggiormente all'azienda. "La Grazioli, avendo perso gli operai specializzati, si è trovata ad essere scarsa di maestranze competenti. I giovani assunti non avevano esperienza e neanche una certa cultura tecnologica acquisita COn la pratica di molti anni. Questi giovani lasciavano perdere alcune tecniche, alcune precisioni; ecco che allora la fabbrica ha ridotto le vendite perché c'erano altre concorrenti."'. In quel periodo, corrispondente all'inizio degli anni sessanta ci furono molti scioperi legati al salario dei dipendenti: soprattutto quando lo stipendio fu sospeso perché le macchine non si vendevano più in quanto non erano più competitive come una volta, quando la direzione e gli operai erano nelle mani capaci di Giacomo Grazioli. Poiché Aldo Grazioli si disinteressava di essa, preferendo divertirsi con le macchine ed i motoscafi, tutto il peso della produzione tornò nuovamente sulle spalle degli operai che senza una persona esperta e competente che li guidasse dovettero, con i loro pregi ma anche con i loro limiti, tirare avanti la produzione da soli. Verso la fine degli anni cinquanta e l'inizio degli anni sessanta si incominciò ad intravedere in Italia una ripresa per quanto riguarda la produzione industriale in genere che con il passare degli anni crebbe in misura sempre maggiore al punto da venir considerata un vero "miracolo" o "boom" economico. Le cause di questa improvvisa espansione, a livello internazionale seconda solamente al Giappone, furono molteplici. "Sicuramente influirono gli aiuti economici statunitensi del Piano Marshall, la relativa stabilità della lira di quegli anni, il costo ragionevole delle materie prime; altri fattori determinanti furono l'inserimento dell'Italia nel Mercato Comune Europeo (1957) e il conseguente abbattimento delle barriere doganali. Ma ciò che soprattutto permise all'industria italiana di sfondare all'estero furono i bassi prezzi dei nostri prodotti. L'Italia aveva all'ora infatti il più basso livello di salari registrabile nel mondo occidentale."8. L'Italia in questo clima si trovava in una situazione caratterizzata da una maggiore esportazione rispetto all'importazione. A farla da padrona era soprattutto il nord Italia con Milano in testa, dove erano presenti diversi tipi di industrie, quale quella meccanica, siderurgica, chimica, edile, tessile, editoriale, alimentare, ecc. La Grazioli visse questo periodo e questo "boom" in maniera del tutto particolare: la produzione continuava con un certo successo di vendite all'estero come anche in Italia, soprattutto nelle scuole professionali, ma rimanevano problemi legati soprattutto alla gestione che finirono poi con l'influire negativamente non solo nei confronti dei dipendenti, ma a lungo andare anche nella produzione. Nuovamente, verso la fine degli anni sessanta, si andò incontro ad una fase di crisi che portò la società dapprima nelle mani delle sorelle di Aldo Grazioli, e successivamente in quelle di un consiglio di amministrazione nominato dalle stesse sorelle. Nonostante tutti questi problemi la Grazioli faceva gola a tutti in quanto era una fabbrica ben avviata e con basi solide che poteva produrre macchine utensili utilizzabili in molti campi industriali. A seguito di questo periodo di crisi e del conseguente fallimento negli anni '59-'60, la fabbrica fu venduta: fu ceduto non solo lo stabilimento, ma anche i terreni adiacenti e la casa padronale. La società che la rilevò fu la Carle-Montanari, fabbrica metalmeccanica di via Neera che produceva macchine per l'industria dolciaria. c) Il passaggio di proprietà La Carle-Montanari tenne la Grazioli per alcuni anni, dapprima con un buon successo: fu rimessa in piedi molto bene, tornando agli utili. Poi ricominciarono i problemi sindacali e gestionali, per cui questo acquirente, che aveva altre aziende, preferì abbandonare, o meglio chiedere l'intervento di altri capitali. Secondo le testimonianze degli operai più politicizzati il progressivo abbandono da parte della Carle-Montanari fu favorito dalle costanti pressioni dell'Assolombarda di Milano. "Qui nella zona eravamo all'avanguardia nella lotta sindacale. Certe conquiste che noi avevamo, gli altri non le avevano: allora i padroni facevano di tutto per contrastare la fabbrica. Noi alla Grazioli non avevamo più i cottimi, avevamo la mensa fatta bene, avevamo la riduzione di orario, ecc.: tutte cose che nelle altre fabbriche non c'erano. Sta di fatto che L'Assolombarda ci ha mandato un certo ing. Varni, un ingegnere navale che di macchine utensili non ne capiva nulla. Questo si è messo in contrasto con i cervelli della fabbrica e, umiliandoli in un modo o nell'altro, li ha fatti andare via. In questo modo ha danneggiato la fabbrica, perché essa non era più in grado di fare concorrenza rispetto alla produzione di altre macchine, non parliamo di quelle straniere."9. Nel 1964 la Grazioli fece la scelta di licenziare tutta la commissione interna e la rappresentanza dei lavoratori seguendo l'esempio dettato dalla Confindustria: é il primo sintomo di un malessere crescente all'interno dell'azienda. Quello che determinò il progressivo decadere dell'azienda fu la morte di uno dei due amministratori della fabbrica, quello che gestiva direttamente i capitali, morto suicida assieme alla moglie. "Di fronte a questo dramma la Carle-Montanari fa la scelta di chiedere aiuto agli svizzeri, che entrano con un proprio capitale, non maggioritario ma quasi. Però gli svizzeri non si fidano degli italiani e mettono un proprio uomo di fiducia per curare i loro interessi alle spalle dell'amministratore delegato italiano. Dopo due anni anche questo personaggio messo dagli svizzeri muore e noi ci troviamo nuovamente nella bufera come fabbrica Grazioli dentro la Carie-Montanari."). La situazione sindacale era molto difficile, ma le richieste di modelli di torni erano molto alte, tanto che le consegne erano in ritardo di parecchi mesi. Nel maggio 1975 il Consiglio di fabbrica richiese alcune garanzie sindacali, quali la difesa del posto ai lavoro in relazione alle prospettive dell'azienda per il futuro, l'aumento del premio di produzione, ecc. "Si susseguirono vari incontri presso l' A.I.L. a tal punto che sembrò potesse esserci un accordo", ma alla vigilia di un ulteriore incontro il Direttore Generale dell'azienda (Dott. Daverio) si dimetteva dalla carica. Ai primi di luglio subentrava un nuovo amministratore nella persona del ragioniere Spada, il quale dapprima riconobbe la fondatezza delle richieste fatte dall'azienda, ma nella riunione successiva denunciò che l'azienda era in perdita di settecentocinquanta milioni e che senza un aumento del capitale non sarebbe stata garantita la sopravvivenza della società. Il 28 luglio si riunì l'assemblea degli azionisti, presieduta dal cittadino svizzero di nome Barth; il finanziamento venne rifiutato e lo stesso pomeriggio venne comunicata, viste le ingenti perdite nel primo semestre, la messa in liquidazione della società secondo la decisione dell'assemblea stessa; il giorno successivo tutti i lavoratori ricevettero la lettera di licenziamento. Il consiglio di fabbrica si schierò naturalmente contro la decisione e formulò diversi possibili motivi per spiegare la liquidazione della società: la speculazione edilizia sul terreno; l'ottenimento di un finanziamento pubblico per un'ulteriore ristrutturazione aziendale (ipotesi che sembrava la più attendibile); la ricerca di un nuovo proprietario; una manovra interna di potere tra azionisti, ecc. Naturalmente i giornali diedero molto risalto alla faccenda nelle cronache locali dell'epoca: il dato principale è che tutti concordavano sul buono stato di salute della fabbrica. "La Grazioli... opera in un settore che non è in crisi, quello delle macchine utensili (frese, torni, ecc.) e che comunque, anche in presenza di stasi della produzione, è certamente uno di quelli che dovranno essere sostenuti ed incrementati, proprio in funzione della ripresa economica e produttiva. Ha un mercato soprattutto all'estero. Ha una diffusa rete di vendite e un portafoglio ordini arretrato che farebbe gola, in questo periodo di crisi economica, a qualsiasi azienda."'. La decisione della messa in liquidazione venne dall'estero, dalla vicina Svizzera, dove aveva sede una fantomatica finanziaria, la Fidital di un misterioso azionista svizzero (che era Poi Giovanni Carie, ex proprietario della Grazioli), che non volendo mettere a rischio i capitali mise in liquidazione la società. Le giustificazioni date al consiglio di fabbrica ed ai sindacati furono molto vaghe in quanto ci si limitava a dire che mancava la liquidità per nuovi investimenti. Questa situazione non caratterizzò solamente la Grazioli, basti pensare ai numerosi casi proprio di quei mesi: Leyland Innocenti, De Medici, Gerli Rayon, Minerva e Sant' Angelo. I giornali dell'epoca, difendendo gli interessi dei lavoratori si accanivano nei confronti degli imprenditori e proprietari delle fabbriche, che erano pronti a raccogliere il massimo dei profitti nei momenti di facili guadagni e a ritirarsi nel momento in cui si presentavano le prime difficoltà, insensibili al fatto che alcune imprese erano aziende di base con un'utilità sociale non indifferente. Così si distruggeva una società valida, con un patrimonio di manodopera e di conoscenze tecniche molto valido. L'operazione della liquidazione fu studiata bene perché gli operai stavano per andare in ferie: si presentavano le condizioni migliori per smantellare l'azienda, eliminare la Grazioli. Infatti questo era l'unico modo che avevano i proprietari dell'azienda per riuscire a vendere i macchinari e smantellare le strutture, impedendo che gli operai potessero trovare qualche forma di opposizione. Al ritorno dalle ferie gli operai trovarono i cancelli della fabbrica chiusi, ma erano decisi a non cedere. "Allora, quella notte, io e i miei compagni dovemmo inventare la scusa di andare al gabinetto chiedendo alle guardie il permesso. Eravamo decisi quella notte ad entrare, ma sapevamo di rischiare la galera per violazione di proprietà privata...Un compagno entrò ma la guardia gli puntò la pistola. Io gli dissi che cosa stai facendo? Lascialo andare. E riuscimmo ad entrare...Essere all'interno dell'azienda voleva dire aprire le porte agli operai nella mattina successiva. "13. Iniziò in questo modo la prima occupazione della Grazioli che venne presa come esempio da molte altre aziende: tra tutti gli operai delle varie fabbriche c'era un forte senso di solidarietà che li portava ad organizzare comizi e manifestazioni a livello cittadino, come il 12 agosto di quell'anno. "Dalle venticinque fabbriche della nostra provincia che sono presidiate o occupate perché direttamente minacciate di smantellamento o investite da gravi processi di ristrutturazione, operai e impiegati raggiungeranno il centro della città per dare vita ad una manifestazione che è insieme una testimonianza drammatica delle gravi conseguenze della crisi economica sulle masse lavoratrici e un punto di collegamento con le più ampie battaglie che attendono i lavoratori al momento della ripresa produttiva."". Così i lavoratori della Grazioli furono costretti a passare le loro vacanze a turno davanti alla fabbrica, dopo aver piazzato un presidio come forma di protesta ai primi di agosto. In questa loro occupazione furono aiutati dai contributi e dagli appoggi della gente della zona. I lavoratori avevano deciso di affrontare questo sacrificio non indifferente, cioè passare le ferie in via De Sanctis ( la sede della fabbrica) consentendo una presenza sempre costante di operai davanti ai cancelli, sapendo che la fabbrica aveva grandi prospettive sul mercato: aveva ordinazioni ancora inevase e operava in un settore che non era in crisi e pronto ad un rilancio. L'insistenza degli operai, che arrivavano anche da fuori Milano, sopportando i disagi del trasporto, portò a un incontro con i rappresentanti delle istituzioni e della Regione in particolare per discutere dei problemi della fabbrica. In quest'ottica fu determinante la collaborazione di tutti gli organismi interni ed esterni dell'azienda, quali il Consiglio di fabbrica, la FLM e i lavoratori, che sostenuti dalle strutture ed organizzazioni democratiche e dai cittadini si impegnarono in una dura lotta per il mantenimento dei livelli occupazionali. Tutto ciò portò dopo un mese di dura lotta alla riapertura dell'azienda grazie all'intervento e all'ingresso nell'azienda stessa di un nuovo padrone: era il Gruppo Rosso proveniente da Torino che subentrava in questo modo alla Carle Montanari. Ma "capimmo subito che il Rosso, nuovo proprietario, era un grande mascalzone. Facemmo nove anni con questo nuovo proprietario, la cui principale preoccupazione era di licenziare tutto il consiglio di fabbrica... Gli operai capirono subito quello che il padrone voleva fare: voleva liberarsi di chi portava avanti all'interno dell'azienda, con onestà, l'unità dei lavoratori.". Nonostante questi continui problemi amministrativi dell'azienda la Grazioli continuò per diversi anni nella sua produzione, anche innovando i propri prodotti sotto la spinta della aggressiva concorrenza giapponese. "La fabbrica sta portando avanti una politica di ristrutturazione aziendale atta a raggruppare e standardizzare, cercando la massimizzazione dell'efficienza produttiva e di accelerare l'innovazione tecnologica puntando all'ottimizzazione dell'immagine qualità... Stiamo facendo ampio ricorso alla fornitura specialistica per fasi e componenti che ci consentano l'eliminazione di investimenti dispersivi concentrandoli sull'utilizzo degli impianti su grandi volumi."16. Nascono in questo modo nuovi prodotti della linea Grazioli quali i modelli Fortuna, Dania, Ludor, Esse 80 e altri manufatti (foto 7, 8, 9, 10, 11 e 12), per un utilizzo vario, che ebbero un discreto successo riportando la fabbrica su livelli di produzione che ricordavano i primi anni della fabbrica. Fu proprio per questo che, nonostante la situazione di crisi internazionale, la Grazioli godeva comunque di una certa stabilità produttiva al punto di non riuscire a soddisfare le varie richieste del mercato. A conferma di questa valutazione, un'indagine preliminare per il 1980, elaborata dall'azienda nei primi mesi del 1979, faceva notare che occorrevano ulteriori assunzioni di lavoratori e nuovi investimenti per realizzare questo programma, sempre tenendo conto di una quantità abbastanza rilevante di lavoro decentrato (pari a circa il trenta percento). d) Il fallimento definitivo e la chiusura I problemi per la Grazioli furono semplicemente rimandati: infatti, dopo essere uscita indenne da una crisi molto grave come quella del '75, essa dovette affrontare un nuovo Periodo non felice della sua storia: questo a causa del fallimento del Gruppo Rosso. Quest'ultimo faceva capo ad una fantomatica finanziaria (la Carvit) che falciava una dopo l'altra alcune significative aziende del settore (Trapani Rosa, Omec, ecc.). Renato Rosso, amministratore unico della Grazioli, chiese così nel mese di aprile del 1982 ed ottenne, un Periodo di tredici settimane di cassa integrazione per sessanta lavoratori (l'anticamera del licenziamento) prima di dichiarare il fallimento e di mettere in vendita il pacchetto azionario Grazioli. Il fallimento del Gruppo Rosso non comportò solo conseguenze per la Grazioli, ma per molte altre industrie a tal punto da essere riportato sui principali giornali dell'epoca, in cui si può leggere "Un industriale torinese, Renato Rosso 57 anni è stato arrestato mercoledì a Milano. E' accusato di falso in bilancio e bancarotta fraudolenta... Renato Rosso è titolare di una grossa società per il commercio di macchine utensili con sede a Milano. All'impresa è collegata anche una finanziaria, la Carvit, che è all'origine dell'azione penale intrapresa dalla magistratura milanese... Secondo le accuse, l'industriale torinese avrebbe contraffatto i bilanci della finanziaria dichiarata fallita il 28 gennaio '82, Per non pagare i debiti contratti prima del fallimento... Il fallimento della finanziaria di Rosso è stato chiesto dalla Cassa di Risparmio di Macerata ed altre banche. La società amministrata da Umberto Cecconi, coimputato di Rosso, è rimasta schiacciata da un passivo di oltre diciassette miliardi.."". Dopo il fallimento della Carvit venne messo in vendita dal curatore fallimentare, il dott. Gamberale, il pacchetto azionario della Grazioli e venne scelta una persona all'interno dell'azienda con funzioni di amministratore unico nella persona del dott. Colli. Naturalmente il Consiglio di fabbrica si schierò contro la liquidazione della società, esattamente come sette anni prima, ed espose la propria posizione e le pro- prie rivendicazioni in un comunicato: "Di fronte a questa dimostrazione di responsabilità industriale e sociale i lavoratori della Grazioli e la FLM non permetteranno che cessi un'attività produttiva fondamentale per risolvere anche la crisi che il paese sta attraversando... Infatti la Grazioli è un'azienda che da oltre cinquant'anni opera nel settore delle macchine utensili, fornendo sul mercato macchine di varia gamma (torni paralleli, a CNC, fresatrici) a elevato livello di precisione, con una rete commerciale di livello internazionale e con una notevole capacità di penetrazione in particolare in Europa.'18. Si pensava che i motivi che stavano alla base della liquidazione della fabbrica fossero dovuti a manovre speculative di imprenditori e proprietari. Era un problema molto importante a tal punto da stimolare l'interessamento di alte cariche locali e regionali. A questo proposito il presidente del consiglio di zona, Annamaria Cavenaghi dichiarò di voler esaminare la situazione unitamente agli assessori competenti del Comune e della Provincia. I lavoratori della Grazioli si dimostrarono favorevoli a questo interesse ricordando che fu appunto grazie all'appoggio del consiglio di zona che nel 1975 riuscirono ad uscire da una situazione di crisi e di fallimento analoga a quella in corso. Ma il pacchetto azionario rimase invenduto, determinando quindi un aggravarsi della crisi: la Grazioli aveva un fatturato di dieci miliardi l'anno (quindi un'azienda molto attiva) e fu proprio grazie al fatto di essere di fronte ad una fabbrica moderna e ben avviata che permise agli operai di resistere molto a lungo. Alla vigilia delle ferie dell'82 fu adoperato lo stesso sistema di sette anni prima: a luglio comparvero le lettere di licenziamento per tutti gli operai da parte dell'amministrazione controllata, ma i lavoratori anche questa volta non erano disposti a cedere facilmente. Furono percorse tutte le strade per presentarsi di fronte a quelle strutture pubbliche che avrebbero potuto intervenire per trovare delle soluzioni e per reinserire questa azienda nel tessuto produttivo. "Avevamo anche un appoggio morale, perché stare lì giorno e notte a parlare e discutere con le altre persone ci aiutava a sostenere i problemi che ci trovavamo di fronte... Quella fabbrica non era una fabbrica che poteva morire, non era una fabbrica che non avesse le qualità per poter vivere... Ho dovuto riflettere molto sul tema del rapporto tra mondo del lavoro e mondo cattolico. La cosa più impressionante è stata l'appoggio dei preti, persone estremamente oneste. I preti della curia milanese mi diedero dei soldi, e non pochi, per portare avanti la lotta a vantaggio di tutti gli operai, senza distinzione di comunisti o democristiani... Dai soldi della curia noi attingevamo per aiutare le famiglie più bisognose, i casi più drammatici. Con quei soldi aiutavamo a pagare l'affitto a qualche lavoratore, senza però poter assicurare una specie di salario minimo. Da altri enti, di soldi non ne abbiamo avuti." '9. Si andò incontro così ad una nuova occupazione che durò tre anni, fino alla data della vendita della proprietà, durante i quali gli operai passarono anche momenti di gioia come le festività, seppure in una situazione così precaria. Nel periodo di occupazione della fabbrica gli operai continuarono a produrre, lavorando però solo con gli avanzi di magazzino. Per il curatore fallimentare non fu un problema ricollocare questi prodotti, visto che c'era ancora una commessa inevasa con le ferrovie relativa ad una certa quantità di macchine per il valore di ottocento milioni. Ma non ci fu niente da fare: il curatore fallimentare nell'87 chiuse la Grazioli, vendette il terreno e le macchine che vi erano dentro per la somma di circa sette miliardi e mezzo. Su quel terreno avrebbe dovuto sorgere l'hotel Quark 2, che però fu costruito successivamente in un terreno vicino, cosicché la fabbrica rimase semplicemente come rudere. Dopo la chiusura ognuno degli operai cercò di trovare un altro lavoro: grazie alla legge 444 tanti riuscirono ad entrare in aziende pubbliche; chi è entrato nelle poste, chi nei monopoli di stato, chi nei corpi forestali o altre aziende statali. Di fatto la legge 444 era nata per assorbire i lavoratori delle aziende in crisi, arricchendo di manodopera quelle società pubbliche che erano sotto organico. Importante fu anche l'impegno di chi non era all'interno della fabbrica e che si prodigava in tutti i modi per salvarla, come i consiglieri della zona 15. Venivano fatte pressioni sulla Regione affinché si trovasse un acquirente italiano che potesse prelevare questa lavorazione che era estremamente importante. Ci furono incontri a livello istituzionale, coinvolgendo l'amministrazione comunale, l'assessorato al lavoro ed il Sindaco in persona. Dal consiglio di zona furono fatti incontri a livello sindacale con funzionari e dirigenti della Camera di Lavoro, con le maestranze ed i lavoratori per verificare se esistevano le condizioni perché la Grazioli potesse ritornare ad affermarsi sul mercato con i suoi prodotti e se c'erano veramente imprenditori disposti all'acquisto. Quello della Grazioli era anche un problema che riguardava altre fabbriche della zona dovuto alla riconversione industriale e alla deindustrializzazione del territorio. "Questo tessuto produttivo che faceva viva e vivere la zona sud di Milano è stato fortemente ridimensionato secondo le esigenze della globalizzazione che cambia la fisionomia di questa città, in cui il potere politico di tipo decentrato è sostanzialmente impotente, soprattutto di fronte alle grandi proprietà private... Manca oggi una volontà politica diversa, che porti avanti un discorso di nuova industrializzazione per creare nuovi posti di lavoro con le nuove tecnologie. Oggi sembra che l'interesse sia rivolto verso la grande distribuzione e tutto quello che questa comporta... La riconversione industriale degli anni ottanta nella nostra zona si è tradotta in niente sostanzialmente."20 In questo senso, "le nuove generazioni hanno il diritto di conoscere. La perdita della memoria storica, che è stata brutalmente cancellata da una cultura che non è cultura, è un impoverimento grave. La scuola pubblica, in questo senso, ha un compito insostituibile: deve essere depositaria di questa memoria storica di vita vissuta, che non compare sui libri. Deve essere per forza un mezzo si trasmissione del valore della memoria alle nuove generazioni."21 1 G. Petrillo, La ricostruzione, in F. Della Peruta (a cura di), Storia illustrata di Milano. Seconda Guerra Mondiale, Vol. 4, E. Sellino Ed., Milano 1997 pag. 177 2 G.Cavallazzi, G.Falchi, La storia di Milano, Zanichelli, Bologna 1989, pag. 172 3 Intervista a Maria Grazioli, figlia di Giacomo Grazioli 4 Intervista a Paolo Guffanti, ex operaio della Grazioli 5 Intervista a V.S. (ex operaio che ha voluto mantenere l'anonimato)6 6 Intervista a V.S., cit. 7 Ibidem 8 G. Cavallazzi, G.Falchi, op. cit., pag. 180 9 Intervista a Paolo Guffanti, cit. 10 Intervista a Camillo Cabrini, ex operaio e dirigente sindacale della Grazioli 11 Comunicato del Consiglio di fabbrica del 1982 (volantino ciclostilato) 12 E' venuto dalla Svizzera l'ordine di porre in liquidazione la Grazioli, in "L'Unità", 24 agosto 1975 13 Intervista a Camillo Cabrini, cit. 14 Presidio in piazza Duomo la vigilia di Ferragosto, in "L'Unità", 12 agosto 1975 15 Intervista a Camillo Cabrini, cit. 16 Grazioli al settore: una nuova strategia, in "Corriere della Sera", 6 dicembre 1981 17 Industriale torinese arrestato a Milano, in "Corriere della Sera", 4 settembre 1982 18 Comunicato del Consiglio di fabbrica del 1982 (volantino ciclostilato) 19 Intervista a Camillo Cabrini, cit. 20 Intervista a Alessandro Pezzoni, ex consigliere del Consiglio di Zona 15 21 Intervista a Maria Cavenaghi, ex presidente del Consiglio di Zona 15 Foto 13 Foto 14 Foto 13,14,15,16: la Grazioli dopo la chiusura, nello stato di abbandono (anno 1997) e nella fase di abbattimento per la costruzione di un palazzo (1998) Foto 13 Foto 14 Foto 15 Foto 16 - VIII - Annamaria Seminara e Lorena Donadello LE AREE DISMESSE E LA TRASFORMAZIONE INDUSTRIALE DI MILANO NEGLI ANNI '80 E '90 I. Premessa Nell'ultimo ventennio di trasformazione economica sempre più frequente si è manifestato il fenomeno della dismissione di aree urbane. Ma cos'è un'area dismessa? Un'area dismessa è "un'area su cui si svolgeva una certa attività che a un certo punto viene abbandonata, [...] rimane di proprietà di qualcuno ma la vita cessa, [finisce] la vita funzionale che aveva prima'. Si tratta quindi di aree non libere con edifici e impianti che subiscono l'abbandono dell' attività economica. "La riqualificazione di queste aree è fondamentale per una città come Milano la cui vocazione è già contenuta nelle radici del suo nome, Mediolanum, ovvero di città aperta agli scambi di persone, di merci e di capitali, di città aperta, mista e integrata'. Una qualsiasi attività economica continua ad esistere finché colui che la gestisce ne trae un reale profitto, ovvero quando le spese sono ben compensate dal profitto. L'attività cessa quando il rapporto tra utile e investimento diventa negativo. Le cause del fallimento di un'attività industriale possono essere molteplici: la cattiva gestione, come nel caso della Grazioli, la mancanza di richiesta da parte del mercato dell'articolo prodotto, la concorrenza delle grandi multinazionali nei confronti della piccola industria, il sorpasso del settore terziario ai danni di quello industriale, etc. 2. Una città che cambia Negli anni Cinquanta e Sessanta, durante il "boom" industriale, la maggior parte delle aree disponibili venivano destinate a costruzione industriale, mentre solo una piccola percentuale era indirizzata al settore terziario. Infatti nel PRG (Piano Regolatore Generale) di Milano, attuato nel 1953, venivano destinati 11.000.000 di metri quadrati all'industria senza prevedere il grande sviluppo che avrebbe avuto il terziario: attualmente l'attività Industriale milanese si è dimezzata a favore di quest'ultimo. L'innovazione tecnologica e la crisi economica hanno ridotto il bisogno di spazi per le fabbriche dando così vita a un fenomeno che coinvolge sia le grandi aree metropolitane che i piccoli centri, i cui protagonisti principali sono le industrie che cessano la loro attività produttiva e i Comuni a cui spetta il compito di gestire il loro indirizzo urbanistico. Proprio al loro indirizzo si deve prestare particolare attenzione visto che negli ultimi anni "le volumetrie terziarie, spesso realizzate ben al di là dei già ampi limiti della normativa tecnica, sono risultate eccessive e mal collocate rispetto alla rete della mobilità"'. Già al termine degli anni Settanta il comune di Milano si proponeva il contenimento delle funzioni terziarie attraverso la normativa adottata per le zone industriali (articolo 33 NTA) che prevedeva un mix funzionale abbastanza rigido, con un massimo del 10% di uffici connessi ad attività produttive. Il rischio che comporta il concentrarsi del settore terziario a Milano è di congestionare l'economia di una grande metropoli, di trasformare il capoluogo in una città dei servizi e questo potrebbe essere causa di una possibile dispersione di popolazione e del degrado economico, sociale e ambientale delle sue aree periferiche. Per questo è importante effettuare delle scelte oculate su un fenomeno di così grande importanza, un fenomeno che riguarda sia Milano (che nel 1995 contava già una superficie di aree dismesse di circa 6.000.000 di metri quadrati, ai quali si devono però aggiungere altri 2.000.000 di metri quadrati di aree ferroviarie inutilizzate), che l'hinterland. Basta ricordare il caso di Sesto San Giovanni, centro della grande industria siderurgica, meccanica ed elettromeccanica milanese, dove l'intensità dei fenomeni di dismissione ha raggiunto picchi che non hanno eguali in tutta l'area metropolitana. Solitamente le aree in questione sono inserite nel tessuto urbano, il che le rende una risorsa importante "per promuovere nuove sinergie fra settori industriali e terziari innovativi, di cui l'hinterland milanese è sotto dotato e per ridisegnare il territorio recuperando spazi per la residenza, per i servizi alla persona e soprattutto spazi verdi' Attualmente a Milano le attività che hanno preso piede a scapito dell'industria sono il commercio, l'editoria, la moda, la finanza e comunque il terziario più o meno avanzato. Questo è un notevole mutamento se si pensa allo sviluppo che aveva avuto il settore secondario nel periodo post-bellico del ventennio 1950-'60. Se questa è dunque la tendenza economica della città, bisogna dire che vi è però una carenza di strutture che possa supportarla adeguatamente. Si potrebbero quindi sfruttare le aree dismesse per creare, ad esempio, scuole e musei della moda e del "design", musei della scienza e dell'archeologia, fiere del libro, ampliamenti delle università, una biblioteca centrale e tante altre iniziative che diano risalto alle specificità economiche e culturali della città. Il cambiamento economico avvenuto negli anni '80-'90, che ha visto il prevalere del terziario a scapito dell'industria, ha posto il problema di come riutilizzare le aree dismesse. Affinché non si verificassero squilibri nell'assetto e nell'organizzazione urbana, nel 1942 era stata emanata la legge urbanistica che prevedeva che una città al di sopra dei cinquemila abitanti dovesse avere un Piano Regolatore. Il PRG è uno strumento politico del territorio che si occupa delle destinazioni d'uso e stabilisce le percentuali che in ogni zona devono esistere dei vari settori: industriale, agricolo, terziario, residenziale, verde, servizi, etc. in modo tale che il cittadino possa usufruirne agevolmente. Il PRG pone dunque dei limiti alla conversione delle attività. Le alternative che si pongono a un proprietario che dichiari fallita la propria attività sono due: cambiare produzione restando all'interno del proprio settore, o contrattare con il comune le varianti al PRG che cambino la destinazione d'uso al proprio terreno. Quest'ultimo sistema, usato soprattutto alla fine degli anni Ottanta, è spesso degenerato in corruzione in quanto i gestori di aziende preferivano pagare tangenti ai funzionari comunali piuttosto che affrontare tutto l'iter burocratico. Le possibilità di recupero di queste aree sono molteplici: ad esempio, si potrebbero riutilizzare come spazi verdi che a Milano sono carenti rispetto ai 15 metri quadrati a persona stabiliti per legge; nonostante che oggi fra gli spazi verdi vengano enumerate anche le aree non propriamente fruibili, come gli spartitraffico e le aiuole, questi restano comunque insufficienti. Oltre al verde c'è la possibilità di utilizzo in parcheggi, aree per i mercati ambulanti e spazi per le infrastrutture di trasporto: metropolitana, strade urbane di scorrimento, anelli viari, etc. Queste aree potrebbero anche trovare un impiego nell'ambito residenziale. Le case costruite dalle immobiliari hanno alti costi e di conseguenza affitti non accessibili alle persone di ceto medio-basso; ciò che si potrebbe fare è di destinarle alla costruzione di case popolari da dare in affitto a condizioni vicine a quelle dell'equo canone, per soddisfare quei soggetti il cui reddito impedisce di godere del diritto di accesso all'edilizia privata. Ma le aree potrebbero ospitare anche residence, le case-albergo e le case dello studente, legate alle grandi funzioni urbane. In ogni caso è importante che si vedano le aree industriali dismesse come una vera opportunità per attuare i processi di recupero del tessuto economico, di rinnovamento infrastrutturale, di aumento degli spazi verdi e di trasformazione urbana. Per ovviare al problema delle aree dismesse nel 1995 sono stati emanati i decreti del Ministro dei lavori pubblici riguardanti i programmi di recupero e di riqualificazione urbana. Questi programmi rappresentavano un forte salto di qualità considerando 1' "astrattezza" dell'urbanistica tradizionale. Con essi si cercava di porre fine alle procedure lunghe, "dispersive e deresponsabilizzanti dei piani a cascata, dove ciascun soggetto, chiamato a proporre e disegnare,[...] si colloca in una dimensione a-spaziale e a-temporale: splendidamente solo. Non è stata certo la carenza dei progetti o la loro qualità ad impedire che la città si riqualificasse, ma un ruolo determinante, in senso negativo, lo ha avuto Certamente il vecchio impianto dell'urbanistica. I programmi di recupero permettevano di ridurre all' essenziale il disegno strategico generale e di spostare l'attenzione dal piano al processo per costruirlo. In questo modo nelle trasformazioni territoriali si era "in grado di avvicinare il momento delle decisioni sulle strategie, e poi sulle tipologie, morfologie, funzioni, al momento dell'intervento [...] superando così un limite storico della prassi urbanistica tradizionale. Per far sì che gli obiettivi prefissati venissero conseguiti, i programmi presupponevano la nascita di una logica di cooperazione tra soggetti pubblici e privati: logica necessaria nell'ambito della riqualificazione urbana vista come riordino e ridisegno del costruito. 3, lU recupero delle aree dismesse milanesi Con i progetti di riqualificazione qualcosa aveva dunque preso avvio, ma la strada da Percorrere era ancora lunga vista la deludente esperienza a Milano con i PRU (Programmi di Recupero Urbano) promossi dall'avviso comunale del 3 gennaio 1995. L'intento dei PRU era di promuovere l'iniziativa del privato al recupero delle aree dismesse, contribuendo alle spese per l'attuazione dei progetti con incentivi del governo che raggiungevano quote pari al 5-10% dell'iniziativa. Il comune di Milano aveva presentato 21 progetti di cui erano passati soltanto 7, riguardanti aree dismesse una volta ospitanti fabbriche dai nomi prestigiosi. Spesso però nel selezionare questi progetti si è tenuto conto solo del basso costo e quindi a decollare sono stati solo gli interventi più facili, dove era meno difficoltoso trovare accordi con gli operatori privati. Così tra le grandi aree che sono riuscite a raggiungere la fase realizzativa dei lavori troviamo solo quelle della Bicocca-Tecnocity, Garibaldi-Repubblica, Portello-Fiera, Montedison-Linate (Montecity). Sono restati invece fermi gli interventi sulle aree Portello Nord, Sieroterapico e Barona su cui si era tanto discusso. Tutte ancora da realizzare con i PRU sono quelle importanti strutture pubbliche e private, che dovrebbero contribuire a rendere Milano una città multipolare, quali la galleria di arte moderna, il centro congressi, gli spazi per le sedi della Regione, la piscina olimpica, i centri a servizio della moda e dell'industria delle telecomunicazioni, etc. 4. Un caso emblematico: Sesto San Giovanni Una delle più grandi aree industriali e concentrazioni operaie d'Italia: ecco cosa ha rappresentato Sesto San Giovanni per più di ottant'anni'. Questa città riassume in sé una fase storica molto recente e di enorme importanza, quel periodo cioè caratterizzato dalla grande fabbrica e dal suo sistema. Sesto San Giovanni con le sue grandi fabbriche ha infatti qualificato l'intera area industriale milanese e dato "un'impronta sua propria alla storia del movimento operaio non solo lombardo ma nazionale. L'itinerario storico di questa città si svolge lungo una traccia del territorio che tocca le principali aree produttive e sociali. Il primo polo, ed anche il più antico, risalente al secolo scorso, era formato principalmente da piccole industrie tessili, meccaniche e alimentari, di cui però oggi sono rimaste pochissime tracce fisiche. Gli altri tre grandi poli sono quelli di Breda (sorto nel 1903), Marelli (nel 1905) e Falck (nel 1906). Questi grandi complessi si sono posizionati in tre punti differenti del territorio dando così inizio alla formazione di articolate "zone industriali", che hanno costituito i centri di un traffico riguardante le risorse non solo materiali, ma anche tecniche e culturali. Le industrie metalmeccaniche sopraddette hanno conosciuto il loro primo sviluppo con le commesse belliche della prima guerra mondiale. Breda, Marelli e Falck hanno avuto storie simili e il loro sviluppo produttivo e occupazionale "è stato sempre strettamente legato alle politiche governative, specie alla politica degli armamenti e delle guerra. Infatti il fenomeno dell'aumento industriale iniziato con la prima guerra mondiale si protrasse con la politica del riarmo fascista "per poi proseguire a ritmo sostenuto a partire dall'avventura abissina, fino al marzo 1944, quando il centro industriale di Sesto San Giovanni dava lavoro a oltre 45.000 persone (5.000 più dei residenti)" L'occupazione subì poi un arresto dovuto alla crisi di conversione post-bellica, ma Sesto San Giovanni mantenne comunque la sua caratteristica di "capitale operaia". Il passaggio da piccolo borgo agricolo a grande cantiere e poi a vera e propria "città delle fabbriche" aveva prodotto grandi cambiamenti a livello politico, culturale e sociale. "Sesto San Giovanni fu in quegli anni (ma anche successivamente) un immenso crogiolo di esperienze, cognizioni, capacità tecniche e progettuali, di abilità manuali, ma anche di bagagli ideologici, di esperienze politiche e di concezioni etiche diverse, ma tutte potentemente convergenti e solidali intorno al problema lavoro'"". Tutto questo aveva plasmato una classe lavoratrice "in possesso di un' etica del lavoro' particolarmente sentita che, nella milizia antifascista, nella Resistenza, nella ricostruzione, nelle lotte per la democrazia, in difesa dell'occupazione e per lo sviluppo sociale e civile, si è conquistata un posto di primo piano nella storia del Paese"'2. Tra gli anni '50 e gli anni '70 avvenne però un cambio di scena. Si avevano i primi segni di cedimento e di una totale modificazione nell'organizzazione del lavoro, oltre che dello spazio urbano, che si svincolavano parzialmente dalle servitù industriali°. Ed è proprio in questa fase che, ad accezione della Falck, tramontavano le grandi famiglie imprenditoriali. "Oggi si viene consumando il definitivo smantellamento di quasi tutte le aziende, tranne la Falck e la diffusione di una microimprenditorialità molto diversificata'. Così le grandi aree industriali, ormai dismesse, sono disponibili ad essere totalmente riconvertite. Il problema è però che questa riconversione non si deve trasformare in una speculazione che cancelli la grande storia di questa città. Non si può e non si deve permettere che le nuove generazioni crescano non ricordando " più nulla del lavoro operaio, ma anche di passioni, di lotte e di organizzazioni che stentavano alla prova del cambiamento e che avevano segnato un secolo di storia e la città"". Le dismissioni selvagge delle aree industriali sestesi rischiano di cancellare il passato ed è proprio mentre i capannoni vengono demoliti, "muraglie dalle scritte eroiche abbattute, strade ritracciate, pezzi di pregiata architettura industriale d'inizio secolo minacciati"", che bisogna agire per conservare la memoria storica. 5. Una risposta positiva: il recupero in un contesto europeo Rivalutare questa città è indispensabile ed è un obbiettivo che va raggiunto "perché Milano ha contato parecchio nel processo che ha portato l'Italia in Europa. Perché questa città e il suo territorio hanno un sistema produttivo multisettoriale, pluralistico, internazionale, integrato e, rispetto al resto del Paese, più efficace nell'utilizzo della 'risorsa impresa"7. Le risorse su cui Milano può contare sono molte: la sua grande apertura internazionale, il suo prestigioso complesso universitario, i suoi istituti di ricerca, una Fiera fra le prime in Europa, senza considerare poi il notevole sviluppo del settore terziario, del settore finanziario (la Borsa è l'unica vera piazza italiana), del design, della moda, della comunicazione, etc." Le prospettive sono ottimiste, "ci sono sintomi chiari di uno spirito nuovo, di un'apertura e di un'ampiezza di orizzonti che avevamo dimenticato". Molti hanno ormai riconosciuto a Milano e al suo sistema economico e produttivo notevoli capacità: tra essi ricordiamo Kohl e Clinton. Ovviamente occorrono condizioni adeguate per questo sviluppo, "condizioni su cui soprattutto devono poter contare le imprese più piccole. Perché sono loro l'ossatura del nostro tessuto produttivo. Perché è su di loro che i fattori di competitività esterna incidono in modo proporzionalmente maggiore. Perché è per loro che le inefficienze del Paese costano più care"20. La riqualificazione verte anche sull'aspetto culturale, promuovendo interventi sul Museo della Scienza e della Tecnica e sul Castello Sforzesco. Solo in questo modo Milano Può aspirare, oltre ad essere un grande polo per l'economia italiana, a diventare un centro strategico nella nuova Unione europea. Un'altra condizione necessaria per raggiungere

questo scopo è porsi come una città competitiva a tutti livelli: economico, sociale, culturale, etc. "Ora si è andata determinando una competizione fra i territori, che avviene sia fra i territori che fanno parte dello stesso Stato, sia fra i territori di Stati diversi, ma appartenenti alla stessa area strategica.

Anche l'istruzione ha un ruolo fondamentale in tutto questo processo: Milano "può e deve essere, ad esempio, il luogo dove imprese e mondo della scuola, della formazione e dell'università sperimentino, insieme, modelli nuovi e flessibili, che prefigurino l'integrazione dei sistemi formativi e producano profili professionali coerenti con un economia in Continua evoluzione"22. 6. Conclusioni Bisogna comunque considerare che la corsa al recupero di queste aree non deve assumere Caratteri frenetici. Non si deve quindi cercare ad ogni costo di riconvertire tutte le aree dismesse, che in ogni caso rappresentano centoventi anni della nostra storia e che hanno fatto sì che Milano si allargasse dalle mura spagnole alla dimensione attuale. Infatti "la città è cresciuta attorno alle fabbriche e le fabbriche sono cresciute dentro le città""; bisogna quindi tener conto del valore storico, architettonico e culturale delle strutture presenti nelle aree interessate. Non si tratta di decidere solo il destino di queste aree, ma anche degli edifici che testimoniano la storia di Milano come ad esempio alcuni gasometri della Bovisa o certe strutture che sono veri e propri reperti di archeologia industriale. La questione è quindi di non dimenticare come la città è cresciuta: essendone le fabbriche una testimonianza, dovrebbero conservarsi almeno in parte. Distruggendo tutte queste fabbriche si rischierebbe di togliere in un certo senso ai quartieri, che sono nati intorno a loro, la radice che li caratterizzano. Si potrebbe allora, dove lo stato di conservazione lo permette, attuare un'opera di recupero che mantenga la memoria storica dei quartieri e ne valorizzi l'aspetto culturale. Quello che comunque appare lampante in tutto il discorso fatto è che siamo di fronte ad una cambiamento epocale sotto differenti versanti, come ad esempio quello del lavoro e del traffico. Si pensi che fino agli anni '70 la città di Milano funzionava da magnete per gli spostamenti dei lavoratori che dall'hinterland si dirigevano verso di essa; la stessa linea rossa della metropolitana era stata costruita in funzione di questo spostamento unidirezionale. Oggi la situazione è ben diversa: non esistono più le ragioni per cui è stata costruita la metropolitana e il traffico milanese non ha più una sola direzione. Milano non è più solo un luogo di arrivo, ma un luogo da cui si diparte la popolazione per andare a lavorare verso altri poli produttivi". 1 Intervista all'architetto Mario Morganti 2 Stati Generali della città di Milano. Intervento del vice sindaco Riccardo De Corato.'" Milano città che compete", atti del convegno Ridisegnamo Milano, 13-6-1998, p.3 3 Intervento di Graziella Marcotti al convegno A.C.L.I. sulle aree indusriali dismesse, dell'11 marzo 1988 (dattiloscritto). 4 Enrico Pescatori, Il riuso programmato, in "Regione aperta" n° 15, 1988 5 Dante Emilteri, Processi e procedure per la riqualificazione urbana: la scommessa della complessità, Riflessioni a Milano in riferimento ai decreti del Ministero dei Lavori Pubblici del 01.12.1994 e 21.12.1994, Venerdì 24 Marzo 1995, Palazzo Ex Stelline 6 ibidem 7 cfr A.Bassi, G.Petrillo, G.Vignati, La fabbrica lascia un segno, in "I viaggi di Erodoto", n°8, 1989, p. 94 8 ibidem 9 ivi, p. 106 10 ivi, p. 107 11 ibidem 12 ibidem 13 cfr. p. 95 14 ibidem 15 ivi, p. 92 16 ivi, p. 93 17 Assolombarda, Milano europea per lo sviluppo dell'economia. Relazione agli Stati Generali della Città di Milano del presidente di Assolombarda B.Benedi, atti del convegno Ridisegnamo Milano, 13-6-1998, p.1 18 ivi, p.2 19 ibidem 20 ivi, p.3 21 Stati Generali della città di Milano, cit., p.2 22 Assolombarda, Milano europea per lo sviluppo dell'economia., cit., p.6 23 Intervista all'architetto Mario Morganti 24 ibidem [Immagine: Aree industriali e riqualificazione urbana.] [immagine] - IX - Ingrid Leka e Francesco Pellegrini LA CRISI DELLA FABBRICA FORDISTA 1. Da un'intensa innovazione tecnologica alle grandi 'filosofie industriali' Nel XVIII secolo si verificò l'inizio della rivoluzione industriale, evento che cambiò radicalmente la vita sociale ed economica dei paesi industrializzati grazie all'introduzione di un elemento dalle potenzialità impressionanti rispetto ai mezzi di produzione fino allora sfruttati: l'organizzazione di fabbriche con le macchine. Fu la combinazione di tre fattori fondamentali, d'ordine tecnico, economico e sociale a dare origine ad una complessa evoluzione che ebbe come punto d'arrivo il sistema di fabbrica. Questi tre fattori erano: l'impiego sistematico ed intensivo di macchine utensili azionate da forze motrici e procedimenti tecnologici, rivolto alla produzione di beni per il mercato; l'uso di una quota crescente di capitale fisso superiore alla quota di capitale circolante destinata alla remunerazione della forza-lavoro; la concentrazione dei mezzi di produzione della manodopera salariata in un unico luogo sotto la direzione di un'unità centrale di controllo sulla base di nuovi principi di divisione del lavoro e di razionalità economica. Questa nuova, grande rivoluzione tecnologica che si diffuse tra i paesi industrializzati non provocò solo, all'interno delle fabbriche, una rivoluzione tecnica, ma rese anche evidente la necessità di una radicale riforma organizzativa. Nacquero così le due prime grandi `filosofie industriali' del nostro secolo: il taylorismo ed il fordismo. La prima, anche se evidenziava grande precisione e saggezza organizzativa, ebbe poca fortuna e rimase parzialmente diffusa, apparendo a sprazzi in paesi diversi e periodi distaccati; il fordismo invece anche se per lungo tempo riscontrò la disapprovazione di molti, tra operai, sindacalisti, sociologi ed altri, ebbe grande fortuna e fu protagonista di una diffusione veloce e vasta fino a quando anch'esso fu investita della crisi che colpì negli anni '70 tutto il mondo industriale. Questa crisi del fordismo ha aperto la strada al toyotismo. 2. La nuova fabbrica a) La rivoluzione industriale Verso la fine del diciannovesimo secolo avvenne una stupefacente rivoluzione tecnologica d'ampia portata che, in pochi decenni, cambiò il volto dell'industria mondiale provocando uno straordinario aumento della produttività. Negli ultimi anni dell'età del libero scambio e nei due decenni successivi furono messe a punto un gran numero d'invenzioni e innovazioni tecnico-scientifiche; venne inoltre introdotto l'uso di nuove forme di energia e sistemi organizzativi. A grandi linee le principali innovazioni furono: l'invenzione di un nuovo procedimen- to molto economico per la produzione dell'acciaio da parte dei fratelli Martin; l'invenzione della celluloide, delle fibre artificiali e dei coloranti sintetici; seguì l'introduzione dell'elettricità, quindi dei motori elettromagnetici e della lampadina a filamento realizzata da Edison; infine Beau Rochas inventò il motore a scoppio a quattro tempi. I settori principali delle industrie di tutti i paesi capitalisti diventarono la siderurgia, la chimica e l'elettromeccanica. Esse richiedevano enormi investimenti, grandi macchinari, tecnologie complesse e costose, enormi quantità di materie prime ed i mezzi tecnici: di conseguenza dovevano necessariamente contare su una produzione massiccia e costante, scaricando così sul mercato una quantità sempre maggiore di prodotti finali; iniziava così la produzione di massa. Si sviluppò quindi un nuovo modello industriale tale per cui "ovunque il lavoro industriale divenne oggetto di studio scientifico e fu organizzato secondo criteri di efficienza e di razionalità mai prima immaginati. Quanto più gli apparati produttivi crescevano in dimensione, quanto più incorporavano scienza e tecnica, tanto più richiedevano criteri di gestione e organizzazione adeguati"1. Germania e Stati Uniti erano i due paesi che dall'ultimo scorcio dell'Ottocento, avevano accresciuto la loro competitività nei confronti dell'Inghilterra e vantavano i più alti indici di sviluppo industriale, sulla base di un'eccezionale espansione e concentrazione di mezzi tecnici e finanziari. Anche se la Germania può essere considerato l'esempio più puro di realizzazione del nuovo modello industriale, fu però negli Stati Uniti che si compì il passo più significativo nella realizzazione del lavoro industriale. Negli USA, infatti, "il movimento per la razionalizzazione della produzione si era ben presto orientato non solo verso l'innovazione tecnologica quanto piuttosto verso l'innovazione organizzativa"2. E' qui infatti che nasce la prima proposta di riforma complessiva del sistema organizzativo delle fabbriche: la teoria elaborata da Frederick Winslow Taylor all'inizio del Novecento. b) Il taylorismo Frederick W. Taylor "era un tecnico della produzione, che aveva già compiuto esperienze lavorative e conosceva molto bene l'organizzazione della fabbrica: dimostrava inoltre una rigorosa etica protestante e una personalità vagamente ossessiva. La sua organizzazione scientifica del lavoro costituisce la forma più raffinata di analisi della giornata lavorativa, oggetto di un'indagine razionale in grado di elaborare il metodo più efficace per utilizzare il tempo e per rendere massima la qualità di lavoro erogato dall'operaio in un numero limitato di ore"3. Secondo il taylorismo "l'applicazione della scienza, considerata oggettiva e naturale, avrebbe liquidato il conflitto di classe realizzando l'armonia e il benessere generali attraverso l'aumento della produttività e la fissazione di criteri scientifici di ripartizione del reddito"4. A livello di organizzazione industriale possiamo affermare che la teoria taylorista postulava tre principi basilari: "la completa separazione tra attività di preparazione e programmazione del lavoro e le attività di esecuzione; la scomposizione del ciclo lavorativo in mansioni sempre più elementari e parcellizzate; e l'assunzione da parte della direzione di ogni potere decisionale per il coordinamento sistematico dell'intera attività aziendale, reso necessario dalla sempre più complessa divisione dei compiti e dall'aumento delle dimensioni organizzative e tecnologiche dell'impresa"5. Ma il sistema tayloristico, pur contemplando l'adeguamento del salario al valore medio del lavoro effettivamente compiuto, incontrò fin dal suo primo apparire la vigorosa opposizione della classe operaia; agli inizi del ventesimo secolo, quando questa proposta di riforma organizzativa incominciò a diffondersi in America, la reazione dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali fu durissima e la resistenza ai metodi scientifici di gestione del lavoro durò oltre un decennio. Possiamo affermare però che questa ostilità fosse infondata; "la proposta di Taylor, infatti, si presentava come la forma più efficace di iniziativa diretta a rendere compatibile una manodopera recalcitrante e gelosa del proprio mestiere con le nuove e più complicate tecnologie che, a partire degli ultimi decenni del secolo, il capitale americano aveva incominciato ad applicare su larga scala al fine di ridurre i tempi di lavoro e di passare alla produzione di massa"6. L'oggetto riorganizzato e gestito dal sistema di Taylor erano gli uomini, gli operai, non le macchine: la tecnologia era assunta come un dato di fatto cui doveva essere adattato il lavoro umano. Tuttavia anche se a rendere possibile la straordinaria intensificazione del rendimento del lavoro è stato un utilizzo sempre più avanzato delle macchine, essa non sarebbe stata possibile senza una prima riforma del lavoro umano. Così si iniziò a scomporre scientificamente le mansioni, a calcolare precisamente i tempi aprendo la strada a quello strumento perfezionato di produzione che è la catena di montaggio dove i principi dell'organizzazione del lavoro vengono incorporati nelle strutture meccaniche: è essa a scandire i tempi ed a dividere le mansioni. c) Il fordismo La catena di montaggio è legata a un altro grande protagonista dell'industrialismo: Henry Ford, il 're dell'auto', che per primo, nel 1913, la sperimentò nei suoi stabilimenti. Egli equivale, nel campo della tecnologia, a ciò che rappresentò Taylor nel campo dell'organizzazione d'impresa. Henry Ford nacque in Michigan nel 1863, figlio di agricoltori, seppe elevarsi fino a divenire proprietario delle più grande fabbrica di automobili del mondo, dopo un tirocinio iniziato all'età di diciassette anni da semplice operaio. Già nel 1892 aveva costruito da sé un primo tipo di automobile. Nel 1899 fondò la Detroid Automobil Company, che abbandonò in seguito per dedicarsi alla costruzione dell'automobile 999 a quattro cilindri che ottenne notevoli successi sportivi; nel 1903 fondò la Ford Motor Company, che divenne ben presto la maggior fabbrica di automobili del mondo, con più di 200.000 dipendenti. Sua aspirazione fu di costruire automobili a basso prezzo, che fossero alla portata di tutti: nacque da questo programma il famoso "modello T" lanciato nel 1909 e prodotto in milioni di esemplari fino al 1926. Ford fu fautore fin dall'inizio di una politica industriale attiva e moderna: alti salari, partecipazione degli utili, lavorazione in serie. Nel 1918 Ford lasciò la presidenza della società al figlio Edsel, riassumendola alla morte di questo avvenuta nel 1943, ma nel 1945 si ritirò definitivamente dagli affari e la presidenza passò al nipote Henry junior. La caratteristica di Henry Ford era il suo ossessivo interesse per le macchine: "nessun materiale viene da noi lavorato a mano" scrive nella sua autobiografia "non esistono operazioni manuali tra noi. Se la macchina può essere fatta automatica, la si fa automatica. Nessuna operazione è considerata mai risolta nel miglior modo e abbastanza a buon mercato... Dividere e suddividere le operazioni, tenere il lavoro in movimento: queste sono le chiavi della produzione. Ecco poi come descrive la catena di montaggio: "l'idea ci venne in generale dai carrelli su binari che i macellai di Chicago usavano per distribuire le Parti dei manzi. Noi avevamo montato i magneti con il sistema comune. Un operaio che facesse l'intero lavoro... impiegava circa venti minuti per pezzo. Ciò che egli allora ese- richiede molti modelli in un numero limitato di esemplari. Per questo il sistema fordista è entrato in crisi, essendo esso basato sulla produzione di massa. C'è, invece, un altro metodo produttivo che ha risposto positivamente al periodo di crisi e in seguito al periodo di crescita lenta: è il sistema Toyota nato in Giappone dalle industrie automobilistiche Toyota. e) II toyotismo in Giappone Sakichi Toyoda fu il vero fondatore delle industrie Toyota che adesso hanno una grande importanza in Giappone. Nato nel 1868 Sakichi, dotato di spirito combattivo, intelligenza e grande creatività, riuscì, già alla fine del XIX secolo, a realizzare la Toyoda Spinning and Weaving, una grande fabbrica dell'industria tessile, e la Toyoda Automatic Loom. Sotto sua raccomandazione, in seguito a un viaggio negli Stati Uniti, suo figlio, Kiichiro Toyoda, si impegnò a fondo nel settore automobilistico, dando vita a una delle più importanti compagnie automobilistiche giapponesi: la Toyota Motor Company. Molte furono le compagnie automobilistiche in Giappone, ma solo alla Toyota si adottò un modello di produzione diverso da quello di Ford, in adozione in quasi tutte le fabbriche dell'epoca. Il sistema di organizzazione del lavoro della Toyota non è nato quindi in sostituzione al sistema fordiano quando quest'ultimo è entrato in crisi, ma ha continuato a svilupparsi e a migliorarsi parallelamente a quello di Ford, riuscendo a soddisfare la domanda nel periodo di espansione economica e a sopravvivere in quello di crescita lenta. L'idea base del sistema Toyota è raggiungere l'eliminazione totale degli sprechi. I due pilastri su cui fonda questo sistema sono il just in time e l'autoattivazione della produzione. Alla Toyota, come in tutte le industrie, il profitto può essere ottenuto solo con la riduzione dei costi. Quando si fa derivare il prezzo di vendita dalla somma del profitto con il costo di produzione, si fanno ricadere sul cliente i costi di produzione: un principio che non è più applicabile nell'industria automobilistica contemporanea. I prodotti sono posti su un mercato libero e competitivo, vengono valutati da una clientela che ragiona, e alla quale poco importa quanto costa al produttore un determinato prodotto. Per una fabbrica che produce merci di largo consumo cercando di sopravvivere sul mercato odierno, la riduzione dei costi di produzione diventa così il principale obbiettivo da seguire. Durante un fase economica di crescita consistente, tutti possono ottenere un abbassamento dei costi aumentando le quantità prodotte. Ma in una fase di crescita lenta, come quella attuale, ciò non è più possibile; bisogna trovare un'altra strada. Il sistema di produzione Toyota, con la sua filosofia e i suoi due pilastri del just in time e dell' autoattivazione, che aspirano all'assoluta eliminazione delle perdite, è nato in Giappone da uno stato di necessità. È importantissimo, secondo Taiichi Ohno, infatti, tenere un contatto molto stretto con la realtà'. Il just in time significa che nel corso dell'assemblaggio dell'automobile ciascun componente arriva alla linea di montaggio nel preciso momento in cui ce n'è bisogno e solo nella quantità necessaria. Kiichiro Toyoda, padre della produzione automobilistica giapponese, ebbe per primo quest'intuizione, che i suoi successori poi svilupparono in un sistema produttivo. Attuando questa strategia produttiva, un'azienda può arrivare a rendere superflua l'esistenza dei magazzini, eliminando lo stoccaggio. Se ogni pezzo arriva nel momento giusto nel luogo dell'assemblaggio allora si potrà eliminare lo spreco, cioè i tempi morti, i trasporti senza motivo, le riserve di prodotti intermedi, i passaggi di mano, i trasporti in posti diversi dalla destinazione, sovrapproduzione, produzione di pezzi difettosi, ecc. Per realizzare il just in time, e ottenere una reale diminuzione dei costi, bisogna pensare all'inverso, come dice Ohno, il padre del cosiddetto Toyota Production System. Solitamente la produzione è concepita come un flusso che va da "monte" a "valle", dalle stazioni iniziali fino ai montaggi finali, formando il corpo dell'automobile. Ma se rovesciamo il punto d'osservazione, possiamo concepire il processo produttivo come un'operazione di prelievo che, partendo da "valle" va a "monte" per prendere soltanto i pezzi necessari e solo nel momento in cui ce n'è bisogno. È necessario, quindi, far pervenire a ciascuna stazione le informazioni relative alle necessità di quella posta a "valle", in modo che sia chiaro cosa e quanto produrre. L'insieme di queste informazioni è chiamato kanban, cioè semplicemente "cartellino". Il kanban va applicato a tutti i pezzi e li accompagna lungo i diversi processi produttivi. In questo flusso, inverso al metodo tradizionale, il processo produttivo va a ritroso, di stazione in stazione: ogni stazione si rivolge alla precedente per richiederle i pezzi di cui ha strettamente bisogno, nella quantità e nel momento necessari, e la stazione precedente dovrà produrre esattamente quanto richiesto. Ogni legame nella catena del just in time è collegato e sincronizzato. In questo modo si riduce drasticamente anche la quantità necessaria di quadri dirigenti e intermedi, perché è il kanban stesso a trasmettere le informazioni e a dirigere la produzione verso gli standard necessari. " L'altro pilastro del sistema di produzione Toyota è l'autonomazione o autoattivazione. Ciò significa trasferire alla macchina l'intelligenza e la sensibilità umana. Il concetto prende origine dal telaio autoattivato inventato da Sakichi Toyoda. La sua macchina era dotata di un dispositivo che la bloccava immediatamente in caso di rottura o inceppamento della trama. In altre parole, la macchina autoattivata è in grado di comprendere se le operazioni si svolgono normalmente o meno. Alla Toyota questo concetto è applicato non solo ai macchinari, ma anche alle linee di produzione e ai lavoratori. Questo significa che se un lavoratore riscontra un'anomalia deve fermare la linea. L'autoattivazione previene la produzione di prodotti difettosi e permette l'individuazione di tutte le anomalie che si verificano sulla linea produttiva. L' andon è lo strumento di controllo visivo diretto sul processo produttivo, utilizzato per fermare la linea in caso d'anomalia. Quando tutto procede bene è accesa una luce verde. Quando il lavoratore vuole apportare qualche correzione alla linea e ha bisogno d'aiuto, s'accende la luce gialla. Se è necessario fermare la linea per risolvere un problema, si accende la luce rossa. I lavoratori sono incoraggiati a non esitare a fermare la linea in caso di necessità; e questo è il miglior modo per assicurare che tutte le operazioni vengano eseguite correttamente. Per quanto riguarda l'economia del tempo si passa dal concetto di tempo assegnato a quello di tempo ripartito. Il principio tayloristico del tempo si fonda sull'analisi dei tempi e dei movimenti. Attraverso delle tabelle che associano dei micro-gesti a dei micro-tempi, gli ingegneri ed i tecnici dei metodi assemblano dei profili di mansioni ai quali sono dunque immediatamente e direttamente associati dei tempi operativi. La produttività dell'insieme è, dunque, determinata dall'efficienza del singolo lavoratore sul posto. Anche il fordismo ha dato il suo contributo in questo campo: disponendo i lavoratori lungo una linea animata da una catena fissa (il famoso convogliatore fordista), il tempo assegnato a ogni lavoratore si trova ormai incorporato nel ritmo impresso al convogliatore. Il tempo assegnato si trasforma così in tempo imposto. Questi due principi, che storicamente si rivelarono di una formidabile efficacia per assicurare l'aumento del rendimento di lavoro, sono tuttavia gli stessi che vengono apertamente criticati da Ohno per il loro eccessivo consumo di tempi morti. Egli definisce il tempo ripartito: le frontiere tra posti e isole di lavoro sono mantenute costantemente in una situazione "virtuale" e sono trasgredibili in permanenza da uno o più dei lavoratori inizialmente assegnati ad un insieme di mansioni preliminarmente determinate. In questo senso, l'organizzazione linearizzata materializza una forma di divisione del lavoro in mansioni, il cui carattere centrale è di essere delle mansioni ripartibili e sempre ridistribuibili. Per evitare il verificarsi di fenomeni negativi nel funzionamento del kanban, le linee d'assemblaggio devono abbassare i picchi produttivi e avvicinarsi il più possibile alle "valli", cosicché il flusso divenga scorrevole. Questo è chiamato, nel sistema di produzione Toyota, livellamento produttivo o flusso snello. Idealmente il livellamento dovrebbe produrre una fluttuazione uguale a zero sulla linea d'assemblaggio finale. Il livellamento è ottenuto alternando nella stessa linea modelli diversi di auto, a seconda delle richieste del mercato. Infatti i diversi valori e desideri della società moderna sono chiaramente individuabili nella varietà delle automobili; è certamente questa diversità che ha generato l'inadeguatezza della produzione di massa dell'industria automobilistica. Nell'adeguarsi a queste differenze il sistema di produzione Toyota è stato molto più efficiente del sistema fordista sviluppato in America, in quanto originariamente concepito per produrre piccole quantità di molti modelli adatti all'ambiente giapponese. Il sistema di produzione Toyota è molto elastico e capace di adeguarsi e soddisfare le difficili condizioni imposte dalle domande dei diversi mercati. Un'altra caratteristica del sistema Toyota, come si è già citato prima, è l'assenza del magazzino. Dopo la crisi petrolifera è andata aumentando la tendenza dell'industria a creare scorte immagazzinando materie prime e prodotti lavorati nei magazzini, in modo da far fronte a un eventuale aumento della domanda. Col Just in time la Toyota ha eliminato completamente il magazzino: i materiali vengono portati dalle ditte appaltatrici nelle quantità e nei tempi giusti, vengono immediatamente lavorati e assemblati nel prodotto finito. Tutto nasce dall'idea secondo la quale dietro lo stock ci sono inevitabilmente coloro che hanno concorso a produrlo; in altri termini, dietro lo stock c'è l'esuberanza di manodopera (l'eccesso di lavoratori rispetto al livello della domanda solvibile ed effettivamente soddisfatta). Allo stesso modo, se lo stock è permanente, è inevitabile che dietro ad esso ci sia una sovracapacità produttiva in capitale fisso. Infatti, eliminando gli stock, si elimina allo stesso tempo la manodopera e le capacità produttive esuberanti. "Appare così quello che si potrebbe definire 'la fabbrica minima', vale a dire la fabbrica le cui funzioni produttive, il capitale fisso ed il lavoro impiegati sono ridotti ai coefficienti strettamente necessari per far fronte alla domanda giornaliera o settimanale"12. Come ben si sa, la riduzione dei costi è lo scopo anche del sistema di produzione di massa fordista, come di qualunque settore dell'industria. Del resto lo stesso Ohno e altri devono molto a Henry Ford e al suo sistema. Molte idee di Ohno hanno preso spunto da Ford, dal suo spirito critico e anticonformista; è da lì che nasce l'idea di pensare all'inverso. 3. "Giapponesizzazione" dell' Occidente? Abbiamo, quindi, trattato i principali metodi d'organizzazione del lavoro in fabbrica. Il taylorismo e il fordismo rappresentano i sistemi tradizionali di produzione per tanto tempo usati nell'industria. Ma con la loro crisi si è verificato, come abbiamo visto, il rafforzamento del toyotismo in Giappone. A questo punto ci si potrebbe chiedere: il modello giapponese dell'organizzazione del lavoro potrebbe essere trasferibile nella società occidentale? Alla base del ohnismo c'è sicuramente una logica universale, ma è anche vero che in Giappone si è potuto sviluppare anche grazie a particolari condizioni sociali; è proprio per questo motivo che la "giapponesizzazione" è praticamente impossibile in occidente. "L"ostracismo' si definisce in funzione dell'importanza e dell'efficacia rivestite dalla pressione esercitata collettivamente dal gruppo sull'elemento di questo gruppo che tenda ad allontanarsi dagli obiettivi che gli sono stati assegnati e che si è liberamente posto (Menard, 1990). In altri termini, l'ostracismo viene qui definito come una tecnica di controllo sociale, che la teoria degli incentivi considera particolarmente 'economica', poiché meno dispendiosa delle tecniche che esigono la presenza di una burocrazia di quadri appositamente stipendiata per dedicarsi a compiti di controllo, di misura e di valutazione della conformità dei lavori effettuati agli obbiettivi posti." Ma una simile tecnica non può essere praticata nella società occidentale data la sua forte tradizione sindacale, che in Giappone, al contrario, è molto debole. Più che cambiare il metodo di produzione, gli occidentali dovrebbero cambiare il loro modo di pensare per quanto riguarda le relazioni sociali, e ciò equivarrebbe ad una vera e propria rivoluzione nel pensiero occidentale, ciò che Ohno chiama "rivoluzione delle coscienze"". C'è anche chi lo considera un pericolo per la democrazia sindacale. Benjamin Coriat nel suo libro Ripensare l'organizzazione del lavoro afferma: "La `giapponesizzazione' praticata come arte di infrangere i compromessi ereditati dal periodo fordista è sicuramente un mezzo potente per soffocare, nell'impresa, come nella società, ciò che decenni d'innovazione sociale e contrattuale hanno, nei nostri paesi, pazientemente e lentamente costruito"15. 1 P. Ortoleva, M. Revelli, Storia dell'età contemporanea, Ed. Bruno Mondadori, Milano 1993, p.40 2 ivi, p. 41 3 ibidem 4 ibidem 5 V. Castronovo, Fabbrica, in Enciclopedia, vol.V, Einaudi, Torino 1978, p.38 6 P. Ortoleva, M. Revelli, op.cit., p.42 7 ivi, pA5 8 ibidem 9 ibidem 10 Cfr. T. Ohno, Lo spirito Toyota, Einaudi, Torino 1993. p.93 11 ivi, pp.9-10 12 B.Coriat, Ripensare l'organizzazione del lavoro, Edizioni Dedalo, Bari 1991, p.24 13 ivi, pp.177-178 14 T.Ohno, op.cit.,p.24 15 B.Coriat, op. cit., p.185 - X - TESTIMONIANZE a cura di Giuseppe Deiana Maria Grazioli (figlia di Giacomo Grazioli) Le origini della fabbrica risalgono al 1928, in via Pezzotti al n. 6. Poi, dieci anni dopo, nel '38 è stata costruita la nuova fabbrica, in via De Sanctis. Mio padre è stato spinto a questo salto perchè la produzione si era avviata molto bene; era una fabbrica che costruiva torni, fresatrici, ecc. Questo quando ha cominciato a lavorare da solo, perchè prima, da giovane, era stato dipendente della ditta Breda: era stato il braccio destro dell' anziano signor Breda. Nel 1916, nel periodo della grande guerra, aveva studiato anche un pezzo del famoso cannone fatto da Breda per la guerra. Poi dopo ha deciso di mettersi in proprio, prima con il piccolo stabilimento di via Pezzotti: ha cominciato con un piccolo tornio, chiamato "Fortuna" (perchè è stato veramente la sua fortuna), che vendeva a mille lire. Ha proseguito poi con il "Dania", dal nome del suo disegnatore, che io conoscevo benchè piccolissima. Essendo una persona molto valida, mio padre ha voluto ricordarlo dando il suo nome al secondo tornio da lui prodotto. Inizialmente affidava ad altri la vendita, ma successivamente ha iniziato a venderli direttamente, andando all' estero e un po' dappertutto. Insomma, ha cominciato ad inserirsi nel mercato. Poi, dieci anni dopo, ha costruito il nuovo stabilimento, con villa a lato. La fabbrica si è ingrandita, specialmente in tempo di guerra: a turni lavoravano oltre 800 persone, tra tecnici e operai, che producevano torni richiesti sia in Italia che all' estero. Andavano molto nelle scuole, nei laboratori degli istituti tecnici e professionali, come quelli per esempio dell' Istituto Feltrinelli. Credo che in questa scuola ci siano ancora i torni Grazioli. Mio padre ha organizzato una scuola interna per preparare i giovani al lavoro: i professori del Feltrinelli venivano a insegnare. Poi è venuta la guerra, ma io ero in collegio. Nel '45 è successo quello che è successo: alla vigilia del 25 aprile hanno ucciso mio padre. Nel pomeriggio del 24 aprile 1' hanno ferito ed è morto il 25, in ospedale. Mia madre non ha voluto il processo; c'erano gli americani che volevano fare il processo, però mia madre non ha voluto. Anzi, ha inculcato a noi figli di non avere odio per nessuno e di superare questa cosa. Subito dopo la morte del papà la fabbrica è passata in mano agli operai; era gli anni `46-47, nel clima del post-liberazione.Nel '48, quando io sono diventata maggiorenne, la proprietà è tornata a noi Grazioli. Negli anni della gestione operaia le banche avevano chiuso i finanziamenti e i rifornimenti di ferro e di materiali; gli operai sono riusciti alla bell' e meglio con tutto quello che c' era in magazzino, dove c' erano anche molti torni già pronti. Ma i clienti avevano cominciato ad allontanarsi dalla fabbrica. La proprietà è ridiventata nostra: di mia mamma, due sorelle e un fratello. Chi gestiva direttamente la fabbrica era mio fratello Aldo. Dopo c' è stato un perido di crisi e la fabbrica è stata venduta, a seguito del fallimento nel '59-60. E' stata venduta sia la ditta, sia i terreni, sia la casa padronale. E' stata venduta alla società Carle-Montanari, azienda meccanica che Produceva macchine per l' industria dolciaria. La Carle-Montanari l' ha tenuta per due anni, con un buon successo nel primo anno. L' ha rimessa in piedi molto bene, tornando agli utili. Poi sono ricominciati i problemi sindacali: non è giusto dire problemi operai, perchè si trattava di un piccolo gruppo che aveva interessi diversi da quelli sindacali. Per cui questo acquirente, che aveva altre aziende, ha preferito abbandonare. Gli operai ci hanno sempre detto che c' era un gruppo di persone che aveva interessi politici contrastanti con quelli di Giacomo Grazioli, che,dopo la liberazione, era candidato a cariche pubbliche. Non era fascista, anzi. A causa della gestione operaia 1' azienda non aveva più credito, aveva perso i clienti, ecc. E' andata avanti lo stesso, con una situazione di mercato certamente cambiata. Peraltro, almeno inizialmente non fu difficile. Non è stata una ragione di mercato la crisi dell' azienda. E' stato per ragioni di gestione, una gestione fatta da una famiglia che aveva perduto tutto. Dall' altra parte i costi erano elevatissimi, perchè gli operai erano pagati parecchio di più degli altri. Andare a lavorare alla Grazioli era un' aspirazione di tutti. Nel periodo della gestione operaia gli stipendi erano lievitati e tali erano rimasti. In più gli scioperi. Non passava una settimana che non ci fosse uno sciopero. Per cui la gestione è stata terribilmente difficoltosa. In questa situazione l' azienda non ha potuto continuare, perchè non era economicamente sana. Non ci sono stati diretti concorrenti che hanno portato via i clienti alla Grazioli. I torni Grazioli erano molto apprezzati. Ancora adesso riceviamo telefonate da tutte le parti del mondo che chiedono della Grazioli. Come nome la fabbrica era senza discussione, era la numero uno. Però, alla base ci sono sempre stati questi problemi di gestione, legati a problemi di rapporti con i dipendenti. Anche se la causa della crisi non è mai una. Dopo la Carte-Montanari non abbiamo più seguito le vicende della fabbrica. E' passata di mano in mano, fino al gruppo Rosso. Noi abbiamo continuato ad abitare lì, ogni tanto venivano gli operai a parlare, per convincerci a riattivare la fabbrica, per impedire la chiusura, da parte dell' ing. Rosso, all' inizio degli anni '80. La fabbrica era presidiata, gli operai avevano chiesto la corrente dalla villa per poter continuare a lavorare, tenere aperta la mensa, ecc. Noi consigliavamo di mettersi in cooperativa, perchè disposto ad entrare tra gli industriali non c' era più nessuno. Il nome della fabbrica era famoso, ma la gestione operaia I' aveva screditato e nessun imprenditore era disposto a prendersela. E' vero che la Carte-Montanari e il gruppo Rosso 1' anno presa, ma dopo sono scappati. Non c' è stata più una ditta seria che I' abbia voluta rilanciare. A metà degli anno '80 è stata chiusa definitivamente e venduta dal curatore fallimentare. Oggi la fabbrica è quasi integralmente abbattuta per edificare un palazzo di abitazioni civili. Non doveva finire così: per noi è una grande tristezza, un sentimento di terribile ingiustizia sia nei confronti del fondatore, sia nei confronti dei dipendenti. I migliori operai volevano salvarla, quindi non sono loro la causa della fine. C' era un piccolo gruppo di di dipendenti e di altri che venivano da fuori, che avevano creato una situazione conflittuale. Nella Grazioli il conflitto è stato superiore alle altre situazioni e, d' altra parte, non c' era il fondatore che tenesse in mano la situazione. Quando mio fratello Aldo ha ereditato la gestione della fabbrica aveva 24 anni, era appena tornato dalla guerra. Una cosa è creare e tirare su una azienda piano piano, un' altra è ereditarla e gestirla in condizioni di emergenza, che solo nostro padre poteva fare. Egli aveva investito tutto nell' azienda, viveva per essa. Aveva fatto un bellissimo dopolavoro per gli operai, con campo da bocce, mensa, ecc. Più di un operaio è venuto da noi per dire che erano disposti a rivelare chi l' aveva ucciso. La famiglia ha poi saputo chi era stato l' assassino, ma ha deciso di metterci una pietra sopra. Anche perchè non c' era alcuna motivazione logica per eliminare nostro padre. Egli non ha voluto prendere precauzioni per sè, ha solo mandato via noi per stare al sicuro. I sicari hanno agito per motivi politici. Qualcuno aveva un interesse politico a fare quello che ha fatto, o fatto fare. Noi sappiamo chi è stato, conosciamo il nome della perso- na che ha commesso il delitto e dei mandanti. Questi addirittura si vantavano di quello che avevano fatto. Gli stessi avevano fatto del male anche al Cicogna, un nobile, sempre in via De Sanctis. Nel suo caso I' hanno solo ferito, nello stesso giorno. Erano giorni tremendi. Dopo la sua morte la gestione operai ha svuotato la fabbrica, che non ha potuto reggere. Nel dopoguerra la fabbrica non aveva problemi di vendita, ma problemi di gestione. Non ha avuto più utili, ma semplicemente perdite, perchè lavorava in condizioni difficili dal lato dei rapporti di forza all' interno. Le macchine erano richieste, però i costi aziendali erano troppo elevati, per colpa dei gruppi politici che oparavano all' interno. C'era un'ala rivoluzionaria del partito comunista, era la cellula di Milano di chi voleva la rivoluzione. A noi ci hanno buttato fuori dall' azienda. La morte del papà è legata a queste ragioni. La persona che si è macchiata del delitto è espressione del brutto partito comunista, non di tutto il partito comunista. Se n' è fatto anche un vanto. Noi sappiamo chi è questa persona, che è morta da un pezzo. Però devo dire che volevano veramente impadronirsi dell' azienda e della casa. Il mandante non era Togliatti e la direzione del partito, per intenderci. Un' ala, un gruppo politico ha agito autonomamente. Mio padre era stato anche avvisato da amici, da un gruppo di industriali, perchè si nascondesse o prendesse delle precauzioni. Ma non ha voluto lasciare lo stabilimento in mano ad altri, agli operai. La mattina del 24 aprile ha mandato in banca mio fratello a prelevare dei soldi, tanti. Mezzora prima che I' uccidessero, alle quattro e mezza del pomeriggio, ha radunato gli operai e ha detto: "Oggi, domani e nei prossimi giorni passeremo delle giornate di rivoluzione, perchè sta finendo tutto. Vi lascerò a casa". Ha dato ordine di distribuire i soldi agli operai per i bisogni delle loro famiglie. Ma il direttore della fabbrica ha detto: "E per la sua famiglia non ci pensa?". Ha fatto allora due liberetti: uno intestato a me e uno a mia sorella. Ha dato doppia paga a tutti. Mezzora prima che finisse il turno gli assassini sono arrivati e lo hanno ucciso. Egli era in collegamento con il CLN, conosceva tutti i movimenti: forse per questo non ha preso delle precauzioni. Doveva diventare sindaco di Milano. Dopo i quattro assassini, che erano espressione di un gruppo politico estremista, sono stati presi e imprigionati. Il capo è stato identificato anche per aver fatto altre porcherie. E' stato in galera e poi ha fatto una brutta morte, per altre cose: per furti, ecc. Era uno che lavorava nell' azienda e che mio padre tante volte I' ha trovato con le mani nel sacco, perchè portava via della roba dalla fabbrica. Anche tra i compagni, uno era dipendente e gli altri erano di fuori. Mio padre I' aveva preso una o due volte, dicendogli: "Non posso io licenziarti, hai una famiglia. Cerca di tirare dritto, di comportarti bene". Certo, non poteva essere un fior fiore di persona a fare questo. Tutti gli operai hanno sempre dato la stessa versione del fatto, dovuto ad un piccolo gruppo di persone, che erano dei mascalzoni e che, approfittando della situazione di confusione, hanno potuto fare quello che hanno voluto. Erano teste calde di un partito che era contrario alla violenza in fabbrica, ma che non ha saputo prevenire i violenti. Non si può considerare un fatto autorizzato dal partito comunista: l' uccisione di mio padre è stato un fatto di odio da parte di una persone che si è coperta con una motivazione politica, facente capo ad una frangia violenta e pericolosa. Virginio Gallazzi (operaio) Sono entrato come operaio alla Grazioli nel '39. In quell' anno fu aperta la scuola per operai, fummo assunti in 40 dopo la selezione. Io quindi ho fatto la scuola interna utilizzando il libro di un perito industriale, direttore della scuola, di nome Cangioli. La cultura generale era insegnata da un maestro elementare o studente universitario, che si chiamava Patrosso o Patrasso. Poi c' era un istruttore tecnico di nome Moders, tedesco. C' erano alcune ore teoriche ed alcune pratiche, in un reparto per nostro conto. Dopo il primo anno, per un totale di tre, le lezioni di teoria diminuivano e aumentavano quelle pratiche. Durante la scuola eravamo pagati: in quei tempi si prendeva una lira e tre centesimi all' ora. Facendo 48 ore alla settimana non ho mai portato a casa più di 25 lire. Un operaio prendeva 3 lire e 60 centesimi all' ora. Quindi la nostra paga era meno di un terzo. Nella paga di un apprendista erano comprese anche le lezione teoriche. Ma, con le trattenute fiscali e non (per la tuta, per il calibro, per lo stemma della Grazioli, per la divisa fascista anche per chi non la voleva, ecc.), più di 25 lire io non portavo a casa. Dopo tre anni, nel 1942, fu fatto l' esame ed io risultai secondo, primo fu il geometra Palladini. Passai così operaio qualificato all' età di 17 anni. La direzione sosteneva che prima di 18 anni non potevo essere operaio qualificato e non voleva pagarmi in modo adeguato. Mi rivolsi al sindacato fascista, perchè c' era solo quello ed ho avuto ragione io: fui pagato con 3 lire e 60 centesimi all' ora. Il titolare della fabbrica era Giacomo Grazioli, ingegnere "onoris causa" in ingegneria meccanica. Era un tecnico che veniva dalla gavetta: non era nemmeno perito. Originariamente aveva un' officinetta sotto il ponte ferroviario, tra via Pezzotti e via Tibaldi, dove lavoravano in quattro. Con gli appoggi del regime ha messo su la fabbrica in via De Sanctis. Egli era il titolare, ma il direttore tecnico era un certo ingegnier Nerviani. Poi c' era il capo dell' ufficio progetti, ing. Graziosi, con un figlio antifascista, universitario. Poi c' era un certo Zani, che era direttore amministrativo e i vari capi reparto. Nel '42, quando sono entrato, le ore di lavoro non erano 48 alla settimana, ma più di 60. Durante la guerra furono aumentate le ore perchè c' era bisogno di macchinari. La Grazioli forniva 1' Ansaldo e le altre fabbriche grosse. C' era molta disciplina e non si poteva fare nulla senza permesso. C' era un ufficiale degli alpini che controllava la fabbrica. Gli operai erano esonerati dal servizio militare perchè si trattava di una fabbrica bellica. Produceva torni, frese e fresatrici per rifornire 1' Ansaldo, che produceva armi insieme ad altre fabbriche. I macchinari della Grazioli quindi erano legati alla produzione di armi sotto il controllo del regime. Le macchine della Grazioli erano abbastanza conosciute, erano all'avanguardia. Grazioli era il titolare, ma la progettazione era frutto del lavoro dei suoi collaboratori. Grazioli sapeva fare il suo mestiere pur essendosi fatto dal nulla. Determinante però è stato il "concime" (aiuto finanziario) che ha avuto dal regime. Personalmente non so che rapporti avesse con il fascismo. Alle manifestazioni ufficiali egli era sempre in divisa, in camicia nera. Però con noi non si è mai comportato male, almeno con me. Agli scioperi del '43 la fabbrica ha partecipato attivamente, subito e ha protratto 1' agitazione per alcuni giorni. Infatti quattro operai erano stati arrestati e portati a San Vittore: allora noi per protesta ci siamo fermati ancora per la liberazione dei quattro, che non erano neppure attivisti. Si chiamavano Orlandi, Mussi, Del Conte: il quarto non me lo ricordo. Era quindi una fabbrica molto attiva dal punto di vista politico e sindacale, tanto è vero che nei giorni dei primi scioperi solo due operai su circa 500 (tra impiegati e operai) non hanno scioperato. In mensa si sono messi da parte, separati dal resto dei lavoratori che erano scesi in lotta. La vasta adesione allo sciopero fu dovuta ad una reazione spontanea, ma anche ad una forte azione politico-sindacale. Durante gli scioperi alcuni fascisti sono venuti in fabbrica per convincerci a riprendere il lavoro, ma gli operai per poco non li buttavano giù dalle finestre del primo piano. Io da uno dei fascisti mi sono preso anche uno schiaffo, ma non ho ceduto. I quattro fascisti allora hanno portato via il capo del reparto di torneria, di nome Santoni (che non era nè fascista nè antifascista: era uno che lavorava e basta), accusandolo di non saper far lavorare gli operai. Allora si è visto un fatto clamoroso: tutti gli operai si sono messi in fila indiana per seguire il Santoni, come segno di solidarietà. Sulla porta i quattro fascisti con Santoni hanno incontrato il Grazioli che, vedendo la mobilitazione degli altri operai, ha fatto liberare il capo reparto e umiliato i fascisti mandandoli via a malo modo. La mattina dopo ci siamo subito interessati per vedere che non avessero portato via nuovamente il Santoni, ma 1' abbiamo trovato al suo posto e lo sciopero si è fermato. Da quel momento è nata un' organizzazione sindacale e politica vera e propria, che è esplosa il 25 luglio e 1' 8 settembre del '43. In questa seconda circostanza, io e un compagno di nome Negri abbiamo avuto la lettera di licenziamento, in quanto indesiderati per motivi politici e sindacali, come ritorsione. Io perchè ero in prima fila nell' agitazione. C' erano anche Dulevio, Santagostini, Gasperini e altri compagni. Questi facevano lavoro politico: a noi giovani spiegavano che non si trattava solo di mandare via i fascisti, ma anche di realizzare un mondo nuovo, un ideale politico di democrazia, ecc. Dulevio era un esponente dei Gap, che è sfuggito alla morte quando furono presi e fucilati i quattro partigiani di via Tibaldi Abico, Del Sale, Clapiz e Alippi). Veri e propri partigiani combattenti erano pochi: c' ero io ed un altro. Partigiani nel senso che siamo andati in montagna a combattere. Subito dopo il licenziamento, ai primi di ottobre, sono partito per montagna e sono rientrato in fabbrica dopo l' insurrezone e la liberazione. Alla vigilia dell' insurrezione Grazioli è stato ucciso, ma io non c' ero. Ho avuto solo due volte 1' occasione di parlare con Grazioli e non era quel fascista sfegatato come tanti altri a Milano. Aveva cercato di appoggiarsi dove poteva e il fatto della sua uccisione risulta poco chiaro. Non ce lo siamo mai spiegati con precisione. Non credo che sia stata una scelta del CLN, anche perchè nella Grazioli non fu mai arrestato nessuno degli operai. Quindi non c' era la materia per una vendetta politica. D' altra parte nessuno degli industriali di Milano è stato ammazzato per collusione col fascismo. Grazioli quindi non era un personaggio da eliminare, come altri segnati in apposite liste. Io ero via e non so spiegare questo delitto. Dopo la morte di Grazioli, Colombo è diventato direttore generale; un certo Falcetta e Zani dirigenti. C' è stato nei primi anni un consiglio di gestione, ma la fabbrica era in mano ai tre dirigenti indicati. Dopo il '47 sono subentrati i proprietari, con Aldo Grazioli. La fabbrica era molto moderna. Comprendeva il dopolavoro, campi sportivi di bocce, di pallacanestro, di tennis, una pista da ballo all' aperto, ecc. Al lato c'era anche la villa di abitazione della famiglia Grazioli. Io sono rientrato nel maggio del '45. I primi problemi che ho avuto sono stati quelli di adattamento. I due anni che avevo passato via mi avevano pesato. Non c' era molto accordo tra me e i dirigenti. Anche perchè ero venuto a sapere che alcuni di essi avevano imboscato materiale della ditta. Non ho più partecipato alla vita politica e sindacale: ho fatto il semplice operaio fino al '46, quando mi sono licenziato, perchè volevo andare al convitto Rinascita a studiare. Ho scelto io di andare via, non sono stato licenziato. Il convitto Rinascita era un' istituzione Per partigiani e reduci, che in un primo momento aveva la sede nei pressi di via Conservatorio, dove adesso c' è 1' ANPI, che era il palazzo dell' ex GIL. C' erano quasi tutti i tipi di scuola: io frequentavo quella per perito tecnico. Non era una scuola statale: gli esami dovevamo andare a farli fuori, in una scuola pubblica. Questa scuola ha tutta una storia: era stata realizzata con i fondi avanzati dalle brigate partigiane, in particolare della decima brigata Rocco, guidata dal comandante Luciano Raimondi. Tra i fondatori c' era anche Andreis della brigata Pizio Greta nel Biellese. C' era anche 1' appoggio di Aldo Aniasi, ex comandante della divisione Redi. Poi c' erano anche un certo prof. Pelegatta, Cesare Musatti lo psicologo. Doveva essere una scuola di tipo nuovo, in cui gli utenti avevano voce in capitolo attraverso un' assemblea settimanale. Sono uscito dalla scuola con la specializzazione di perito industriale. Ho fatto diversi lavori, fino ad approdare all' azienda tramviaria. Le altre possibilità di lavoro sicuro e stabile per me erano precluse, perchè dovunque andavo a fare gli esami tecnicamente ero a posto, ma le informazioni politiche mi danneggiavano, perchè pesavano negativamente. Chi era classificato ex partigiano, ex combattente era sgradito dalle industrie private. Sono stato uno dei primi a fare gli esami all' IBM, che sono andati bene. Mi è stato detto di tenermi a disposizione per entrare a lavorare, ma non sono stato assunto per le informazioni sul mio passato di combattente partigiano. La mia famiglia era tutta così: mio padre era comunista, mio zio anche. Io non mi sono mai pentito di aver orientato la mia vita in senso comunista. Del periodo della Grazioli mi sono portato dietro molte cose: innanzitutto il contatto con gli operai, poi il lavoro operaio, che allora non era ancora caratterizzato dalla catena di montaggio: c' era spazio all' inventiva, alle capacità personali e alla collaborazione. Le macchine da noi prodotte andavano in giro in molte parti, perchè erano famose. Gli anni della Grazioli sono stati stati dal '39 al '46, con 1' intervallo dei due anni di montagna come partigiano. Questi cinque anni di fabbrica alla Grazioli mi hanno fatto maturare: innanzitutto a causa del contatto con gli operai, che ha confermato il mio ideale politico, che mi derivava da mio padre che aveva fatto parte dell' occupazione delle fabbriche del '21, all' OM di Milano; poi un fratello di mio padre aveva sposato un certo Sacenti che era stato funzionario del partito comunista e sindaco di Prato in Toscana. Ho ereditato una tradizione familiare comunista. Entrando in fabbrica ho maturato una sensibità politica concreta e non solo ideale, all' insegna della solidarietà. V. S. (operaio, che desidera mantenere I' anonimato) Ho iniziato a lavorare alla Grazioli nel 1939, ai primi di dicembre, quando la fabbrica aveva già qualche anno di vita. Io sono entrato in via De Santis al 106, dove è stato inaugurato lo stabilimento nuovo rispetto a quello originario. Lì ho fatto la prima parte della mia carriera lavorativa: dal '39 al '62, con la parentesi del militare durante la guerra. Nel '62 mi sono dimesso, perchè la fabbrica era già allora sulla via del disfacimento. Non ho fatto la scuola interna, ma sono stato lì per un periodo di apprendistato come allora si usava. Dopo mi hanno passato in produzione, con lavori piuttosto facili. La fabbrica produceva torni, fresatrici, alesatrici, rettifiche, ecc.: era una bella fabbrica. Tecnologicamente era all' avanguardia, perchè forniva i laboratori delle scuole professionali, era apprezzata anche all' estero, era molto competitiva almeno allora. Questa capacità tecnologica particolare era dovuta principalmente al fondatore, Giacomo Grazioli, subito dopo ai tecnici e agli operai, in tutto circa 300. Anche gli operai erano coscienti, si dedicavano esclusivamente al lavoro, perchè non avevano il tempo di divertirsi, di andare a spasso, di sciupare il tempo inultilmente, come ora. Molti di noi, anche dopo dieci ore di lavoro, frequentavano qualche scuola serale per migliorare le loro capacità lavorative. All' inizio le ore di lavoro settimanali erano anche 54 e noi eravamo contenti di farle pensando ai soldi ed alla possibilità di avere qualche cosa in più. Nei nostri desideri di giovani non c' era allora il motorino che quasi non esisteva: ci accontentavamo della bici- 1 detta, che adoperavamo come mezzo di trasporto, facendo anche 150-200 km. al giorno. Allora gli operai si dedicavano veramente al lavoro, con passione e coscienza. Tra gli operai e il Grazioli c'era buona armonia: eravamo rispettosi. Tutta la generazione di allora era rispettosa verso il principale, verso il vicino di casa, verso tutti insomma. Giacomo Grazioli era un artigiano che si era fatto da sè, una persona abbastanza riguardevole da parte di tutti gli operai e più in generale da parte della popolazione del quartiere e della zona. Abitava a dieci metri dalla fabbrica, la sua casa era là. Quest' uomo era bravo, ma è stato ucciso in fabbrica. Io non ho assistito all' uccisione. In relazione alla sua morte io penso questo: che i rancori e la rabbia che c' era nella gente per la guerra si sono riversati su certe persone, ma non avrebbe dovuto essere così. Si era nel clima dell' insurrezione, in un clima sociale terribile: quindi chi poteva soddisfare la sua rabbia lo faceva. Io penso che lui sia stato un po' coraggioso e non ha potuto nè voluto fare l' eroe a opporsi a certe cose, a certe richieste. Io in quei momenti non ero nell' ambiente partigiano e quindi non posso giudicare se la vendetta sia maturata nel CLN e tra i partigiani. So che tutto era sconvolto, tutto era sottosopra, c' erano rancori personali e politici, perchè il fascismo era il fascismo. Noi eravamo tutti fascisti, 1' Italia era fascista, ecc. In fabbrica c'erano gli antifascisti, ma questo bisogrebbe chiederlo a loro. Ora, Grazioli non si è preoccupato del clima che c' era, non ha preso le precauzioni contro le vendette anche personali. Io penso che si sia dimenticato che poteva succedere qualcosa di pericoloso: probabilmente la sua morte è dovuta a questa dimenticanza o noncuranza. La fabbrica successivamente è stata gestita dal consiglio di fabbrica prima del rientro della proprietà, con il figlio Aldo Grazioli. La gestione operaia funzionava: poteva funzionare bene, ma c' era chi si rilassava da una parte chi dall' altra, senza impegnarsi come di dovere. La fabbrica in termini produttivi in quel periodo ha retto bene perchè c' erano gli operai che erano coscienti, che ce la mettevano tutta. Poi c' erano i dirigenti che o erano incompetenti, o se ne approfittavano, e allora le cose cominciarono ad andare male. La gestione di Aldo Grazioli è durata poco e non è andata bene. Il padre ha realizzato con sacrifici una grande cosa che il figlio ha sperparato, come spesso succede. Era incompetente e disinteressato, lasciava fare ai dirigenti che pensavano per lui, che non si curava di niente. La fabbrica pian pianino cominciò ad andare a sfascio. Quando la fabbrica ha cominciato ad andare male io mi sono licenziato. Allora agli operai veniva offerta una certa somma di denaro perchè si dimettessero. Molti hanno accetato. Ma chi ha accetato? Quelli che sapevano lavorare bene, quelli che ci tenevano molto alla fabbrica Avendo ricevuto l' occasione di prendere qualche soldino in più se ne sono andati in altri posti. C'era la piena occupazione ai primi anni '60: chi sapeva lavorare non stava mica in strada. Quindi, via di lì, subito in un altro posto. E' capitato anche a me: io mi sono dimesso per andare altrove, in un grande magazzino commerciale di Milano. Da operaio specializzato quale ero sono entrato lì come manovale, ma non mi interessava questo. Mi interessava entrare lì e poi migliorare, come poi è capitato di fatto. Ora, la Grazioli avendo perso gli operai specializzati si è trovata scarsa di maestranze competenti. I giovani assunti non avevano nè esperienza e neanche una certa cultura tecnologica acquisita con la pratica in molti anni. Questi giovani lasciavano perdere alcune tecniche, alcune precisioni; ecco che allora la fabbrica ha ridotto le vendite perchè c' erano altre concorrenti, come la Tovaglieri di Busto Arsizio, la Pasquini di Milano, la Saimp di Padova, ecc. Di fronte a queste concorrenti la Grazioli ha perso tutto. La Grazioli era una fabbrica molto politicizzata, tutte erano poiticizzate le fabbriche allora: gli operai volevano essere qualcuno e quindi lottavano per migliorare la condizione dei lavoratori. Ci si organizzava: nelle fabbriche c' era molta politica tra rossi, bianchi, ecc. Si lottava molto, però tutto sommato eravamo affratellati, uniti come lavoratori anche se divisi polititcamente. Noi ci si conosceva anche fuori dalla fabbrica perchè vivevamo nello stesso posto. La gran parte degli operai erano di Milano e vivavano vicino alla frabbrica, però molti venivano da fuori: dalla provincia di Pavia, di Bergamo, ecc. Viaggiavano, facendo i pendolari, sui carri-merci al freddo: una vita durissima. Gran parte degli operai venivano dalla zona circostante, in particolare dal quartiere Baia del Re. Io abitavo in corso San Gottardo. Nell' agosto del '43 la casa fu bombardata e distrutta. I miei per fortuna erano fuori, nel ricovero delle scuole di via Tabacchi. La fabbrica non fu mai bombardata, o per caso o per scelta dei tedeschi. Non era protetta come la Breda che fabbricava le bombe, mitra, ecc. Ho sentito dire che alcuni operai furo mandati in Germania a lavorare: non so di più perchè per un certo perido io sono stato assente dalla Grazioli. La fabbrica era molto integrata nel quartiere, era anche un prestigio entrare a lavorare alla Grazioli. Io da ragazzo volevo entrare alla Grazioli perchè era famosa, abitavo non molto lontano, ecc. Ho fatto la domanda scritta, anche alla Caproni e all ' Alfa Romeo. Tutte e tre mi hanno richiesto, ma ho scelto la Grazioli. Allora chi voleva lavorare trovava con facilità. Avrei preferito entrare alla Caproni perchè mi piaceva fare il pilota, ma solo per I' iscrizione ci volevano 300 lire che io non avevo. E chi li aveva allora? Gli stipendi erano molto modesti ed io ero molto giovane. Alla Grazioli ho lavorato dal '39 al '62 (tolti i due anni di servizio militare), per circa 25 anni. Oggi la fabbrica è quasi del tutto abbattuta. Ma io mi sono portato a casa alcuni mattoni e un macigno come ricordo. Li ho portati nell' orticello che ho in campagna. I 25 anni di lavoro sono stati un pezzo della mia vita, un pezzo importante. A fare ciò mi ha spinto il fatto che ho vissuto, mi sono fatto una cultura e un' esperienza di lavoro alla Grazioli. Giacomo Grazioli per me è stato il primo industriale con cui ho avuto a che fare, che ho conosciuto. Il signor Giacomo veniva alla sede fascista di via Tabacchi per le manifestazioni dei giovani avanguardisti. Quando c' erano le gare sportive (scherma, ecc.) al campo Forza e Coraggio egli veniva ad assistere. Io lo stimavo, perchè era molto serio, una buona persona, che riceveva chi voleva parlargli. Non era odiato dagli operai pur essendo un padrone. La sua uccisione sotto questo aspetto è inspiegabile. Io in quell' occasione ero sfollato a Seregno e non ho assistito ai fatti. Secondo me è stato imprudente nel caos della fine del fascismo. Non avendo preso delle precauzioni è stato facile che qualcuno si sia vendicato di qualcosa. Morto lui la fabbrica ha cominciato a perdere colpi, anche per la perdita degli operai che avevano esperienza. Perchè ai nostri tempi la preoccupazione degli operai era soltanto il lavoro, ci dedicavamo a lavorare bene, che una macchina doveva durare, doveva essere precisa, doveva essere fatta coscientemente bene. Le nostre macchine dovevano essere precise perchè servivano a fabbricarne altre: macchine da scrivere, ecc. Uno dei torni ha avuto una fortuna particolare ed è stato chiamato proprio "fortuna". Andava a ruba: non era il Dania 180, che era un' altra macchina. Era un tornio di dimensioni piccole che è stato richiesto molto, perchè era molto como, richiesto soprattutto dai piccoli artigiani, dalle scuole professionali e da tanti altri enti e società. Il Dania 180, però, è stata la macchina più completa e tecnicamente più riuscita. Si può considerare il pezzo pregiato della Grazioli: aveva caratteristiche del cambio, della sicurezza, della manovrabilità molto buone; insomma piccoli automatismi originali e nuovi. E' stata una buona macchina. Nei miei anni non c' è mai stato un incidente sul lavoro. Lo stato generale dello stabilimento era buono. L' unico punto debole era la verniciatura. Non c' era ancora il reparto apposito per non diffondere le sostanze chimiche. Dopo un certo periodo si è provveduto a fissare un reparto isolato per la verniciatura. Con Grazioli si poteva discutere, gli si potevano segnalare cose da migliorare, che spesso venivano accolti. Dopo la guerra ci furono molti scioperi, anche troppi: direi che ogni settimana ce n' era uno. Era una catena di scioperini legati alla paga: soprattutto quando lo stipendio fu sospeso perchè le macchine non si vendevano più in quanto non erano competitive. Questo soprattutto negli ultimi periodi della mia presenza in Grazioli, all' inizio degli anni '60. La Grazioli, poi, era all' avanguardia degli scioperi politici. Appena il presidente americano faceva qualcosa si faceva sciopero. Per qualsiasi cosa che c' era in giro la Grazioli era una delle prime a rispondere, a collaborare. Io sono andato via anche per questo, perchè quando si scioperavano non si prendeva la lira. Certi scioperi erano giustificati, però altri no. Le tensioni non mancavano anche all' interno, soprattutto tra chi voleva scioperare e chi no. Una parte dei lavoratori erano comunisti. Oltre ai comunisti c' erano un po tutti: un po' di socialisti, di democristiani, ecc. A livello sindacale la maggioranza era composta da iscritti alla Fiom-CGIL. La CGIL era quella che più di tutti faceva i nostri interessi. Tutta questa esperienza è finita con la distruzione della fabbrica, anche se io mi sono portato via sei mattoni, una piastra di recinto, una rete metallica, ecc., e me le sono messe nell' orticello che ho fuori della città. Essi rappresentano una parte della mia vita a cui sono affezionato. Io non so se la storia della Grazioli può interessare ai giovani di questa generazione, che sono abituati ad altro, anche ad altri lavori chiamati "terziario". I tempi sono completamente cambiati. Io voglio ricordare come ero e come erano i miei compagni di lavoro. Una fabbrica di macchine e di uomini che lavoravano con sacrificio e con dedizione. Roberto Vacchini (operaio) Prima di iniziare la mia esposizione desidero formulare una premessa, ossia tralasciare la questione delle lotte politiche, sindacali e di resistenza, che gli operai della Grazioli hanno sostenuto, in quanto argomenti già trattati dagli altri; in ogni caso più avanti esporrò qualche fatto saliente che è stato tralasciato o dimenticato. Preferisco parlare della nascita della scuola interna, del suo valore professionalmente e socialmente qualificato per i giovani che la frequentavano (foto 4), per il merito del fondatore e titolare dell' azienda Giacomo Grazioli, con la stretta collaborazione del perito industriale Corrado Cangioli. Sono entrato nella scuola interna nel settembre del 1941 all'età di 14 anni, compiuti quello stesso settembre; lasciai invece la ditta verso la fine del 1948, per mia decisione. Questa scuola aveva lo scopo di trasformare noi apprendisti provetti in operai meccanici. Il periodo di formazione aveva una durata di tre anni, alternando lezioni teoriche e pratiche; la materia d' insegnamento del primo anno era basata sulle lavorazioni meccaniche Manuali al banco, nel secondo e nel terzo anno era facoltativa la scelta di applicare i lavori di Meccanica alle macchine, come tornio e fresatrice. Per quanto riguarda le lezioni teoriche, queste erano distribuite nell'arco dei tre anni e consistevano nelle materie di disegno geometrico e meccanico, tecnologia generale, siderurgia e fonderia, matematica e fisica, nonché l'educazione fisica che in quel momento il regime imponeva. L'insegnamento pratico e teorico era svolto secondo quanto era esposto nel volume Tecnologia meccanica, scritto dal nostro direttore Corrado Cangioli, diplomato presso l'Istituto G. Feltrinelli di Milano) Alla fine di ogni anno per essere ammessi ai successivi si doveva superare un esame teorico ed uno pratico al banco o sulle macchine. Al compimento del terzo anno con esito positivo veniva rilasciato agli allievi un attestato di operaio qualificato, che io ho conseguito all'età di 18 anni. La scuola interna preparava culturalmente in campo meccanico e incentivava noi allievi con un contributo economico, che per il primo anno era di L. 1,03 centesimi l'ora. Con quel salario si doveva pagare alla scuola la tuta, il calibro e la cancelleria per le materie teoriche (non mi risulta che dovessimo pagare anche la divisa). Ogni anno il salario veniva incentivato con piccoli aumenti. A dimostrazione delle capacità degli allievi di questa scuola, si possono vedere le opere che venivano eseguite, che sono illustrate nel volume di Tecnologia meccanica; un esempio sono i calibri fissi alle pagine 17 e 18 e il calibro a corsoio a pagina 30. Ma il gioiello rappresentativo, la nostra "mascotte" era la piccola "monofresa S" (pag. 169), interamente costruita da noi allievi e progettata dal Cangioli. Trascorsi tre anni di perfezionamento e con l'attestato in mano, si era in grado di affrontare la vita lavorativa in campo meccanico; infatti, buona parte degli allievi passò in officina, oppure si mise alla ricerca di lavoro in altre aziende. Conclusa la scuola io andai in officina come operaio attrezzista alle dipendenze del sig. Santagostini. Essere operaio, specialmente in tempo bellico, era duro. Quali erano le possibilità di ampliare la propria cultura per arrivare a condizioni di vita migliori? L'unico modo era quello di conseguire, anche a costo di grossi sacrifici, diplomi o attestati di perfezionamento attraverso le scuole serali, con la speranza di arrivare ad un impiego maggiormente remunerato di quello di un operaio. Mentre frequentavo la scuola interna e successivamente essere passato in officina, seguivo presso l'istituto Feltrinelli i corsi serali, compresi il sabato e la domenica mattina, di meccanica e disegnatore meccanico particolarista. Era duro di giorno tirare la lima e di sera andare a scuola, ma di tutto questo non mi lamento perché mi ha permesso di trovare un'ottima sistemazione nel mondo del lavoro. Chi, come me, frequentava le scuole serali e veniva promosso riceveva, per volontà del.signor Giacomo Grazioli, un premio in denaro. A questa scuola interna, fondata e voluta da Giacomo Grazioli, io devo tutto: mi ha permesso di arrivare ad avere una vita sociale, professionale ed economica più che soddisfacente, traguardi oggi molto difficili da raggiungere per una serie di condizioni sociali, politiche ed economiche profondamente mutate. A questo punto apro una piccola parentesi riguardo alle lotte politiche e sociali di quegli anni, per portare a conoscenza tre episodi che ritengo importanti. Primo. Giacomo Grazioli si poteva salvare? Sì, perché nell'arco dei 20-30 giorni precedenti la sua uccisione, i muri delle case della via De Sanctis erano tappezzati di manifesti di accusa, con scritta a caratteri cubitali la seguente frase "Giacomo Grazioli condannato a morte". Probabilmente egli non diede molta importanza al fatto, si sentiva sicuro di non essere colpevole dei fatti che gli venivano imputati. Considerando che godeva della massima fiducia e benevolenza dei suoi operai e dipendenti (e lui ne nutriva altrettanta nei nostri confronti) non poteva credere che si arrivasse ad un atto estremo. Avrebbe potuto emigrare all'estero per sfuggire a quelle minacce, ma preferì rimanere fino all'ultimo vicino alla sua azienda, alle sue maestranze e alla sua famiglia. Forse qualcuno che gli attribuiva delle colpe considerò la sua morte una vendetta personale. Secondo. Sempre riguardo alle lotte interne alla fabbrica, anche il settore impiegatizio ha la sua triste pagina di storia. Si tratta di Giordano Giuventi, un ragazzo fisicamente affetto da nanismo che contribuì alle lotte a fianco degli operai, e per conquistare ed affermare i valori di libertà e democrazia pagò con la propria vita. Una mattina non si presentò al suo posto di lavoro in quanto nella notte le milizie l'avevano prelevato e deportato in Germania, forse in un lager, dal quale non fece più ritorno. In ultimo, non dimentichiamo che la Grazioli era considerata in quei momenti uno stabilimento bellico, fornito di un presidio interno di forze militari tedesche, le quali impedivano agli operai di uscire dalla fabbrica per recarsi nei rifugi durante i bombardamenti. Solo attraverso la nostra opposizione riuscimmo ad ottenere di poterci recare nei rifugi al suono delle sirene. Radio Londra annunciò che la fabbrica era un obiettivo e la resistenza ce lo segnalò. Fortunatamente la distruzione annunciata non avvenne. Per concludere, richiamando ancora il valore e i pregi di questa azienda, dico che sono felice di aver contribuito a raccontare un frammento di storia, forse amaro: quello della Grazioli e del suo indimenticabile fondatore Giacomo Grazioli. Come hanno fatto altri miei compagni, il racconto della mia esperienza è un pezzo della mia vita e della mia gioventù trascorsa in tempi difficili. Paolo Guffanti (operaio) La fabbrica è nata nel 1935, in via Brioschi, per merito di Giacomo Grazioli, un piccolo artigiano che aveva il pallino della meccanica. Egli aveva capito che, siccome in Italia non c' era una fabbrica di macchine utensili, cioè di torni, frese, alesatori, ecc. (le macchine arrivavano dalla Germania e dalla Cecoslovacchia, paesi più avanzati dal punto di vista meccanico) si poteva cominciare a costruire i primi torni italiani, visto che anche in Italia c' era domanda di torni, di frese e di alesatori. Egli è arrivato così a costruire la fabbrica di via De Sanctis nel 1938. Già allora la fabbrica è stata costruita con un sistema molto moderno per i tempi: aveva un grosso capannone, con due terrazze laterali e delle gru in mezzo, ecc. Insomma, funzionava molto bene per la produzione di macchine utensili. Nella fabbrica di via Brioschi, come mi risulta, c' erano una ventina di operai. La nuova fabbrica invece si è sviluppata molto bene; nel 1943-44 siamo arrivati ad essere circa 300 lavoratori tra operai e impiegati. Un tempo gli operai erano molto di più degli impiegati, non come adesso. Gli impiegati erano ridotti all' osso: essi rappresentavano il padrone in fabbrica, C' erano loro e il padrone che comandava. E Giacomo Grazioli era uno che sapeva comandare. Ma sapeva anche progettare le macchine. Mio fratello, di nome Umanilio, che era un progettista della Grazioli ed era entrato in fabbrica molto prima di me (era andato militare, fatto prigioniero e spedito in Germania: era poi rientrato in fabbrica) mi raccontava che Giacomo Grazioli disegnaca la macchina utensile che voleva col gesso per terra: chiamava i progettisti, indicava i disegni per terra e da essi dovevano ricavare le macchine da costruire, che erano macchine utensili. Egli ci teneva che fossero belle sia nella forma estetica, sia nella verniciatura. Le nostre macchine utensili venivano esportate in tutto il mondo. La maggior parte erano torni paralleli molto semplici. Tutte le scuole professionali d' Italia avevano i torni Grazioli, che erano stati inventati da Giacomo Grazioli, il quale nel suo campo era un genio, fattosi da solo come artigiano. Era lui il cervello della fabbrica. Io sono entrato in fabbrica nel 1943. Di molto moderno nella Grazioli c' era una scuola di meccanica, che insegnava ai ragazzi a lavorare, a usare il tornio e la lima. Una cosa molto moderna ai tempi, poichè poche erano le fabbriche che preparavano i lavoratori. Che io sappia, c' erano la Borletti, la Falk, ecc.: erano poche le fabbriche che avevano le scuole interne. La Grazioli è stata una delle prime: nel 1938, quando è stata inaugurata la nuova sede, hanno cominciato anche a fare questa scuola. Devo dire che sono stato assunto tramite una raccomandazione da parte di mia mamma, che faceva la lavandaia, lavorava cioè per un certo sig. Marconi, direttore della fabbrica. Prima avevo lavorato in una falegnameria, dall' età di 13 anni: allora si usava così, andare a lavorare molto presto. Poi, attraverso questo sig. Marconi, mia mamma mi ha fatto assumere alla Grazioli. Sono stato sei mesi nella scuola e poi sono entrato subito in fabbrica, perchè essendo inn guerra c' era bisogno di produrre macchine utensili per mandarle a costruire altre macchine, che servivano a fare bombe. C' era una diversità tra la scuola e la fabbrica: a scuola si imparava, non si produceva, però si veniva fuori come operaio specializzato. Infatti, devo dire che tutti gli operai che sono usciti dalla scuola della Grazioli, che poi sono stati licenziati o se ne sono andati, hanno fatto tutti un' ottima carriera in altre fabbriche. Io stesso sono diventato direttore di una fabbrica di cuscinetti a sfere, grazie proprio alla scuola di meccanica che ho fatto alla Grazioli. Era una fabbrica metalmeccanica, molto politicizzata. Producevamo macchine utensili: torni, frese, fresatrici e alesattrici. Noi abbiamo sempre costruito macchine utensili. Siccome la produzione di macchine utensili era ritenuta produzione militare, noi nel '44 avevamo un interno, fascista o tedesco, per il controllo. Il 23 aprile del '45 un gruppo di gappisti venne in fabbrica e sparò a Giacomo Grazioli, che è morto - mi pare - il 24 aprile, prioprio alla vigilia dell' insurrezione a Milano. Noi allora abbiamo fatto un consiglio di gestione, che è andato avanti fino al 1947. Dopo i padroni sono tornati, quando De Gasperi non ha più riconosciuto la validità giuridica dei consigli di gestione. La proprietà è rientrata nella persona di Aldo Grazioli, figlio di Giacomo. Aldo Grazioli, purtroppo, a differenza del padre, non ne capiva niente di meccanica, se ne fregava altamente della fabbrica. Era un playboy: gli piacevano le macchine e i motoscafi per gareggiare all' Idroscalo. Noi abbiamo fatto la conduzione della fabbrica con un consiglio di gestione. Bisogna tener conto che noi eravamo una fabbrica molto politicizzata. Avevamo fatto una battaglia clandestina alla Grazioli, che era iniziata nei primi anni `40. C' erano dentro alcuni elementi che avevano partecipato alla resistenza. Quindi, la fabbrica era molto politicizzata. Ad esempio, noi avevamo l' iscrizione al sindacato al 97- 98%, di cui 92-93% della CGIL, i residui erano degli altri sindacati. Tant' è vero che noi davamo il posto agli altri sindacati per motivi di rapporto unitario e non perchè conquistavano voti nelle elezioni interne. Nel consiglio dei delegati, dopo la scissione sindacale del `48, i rapporti erano a nostro vantaggio: uno dei delegati lo davamo alla CISL come rappresentante della minoranza, ma oltre il 90% votava alla FIOM-CGIL. Tra i lavoratori c' era una unità di fondo, la lotta era quasi sempre unitaria. Si possono immaginare le difficoltà nell' immediato dopoguerra a Milano che era semidistrutta: non arrivavano pezzi di ghisa, materie prime, ecc. ecc. E poi c' era naturalmente il boicotaggio di tutte le fabbriche a direzione privata nei confronti di quelle ch erano condotte da un consiglio di gestione, come la Grazioli. Per esempio, la Franco Tosi ci sabotava in quanto rallentava a mandarci i pezzi. Il tutto per impedire che si affermassero le fabbriche a gestione politica, perchè a dirigere queste c' erano ex partigiani, ex deportati: gente che aveva fatto la lotta politica nelle fabbriche e nei quartieri operai. Noi abbiamo tirato avanti fino al 1947, quando il governo De Gasperi ha abolito la gestione operaia delle fabbriche ed ha reinsediato le proprietà. Per noi cera stata una certa continuità perchè come direttore amministrativo, accettato da noi, c' era un certo dott. o rag. Zani, che era una persona abbastanza onesta. Dal momento che noi operai non eravamo capaci di gestire 1' azienda sotto l' aspetto amministrativo, siamo andati a cercarlo e 1' abbiamo convinto a ritornare ed a fare il direttore amministrativo della Grazioli. Naturalmente noi pensavamo che lui tenesse i contatti con la proprietà. Difatti, quando nel 1947 il gov. De Gasperi non riconobbe più i consigli di gestione e ci fu il rientro dei Grazioli, con Aldo, noi avevamo già una situazione positiva, avendo noi buoni rapporti con il rag. Zani. Così il nuovo rapporto non è stato duro: c' era stato un passaggio abbastanza normale. Le lotte operaie dal '43 al '45. Io sono entrato in fabbrica nel '43, quando eravamo nel pieno delle lotte operaie contro la guerra. Ancora prima della caduta di Mussolini, nel mese di luglio del 1943, in primavera sono partiti gli scioperi delle fabbriche, che hanno sicuramente accelerato la caduta del capo del fascismo. Come ho detto prima, la Grazioli era una fabbrica molto politicizzata. In quella fabbrica c' erano uomini come Pietro Ricaldone, che è stato sette anni in galera per antifascismo e che è venuto ad abitare a casa mia, da dove ha diretto la lotta partigiana della zona, a partire dall' attività politica in fabbrica. Nella Grazioli c' era una cellula clandestina che era organizzatissima. Io 1' ho raccontato nel libro Partigiani della zona 15: facevamo recupero d' armi, distribuzione di volantini e cose di questo genere. Cioè, la fabbrica è uscita molto polititicizzata perchè c' era molta gente che faceva lotta politica clandestina già dagli anni '30, anche se era vietato per legge. Uno dei capi era Pietro Ricaldone, operaio della fabbrica, che era membro attivo del Partito comunista clandestino. Un altro operaio, politicamente molto attivo, era Giuseppe Santagostini. Finita la guerra l' abbiamo fatto capo reparto. Lui faceva il partigiano in città. Poi c' era Luigi Dulevio, che era uno di quelli che doveva essere fucilato in via Tibaldi con Clapiz, Del sale, Abico e Alippi. Dunque, la fabbrica era molto politicizzata e naturalmente ben vista nel quartiere. In fabbrica c' era questa cellula clandestina. Io non so quanto eravamo veramente clandestini. Non doveva saperlo nessuno, però naturalmente - una parola adesso e una domani - tutti sapevano pressapoco chi erano gli uomini che facevano i clandestini nell' azienda, all' infuori naturalmente dei pochi fascisti che c' erano, perchè tra gli operai erano presenti anche alcuni fascisti e poi c' erano le guardie, formate da fascisti e tedeschi. La fabbrica era controllata dai tedeschi perchè rientrava indirettamente nella produzione bellica (tra 1' altro pare che sia stata da essi minata per farla saltare se necessario, come fu minata la Conca Fallata). Sta di fatto che alla fine del 1944 i tedeschi hanno chiesto una lista di operai da inviare in Germania. Giacomo Grazioli ha fatto una lista di 16 operai, mettendo dentro prevalentemente i politicizzati, con qualche eccezione. Come fabbrica militarizzata eravamo esenti dal servizio militrare e dall' andata in Germania per lavorare. Ciò nonostante è stata fatta la lista e 16 operai sono stati spediti forzatamente in Germania, con la TODT, costituita da italiani che lavoravano sotto 1' esercito tedesco. Dopo che arrivò la notizia che uno dei 16 operai in Germania era morto di stenti, un gruppo di partigiani si è presentato in fabbrica, ha letto a Grazioli la condanna a morte a nome del CLN e gli ha sparato nel ventre. E' morto il giorno dopo. Le ragioni della morte di Giacomo Grazioli potrebbero essere quelle dovute alla spedizione in Germania dei 16 operai. Grazioli dal punto di vista politico era molto vicino al fascismo: si vestiva da fascista. Il problema però è che allora tutti gli industriali dovevano fare i fascisti. Ma non tutti sono stati uccisi, anzi quasi nessuno. L' ordine della sua uccisione sarebbe dovuto partire da casa mia, in quanto il comandante del CLN della zona era Pierto Ricaldone. Avrebbe dovuto uscire da casa mia, dove egli era nascosto, come clandestino. Essendo lui il capo, solo lui poteva dare ordini. Dulevio, che era responsabile della cellula comunista nella fabbrica, avrebbe dovuto saperlo. Invece no, loro mi hanno sempre detto che essi quell' ordine non l' avevano mai dato. La cosa non è ben chiara, perchè pare che ci fossero questioni personali. Non avendo Ricaldone dato ordine di uccidre, il delitto potrebbe essere stato opera di un gruppo auto- nomo. Anche nella resistenza un po' di confusione c' era. Ma è forse più giusto parlare di questioni personali e di vendetta personale. Il gruppo che ha sparato era composto di quattro o cinque persone. Anche se Grazioli si era esposto con il fascismo (usava la divisa, ecc.), deve essere stata una vendetta personale. Egli era un paternalista a non finire: dava la pacca sulla spalla a gli operai più anziani, che erano con lui anche da 35 anni. Aveva anche buoni rapporti con il consiglio di fabbrica. Questo fatto, in relazione all' uccisione, fa pensare più a motivi personali che a motivi ideologici e politici. I dirigenti politici non hanno mai rivendicato l' uccisione di Grazioli, anche perchè non faceva parte della strategia del PCI uccidere quei padroni che avevano collaborato con il fascismo. Pur essendo giovane, sentivo le riunioni tra Pajetta e Ricaldone e non si è mai parlato di vendetta e uccisione. L' omicidio non è stato mai chiarito. Non si può pensare neppure ad un gruppo politico sfuggito al controllo del PCI: allora non c' era niente alla sinistra del partito comunista. Escludo che sia il partito comunista, sia il CLN abbiano ordinato di fare fuori il Grazioli. All' interno della fabbrica 1' organizzazione politica faceva capo alla cellula "Stella rossa" del PCI. Il CLN c' era, ma in pratica era composto da esponenti del partito comunista, come in tutta Milano. Oltre al PCI nel perido clandestino in fabbrica c' era qualche socialista e un democristiano, un cattolico, di nome Angelo Volpi. Quindi, il CLN era costituito soprattuttto da esponenti comunisti. Tra i dirigenti sindacali della fabbrica va ricordato Ricaldone, che successivamente è diventato segretario regionale degli autoferrotranvieri, dopo sette anni di galera fascista e quelli successivi della resistenza. L' uccisione di Grazioli, quindi, resta un fatto poco chiaro. L' ipotesi della responsabilità del CLN è da escludere. I motivi, amio parere, sono esclusivamente di carattere personale. In casa mia - ripeto - c' era la lista dei condannati a morte da parte del CLN: in quella lista di indistriali non ce n' erano; erano tutti agenti delle Brigate nere. Ogni tanto arrivava la notizia che qualcuno di questi era stato abbattuto da parte dei Gap. Ma Grazioli non era assolutamente in elenco. Io parlo di CLN, non di Partito comunista, poichè Ricaldone pur essendo un militante comunista rappresentava il CLN di tutta la zona. E quando hanno ucciso Grazioli c' è stata sorpresa a casa mia, perchè non era nella lista dei nemici da abbattere. I motivi della morte di Grazioli sono quindi di natura personale: io ne sono sicuro. Il giorno del delitto lavoravo in Grazioli, torno a casa dove trovo Ricaldone che del grave fatto non ne sapeva niente. Va esclusa, quindi, la motivazione politica. L' altra motivazione è quella dei problemi personali: un comandante dei Gap di Milano ce l' aveva con Grazioli per motivi suoi personali. In quell' occasione ha trovato il pretesto per farlo fuori. La gestione Aldo Grazioli: è stata una gestione si può dire disastrosa. Egli non ne capiva nulla di macchine utensili. La sua gestione è durata poco perchè le sorelle lo hanno fatto interdire in relazione alla conduzione dell' azienda. Aldo Grazioli nei primi anni '60 era già interdetto. La proprietà è andata alle sorelle, che hanno affidato la fabbrica ad un consiglio di amministrazione. Attorno alla Grazioli c' era una vasta rete di fabbriche, che costituivano una parte del tessuto industriale della città. La grazioli era la più grossa; relativamente vicino c' era la OM di via Bazzi, ma era fuori rispetto alla nostra zona, dove c' erano: - la VEDEME', fabbrica a maggioranza femminile, perchè facevano manufatti tessili per i militari (divise militari); perciò era anch' essa una fabbrica militarizzata in quanto faceva divise. Era molto grossa e anche là avevamo un folto gruppo di persone che facevano la lotta politica. - La CARLE-MONTANARI, via Neera, fabbrica metalmeccanica. - La MAMMOLI, piazza Agrippa, fabbrica di rubinetteria, molto conosciuta e molto poli- 110 ticizzata. - La FISEM, fabbrica che faceva componenti per telefoni, sindacalmente ben preparata, l' unica dove il dirigente era un socialista. - La VANNUCCI, via Cermenate, fabbrica a componente femminile, con circa 150 lavoratrici, dove facevano cerniere-lampo: allora erano in ottone non essendoci ancora la plastica. - La GARLASCHELLI, una fabbrica di 20-30 operai che facevano viterie. - La FONIT CETRA, via Meda, fabbrica discografica. - La CARTIERA BINDA, fabbrica di carta lungo il Naviglio, una delle più antiche e famose di Milano. - La CARTIERA VERONA, poi SAFFA, lungo via dei Missaglia. - Il COTONIFICIO CEDERNA, al Gratosoglio. - La CAZZULANI, via Barrili, per la produzione di cioccolato e caramelle. Insomma, il territorio della zona 15 era pieno di fabbriche, un centinaio di medie e piccole fabbriche, che erano composte da operai che abitavano nella zona: la città arrivava fino a piazzale Abbiategrasso, oltre verso sud non c' era niente. Gli operai provenivano prevalentemente dal quartiere Baia del Re, ma molti anche da fuori Milano (Lachiarella, ecc.). La componente operaia, sia maschile che femminile, era molto ampia. Molte anche le donne. Per me, come per molti compagni, il mondo della fabbrica è stato la vita. Io sono sempre stato un operaista convinto. Questo tessuto industriale, che oggi non c' è più, è stato la ricchezza di Milano, compresa la cultura operaia e sindacale. Nella Grazioli la maggior parte degli operai erano sindacalizzati, pur essendo un periodo in cui si pagava di persona, come è capitato a me, io infatti sono stato licenziato. La Grazioli rispetto alle altre fabbriche era un' eccezione. Noi all' interno della fabbrica di 300 lavoratori avevamo una cellula comunista di 100 iscritti, un terzo degli operai. Avevamo un CRAL bellissimo con dei locali costruiti da Grazioli, che era moderno e illuminato sotto certi aspetti. Nel CRAL della Grazioli facevamo la festa del PCI che durava una settimana. Il padrone, Aldo Grazioli, ci prestava le 100 mila lire (due-tre milioni d' adesso) per allestire la festa. Lui magari era convinto che i comunisti gli avevano ammazzato il padre, eppure dava i soldi per il giornale "L' Unità". La cultura operaia ha riempito la nostra vita da giovani. Io in particolare ho fatto il segretario della Lega FIOM della zona 15, sono stato membro del comitato federale della FIOM della Camera del Lavoro di Milano, con Pizzinato. Per motivi sindacali (ero presidente della commissione interna) sono stato licenziato nel 1964. Sono andato a finire in un' altra fabbrica, a Cornaredo. Sono stato licenziato insieme ad altri compagni. Prima hanno cacciato me: un giorno mi hanno chiamato, mi hanno consegnato una lettera, dove c' era scritto che qualche giorno dopo dovevo presentarmi in Sicilia per insegnare ad usare i torni Grazioli. Come sindacato abbiamo fatto una lettera dicendo che io mi rifiutavo di andare, perchè ero membro della Commissione interna. Allora non c' era lo Statuto dei lavoratori e il licenziamento era molto facile. Mi hanno sospeso per tre giorni e poi licenziato come ritorsione contro la mia militanza politica e sindacale. Basta pensare che per per rompere la crosta delle 48 ore settimanali avevamo fatto 240 ore di sciopero per sei mesi: io facevo un comizio al giorno. Abbiamo conquistato le 46 ore e mezza. Io ero in prima fila per la riduzione dell' orario di lavoro. Quando sono stato licenziato io, nel '64, a Milano ci sono stati 4-5 mila licenziamenti, soprattutto quadri sindacali, che erano quelli che davano fastidio. Il nostro licenziamento era la vendetta dopo aver firmato il contratto. Licenziato il sottoscritto, la Grazioli si è fermata naturalmente, ma io non sono stato riassunto e ho dovuto cambiare fabbrica. Quando un gruppo di operai si è presentato davanti alla porta dell' ufficio del direttore per far revocare il mio licenziamento questi sono stati denunciati con il risultato di una sessantina di licenziamenti. Allora c' erano le assunzioni massicce, ma anche i licenziamenti non scherzavano. Per fortuna allora a Milano c' era la quasi piena occupazione. Era il periodo in cui venivano davanti alle fabbriche a offrirti il 10, il 20 e il 30% di guadagno in più per andare a lavorare in un' altra fabbrica; naturalmente l' offerta era rivolta a quelli che sapevano lavorare, agli operai specializzati. Io facevo il direttore nella nuova fabbrica, cercavo tornitori specializzati, ma nell' ufficio di collocamento non li trovavo: ho dovuto mettere alcune macchine contro il muro senza poterle utilizzare. Verso la chiusura. Prima la fabbrica è andata a finire sotto la Carle Montanari, che 1' aveva rilevata: una fabbrica produttrice di macchine per caramelle e cioccotati. Successivamente è stata chiusa per cattiva gestione e anche perchè dava fastidio all' Assolombarda di Milano. Qui nella zona eravamo all' avanguardia nella lotta sindacale. Certe conquiste che noi avevamo, gli altri non le avevano: allora i padroni facevano di tutto per contrastare la fabbrica. Noi alla Grazioli non avevamo più i cottimi, avevamo la mensa fatta bene, avevamo la riduzione d' orario, ecc.: tutte cose che nelle altre fabbriche non c' erano. Sta di fatto che l' Assolombarda ci ha mandato un certo ing. Varni, un ingegnere navale che di macchine utensili non ne capiva nulla. Questo si messo in contrasto con i cervelli della fabbrica e, umiliandoli in un modo o nell' altro, li ha fatti andar via. In questo modo ha danneggiato la fabbrica, perchè essa non era più in grado di fare concorrenza rispetto alla produzione di altre macchine, non parliamo di quelle straniere. Dal punto di vista tecnologico, quindi, è andata verso la rovina. Da qui la chiusura verso la metà degli anni '80 e 1' abbattimento di recente anche della struttura, per fare palazzi. Ai miei tempi tra le fabbriche e il quartiere c' era un rapporto molto stretto. Noi come Grazioli, che avevamo il CRAL e organizzavamo le feste da ballo, richiamavamo tanta gente di tutto il quartiere. Il CRAL era luogo di socializzazione. Quando c'erano le lotte operaie nella nostra zona le cittadine della Baia del Re raccoglievano i soldi e ci portavano da mangiare davanti alle fabbriche. C' era una forte socialità allora, che oggi non c' è più. Anche perchè non ci sono più le fabbriche. Camillo Cabrini (operaio) Entrai in Grazioli nel 1967, dopo che la Grazioli nel 1964 aveva già fatto la scelta di licenziare tutta la commissione interna e la rappresentanza dei lavoratori. In quel periodo la Confindustria a veva fatto la scelta di liberarsi delle commisioni interne e dei rappresentanti dei lavoratori. Io ero molto giovane, avevo 22 anni. Ero anche inesperto, non sapevo cosa voleva dire affrontare un certo discorso all' interno di un' azienda. Questa azienda mi piaceva perchè costruiva macchine che servivano a fare altre macchine: questo per me era importante. La fabbrica aveva una buona fama dal punto di vista tecnologico, dovuta al suo fondatore Giacomo Grazioli che era un cervello. Prima di venire ucciso dai partigiani, come si diceva in fabbrica, questo personaggio era stato un tecnico raffinato. A distanza di anni, le cose da lui inventate si adoperano ancora. Le macchine della Grazioli sono andate in Italia (ferrovie dello Stato, istituti professionali, ecc.) e nel mondo. C' era una macchina chiamava "Fortuna": veniva caricata sui camion tedeschi che la usavano per tornire le bombe quando non entravano nei cannoni. Quel torni fece fortuna. Allora fu chiamato appunto "Fortuna" da Giacomo Grazioli. Famoso fu anche il "Dania", che nacque dal nome del disegnatore, che si chiamava proprio Dania, un tecnico della fabbrica. Io non feci la scuola interna, sono stato assunto direttamente come operaio. Per diventare specializzati bisognava superare un esame basato sulle conoscenze dei contenuti del libro adottato nella scuola interna. La qualifica però era negata ad alcuni lavoratori, quelli sindacalizzati: anche se erano bravi nel lavoro i dirigenti facevano loro domande di inganno per tenerli operai generici senza propozione. Voglio dire, per spiegarmi bene, che chi faceva una scelta politica, quella del PCI per intenderci, veniva represso in tutti i modi. Questo I' ho verificato sulla mia pelle. In relazione all' elezione delle commissioni interne i lavoratori avevano terrore di rappresentare i compagni di lavoro perchè I' azienda ricorreva ai licenziamenti, come quelli del '64. Allora ci presentammo noi giovani: fummo eletti dai lavoratori a rappresentarli nei confronti della controparte. Dopo un po' di anni 1' azienda capì che 1' interesse nostro e dei nostri compagni all' interno dell' azienda era un interesse onesto, che portava avanti alcune tematiche e alcuni problemi reali per I' azienda, tramite la commissione interna, che successivamente si è trasformata nel consiglio di fabbrica, a seguito delle lotte sindacali della fine degli anni '60. Con i consigli di fabbrica il sindacato fece la scelta di allargare la rappresentanza dei lavoratori in senso democratico. Noi questa scelta la difendemmo in modo forte perchè voleva dire andare all' unità sindacale. E i lavoratori credevano molto all' unità sindacale, perchè era importantissima, in quanto legava il socialista al democristiano, il repubblicano al comunista, anche gli operai agli impiegati. Il legame tra operai e impiegati fu un fatto enorme perchè fino ad allora tra noi e loro ci odiavamo. La classe padronale considerava gli impiegati come una categoria più alta e loro si consideravano privilegiati. Con 1' unità sindacale siamo riusciti per la prima volta a legare operai e impiegati: un fatto importantissimo. Eravamo nei primi anni settanta con 1' approvazione dello Statuto dei lavoratori, che - tra 1' altro - sostituiva le commisioni interne con i consigli di fabbrica, caratterizzati da una maggiore rappresentatività: un organismo composto da tutte le rappresentanze di fabbrica, anche quelle minoritarie. La prima cosa che mi capitò nel '71-72 fu il licenziamento di nove impiegati. Era dura fare la lotta per difendere gli impiegati. La stragrande maggioranza dei lavoratori era contro questo licenziamento. Abbiamo discusso a lungo per convincere tutti dicendo agli operai: questi impiegati sono figli di operai, possono essere anche vostri figli, quindi vanno difesi come figli di lavoratori. Riuscimmo così a legare gli operai della fabbrica per difendere questi lavoratori, che erano impiegati, ma per noi erano soprattutto lavoratori, erano compagni che venivano messi sulla strada. Fu un sacrificio enorme, ma ce la facemmo. Blocammo 1' azienda per costringerla a tornare sui suoi passi. Era il 1972 ed era una lotta veramente dura, fatta di sacrifici enormi, perchè voleva dire correre il rischio di farsi licenziare e mettere fuori dalla fabbrica. Da questa lotta siamo usciti vincenti costringendo la direzione della fabbrica a riassumere i nove impiegati: questo fu il risultato dell' unità tra operai e impiegati. Divenne una grossa famiglia la fabbrica, perchè voleva dire molto farsi aiutare anche dagli impiegati. Infatti, noi pur bravi che eravamo solo con I' aiuto degli impiegati riuscivamo a capire tante cose che erano importanti per noi nell' inserimento in questa azienda. Gli operai costruivano i torni che erano richiesti in tutto il mondo, oltre che in Italia, Il valore tecnologico delle macchine era molto buono. Si diceva che gli operai della Grazioli sapevano tenere i centesimi, con la lima, nel montaggio degli ingranaggi. Era molto qualificata questa azienda. Il meccanico all' interno della Grazioli doveva essere molto preparato. Chi usciva dalla Grazioli era un meccanico superspecializzato. Questo non lo dico perchè io lavoravo all' interno di questa azienda, lo riconoscono tutti questo fatto. All' inizio del mio periodo la proprietà era rappresentata dalla Carle -Montanari a cui la Grazioli fu venduta dopo la fallimentare gestione di Aldo Grazioli. Dopo un po' di anni anche la Carle-Montanari se ne disfece, la vendette, nonostante il suo prestigio tecnologico: la Grazioli cominciava anche a produrre le prime macchine a controllo numerico, cosa che non faceva la Carle-Montanari che produceva macchinette per fare il cioccolato. Ciò che determinò la sfortuna della Grazioli fu che uno dei due amministratori, quello che teneva i soldi tanto per parlare chiaro, si uccise con la moglie, che aveva un male incurabile: lui le voleva molto bene e si uccisero assieme. Questo avvenne nel '73. I mali della Grazioli vennero dopo la morte di questo aministratore e per noi fu una grossa mazzata. Di fronte a questo dramma la Carle-Montanari fa la scelta di chiedere un aiuto agli svizzeri, che entrano con un proprio capitale, non maggioritario ma quasi. Però gli svizzeri non si fidavano degli italiani e mettono un proprio uomo di fiducia per curare i loro interessi alle spalle dell' amministratore delegato italiano. Dopo due anni anche questo personaggio messo dagli svizzeri muore e noi ci troviamo nuovamente nella bufera come Grazioli dentro la Carle-Montanari. E venne la prima occupazione nel 1975, al 28 luglio, contro il licenziamento di tutti i lavoratori della Grazioli. In quel giorno tutti i lavoratori della Grazioli ricevono la lettera di licenziamento. L' operazione è studiata bene perchè gli operai stanno per andare in ferie e si presentano le condizioni migliori per smantellare 1' azienda, eliminare la Grazioli. Allora il consiglio di fabbrica blocca i lavoratori, fa un' assemblea di fabbrica e riesce a installare fuori dalla fabbrica una tenda. Passano le ferie, i lavoratori vogliono rientrare a lavorare ma sono impediti. Allora, quella notte io e i miei compagni dovemmo inventare la scusa di andare a gabinetto chiedendo alle guardie di avere il permesso. Eravamo decisi quella notte ad entrare, ma sapevamo di rischiare la galera per violazione della proprietà privata. Facemmo la scelta ed entrammo, facendo finta che dovevamo andare a gabinetto. Un compagno entro ma la guardia gli punto la pistola. Io gli dissi "che cosa stai facendo? Lascialo andare". E riuscimmo a entrare senza far succedere niente. Essere all' interno dell' azienda voleva dire aprire le porte agli operai nella mattina successiva (chiedo scusa se mi comuovo, ma per me sono cose durissime che hanno fatto una parte importante della mia vita e che ho vissuto sulla mia pelle). Di fronte a queste cose riusciamo ad andare di fronte alle istituzioni, alla Regione in particolare, a discutere dei nostri problemi. Dopo un mese di lotta riusciamo a riaprire l' azienda trovando un altro padrone. Troviamo il Gruppo Rosso, che viene da Torino e che subentra alla Carle-Montanari. Capimmo subito che il Rosso, nuovo proprietario era un grande mascalzone. Facemmo nove anni con questo nuovo proprietario, la cui principale preoccupazione era di licenziare tutto il consiglio di fabbrica. Attacca il consiglio di fabbrica, offre soldi al sottoscritto dicendogli "Ti do 50 milioni se vai via"; "Ti do le donne più belle che ci sono qua", ecc. Di fronte a queste offerte feci un' assemblea e lo sputanai davanti ai lavoratori. Gli operai capirono quello che il padrone voleva fare: voleva liberarsi di chi portava avanti all' interno dell' azienda, con onestà, l' unità dei lavoratori. Questo personaggio piegò la Grazioli. Noi perdemmo la battaglia nell"84, dopo nove anni di lotte. Questo pagliaccio di Rosso fece fallire tante aziende in Italia che facevano parte del suo gruppo. Tre anni di lotta fino all' `87 per salvare l' azienda, ma inutilmente. Il Rosso è stato condannato per bancarotta dal tribunale perchè rubò 17 miliardi all' azienda. La Grazioli faceva 10 miliardi all' anno di fatturato, perciò era un' azienda molto attiva. E difatti noi non mollammo, anche se perdemmo la lotta con il Gruppo Rosso, ma perdemmo con la testa alta, perchè la tenemmo ferma e bloccata per tre anni, dall"84 all"87. Ci fu ancora circa un anno di produzione in amministrazione controllata. Ci tirarono fino a luglio con una commessa per le ferrovie dello Stato, di circa 800 milioni. Alla vigilia delle ferie fu fatta la stessa mossa del '75. A luglio vennero fuori le lettere di licenziamento per tutti gli operai da parte dell' ammnistrazione controllata. Noi ci battemmo per cercare di reinserire questa azienda nel tessuto produttivo. Abbiamo avuto sette incontri in Regione per tentare di far comprare 1' azienda. Anche il Consiglio di zona ci ha dato un sostegno nella persona del presidente Cavenaghi prime e di Pezzoni poi. Il rappresentante della FIOM era Roberto Cocevari. Nell'arco dei tre anni riuscimmo ad avere sette incontri, con l'assessore al lavoro della regione, che era un socialista, perchè l' azienda riuscisse a riprendere la sua funzione produttiva. L' ultima volta abbiamo toccato con mano che la nostra azienda non poteva più aprire a causa dei tedeschi, che amministravano la Graziano di Tortona, una fabbrica concorrente, che era anch' essa in difficoltà. I tedeschi volevano comprare la Grazioli, ma rinunciarono perchè in Regione non diedero loro il margine di trattativa sul prezzo, che era stato fissato in sette miliardi e qualche cosa. La strada delle Partecipazioni Statali non fu neanche tentata perchè gli statali avevano già le loro difficoltà all' interno delle loro produzioni. Una era quella della fabbrica di Tortona, la Grazioano che era amministrata dalle Partecipazioni Statali. Perciò hanno preferito salvare quella piuttosto che la nostra. A quel punto noi accettammo anche di uscire dall' area di Milano per andare nei dintorni pur di salvare la fabbrica. Ma non ci fu niente da fare neanche in questo senso. Il curatore nell"87 chiuse la Grazioli, vendette il terreno e le macchine che vi erano dentro per la somma di circa sette miliardi e mezzo. In quel terreno avrebbe dovuto sorgere l' hotel Quark due, che però è stato costruito successivamente in un terreno vicino. La fabbrica è rimasta come rudere. Gli operai, durante e dopo la cassa integrazione speciale, si sono inseriti in altri settori: chi andò nelle Poste, chi altrove, ecc., secondo la legge 444 che ha consentito di entrare in aziende pubbliche. Io dovetti cercarmi un lavoro per conto mio, perchè tutti erano informati su chi era Cabrini. Io fui convocato una volta per 1' esame dalle ferrovie dello Stato, ma i dirigenti vennero a sapere che io all' interno della Grazioli ero stato un attivista sindacale, marchiato comunista e perciò non mi assunsero. Questa è la realtà: dovetti darmi da fare per trovarmi un posto di lavoro per conto mio e reinserirmi. Io non mi pento di quello che ho fatto, ci ho pensato tante volte e ritornerei a farlo ancora. Perchè io credo in quelle cose. Per me 1' esperienza sindacale e politica è stata un' esperienza forte, che ha segnato profondamente la mia vita, mi ha fatto crescere e lo rifarei ancora. Pur essendo comunista io ho condotto prevalentemente le lotte sindacali. La cellula del partito era condotta invece dal compagn Renzo Pignatel. Ciò per separare il sindacato dal partito, per una maggiore democrazia e partecipazione all' interno del sindacato. Per me è stata un' esperienza sindacale forte, che ha segnato la mia vita. nella lotta finale, quella dall' 84 all"87, noi fummo aiutati anche dall' arcivescovado, nella persona di don Sala della pastorale del lavoro, insieme a don Virginio Colmegna. Ci suro di grande aiuto nel periodo di presidio della fabbrica. Io, pur essenso un comunista, devo loro tanto rispetto. Tra me e don Sala ci fu uno scontro come scintille, all' inizio, per motivi ideologici. Lui mi disse. "Tu sei rosso ed allora è meglio che me ne vada". E invece tornò e mi disse: "Vedi, non è mica detto che tutta la gente che va in chiesa sia brava. Siediti e discutiamo". Per me è stata una grande lezione di vita. Abbiamo avuto, quindi, la solidarietà anche dall' arcivescovado, oltre che dal quartiere, dalle scuole, ecc. Perchè venivano le famiglie del quartiere a portarci lo zucchero, tanto per dire una cosa. Avevamo anche un appoggio morale, perchè stare lì giorno e notte, con i turni, parlare e discutere con le persone ci aiutava a sostenere i problemi che ci trovavamo di fronte. Io ricordo in particolare l' aiuto della pastorale del lavoro, perchè non pensavo che riuscisse a dare una carica forte per tenere in piedi quell' azienda. Essa aveva capito che quella fabbrica non era una fabbrica che poteva morire, non era una fabbrica che non avesse le qualità per vivere. Avevano capito questo. Noi siamo rimasti scioccati, perchè avevamo sempre pensato che i preti stavano sempre dalla parte dei padroni. Ho dovuto riflettere molto sul tema del rapporto tra mondo del lavoro e mondo cattolico. Nella fabbrica c' erano anche operai democristiani che io ho sempre rispettato. Ma la cosa più impressionante è stato l' appoggio dei preti, persone estremamente oneste. Addirittura i preti della curia milanese mi diedero dei soldi, e non pochi, per portare avanti la lotta, a vantaggio di tutti gli operai, senza distinzione di comunisti o democristiani. Essi mandavano qualcuno a controllare se quei soldi venivano spesi bene, o se venivano incamerati da qualcuno. Un giorno don Sala mi disse: "Senti Cabribi, una persona più onesta di te non c' è, perciò tu chiedi quello che vuoi e noi saremo sempre al tuo fianco". Questa cosa mi diede molta soddisfazione, perchè all' interno dell' azienda vi erano operai che non potevano pagare 1' affitto, che non potevano magari comperare i libri di scuola per i figli. Dai soldi della curia noi attingevamo per aiutare le famiglie più bisognose, i casi più drammatici. Con quei soldi aiutavamo a pagare l' affitto a qualche lavoratore, senza però poter assicurare una specie di salario minimo. Da altri enti soldi non ne abbiamo avuto. Andavamo noi nelle feste de "L' Unità" a fare la sottoscrizione, ecc. Non è una cosa semplice raccogliere i soldi a questo modo, ma lo abbiamo fatto per i lavoratori. Le cose non sono sempre limpide: trovi chi ti dà una mano e chi ti dà del lazzarone. L' umiliazione fa parte della solidarietà umana, quando si tratta di trovare risorse per soddisfare i bisogni fondamentali. Da tutte queste cose io sono molto cambiato, ho dovuto rivedere molte mie convinzioni. Una volta non avrei mai pensato che i preti potessero essere al fianco dei lavoratori, che aiutassero la fabbrica rossa, come veniva chiamata nella zona e nella città. Era considerata una fabbrica rossa, emblema della forza operaia. Fu anche premiata questa azienda nel '75 con l' ambrogino d' oro del Comune, dalle mani del sindaco Aniasi. Comunque attorno a questa azienda ci fu sempre il quartiere vicino. Tutta la gente, che capiva che quando muore un' azienda muore un pezzo di democrazia. E questo è molto importante. Quelle battaglie furono fatte per non far morire quel poco di democrazia che esiste nel nostro paese. Perchè la fabbrica dà la possibilità di vivere in democrazia. Questa è la convinzione che mi porto ancora dentro e che vorrei che restasse ai giovani di oggi. Alberto Pattè (operaio) Sono stato assunto in Grazioli nel settembre del '79 e siamo andati bene come fabbrica grossomodo fino alla fine dell' 83 e inizio del 1984. La crisi è venuta dopo: siamo andati avanti fino all"87. Dopo un anno di chiusura i lavoratori sono stati costretti ad entrare in altre realtà produttive. Al momento della mia assunzione gli operai erano circa 200, prevalentemente uomini. La produzione era sempre quella metalmeccanica: torni e fresatrici. Il prodotto forte era il Dania 180, che era un tornio molto ricercato da altre fabbriche, da istituti professionali, da officine delle ferrovie dello stato, ecc. Era una fabbrica specializzata e competitiva nel settore della produzione di torni. La tecnologia era molto avanzata, per questo motivo si può dire che la chiusura della fabbrica è dovuta ad motivi strettamente politici, perchè nel fratempo la concorrente - che era la Graziano di Tortona, che faceva per conto della Grazioli i famosi Dania 180 - ha continuato la produzione sotto altro nome, favorita a livello politico in quanto facente parte delle Partecipazioni Statali. Era una fabbrica in buona salute, tant' è vero che quando è stato decretato lo stato di crisi era un' azienda che aveva ancora diverse commesse per centinaia di miliardi, in Italia e all' estero. Ancora negli anni della chiusura gli istituti professionali, le officine delle ferrovie e anche dell' Alitalia avevano i prodotti Grazioli, un marchio di qualità molto ricercato. Questa fabbrica nella zona sud di Milano era un punto di riferimento anche politico e sociale. Per cui la sua chiusura ha avuto un impatto molto forte. Nella lotta contro la chiusura sono stati coinvolti anche il Consiglio di zona e le scuole, ma inutilmente. Noi operai ci siamo dovuti adattare all' idea della fine della fabbrica. La proprietà era già stata ceduta dalla famiglia Grazioli: in precedenza era intervenuta la Carle-Montanari, poi c' è stata un' altra breve crisi, fino a quando la fabbrica è stata acquistata dal gruppo Rosso, che ha costituito l' ultima proprietà. Dopo poco tempo è entrata in fallimento, anche perchè il proprietario, di nome Rosso appunto, è stato condannato per bancarotta fraudolenta. Il fallimento, nonostante la forza delle commesse, è dovuto a motivi esterni, di natura politica, non di efficienza produttiva. Alla proprietà è subentrato il curatore fallimentare e si è andati verso la fine. La concorrente di Tortona era a partecipazione statale; come tale è stata preferita alla Grazioli, che quindi è stata sacrificata invece che salvata. Queste sono informazioni che si riusciva a capire in un clima di incertezza e confusione, di mancanza di chiarezza per noi lavoratori. All' interno della fabbrica il sindacato come FLM aveva grande presa nei lavoratori. Anche il partito comunista era ben radicato con la cellula "Santagostini". C' era anche qualche socialista. Il consiglio di fabbrica era composto prevalentemente dalla Fiom: c' era un solo socialista. Dopo la chiusura ognuno degli operai ha cercato di trovare un altro lavoro: tanti sono riusciti a rientrare , con la legge 444, nell' amministrazione pubblica: Poste, monopoli di stato, corpo forestale, Anas (come nel mio caso), ecc. La 444 era una legge nata per assorbire i lavoratori delle aziende in crisi (Pirelli, Alfa, ecc.) ed ha di fatto arricchito di manodopera quelle aziende pubbliche che erano sotto organico. La lotta contro la chiusura della Grazioli è stata intensa e molto partecipata, perchè era una fabbrica storica. Con la sua chiusura e l' abbattimento della struttura se ne va un pezzo della nostra vita e della nostra storia. Renzo Pignatel (operaio) Nella zona la Grazioli era un' azienda conosciuta come una delle più qualificate. Per cui, fuggendo da un posto dove la mia professionalità era mortificata, ai primi del '79 mi presentai alla Grazioli, mi fecero fare una prova come montatore e mi assunsero successivamente dopo alcuni mesi. Era inverno quando feci la prova e mentre io stavo lavorando nel capannone si era fatta una temperatura piuttosto rigida perchè era finita la fornitura di gasolio per il riscaldamento. Gli operai scesero in agitazione per la mancanza di riscaldamento, che comportava una temperatura troppo bassa. Anch' io andai a casa un po' prima perchè gli operai smisero di lavorare per il freddo e per protestare contro questa situazione. Il che dà 1' idea di una fabbrica molto partecipata e politicizzata da parte dei lavoratori. Non poteva accadere qualcosa contraria ai lavoratori senza che si sviluppasse una reazione. Era una fabbrica viva e appunto io fui assunto nel marzo del '79 con la mansione di montatore, addetto al montaggio delle macchine utensili. Dopo qualche tempo passai al montaggio dei controlli numerici. All' interno della fabbrica si montavano torni. La produzione principali era quella dei torni tradizionali, torni paralleli. Da poco però la Grazioli aveva aperto la produzione di torni a controllo numerico, che stava dietro all' innovazione tecnologi- ca. Al momento era una cosa molto interessante e nuova, per 1' applicazione dell' informatica e dell' elettronica alle macchine a controllo numerico. Si trattava di trasformazioni delle linee tradizionali. La produzione era limitatissima. Mi pare che ne uscissero tre o quattro modelli all' anno. Eravamo in due montatori e ne uscivano una quantità estremamente limitata. Erano anni pionieristici in questo settore e queste mecchine costituivano un certo interesse. La Grazioli di tradizione aveva legami con le commesse pubbliche, le ferrovie in particolare e gli istituti professionali. Le macchine a controllo numerico invece erano richieste dai privati. Il nome Grazioli era garanzia perchè la produzione era sicuramente di alta qualità. Benchè non avesse dei macchinari particolarmente moderni, aveva torni e fresatrici ormai stracollaudati da secoli, si può dire, più che dagli anni, che non richiedevano tecnologie particolarmente avanzate. Era nota l' accuratezza con cui erano fatti e il controllo qualità da parte degli addetti era particolarmente rigoroso, nel senso che si dovevano superare dei test e le misure dovevano stare nelle tolleranze previste. Giustamente quindi il prodotto della Grazioli era conosciuto come un prodotto di qualità. Era molto amato dai vecchi artgiani: essi sapevano che perdevano qualcosa rispetto ad altre marche, ma avevano la garanzia di un prodotto valido. Oltre al collaudo dei vari pezzi c' era una struttura che collaudava i singoli pezzi. Tutti pezzi, quindi, erano accompagnati da fogli di collaudo e c' era, evidentemente, il collaudo finale della macchina, con due meccanici che si occupavano di questo. Su un centinaio di persone, nel periodo in cui lavoravo io, c' erano un addetto al collaudo dei pezzi e due addetti al collaudo finale. C' erano insomma alcune persone distaccate dalla produzione che avevano il compito di fare le pulci a chi produceva, il che era abbastanza significativo. Gli operai, escluisivamente uomini, erano un centinaio o poco più. Gli impiegati erano pochi. La fabbrica era incentrata prevalentemente sulla presenza di operai. La presenza degli impiegati era relativa: c' era l' ufficio acquisti, l' ufficio progettazione o ufficio tecnico vero e proprio, con un paio di ingegnieri. Poi c' era la parte amministrativa. Quindi la componente impiegati era abbastanza ridotta. La proprietà nel primo periodo credo che fosse ancora della famiglia Grazioli, fermo restando che era una società per azioni. La famiglia Grazioli credo che non fosse più maggioritaria nel consiglio di amministrazione. Successivamente la fabbrica è passata alla Carte-Montanari, che a sua volta, dopo poco tempo, se n' è disfatta intorno al 1982, quando comparve il gruppo Rosso, che di fronte ad una situazione che andava progressivamente peggiorando non mosse un dito per migliorare la situazione. Penso che tutti i lavoratori della Grazioli abbiano stampato nella mente che la chiusura della Grazioli sia stata una cosa predeterminata come conseguenza di un fallimento gestionale. Nel periodo dell' occupazione della fabbrica gli operai continuarono a produrre lavorando però solo con gli avanzi di magazzino. Non ci fu problema per il curatore fallimentare per ricollocare questi prodotti. Si andava a lavorare anche dei mesi per smaltire i magazzini. C' era poi una commessa inevasa, mi sembra con le ferrovie, relativa ad una certa quantità di macchine. Per il prestigio che la fabbrica avava abbiamo continuato a lavorare per un po' di tempo e avremmo potuto continuare a lavorare. Ma in tutti i lavoratori c' era la convinzione che il gruppo Rosso era fortemente intenzionato a chiudere. Probabilmente sono stati fatti alcuni calcoli in questo settore della meccanica industriale ed è stata presa la decisione che bisognava ristrutturare per esigenze di mercato. Del resto, la fama che aveva questo gruppo Rosso era una famma di liquidazione, perchè avevamo notizie di fabbriche, come la Tovaglieri, passate in mano a questo gruppo Rosso, che venivano smantellate. Per cui sembrava proprio un' operazione precostituita questa della liquidazione. Gli operai hanno fatto una lunga lotta per salvare la Grazioli, anche sulla base di una tradizione di lotta, che ne avevano fatto una fabbrica politicizzata e sindacalizzata. Era una fabbrica ad alta sindacalizzazione e politicizzazione. Un aspetto di questo può essere magari individuato nella professionalità elevata. Cioè, i manovali erano solamente un paio all' interna dell' azienda. La stragrande maggioranza erano operai specializzati e superspecializzati. quindi, tradizionalmente, diciamo, con la parte più aperta alla sindacalizzazione. Negli ultimi tempi anche i giovani entrati si adeguarono a questi tipi di posizioni. Ma è sempre stata una tradizione quella della forte sindacalizzazione. Probabilmente da quando esiste la Grazioli aveva avuto questa particolarità. Secondo me conta molto anche il fatto di questa tradizione di manodopera specializzata. La professionalità operaia molto spesso cammina di pari passo con la sincacalizzazione. L' orgoglio operaio di una persona che sa che il suo lavoro produce cose di qualità e di valore genera via via una tradizione di stima di se stesso in quanto produttore e della classe operaia di conseguenza. E quindi, automaticamente, se uno ritiene importante quello che fa e ritiene che abbia un ruolo importante nella fabbrica e nella società, non può considerarsi politicamente subalterno. Lavora alla stregua di una buona macchina, però si sente importante nella società ed è più portato a pensare che il ruolo della classe operaia e degli oppressi sia importante. Secondo me, quindi, questa è una spiegazione della presenza di gente sindacalizzata all' interno della Grazioli. Sono convinto che ci sia questo legame tra sindacalizzazione e professionalità operaia. E' tipico della manovalanza la precarietà sindacale. Poi non dimentichiamo 1' FLM di Milano, che era 1' anima del sindacato unitario. Io ero della FIOM, che era a sua volta la struttura combattente della mentalità del sindacato classista. Era era un' organizzazione molto presente, che portava all' interno delle fabbriche idee e spinte, quadri, ecc. La FIOM era un punto di riferimento reale nel tessuto culturale operaio, soprattutto in queste zone di Milano e dintorni. Per cui questo grosso legame ha mantenuto comunque una certa continuità, una tradizione di presenza sindacale. Nel consiglio di fabbrica, eletto direttamente dai lavoratori, i delegati erano tutti della FIOM. C' erano un gruppo di tessere della CISL, però erano poche e non avevano incidenza nelle elezioni. C' era un' egemonia della sinistra sindacale e politica, ma contrasti forti tra i lavoratori non ce ne sono mai stati. C' era in particolare la cellula Santagostini del partito comunista, di cui io ero il segretario. Questo Santagostini era un vecchio operaio della prima generazione, che aveva avuto un ruolo nella resistenza e nella storia della fabbrica. E' parso giusto, quindi, dedicare al suo nome l' attività politica svolta alla Grazioli. Gli iscritti alla cellula comunista erano una dozzina ai miei tempi. Le tessere sindacali, invece, erano oltre la metà. C' era anche qualche tessera fra gli impiegati. In relazione alla morte di Giacomo Grazioli, fondatore della fabbrica, nei miei anni era già passato molto tempo dal fatto. Giravano voci in relazione a questa figura, che da una parte sembra che avesse fatto opera di salvaguardia verso un gruppo di lavoratori contro la deportazione, dall' altra parte invece che si servisse di questa immagine di difensore dei lavoratori come copertura di conti che doveva rendere. Alla fine degli anni settanta e inizio degli anni ottanta ormai la famiglia Grazioli era un fantasma nella fabbrica, sebbene qualcuno abitasse nella villettina a fianco. Per noi erano dei fantasmi, io per esempio non li ho mai visti. Si era già persa la tradizione familiare. Il nome era più legato al logo delle macchine piuttosto che alla persona fisica. Sicuramente il Grazioli, ucciso dalla resistenza, doveva essere un personaggio che partecipava alla vita della fabbrica e non era solo uno che si appropriava dei suoi frutti. L' episodio della sua morte è un po' anomala. Tra gli operai non c' era alcuna tesi di spiegazione del fatto, ormai lontano. In fin dei conti non era oggetto di discussione più di tanto. Qualcuno diceva che se gli hanno sparato avranno avuto i loro buoni motivi per farlo fuori. Erano anni in cui le posizioni erano ben chiare, per cui se la resistenza aveva ammazzato qualcuno si dava per scontato che il motivo c' era. Al di la della storia personale del fondatore, dal punto di vista tecniico il marchio Grazioli si è imposto perchè le macchine erano sicuramente valide. Ma bisogna anche dire che come in tante cose i miti - e nel caso della Grazioli era un piccolo mito - si creano anche per meccanismi strani. Certe situazioni fanno conoscere e abbinano un nome ad un prodotto di qualità, poi magari si prendono delle fregate dalla stessa ditta mitizzata. Credo che, durante il fascismo, il fornire di macchine Grazioli gli istituti professionali davano un' immagine di affidabilità; poi la gente cresceva con la convinzione che quest' idea corrispondesse alla realtà. Sicuramente alcune condizioni hanno aggiunto un po' di lustro a questo marchio, ma sicuramente la qualità del prodotto c' era. Negli ultimi anni gli operai hanno fatto di tutto per impedire la chiusura. La lotta è durata tre anni circa. La ditta è stata formalmente sciolta nell"84. Poi c' stato un periodo di circa tre anni gestito dal liquidatore. La fabbrica ha tentato di salvarsi con l' iniziativa degli operai. Si percorrevano tutte le strade di presentarsi di fronte a tutte quelle strutture pubbliche che avrebbero potuto intervenire per trovare delle soluzioni. Con la mediazione della Regione si cercava una nuova proprietà. Fu ventilata addirittura la presenza cinese. Furono percorse tante strade, ma la mia impressione, di uno che non ha partecipato materialmente, era che da parte dell' Assolombarda non c' era volontà di salvare la Grazioli. Anzi, che fosse stata presa la decisone inequivocabile di chiuderla. I contatti per salvare la fabbrica furono quindi bruciati dalle scelte dell' associazione degli industriali, che hanno fatto terra bruciata. La legge 444 consentiva il ricollocamento degli operai in cassa integrazione, in caso di fallimento. in effetti, questa legge salvò una serie di lavoratori: qualcuno andò all' ANAS, altri all' INPS, ecc. Comunque, non fu la parte maggioritaria: saranno stati una decina. Una parte, data la professionalità, sono finiti in altre fabbriche, a cominciare dalla Carle-Montanari. Non mi risulta che una buona parte abbia avuto enormi problemi di ricollocamento. Per quanto mi riguarda, durante la cassa integrazione ho fatto un' esperienza di lavoro autonomo con altri amici, ma è stato un fallimento. Mi sono salvato facendo il concorso per vigile urbano e mi sono riciclato in questo modo. Durante la lotta la mensa aveva un' alta funzione nel tenere uniti i lavoratori. A parte il contributo al bilancio familiare degli operai, tenere aperta la mensa era un motivo in più per ritrovarsi nell' azienda e non mancare la presenza durante la giornata. Mantenere in attività la mensa fu una delle iniziative che ci si impose per resistere, anche con il contributo degli abitanti della zona, che espressero la loro solidarietà anche fornendo generi alimentari. Nel Consiglio di zona 15 fu organizzata un' assenblea per sensibilizzare i cittadini e trovare qualche soluzione. In questo senso fu fatta anche la proposta di vincolare 1' area per evitare la speculazione e impedire una diversa destinazione d' uso. La posizione della fabbrica era interessante, se pensiamo che 1' hotel Quark è stato costruito nelle vicinanze, successivamente. Si premeva per rendere più difficile la possibilità di chiusura dell' azienda. Ma non è servito: il Consiglio di zona non aveva poteri. Gli ultimi tre anni, quelli dell' occupazione della fabbrica, io non li ho vissuti perchè mi ero ricollocato come vigile. Saltuariamente andavo a lavorare come stabilito dalla cassa integrazione: per alcuni mesi è stata la mia seconda occupazione. Progressivamente, però, c' è stato il mio allontanamento dalla fabbrica. In definitiva, nonostante tutto, gli anni della Grazioli per sono stati anni belli. Alla mattina ci si alzava volentieri per andare a lavorare, cioè c' era un clima buono. Si andava a lavorare non solo per prendere uno stipendio, che, per inciso, era degno di rispetto, perchè era un' azienda di alta professionalità e di alta sindacalizzazione e perciò pagava qualche cosina in più delle altre aziende: c' era la mensa e tutta una serie di altre cose, che garantivano condizioni di lavoro piuttosto interessanti. C' era un clima di collaborazione soddisfacente. Una volta si diceva che i giovani dovevano rubare il lavoro agli anziani, nel senso che la professionalità dovevano acquisirsela e tenersela stretta: una sorta di gelosia professionale. Se questo poteva essere vero negli anni quaranta e cinquanta anche alla Grazioli, nel periodo in cui lavoravo io sicuramente non era così, perchè gli operai più esperti erano sempre molto disponibili. Lo stesso capo officina era una persona che la sua professionalità la metteva sempre a disposizione degli altri. E' gratificante direi lavorare in un' azienda in cui 1' ambiente opera perchè tu lavori al meglio. I rapporti umani erano buoni. Anche dal punto di vista professionale c' era questo rapporto di collaborazione, sia in verticale che in orizzontale, soprattutto nell' officina. Sono stati anni in cui ho vissuto bene, proprio perchè c' era l' aspetto solidaristico, che fa parte della mentalità operaia, soprattutto di quella sindacalizzata e politicizzata. C' era anche molta amicizia, perchè capitava abbastanza spesso di trovarci tra amici fuori per andare a mangiare insieme o fare qualche altra cosa, pur non abitando nello stesso quartiere, da dove proveniva un discreto numero di operai. Non tutti, perchè molti erano di altre parti della città o provenivano da fuori: qualcuno dalla provincia di Pavia. La maggioranza degli operai comunque viveva nelle zone vicine. C' erano più occasioni di ritrovarci fuori dal lavoro perchè i rapporti erano particolarmente buoni. Certamente questo non valeva per tutti. Come in tutti i posti si creavano i gruppi di simpatie, però nell' insieme c' era un clima sereno e piacevole. Come modo di lavorare era sicuramente un ambiente buono, dove anche la struttura gerarchica badava più agli aspetti sostanziali che agli aspetti formali, per cui nessuno ti stava dietro la schiena per guardare se perdevi cinque minuti. Si guardava più alla qualità del lavoro. Erano trattati bene anche i sindacalizzati e i politicizzati. Era anni in cui la sindacalizzazione si era imposta ed aveva ottenuto un suo riconoscimento. Erano gli anni forti in cui la classe operaia raccoglieva i frutti di tanti anni di sacrifici. Sono durati poco, purtroppo. Alessandro Pezzoni (consigliere del Consiglio di zona 15) L' ipotesi di chiusura della fabbrica è stata forse la prima che ha investito il Consiglio di zona 15 all' inizio degli anni ottanta. In seguito poi ci sono state altre situazioni difficili. Comunque, questa della Grazioli è stata vissuta in Consiglio di zona in maniera molto drammatica. Perchè tutti i partiti che erano presenti nell' istituzione zonale si sono adoperati perchè questa chiusura non avvenisse. Non so che tipo di risultato abbiamo potuto ottenere, ma sicuramente il ritardare la chiusura è stato un atto concreto acquisito dalle istituzioni zonali. Noi ci auguravamo che la chiusura definitiva non arrivasse mai. Noi abbiamo fatto principalmente da tramite con il Comune di Milano, con la Provincia e con la Regione. Quel momento era un periodo storico in cui il lavoro era il tema principale per la città di Milano. Questi pericoli, queste ristrutturazioni che venivano avanti erano causa di apprensione. Quindi, noi abbiamo operato in questo modo, tentando di appoggiare delle iniziative stupende che gli operai della Grazioli riuscivano a mettere in campo. A parte il nostro aiuto, erano loro il centro motore dell' iniziativa. L' occupazione durata tantissimi giorni, le difficoltà che gli operai avevano, la paura costante di perdere il posto di lavoro si concretizzavano in atti concreti che erano rivolti alla cittadinanza. E la cittadinanza rispondevano positivamente, interveniva nei dibattiti che si facevano all' interno della fabbrica. C' è stata una bellissima mostra fatta proprio dagli operai. Era stata riprodotta tutta la lavorazione che la Grazioli portava avanti. Era una lavorazione estremamente specializzata ed era unica, forse, in tutta la città di Milano. Perchè quel tipo di lavorazione la facevano solo alla Grazioli. Un altro ricordo molto vivo che ho è quello dell' intervento dei ragazzi della scuola di via Boifava, che aveva un indirizzo musicale, gestito da un professore (di cui non ricordo il nome) che aveva portato i ragazzi con i propri strumenti per suonare una musica che usciva dalla fabbrica e avvolgeva tutto il quartiere. E' stato sicuramente un momento toccante. Poi sono intervenuti personaggi dello spettacolo per esprimere la solidarietà. Il Consiglio di zona al suo interno ha operato nel modo migliore, penso, con la Presidenza che era attiva a quei tempi per smuovere l' apatia che c' era a livello alto, per superare le difficoltà che si riscontravano e per trovare anche i finanziamenti necessari. Noi in particolare facevamo pressione sulla Regione affinchè si trovasse un acquirente italiano, che potesse prelevare questa lavorazione che era estremamente importante. Non ci siamo riusciti, gli eventi sono stati sfavorevoli. Però pernso che quell' esperienza ha segnato tutti noi per il futuro e ha fatto maturare chi come me era alla prima esperienza amministrativa. Nel Consiglio di zona la vicenda ha provocato sicuramente una motivazione alla politica ed alla lotta perchè questi episodi di chiusura di aziende produttive non si verificassero più. Ed invece questi episodi hanno continuato a verificarsi ed ancora oggi continuano a verificarsi, come la chiusura della cartiera Binda e della cartiera Verona. Anche la CarleMontanari oggi ha dei problemi. Questo tessuto produttivo che faceva viva e vivere la zona sud di Milano è stato fortemente ridimensionato secondo le esigenze della globalizzazione che cambia la fisionomia di questa città, in cui il potere politico di tipo decentrato è sostanzialmente impotente, soprattutto di fronte alle grandi proprietà private. Pensiamo alla Redaelli, all' OM e ad altri insediamenti industriali che oggi sono dei deserti come aree dismesse. Manca oggi una volontà politica diversa, che porti avanti un discorso di nuova industrializzazione per creare nuovi posti di lavoro con le nuove tecnologie. Oggi sembra che l' interesse sia rivolto verso la grande distribuzione e tutto quello che questa comporta. Il risultato del terziario in zona lo abbiamo visto: sono delle cattedrali nel deserto, ancora oggi vuote. La riconversione industriale degli anni ottanta nella nostra zona si è tradotta in niente sostanzialmente. Maria Cavenaghi (Presidente del Consiglio di zona 15) Durante il periodo dell' occupazione e del tentativo di salvare la Grazioli noi come Consiglio di zona siamo stati coinvolti nei limiti della marginalità che aveva questa istituzione, la quale se aveva dei limiti allora, ora versa nella stagnazione più totale. Allora c' erano molte aspettative nei confronti di queste istituzioni decentrate. Vi era anche un grosso impegno da parte di tutte le forze politiche. Nell' area della sinistra, in particolare, c' era forse una caratterizzazione molto forte, però la partecipazione era molto diffusa. E intorno a problemi tipo la Grazioli ed ad altri simili che hanno investito la zona non c' erano differenziazioni di ordine partitico. C' era un grosso senso della solidarietà e c' era proprio questo sforzo di rafforzare il tessuto sociale. Questo era 1' aspetto più positivo. E intorno alla Grazioli c' è stata un' unanimità di consensi per qualsiasi iniziativa la Grazioli avesse messo in atto. Abbiamo fatto, mi ricordo, anche degli incontri a livello istituzionale, coinvolgendo l' amministrazione comunale con l' Assessorato al lavoro e il Sindaco in persona. Abbiamo fatto delegazioni di giunta, poi abbiamo fatto incontri anche a livello sindacale, con funzionari e dirigenti della Camera del lavoro. Habbiamo fatto incontri con le maestranze, con i lavoratori, cercando di acquisire il maggior numero di informazioni possibili sul nodo che noi volevamo affrontare: quello di verificare se esistevano le condizioni perchè la Grazioli potesse essere sempre competitiva nell' ambito del settore in cui operava e, quindi, se il salvataggio della Grazioli si poteva configurare solo e semplicemente come un' opera di beneficenza sociale, oppure se aveva una sua valenza e, comunque, una sua utilità economica. E questo è stato il nodo attorno al quale si sono giocate tutte le questioni. Perchè da parte degli operai c' era questa piena consapevolezza che - sia per quanto riguardava le commesse che la Grazioli aveva, sia per quanto riguardava il livello di tecnologia che poteva esprimere per la professionalità delle maestranze e per il grado di modernità delle strutture che aveva - il salvataggio non sarebbe stato solo e semplicemente la conservazione del posto di lavoro, ma sarebbe stata, comunque, se ben gestita e diretta, anche l' occasione di un rilancio della tecnologia italiana, in modo particolare in quel settore specifico, a livello non solo nazionale ma anche europeo. Gli operai ci segnalavano che avevano dei macchinari ad alta tecnologia, ci segnalavano che avevano delle professionalità acquisite tali da poter sostenete che quello era un patrimonio che nel suo complesso andava salvaguardato e valorizzato. Loro sostenevano che il problema della Grazioli non era la caduta della domanda del prodotto, ma era sostanzialmente 1' incapacità gestionale dei dirigenti della Grazioli, in modo particolare dei proprietari. Tanto è vero che gli operai avevano proposto al sindacato anche di fare una specie di autogestione, un qualche cosa che consentisse loro di dimostrare nei fatti questa possibilità. Io ricordo che ci fu uno scontro non solo con la proprietà e con la dirigenza, ma ci fu uno scontro anche nell'ambito del sindacato. Cioè ci furono delle posizioni molto nette sul fatto che la Grazioli non potesse essere salvata. Io ricordo che ci furono appunto queste analisi su una situazione che non poteva essere salvata. Ricordo anche che ci fu un perido di occupazione permanente da parte delle maestranze della Grazioli. Ci furono atti di solidarietà e manifestazioni pubbliche promosse anche dal Consiglio di zona; i consiglieri si alternavano a portare un segno che voleva essere anche tangibile e concreto del sostegno agli operai. Nel senso che si portavano anche cibarie e cose molto semplici e concrete. Ma ricordo pure che c' era questo senso di sfiducia diffuso che non si sarebbe potuto approdare a niente di buono. E si avvertiva anche il fatto che la chiusura doveva in un certo senso rientrare in un progetto cosiddetto di riqualificazione urbana, della città. Cioè, da una parte si sosteneva che la Grazioli non era salvabile e, dall' altra, si soteneva il ricorso alla variante del Piano regolatore, tale da poter riutilizzare questa struttura che sarebbe stata poi dismessa. C' erano, appunto, questi due livelli che si incrociavano: il problema del mondo del lavoro, che sembrava insolubile e una pressante richiesta di varianti di Piano regolatore per il riutilizzo di quest' area dismessa. Forse è stato uno degli episodi più significativi e anticipatori di quel grande processo - che poi si è verificato nell' ambito cittadino e non solo cittadino, nell' ambito metropolitano in generale - della chiusura delle fabbriche e della politica di riqualificazione delle aree dismesse. E adesso, infatti, abbiamo visto che, anche se con molta lentezza, questo processo è andato avanti e si è concluso con la dismissione della fabbrica e la demolizione della struttura, con la conseguente trasformazione urbanistica caratterizzata da una nuova edificazione. E' un processo abbastanza inarrestabile di trasformazione dell'area metropolitana. Ma 1 nel caso della Grazioli forse si è rivelato con largo anticipo. Nei membri del Consiglio di zona il processo strutturale non era percepito fino in fondo. Appariva ancora come un fatto isolato ed episodico. Non si coglieva ancora la connessione della chiusura della Grazioli con la trasformazione urbanistica del territorio. Perchè, contestualmente alla chiusura della Grazioli andava avanti e si stava affermando la questione del Progetto casa: altra grossa trasformazione che ha investito tutta l' area metropolitana, ma che in modo particolare si è fatta sentire nelle zone del sud Milano, in quanto quelle del nord erano già sufficientemente sviluppate e sature. Diciamo che le persone non hanno colto allora l' interconnessione delle due cose: la crisi delle fabbriche e la trasormazione della città. Per cui la vicenda della Grazioli è stata vista da sola, un fatto isolato e di carattere strettamente sociale. Sfuggivano i messaggi di quello che sarebbe complessivamente e successivamente successo. Si aveva una sorta di aspettativa che inevitabilmente doveva restare frustrata, proprio perchè non era un episodio isolato. Probabilmente noi avevamo sbagliato a coglierlo come episodio isolato. In realtà erano i primi effetti di una trasformazione nel tessuto produttivo e nel tessuto urbano, che stava iniziando. La questione del fallimento e della morte produttiva della Grazioli, in definitiva, a voler essere precisi è un fatto gestionale, di cattiva gestione, però con delle interconnesioni che, secondo me, sono rimaste oscure. Così come è rimasta oscura la fine del fondatore della fabbrica. C' è un qualche cosa di poco chiaro nella storia della Grazioli, perchè allora è rimasto inspiegabile il perchè non si sia potuta salvare. Sembrava che si percepissero delle ragioni oscure, che non era dato di sapere a tutti, che trascendevano le possibilità di spiegazione che ognuno di noi aveva. Di fatto però la Grazioli è stata chiusa. Io penso che la Grazioli non sia stata salvata per un insieme di elementi, che vanno individuati nell' ambito della Confindustria, del padronato per semplificare ed estremizzare. Lì c' erano delle ragioni e dei motivi per cui andava bene che la Grazioli venisse chiusa. E purtroppo anche in alcuni settori del sindacato, per cui anche lì, non so per quali ragioni, c' era qualcosa che a noi sfuggiva. Si sa che ci sono i patti tra le parti sociali, per cui tra il padronato e il sindacato nel pacchetto di salvataggio di alcune situazioni c'è 1' accordo a sacrificarne altre. Per cui, probabilmente - dico probabilmente - la Grazioli è entrata in uno dei tanti pacchetti, che sono passati drammaticamente tra le mani delle parti sociali. Quindi, si può ipotizzare che non c' è stata una compatezza sindacale a non voler a tutti i costi salvaguardare e salvare la Grazioli. La motivazione gestionale, comunque, è stato 1' elemento scatenante della chiusura. Sicuramente si è trattato di una gestione miope fatta dalla famiglia, cioè dagli eredi della Grazioli e degli acquirenti successivi. Io penso che il problema più antico sia stato il passaggio dalla morte del fondatore agli eredi. Un altro aspetto da non sottovalutare è che le maestranze della Grazioli avevano alcune punte di grossa combattività: questo è un elemnto da non sottovalutare nell' ambito dell' organizzazione sindacale. Perchè probabilmente c' erano alcuni elemnti scomodi nel sindacato. Infatti, io ricordo che anche quando incontravo la delegazione degli operai della Grazioli mi accorgevo che questa era fortemente politicizzata e sindacalizzata, con una configurazione di sindacato di base, che poco si conciliava con quella sorta di normalizzazione che a volte si imponeva e si gestiva nelle strutture sindacali. Nell' ambito della CGIL e nell' ambito del Partito comunista a quell' epoca c' era un grosso dibattito tra come essere comunisti e come essere sindacato. C' era un confronto molto aspro tra chi operava a livello di base e chi operava a livello di sezione territoriale, di sezione di fabbrica, di organizzazione sindacale decentrata e di dirigenza, sia come federazione e sia come confederazione sindacale. Io ricordo quegli anni come anni molto viva- ci, ma anche molto pesanti per questo contrasto di posizioni. Non solo sulle questioni della Grazioli, ma più in generale sulle questioni del lavoro, sulle questioni urbanistiche, sulle questioni dei servizi sociali, sulle questioni dei giovani, ecc. Diciamo, ad esempio, che il Leoncavallo di oggi fu allora il centro sociale del Gratosoglio, dove c' era una forte spinta sociale, perchè i giovani, al di là della loro collocazione politica, avevano bisogno di uno spazio vitale per esprimersi. Questo contrastava con l' apparato, che spingeva a normalizzare, a regolare, a controllare, ecc. E quindi c' era un conflitto interno ai partiti di sinistra. C' era in particolare chi era sensibile ai problemi della marginalizzazione e preoccupato per la tenuta dei livelli della democrazia e c' era chi non coglieva lo spessore di queste nuove emarginazioni e sensibilità, soprattutto giovanili. In conclusione, ricollocando il giudizio all' epoca, mi sento di dire che la chiusura della Grazioli è stata un'occasione persa, decisamente un' occasione persa. Io avrei caldeggiato e al limite provato fino in fondo un' esperienza di autogestione sperimentale, come nel caso della Fioravanti. Avrei tentato l' impossibile. Allora, come ripeto, non c' era la consapevolezza che si sarebbe poi avviata una situazione storica irreversibile, che avrebbe portato alla situazione di oggi. Allora forse era importante giocare tutte le carte, quindi anche un' autogestione controllata, regolamentata, limitata nel tempo, ecc. Ma comunque, quello andava fatto. Il giudizio ricollocato all' epoca è un giudizio di occasione persa. E' chiaro che successivamente uno fa un' analisi un po' più ponderata e si rende conto che si è trattato di un fenomeno di trasformazione strutturale della città, dei modi del lavoro, del mondo della produzione e di tutto quanto. Però, complessivamente, il giudizio è che allora si poteva e si doveva tentare, si doveva fare un' esperienza, come ultima testimonianza di una conclusione diversa di un processo di sviluppo. Ma, al di là delle valutazioni politiche e sindacali, come semplice cittadina, nell' esperienza della chiusura della Grazioli ho vissuto un dramma umano legato al primo problema di ognuno di noi che è quello di vivere, al bisogno fondamentale dell' essere umano che è quello di avere i mezzi per mangiare, un salario per campare, che con la chisura della fabbrica veniva messo in discussione per gli operai coinvolti. Questo fatto è stato molto drammatico per me, vuoi per il ricordo di quando mio padre fu licenziato, quando rimase senza lavoro e quindi in casa c' erano dei problemi: è stato devastante. E' stata per me drammatica la sofferenza che si sentiva a volte anche nella violenza espressiva che avevano gli operai in lotta. Non stavano a calibrare le parole, molto spesso 1' espressione era brutale, però dietro le parole e i gesti bisognava saper leggere la tragedia che loro stavano vivendo, in relazione al problema della sopravvivenza quotidiana. A quell' epoca tra gli operai della Grazioli si parlava di queste cose. Certo, dopo l' abbattimento dello stabilimento, a chi passerà davanti all' area della Grazioli non sarà dato di sapere che dietro quel nuovo palazzo, sotto di esso c' è stata una grossa sofferenza umana di una gente che non farà mai la storia, la cui vita rimane dentro quelle mura, sotto le fondamenta del nuovo palazzo. Le nuove generazioni hanno il diritto di conoscere, la perdita della memoria storica, che è stata brutalmente cancellata da una cultura che non è cultura, è un impoverimento grave. La scuola pubblica, in questo senso, ha un compito insostituibile: deve essere depositaria di questa memoria storica di vita vissuta, che non compare sui libri. Deve essere per forza un mezzo di trasmissione del valore della memoria alle nuove generazioni. (Le interviste sono state realizzate e trascritte da Giuseppe Deiana, ma non sono state riviste degli autori) - XI -

APPENDICE DOCUMENTARIA


[Immagine] [Immagine] [Immagine] [Immagine] [Immagine] [Immagine] [Immagine] [Immagine] [Immagine] [Immagine] [Immagine] [Immagine] [Immagine] [Immagine] [Immagine] [Immagine: Lì in Grazioli c'è una stella prigioniera] [Didascalia immagine:] Demolizione della Grazioli per la costruzione di un complesso residenziale (anno 1998) Biblioteche Rionali di Milano Biblioteca Chiesa Rossa SL 338.4 CERA INVE: 30486