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CHERUBINO CORNIENTI CHERUBINO CORNIENTI PITTORE 1816 - 1860 COMMEMORAZIONE PER GIUSEPPE MONGERI MILANO COI TIPI DI GIUSEPPE BERNARDONI 1861. Nel considerare l' umana commedia che assidua s' intreccia e s' incalza intorno di noi, per quanto vogliasi serbare l' animo impassibile , difficilmente riesce di contenerlo allo spettacolo dell'onestà povera e timorosa. Nessun strazio havvi che agguagli quello di cui essa è vittima. Le generazioni trapassano tumultuando in mezzo al frastuono di voci di gioja , e di urla di rabbia o di sdegno, ma il lamento di chi soffre nell' inopia e coll'incrollabile fede del giusto e del vero nel cuore, questo lamento non giunge all'orecchio se non di chi lo cerca origliando o lo sorprende studiosamente nell'ombra e nel silenzio. Là voi ritrovate spesso un essere estenuato di vita, ma sveglio e vivo d' animo e di mente, che, caduto nell'inerzia, e più che rassegnato, diffidente d' altrui e di sè, riscosso ad ogni tratto dal bisogno e dall' obbligo morale, tenta di levarsi, ma è respinto da una mano arcana senza un raggio di quell' impeto salutare, sorriso perpetuo degl' inverecondi , senza una mano pietosa che lo comprenda e gli rechi la violenza del soccorso. Questo stato già abbastanza miserando, lo è reso ancor più quando all' onestà si congiunga l' ingegno. Pare anzi che all' ingegno, all' ingegno alto e libero sia maggiormente riservato quest'aspro destino. Si direbbe che egli stesso si rechi in seno il germe delle proprie sventure. Non v'ha dubbio che a lui più che a tutt'altri, accada, sull'ingresso della vita, di avvedersi entro quale società sfatta debba procedere e quindi di prelibare quell'ingenua compiacenza di sè, che è sintomo di una coscienza risoluta a serbarsi semplice e pura, di un cuore che palpita di fede e di speranza; che crede nella potenza del genio e nel trionfo della verità, e spera di lottare e di vincere in onta al nefando codice dell'ipocrisia e della scaltrezza. - Povero illuso ! - Ignaro delle tortuose vie dell' abbiezione, e determinato a non scendere a patto alcuno con essa, reputa facile quello che non a pochi costò vita ed onore , poichè non sa quanto cieco corra contro l' onda delle vanità offese e quanto, scrollando l'edificio delle incapacità astute e presuntuose, ne provochi le ire irreconciliabili e feroci. E questa lotta fatale che atterra l'uomo già curvo sotto il doppio fardello dell' ingegno e del bisogno. Può egli ben insorgere talfiata orgoglioso della stessa parte toccatagli in sorte, onde sentesi separato dalla folla egoista e melensa che gli fa ressa ai lati; fors'anche si piace colla mente concitata dalla stessa prostrazione morale, divinare conforti e delizie, ignoti o spregiati dal volgo, ma questo certo non vale a mantenergli la vita, ad agevolargli il libero e tranquillo esplicarsi di quel segreto lavoro che è predilezione dell' anima sua. Anzi accade dopo parossismo siffatto, gli torni più sensibile quell' abbandono e si accosci più desolato in quella febbrile energia che strema le tempre più adamantine. Come apporgli a colpa se da questo momento, al naturale ardore, cui senza astiosi ostacoli, sarebbero sorrisi giorni sereni e fecondi, succede un'agitazione resa più acerba dalle strette della sua istessa vigoria, e se ne esce quello spirito mal fermo e disdegnoso, restio alla voce della ragione, ribelle al più ovvio precetto dell'amore e della socievolezza, pertinace nello sviato sentiero, quasi a contrapporre derisione a derisione! Come non compiangere quello spirito se, mancatogli ogni mezzo all'indirizzo spontaneo, si conturba, e se ripiega contro sè medesimo un' irritabilità morbosa , che riversa poi tanto più potente ed impetuosa , quanto più poderoso è l' ingegno! Qual farmaco possiede la società per quest' uomo prostrato e fatto increscioso a sè stesso dallo spesseggiare dei vani conati, in cui si strugge? Alla non curanza essa aggiunge lo scherno, quando pure il genio del male o biechi rancori non vengano a gittar l' insulto e l' onta sulla intemperanza de' suoi atti. Avvenga invece che una destra pietosa si stenda all' infelice, e quella destra nella stretta viva e convulsa che subito risponde al suo tocco, comprenderà qual comozione lo agiti, e quanta sia la piena degli affetti schietti e generosi che respinti su loro medesimi, invano cercano un'uscita ! Ben felici ancora coloro cui almeno toccò una volta nella vita loro, cotale ventura ! Felice non meno chi potè esercitare così alto e riparatore officio ! Ma quanti non s' abbatterono mai in tale conforto! Quanti, ravvolti nel manto del stoicismo, orgogliosi quasi del loro patire, non l' hanno respinto, e credettero vendicarsi della fortuna, torcendo da lei il viso in quell'unico istante di tregua che loro acconsentiva! E così che si colmano le fosse di cuori dilaniati; è così che in esse si racchiude quella infinita serie di drammi della vita, che il mondo ignora e che vuole ignorare. Non rado succede che per tal guisa si chiuda il corso degli anni all' artista operoso e modesto. V' è un momento, è vero, in cui il breve rimpianto che si sussurra intorno alla sua bara mortuaria, solleva un lembo di quel velo ond' è ravvolta la segreta compagine della sua esistenza ; ma il lenzuolo del- obblio non tarda a stendersi sulla sua memoria non meno greve di quello della terra , che è discesa sul suo capo. L'ingiustizia segue l' infelice anche oltre la tomba. Cui è accaduto di veder compiersi una di cotali esistenze di lotte e di lavoro, chi ha potuto sorprendere a traverso della contegnosa misura del gesto e della flessibile modulazione della parola una di queste storie, a costui incombe il debito di rendergli quell'omaggio ultimo che per lui si possa , in ossequio del vero, col ricordarne la vita fruttuosa ed intemerata, esempio forse non vano in mezzo al dilagare dell' egoismo trionfante. Non altro che questo sentimento ha consigliato chi scrive queste pagine a dire di un pittore, cui lo legavano affetto antico e reverenza grandissima. Questo artista è CHERUBINO CORNIENTI Quello che lo scrittore egli sta per esporre, recherà nulla, in vero, di nuovo pei pochissimi suoi intimi; per altri potrà eziandio sembrare ben indifferente: ma per coloro cui non è ignoto a quali dure prove sia condannato l' ingegno schivo d' ogni ipocrisia , quante volte ci debba cadere sotto la sua croce, e quale immane fatica lo gravi onde rialzarsi e sorreggersi, per costoro si aprirà davanti un nuovo argomento di compianto e di estimozione per l'artista perduto. Cherubino Cornienti ebbe i natali in Pavia ai 25 marzo del 1816. Cresciuto nel consorzio d' una famiglia in cui il lavoro era un dovere, ed in mezzo ai maggiori fratelli che da opere attinenti all' arte traevano il pane , voltosi naturalmente ai medesimi esercizj non durò fatica a far comprendere la potenza della sua inclinazione alla pittura. E, come nelle famiglie popolane , singolare a notarsi, le disposizioni artistiche del fanciullo trovano più benevolo e premuroso accoglimento , che non nelle classi agiate , comechè ambiziose di più lauti destini, così accadde che al giovinetto Cornienti non venisse fino dai primi passi contrastato quel terreno, sul quale doveva combattere, aspra quant' altra mai la battaglia della vita. Seguendo a Milano uno dei fratelli, egli veniva pertanto allogato all'Accademia, prima ancora che avesse tocco il dodicesimo anno d' età. Sarebbe inutile soffermarsi in quegli oscuri giorni di prova, se noi che gli fummo compagni, non ricordassimo ancora quelle doti giovanili che cresciute spontanee dovevano dar l'impronta del pittore adulto: una prontezza , una frenesia al lavoro congiunta ad una mobilità nervosa, ad una sensibilità malaticcia. Chi avesse nondimeno fermata l'attenzione sul giovinetto esile, macilente, alla chioma prolissa, al contegno noncurante , che , senza titubanze , senza pentimenti, anzi colla disinvoltura impetuosa e sicura del provetto seguiva il proprio cómpito, chi avesse notato la sua impazienza dei lenocinii scolastici, l' accento insolito , non di rado risentito, ond' erano, fino dalla prima classe tracciati i suoi disegni, non avrebbe esi- tato a riscontrare in lui l'animo e la facoltà d'un artista. Egli è che, come accade di tutti i veri ingegni, il Cornienti veniva facendosi una scuola propria fuori della scuola. Correvano allora quei giorni tra noi in cui 1' autore della Maria Stuarda esercitava sulla schiera giovanile, che gli cresceva intorno, il più potente ed il più legittimo dei fascini, il fascino del genio. Dalla modesta solitudine del suo studio l'Hayez toglieva a versare quello splendido torrente di creazioni cui doveva attingere vita ed ispirazione una intera generazione d'artisti. Fecondo, infaticabile, insofferente dell' ozio, questi aveva trovato nei lavori litografici quasi un riposo alla fantasia. Dalla matita esalava la medesima magia del pennello ; alla forma sapeva associare il chiaroscuro proprio del colore: se l' occhio del profano non lo sapeva discernere, ben lo sentiva l' occhio dell' artista: nella sua Maria Stuarda, nelle scene dei Lombardi, nel rinegato Veneto, e soprattutto in quella mirabile storia dell' Ivanhoe si riscontrano tale una potenza ed una varietà di toni, che ne fanno la precipua delle loro prerogative. E il Cornienti, comunque inclinato ad un sentir fiero e disdegnoso, vi diede dentro a corpo perduto. La pastosa e colorita vigoria del disegno hayezesco sedussero il giovinetto sedicenne ben più che le forme michelangiolesche onde si distinguevano i disegni del Bossi e dello Sabatelli che in quei momenti gli allievi si toglievano a gara di mano. Quant'egli si fosse loro abbrancato, ne sta testimo- nio uno dei primi lavori suoi che fermasse la pubblica attenzione. Sino dal 1834 aveva cominciato ad esporre alcuni disegni a matita in cui questa tendenza era manifesta, ma solo nel 1839 rifulse pienamente quando scese nell' agone del grande concorso del disegno presso l'Accademia nostra, dove ottenne il premio. Enrico Dandolo, nonagenario e quasi cieco, portato trionfalmente in S. Marco ad assumere il comando della IV Crociata era un tema fatto per sorridergli, perciocchè cogli studii fatti sull' artista prediletto sentivasi agguerrito ad affrontare i soggetti della storia veneta, che si direbbe, come le opere de' suoi artisti, un misterioso contrasto di ombre profonde e di colori smaglianti. Infatti anche oggidì quel lavoro non smentisce le prime sensazioni. La composizione è bensì confusa e tumultuosa, l'effetto di luce troppo forzato di lumi e di ombre; ma stringendosi al carattere del disegno, non si dura fatica a comprendere i modelli che teneva davanti : il gruppo di senatori e di crociati a sinistra del ciborio, dove il vecchio venerando riceve la bandiera della Serenissima, fisonomie, atti, vesti, armature, tutto insomma, sono una vecchia e cara conoscenza. Ma hannovi dei momenti di lavorio recondito nella mente dell'artista che sfuggono all' osservazione più sottile. Uno di tali momenti trascorse pel Cornienti poco dopo l' anzidetto disegno. Era il momento in cui egli sentiva di entrare nella vita reale, e ne vedeva la difficoltà ed i disagi: comprendeva che le sue facoltà isolate venivano meno # tanta impresa : d' altra parte si dibatteva per disgravare, anzi per essere a sussidio dei suoi cari. Vedeva la via ingombra, sbarrata, e non s'accorgeva, troppo modesto ed ingenuo, quale artificio gli mancasse. D' altra parte libero e fiero, la sua coscienza insorgeva contro il dolce giogo che erasi imposto, donde gli pareva essere travolto al plagio ed alla servilità; s'aggiungeva l' orgoglio delle forze proprie e l'impazienza che facevano impeto su di lui per riscuoterlo. Quello clic prevalesse è difficile il dire; le strettezze domestiche e l'amor proprio incalzavano del pari : forse propositi più virili attraversavano la mente dell' artista. Certo è che egli sentiva l' impegno di rifarsi agli occhi proprii, voleva disbrirarsi una via senza antecessori e senza compagni. Indi quell'affannarsi angoscioso, quell' andar brancolando, rifiutar le lusinghe per lasciarsi in balia ad una corrente che avrebbe potuto a tutt' altri parere rovinosa. Così intanto logorava spietatamente sè stesso imperocchè il bisogno, quest'incubo prepotente e satanico, gli stava sopra. Fu in questo mentre che condusse il quadro storico inviato a Venezia pel concorso del 1842. Il soggetto trovava, in un certo qual modo, un eco nella sua situazione morale: trattavasi d' un supplizio, quello di Paolo Erizzo nell'atto che volge l'estremo addio alla figlia. Questo episodio della storia veneta è poco conosciuto. L'Erizzo, bailo di Negroponto, avea veduto cessare la sua missione al momento che il dilagare delle forze ottomane minacciava quell' isola. Rimasto volontario a difendere il territorio della Repubblica, dopo un'eroica resistenza (1469) dovette alla fine cedere davanti alle armi di Mehemet II: il quale, fattolo prigione e simulando rispetto ai patti della resa che ne volevano salva la testa, con terribile ironia lo dannò ad essere segato vivo a mezzo del corpo. Nel quadro 1' apparato del martirio è presto: e infelice Erizzo, ascendendo seminudo i gradi del palco, trova un istante per volgere alla figlia che sviene, animose parole di patria e d' onore. Il concetto, le linee generali della composizione, la scena s'adombrano ancora di quell'aura seducente onde l'artista si era inebbriato: ma il colorito e l' esecuzione se ne staccano arditamente. La forma vi è abbastanza corretta, ma la fattura volge allo sprezzo, direbbesi meglio al brutale ed al selvaggio. Non meno in contrasto coi primi amori sta il colore: quello spettacolo di morte s' innonda d' una luce livida che dà aspetto strano e terribile, e desta l' arcano brivido dell' eclisse. Non è difficile scoprire a traverso quel senso violento, un ingegno ardente ma ammalato. Nell'esecuzione era versata la sua impazienza ma insieme la sua sicurezza, nel colore traducevasi Io sprezzo dei vezzi d'una florida tavolozza , non senza però ricordare le più audaci tele dell' ultima maniera del Tintoretto. Forse qui, nel colore, metteva anzi le sue maggiori speranze a sedurre 1' Areopago della veneta Accademia. Vane speranze ! non fu e non poteva essere compreso: il quadro rifece il cammino per Milano, e ricadde sulle braccia respinto e più ancora sull'animo dell'artista, come un inutile e vergognoso ingombro, donde, soltanto per opera di un intelligente, fu tratto, e così andò salvo dalle gemonie d' un rigattiere (1). Se noi ci siamo arrestati alquanto su questo lavoro, comunque giovanile, egli è perchè segna, meglio di altri posteriori, nella maggior sua schiettezza l'originalità dell' artista, ed è di qui che prese le mosse per le successive sue opere. Non iscoraggiato dall'esito infelice del suo lavoro di concorso per Venezia, egli ripetè le sue prove al concorso dell'Accademia milanese nell'anno successivo (1843) : il Magno Trivulzio che difende la sua innocenza dinanzi a Luigi XII di Francia contro le accuse del Lautrec. Questo quadro non ismentisce punto la libertà di tocco e l' intonazione poderosa e quasi monotona dell' Erizzo; se non che queste doti vi sono oltremodo temperate; e, sia perchè meglio affidato alla castigatezza della composizione e del disegno , sia perchè qui fossero più conosciute la indole e le sue tendenze , certo è che non durò contrasto per ottenere il premio. Pel Cornienti, in preda agli scoramenti degli ingegni vergini ed impetuosi, fu un grande conforto questo premio. Ma il conforto più caro, più inebbriante per lui fu quello che toccò l'anno successivo, eletto, come fu, dell' Accademia di Milano a suo pensionato per la pittura a Roma. Roma per l' artista italiano è la sintesi della sua patria, il sogno dorato della sua mente. Pel Cornienti era qualche cosa dippiù: ansioso di nascondersi al volgo, nell'intento di rifarsi completamente, dessa sembravagli il suo punto d' appoggio, il suo porto di salute. Egli partiva adunque sul finire del 1843 , palpitante di gioja, col cuore leggiero, coll' animo aperto, e quello che ancor più lo rinfrancava recando seco una bella e buona ordinazione. Giova il dirlo, nonostante le diverse opinioni suscitate dal suo carattere ritroso e dalla sua indipendente vivacità nell' arte , da non pochi intanto l'ingegno suo singolare cominciava ad essere confessato. V'era già chi s'affidava in lui. Egli partiva adunque accompagnato da una non piccola tela ravvolta: era il primo abbozzo d'un dipinto commessogli da un amatore distinto, il sig. G. B. Brambilla di Milano, che seguì poscia e sorresse il Cornienti nella sua carriera con interessamento paterno. Esso doveva rappresentare il Vinci nel refettorio delle Grazie, mentre vi riceve la visita del Duca Lodovico e della sua famiglia. Ma gli bastò il primo aspirare di quell' aura nuova, vitale dei sette colli, in mezzo ad una famiglia libera e lusurreggiante d'artisti , ricinto d'una sconfinata varietà di opere antiche e moderne, per trovare il più grande elemento di riuscita, una lucida e tranquilla libertà nell'arte. Da quel punto egli non rileva più che da lui medesimo: bandì la tela recata seco, una nuova se ne pose sotto mano, e su di essa, non era ancor volto l'anno della sua dimora in Roma , che ne usciva quell' opera stupenda che fece la sua apparizione alla mostra artistica milanese del 1845, come uno dei migliori saggi dell' arte lombarda, e che, comunque debolmente, fu ripetuto ben anche dall' incisione. Al primo suo mostrarsi esso sconvolse ben molti giudizii poco favorevoli stati preconizzati sul di lui conto ; l' ovazione dei giovani artisti fu più esplicita e calorosa, l'ammirazione di tutti ampia e senza riserva. In quest'opera il nostro amico aveva mirabilmente contemperate le eminenti qualità già dimostrate con quelle che sembravano fargli difetto e di cui ora faceva pompa. Una composizione senza reminiscenze e senza stranezze, vera, semplice, naturale. Il pensiero del Vinci aveva avuto la sua parte d' ispirazione nello stimolare l'artista a studiare le fisonomie, come soleva quel sommo filosofo fra gli artisti, a nobilitare l'espressione del volto più triviale, scolpirla in pochi tratti, ma nettamente, caratteristici. Il colore che negli ultimi dipinti poteva essere tacciato di troppo evidente pretesa ai modi rembranteschi, si raffrena succoso, armonico, vigoroso, svariato. Il resto in quel dipinto corrisponde a questi punti essenziali dell'arte: correzione di forme, sobrietà di effetto, castigatezza e disinvoltura di fattura. Non finiremmo così presto se volessimo notare ad uno ad uno i pregi onde risplende quest'insigne lavoro. Quando si ricorda quel complesso di qualità, quando si pensa che il Cornienti allora non aveva varcato il trentesimo anno e che già ci aveva dato un capo d'opera, il quale resterà, a nostro credere, uno dei testimonii migliori del quanto valesse la giovane arte milanese nell'ultimo quarto di secolo, si deve lamentare che questo lavoro non diventasse il punto fisso ed il modulo inalterabile della sua operosa carriera. Pur troppo anche la potenza del bene ha i suoi confini. Al Cornienti, anima squisitamente sensibile e comprensiva , erano bastati pochi mesi di dimora in Roma per trovare quel giusto equilibrio delle proprie attitudini nell'infinita varietà delle manifestazioni estetiche che fa dell'artista un ente puro ed originale. Sarebbe stata però desiderabile in lui una delle due cose, veramente troppo spesso inconciliabili: od un senso meno mobile od una più vigorosa ritrosia alle influenze che lo circondavano; fors'anche sarebbe bastata un' assenza, almanco momentanea, da quel centro di grandi emulazioni e talvolta di grandi pericoli; ma tutto si opponeva : il suo carattere appassionato ed avido di progresso e poi gli obblighi suoi come pensionato che allora lo ribadivano esclusivamente a Roma. I saggi dell' anno secondo, tra cui la donna del levita d'Efraim (1846), rivelano già infatti una poco commendevole tendenza a staccarsi dai modi arguti di Leonardo per transitare nel campo più macchinoso del Buonarroti. Le vicende politiche onde Roma in quei giorni stava per essere il teatro, irruppero in buon punto per distoglierlo dalla vita artistica, ma valsero a trattenerlo solo un istante sul periglioso declivio. Erano i giorni dell'assunzione al trono pontificio d'un uomo che pareva destinato dalla Provvidenza a redimere l' Italia. La storia ricorda i primi due anni del pontificato di Pio IX come un' era di esultanza schietta e di splendide aspettazioni. Il cuore dell' artista lombardo non poteva restare insensibile all' aurora inaspettata dell' italiano risorgimento. L' arte dapprima gli porse mezzo di celebrare l' amnistia concessa dal nuovo eletto, mediante una composizione allegorica che dava al pubblico mediante una litografia piena di fuoco e di affetto; poscia metteva il suggello all' entusiasmo onde era compreso, accorrendo da Roma tra i primi in soccorso della sua Milano al diffondersi della notizia che la lotta era cominciata nelle vie della città. L' esito infelice dei quattro mesi fu occasione per fare ritorno a Roma. Ve lo richiamavano le ancor vive speranze , la incontaminata ed oscura vita dell' arte, rifugio nel momento dei supremi disinganni, ve lo traevano eziandio le opere ivi incominciate e quell' eletta corona d'amici che la mesta festività dell'animo suo aveva chiamato intorno a lui, e che rallegravano i suoi giorni, allora i migliori, della sua esistenza travagliata. Fra gli amici egli trovavasi doppiamente legato ad un d'essi coll'affezione del cuore e colla venerazione dell' animo. Era questi il Bruloff. Pochi hannovi che non conoscono almeno di fama l'illustre autore dell'ultimo giorno di Pompei e dell'Ines de Castro. Spirito meridionale, ardente, comunque cresciuto fra i ghiacci della Neva, artista sopratutto nella schiettezza e nella famigliarità dei modi, aperto a tutti e specialmente ai giovani ingegni ed alla classi popo- lane, simpatizzante con quanto e con quanti protestavano contro il pedantismo sociale, egli possedeva una certa gelosia di indipendenza, un sentimento così fiero della dignità artistica, che il Cornienti ne fu preso, comechè vi sentiva grandissima un' analogia col proprio carattere. Il Cornienti , come gli animi fatti incerti da una eccitabilità morbosa , godeva talfiata di stringersi ad alcuno; laonde il Bruloff che per ricambio lo teneva in conto grande, qual si meritava, raccoglieva da lui un' ammirazione entusiastica sconfinata, non scevra di pericoli pel giovane artista , comecchè non sempre sia facile nell' arte salvare dagli affetti del cuore, l' indipendenza del pensiero, e la libertà della mano. E così fu. Reduce a Roma , si rivolse adunque ai lavori interotti. A reclamare la sua attenazione stava in cima d'ogni altro il saggio pel terz'anno del suo pensionamento: secondo i regolamenti doveva essere un quadro storico e avrebbe dovuto succedere, in ordine di tempo, un anno dopo quello della donna d' Efraim. Questo lavoro tiene un posto troppo importante nella vita dell'artista perché ci possa essere negato di toccarne con certa estensione. La Bibbia fu il campo del tema: ma l' allusione era troppo trasparente per non intravvedere che sorse suscitato nella mente dell' autore dall' ineffabile tumulto d' affetti ond' era circondato il soglio del nuovo pontefice: e forse il Bruloff non fu estraneo ad avviarlo sul concetto. Ideò egli adunque Mose' fanciullo che calpesta il serto di Faraone. Chi si volesse significato nel futuro Salvatore degli Ebrei, chi nell' oppressore del popolo eletto è facile immaginare. Il pensiero era nuovo e felice; rispondeva alla preocupazioni politiche del momento ed agevolmente poteva essere compreso; tuttavia il modo per renderlo sensibile dovette tenergli l'animo sospeso e fortemente agitato. Sino agli ultimi tempi l' arte si dimostrò ben inferiore al suo còmpito nel dar forma assennata e conveniente ai soggetti biblici. Il Cornienti, ricordando in buon punto le prove del Vernet, clic aveva già avuto occasione di seguire in alcuni precedenti lavori di piccola importanza, rompendo di fronte i pregiudizii più inveterati, si gittò nel dédalo delle maggiori difficoltà. La sua composizione fu preceduta da uno studio di etnologia africana e di archeologia faraonica. Contemperare le esigenze inviolabili dell' arte con questi studii necessarii , comunque accessorii, fu spesso uno scoglio fatale a più d'un artista. Quella tela adunque fu fatta, rifatta, poi rimessa in disparte, indi ripresa : alle risoluzioni seguivano i dubbii, alle facili speranze i subiti scoraggiamenti : il povero Cherubino vedeva venirsi incontro il fantasma ironico de' suoi giudici e del pubblico collo strascico delle pedanterie scolastiche, coi pregiudizii dell'assueto, coll'avversione d' ogni tentativo audace e sopratutto coli' indifferenza sul merito del suo assunto e del punto cui mirava. Gli amici che ne conoscevano il cuore e gl' intendimenti, ne sorreggevano l' animo , ma il Mosè procedeva a rilento, intramezzato da altre opere meno scabrose al facile suo pennello. Fra queste opere dobbiamo citarne due che rivelano sempre più la potenza del Cornienti anche nell' arte religiosa. Sono la pala condotta nel 1850 per la chiesa di sant'Alessandro in Milano e l'affresco eseguito nell' anno seguente al convento dei Cappuccini di Tivoli. Nell' una e nell' altra di queste opere si riscontra quanto il Cornienti si ispirasse in quelle di Rafaello ancor fresche dell'indirizzo peruginesco. Nella pala sono rappresenti all' alto la Vergine, davanti a cui piegasi genuflesso S. Paolo, l'apostolo, mentre al basso S. Agostino e S. Carlo levano lo sguardo a quella celeste apparizione. Qui non è più l'autore del Leonardo : ma pigliando un colore dolce e vaporoso, una trasparenza talfiata vitrea, direbbesi che renda un ultimo omaggio all' antico suo maestro; se non che l' espressione, i tipi delle fisonomie, il disegno fanno chiaro che, per vero, la Madonna di Foligno e la disputa del Sagramento gli lampeggiavano dentro dell'animo. L'affresco di Tivoli, una mezza luna raffigurante la disparizione di Cristo in Emaus, serba non meno puro il concetto dell'arte cristiana: il Cristo che si eleva al cielo, riflette sul volto una visione di paradiso, e porge ben l'idea d'una natura aerea, cui fa contrasto quella dei due discepoli; havvi nel Redentore quello slancio che hanno í principi degli apostoli nell'Attila dello Sanzio. Roma , non sempre prodiga d' applausi agli artisti, lo fu per questo lavoro del Cornienti, accorrendo numerosa alla vicina Tivoli. Ciò davagli coraggio a persistere nel saggio del terz' anno, ma contribuivano precipuamente, tra i voti autorevoli degli amici artisti, quelli del Bruloff e con lui si associava il Bruni: essi si espandevano in elogi sinceri e ragionati, davanti al suo quadro del Mosè , tanto più valevoli in mezzo a quella sterminata moltitudine artisti, dove le opere pullulano a centinaja e si allivellano nella loro incomposta varietà. Mentre Cornienti sentiva le sue forze rassodarsi e i suoi propositi farsi irrevocabili, la lode e forse il consiglio del Bruloff esercitavano una influenza che dall' animo trapassava al pennello. Egli aveva già dato un segno di quelle tendenze nella donna d' Efraim, il Mosè gli prestava un'occasione maggiore; l'ultimo impulso però gli venne dalla morte improvvisa del Bruloff, accaduta nel giugno del 1852 alla Marziana , villetta presso Roma. Egli vi accorse, ma non giunse in tempo che a ritrarne il cadavere di cui serbava dappoi nello studio l' effigie come cosa venerata e santa. Per lui, dopo quel giorno, ricordare i pensieri ed i modi di questo pittore nelle opere proprie fu come un giusto e postumo omaggio alla memoria di quel grande; fu per lui un vanto di cui riscontrasi nelle opere seguenti più d'una traccia. In mezzo a queste vicende, dopo sei anni di lavoro ed in seguito ad un volume di studii, il dipinto del Mosè giungeva a Milano nel 1853. E qui quello che pur troppo l' artista aveva presentito, si verificò: il quadro non trovò l'accoglimento di cui era meritevole. Senza escludere l'idea che forse, preoccupazioni estra- nee all' arte, il senso adombrato, possano avere influito a farlo riguardare meno favorevolmente, non è difficile andare persuasi che il complesso; di quell' opera si prestava da sè medesima a condurre in inganno anche i più cauti e riflessivi. Il pubblico infatti, cui venne esposto nell'anno medesimo, e che era per certo disposto a molto condonare, appunto a riguardo delle intenzioni dell' artista, il pubblico non fu meno severo nel suo giudizio di quello espresso dal corpo accademico: alcuni, pochi artisti e pochissimi intelligenti si studiavano bensì di far apprezzare quel lavoro alla folla che gli trapassava attonita davanti: ma ai profani era impossibile penetrarsi del senso alto che racchiudeva una scena dove i diversi tipi della schiatta umana parevano essersi dato convegno, dove s'aggiungeva allo spettacolo mostruoso e barbarico della corte del secondo Ramesse, una pantomima mossa, arrischiata, o per lo meno in opposizione colla solennità tradizionale della figurativa egiziana. Del resto se fu mal giudicato, se fu posto in non cale, qual meraviglia; non ebbe esso in ciò il destino comune a tante opere grandissime! Senza essere tale il lavoro del Cornienti è per fermo tra quelli del tempo nostro che mostrano una maggiore arditezza, una coscienziosità riflessiva, coronata, se non in tutto, in gran parte per lo meno, d' una riuscita sorprendente. E come il Mosè di questo artista tiene il carattere delle opere lungamente elaborate, così esso vuol essere lungamente meditato. Il tempo solo ne consacrerà i pregi e lo collocherà al posto che gli si addice. Chi sa quanto cresca l' affetto dell'artista all' opera propria in ragione delle fatiche durate , può solo immaginare lo scuoramento profondo onde 1' autore fu colpito alla notizia di quel giudizio. Da questo punto si rincrudisce per lui quell' intimo struggimento , che gli anni, la fortuna domestica, e le vicende trascorse avevano preparato. Fatto più raccolto di quello che l'indole ritrosa lo volesse, lontano da ogni rumorosa consorteria, avrebbe rinunciato volontieri al suo ripatriare per la dimora prediletta di Roma. Ma il destino, dopo dieci anni, ve lo strappava: egli ne uscì e le diede l'ultimo saluto col pianto. Gli anni successivi in Milano sarebbero stati ben desolati se la Provvidenza non avesse disposto che la rugiada fosse più dolce ed abbondante dove è maggiore l' arsura del suolo. Abbandonato a lui stesso, il Cornienti , ribelle ad ogni senso di viltà , ad abbracciare le porte dei potenti, sarebbesi accasciato nello squallore ed avrebbe compita in breve tempo quell' opera deleteria sopra sè stesso, che gli animi amareggiati affrettano, come un conforto, qualora due, più amici che mecenati, non fossero accorsi a gara a sollevarlo, il Brambilla che ricordammo, il Testori che ricorderemo. Se egli non potè quindi aprire intero il varco alla feconda vena della fantasia, cui andava a paro la rapidità della mano, compì però quanto basta a comprovare l' altezza della sua intelligenza , ed a mostrarsi ancora una volta sotto una novella fase. Alla pittura ad olio alternava quella in fresco. Alle prime dobbiamo annoverare un Rinaldo ed Armida, esposto nel 1851, diversamente ripetuto, nel 1853, pel Brambilla. Ma la tela che tiene il miglior posto degli ultimi suoi anni è quella di commissione di questo medesimo signore destinata a far riscontro al Leonardo nel refettorio delle Grazie. In questa tela è raffigurato il medesimo Leonardo che sul ciglio del canale della Martesana spiega a Lodovico il Moro il meccanismo delle chiuse ivi da lui applicate. Il Cornienti aveva dimostrato già di compiacersi di questi soggetti che svolgono la vita e mettono in chiaro il carattere morale dell'artista: fra gli altri le esposizioni del 1856 e del 1857 ci hanno porto diversi piccoli bozzi nei quali vanno protagonisti Michelangelo, Rafaello e lo stesso Vinci. Nel 1858 soltanto apparve il nuovo quadro pel Brambilla. Non può essere dubbio che in esso egli mostra il proposito di rifare il cammino verso il 1845. Ma egli ce ne aveva già porto un pegno poco conforme, col ritoccare, senza vantaggio, il dipinto di quell'epoca. Il Vinci del 1858, com'è facile immaginare, si discosta dal suo prototipo. L' idealizzazione della volgarità , se ci è permesso di servirsi di tal frase, non è raggiunta così temperatamente, come tredici anni prima. C'è più arte e meno finezza di senso artistico. Le opinioni tuttavolta rimasero incerte se eravi progresso a fronte dell'antico lavoro: in generale se ne dubitò. Quello per lo meno, aveva per sè la verginità d' una prima ispirazione , aveva per sè le condizioni d'una scena più seducente, d' una idea più facile ad essere manifestata; il Vinci artista, quantunque non più grande di quello che fosse come uomo di scienza, torna per altro più simpatico e popolare. Il recente quadro con tutto ciò attestava tali qualità da farci securi che sarebbe bastato maggior forza di volontà e l' incontro d' un tema più appropriato per dispiegare l'antico valore. Fors'anche le pratiche cui inchinava l'avevano sviato da quel sentiero delicato. L' affresco diffatti , in questi giorni attirava meglio l' animo suo come quello che gli dava agio di pompeggiare in quelle grandiosità di forme, reminiscenza, come notammo, recata dalla dimora in Roma e dall' affetto al Bruloff e che gli tornava proprio poi onde affrettarsi nel lavoro colla velocità del pensiero. Colà oltre al fresco di Tivoli, aveva condotto nella Villa Cacciarini una composizione allegorica dell' Abbondanza. Tra noi ebbe più di una volta a trattare il medesimo soggetto in fresco. L'amena villa del signor Carlo Testori a Garlate presso Lecco gli fu come aperta generosamente a campo de' suoi esercizi. Ivi dapprima, poscia nella nuova casa Brambilla in Milano, troviamo i principali suoi lavori di questo genere, e la allegoria dell'Abbondanza (1854) vediamo ripetersi, colà, figura colossale, intorno a cui stanno altre accessorie a versare i prodotti sericoli ed agricoli della Lombardia, e qui assumere invece l'aspetto più ristretto del- l' Industria serica (1858) accompagnata dal Commercio e dalla Ricchezza. Più ispirato e felice di riuscita è uno scherzo di quattro putti volanti nella medesima casa Brambilla. Ma l'affresco, in cui si disvolge in modo inatteso l'ingegno del nostro artista, sta nella detta Villa Testori; occupa desso la volta d' una grande sala e raffigura l'antica storia di Prometeo. Vi ha in questo lavoro qualche cosa che collocherebbe il Cornienti fuori della schiera dei pittori italiani, per avvicinarlo a quella dei Kaulbach, degli Hess, degli Schnorr. L' esecuzione, comunque in alcune parti eccessivamente rapida, è generalmente corretta, vigorosa, ricca di colore ed ancor più di chiaroscuro; ma essa è vinta dall'importanza del concetto e dall' audacia con cui è reso. In un breve ciclo di composizioni, prendendo partito da questa nota storia di Prometeo, egli seppe adombrare la storia del genio umano, la lotta della barbarie caotica contro la civiltà bambina , gli ostacoli frapposti dal destino, e quel mistero dell' espiazione proemiale che è, come dice lo Schlegel, il confuso presagio della redenzione cristiana. Il Cornienti a tale effetto , attinse il suo concepimento dall' aspra ed incompleta trilogia del greco Eschilo e dalla fantastica creazione dell'inglese Shelley. La storia è divisa in cinque medaglie rettangolari, di cui una centrale con figure grandi quanto il naturale. Nei campi minori sono presentati successivamente : prima Prometeo che irradia sui mortali il fluido rigeneratore, comunque s'avveda della loro inerzia a riscuotersi e dell' insorgere dello spettro minaccioso di Giove geloso della sua possanza: in altro campo vi succede Prometeo avvinto alla rocca caucasea, affranto dal dolore fisico e peggio dall' ironico insulto del messaggier degli dei che gli rinfaccia la stolidità della sua impresa ; ai quali detti il genio legato risponde fiere parole cui fanno eco sommesso i pianti delle Oceanine: cade nell'altro fulminato e con lui squassati si divellono i macigni del monte, ma il fuoco celeste ond'è sgominata la roccia, lascia impavido il genio tuttocchè ravvolto nelle rovine: il quale, nel quarto campo, ascende trionfatore all'empireo, al cospetto dei mortali scossi ed ammirati, mentre Giove e Giunone, numi tiranni e bugiardi, precipitano dalle sedi usurpate. Sin qui la storia, nel centro l' allegoria. L' Immortalità siede radiante in trono; a destra tiene la Giustizia che vindice posa in piede sul vizio atterrato; a sinistra la Storia, che scritto il nome di Prometeo su d'un papiro a capo d'altri eccelsi benefattori dell' umanità, lo affida ad un genio affinchè lo rechi all' Immortalità : la quale intanto gli tiene preparato sollevato ed alto un serto qual s'addice al protipo dei grandi martiri della carità e della ragione. E chiaro, il Cornienti in poche pagine ha esplicato il più solenne mito dell' umanità , quel mito che sopravvive , e si svolge irrevocabile tuttodì; è la dottrina della purificazione a traverso del dolore, per giungere all'attuazione del bene ; è il trionfo del sagrificio deriso in terra e glorioso oltre la tomba; è la sintesi della vita, l'assidua tragedia dell' umanità. Il Cornienti doveva provarla in cuore ben profondamente per rischiararla di siffatto modo in poche impronte! Tuttavia non è possibile credere che il pensiero si consolidasse senza un agitarsi lungo e laborioso: ma, vinti gli indugi, indubbiamente esso precipitò come lava ardente. L'esecuzione infatto non ha sfumature , non carezze , e si distingue solo per quella insofferenza di freno, per quella fierezza d' espressione, per quella ispirazione ingenua e selvaggia, che trovammo già nel fondo del l'animo eccellente e dolcissimo di questo artista. Eppure, chi il crederebbe! tutto questo per lui non era che l'effetto del continuo suo decadere sotto il predominio del profondo senso di melanconia, ond' era travagliato. Tuttavia nelle manifestazioni artistiche, specialmente degli ultimi tempi, fosse stanchezza della corda severa, fosse più naturale abbandono di sè stesso , non mancano i segni d' una ispirazione gioconda. Ov' altro non valesse, giovano siccome indizi di una estensione nella scala del sentimento artistico, molto più rara di quello che comunemente si creda. Ma valga il vero : nel secreto de' suoi studii, dove l' anima traboccava irrefrenata al suo declivio, accanto agli orrendi strazii dell'Erizzo ed alle vicende mitologiche del titano civilizzatore si accumulavano le composizioni anacreontiche, vergini ed olezzanti fiori sbocciati nel silenzio e nell'oscurità. Nulla teniamo di più triste, quanto lo svolgere i portafogli d'un artista defunto: è l' evocazione d' un fantasma cui si notano ancora i battiti del cuore. Questa impressione tocca il sommo dello strazio nel vedersi aperti davanti, come è accaduto a chi scrive, quelli del Cornienti. (2) Qui intero sta il suo animo, la sua storia. Qui sono appunto questi soggetti, tra cui amiamo notare, Venere che, recante sotto il braccio un neonato entro un cestellino, batte ad una porta; gentile voto a sposi recenti per un anno novello. Ed a questi, altri non meno spiranti greco sapore, vanno compagni, di cui l'esecuzione sarebbe stata pel Cornienti un nuovo argomento di trionfo se la sorte meno aversa gli avesse permesso occasione per disvolgere tutta la sua potenza. Egli coltivò pure con successo notevole il ritratto. Un grande e storico se ne ha nel papa Urbano III pel M.e Luigi Crivelli (1850). Nei ritratti contemporanei la naturale sua impazienza gli era di ostacolo a raggiungere quella sicurezza di vita, quella completa elaborazione delle personalità, che generalmente hanno a sdegno i concettisti impetuosi. I suoi ritratti compiti in una seduta sanno del vero, ma insieme della fretta. Quando per altro alcune rarissime circostanze ebbero ad arrestarlo nella frenesia del lavoro, valsero a dimostrare che non era questa del ritrattista una facoltà dí cui andava privo. Dopo tutto ciò, ben poco potremmo aggiungere a delineare l' artista. Il ricordare le altre sue opere poco tornerebbe, nè vorremmo, riguardo a queste , eccedere in una sterile enumerazione, la quale ci dilungerebbe di necessità a lamentare i molti e bellissimi concetti lasciati nello stato di bozzo , onde riboccano le sue carte. Ci parrebbe grave, nondimeno, il non far cenno dei due dipinti ad olio per la chiesa di Malgrate, raffiguranti l'Annunciazione e la Natività (1857) in cui hannovi parti commendevolissime , e dell' ultimo suo lavoro , una medaglia a tempera , nella villa del signor Francesco Lattuada presso Casatenovo , rappresentante la Musica (autunno 1859), quando già cominciavano a frangersi le sue forze. Tra i lavori appena ideati si distinguono due schizzi ad olio : il tema ben noto dell' Adultera e quello del Bonifazio VIII assalito nelle sale del Vaticano, dalle bande del Nogareto e di Sciarra Colonna. Ma anche senza di ciò il Cornienti vive e vivrà di certo nell' Erizzo , nel Leonardo, nel Mosè e nel Prometeo; havvi costipata in queste opere la vita di più d'un artista. Gli ultimi anni di sua vita furono, comparativamente alla sua operosità, anni di ozio e di languore. Quante volte, coll' accento d' una profonda ma contegnosa angoscia , nell' intervallo dei brevi lavori, ci disse, stringendoci la mano; che vuoi, faccio nulla! - Per lui il nulla consisteva nel contenere la piena della fantasia e la frenetica attività della mano. La vita cui mancava il campo dove espandersi, distruggeva sè stessa , affrettando le sue evoluzioni progressive. I segni d' una senilità precoce venivano a soprapporsi all'antica gracilità naturale: ai malori dell'anima s'aggiungevano lenti e segreti quelli del corpo. Nei mesi che dovevano essere gli estremi di sua vita, la fortuna parve dimettere dell'astio antico, quasi ad irrorarlo d'un riso di luce e di speranze, di quell'ultimo saluto del sole che precede il tramonto. I gloriosi casi del giugno 1859 gli furono gioia inaspettata: trovarono però un corpo affranto dai patimenti. Comecchè egli tenesse a consolazione d'essere testimonio di quest'epopea nazionale, avvenne che per effetto d'una fiacchezza invincibile fossegli tolto d'esserne attore. A crescergli poscia il contento nell'animo, gli successe, nei primi mesi dell' anno 1860, la nomina di professore all' Accademia di belle arti di Bologna. Il cuore gli traboccava di letizia; parevagli allora soltanto d'essere riconosciuto; povero paria respinto dalla società, si esaltava, quasi a prodigio, come questa società gli si aprisse festante per accoglierlo. Ma intanto le forze si spegnevano con lento ed inesorabile declino. Avrebbe voluto illudersi; si agitava, correva alla città ospitale che gli aveva steso le braccia, raccoglieva intorno a lui quanto sarebbe valso per nuovamente dispiegare le ali, compiere le promesse degli anni suoi giovanili: stringeva le mani agli amici, come per un viaggio che avrebbe potuto tenerlo a lungo lontano da essi, ed in questo mentre tristi presentimenti gli balenavano alla mente. Ammalavasi nel marzo; rimesso, ricadeva nel mese seguente. La partenza, ritardata dapprima, era protratta una seconda volta; finchè , al volgere del tramonto del 12 maggio, si compiva. Era l' ultima partita; a quarantaquattr' anni! Fu una ben dolorosa parola quella che corse al mattino seguente: Cherubino Cornienti non è più! E tanto più angosciosa piombava sull' animo del ceto artistico in quanto diffondevasi altra voce, pur troppo vera, che a disperati termini di vita volgeva un altro giovane pittore, il Conconi, pari a lui d' animo intemerato, non minore per ingegno e valentia di pennello. Era destino infatti che questi seguisse il collega e l'amico a poche ore di distanza ! Un numeroso corteggio d' artisti e d' amici accompagnava le spoglie mortali del Cornienti al cimitero suburbano di Porta Orientale. Quivi stavano dappresso l'una dall'altra spalancate due fosse, comecchè sin dal primo istante si vollero vicini quei due cari estinti. Alcune nobili ed affettuose parole pronunziate dal D. Dansi e dal pittore Salvatore Mazza chiusero quella mesta funzione. Ma fu allora appunto che più viva e grande e complessa si levò al cospetto della mente d'ognuno la memoria dell'artista e dell'uomo, dacchè egli erasi tolto dalla scena del mondo. Forse nel sommesso bisbigliare della folla che si allontanava da quella fossa appena colmata, correva gran parte della sua storia, quella de' suoi affetti, quella de' suoi affanni. Ma cosa che potrà essere detta giammai è quell'ascoso e lento spirito struggitore che precipitò anzi tempo l' uomo e l'artista all'ultimo fato. L'animo del Cornienti, animo delicato ed entusiasta, troppo fu battuto dalla sventura per non essersene risentito, divincolandosi nelle strette ond' era martoriato. Nato all' amore del bello e del grande dovette imprigionarlo e costringerlo alla stregua del bisogno; nato alla libera e disdegnosa esistenza dell'artista, trovossi soffocato, dall' aere ammorbante delle piccole ipocrisie che irritavano, senza frutto, l'indomabile rigidezza del suo carattere. A corroborarlo in questo suo proposito, che parevagli prima gloria dell' ingegno, e ne faceva suo vanto , concorrevano le sue forze frementi per singolare esuberanza ed impazienti di mettersi a prove non comuni. Un interna voce gli diceva essere egli chiamato a grandi cose, ed egli avrebbe voluto dire col Buonarotti, di cui rammentantava insieme al carattere morale, i tratti principali del volto (3). lo vo per vie men calpestate e solo. Ma poi quando cercava intorno a lui mezzi ed occasioni per dar corpo e vita a cotal sogno, tutto gli veniva meno. E fors'anche l'impeto suo istesso eragli ostacolo; forse l'estrema sensibilità eragli incitamento ad un'inferma mutabilità di cui pentivasi invano, onde crescevano il dubbio e la sfiducia che per ultimo si erano aggiunti a conturbare ed affralire la sua esistenza. Se il Cornienti avesse ascoltato una voce sola, la voce dell'animo suo, così schietto e generoso come era, se avesse infrenata la naturale impazienza, chi potrebbe dire a qual grado sarebbesi elevato nel cammino dell'arte! Ma le impronte che tuttavia ci lega sono ben abbastanza preziose, in quella maniera che le rovine lasciate dal turbine sono grandi ed ammirande. L'uomo s'incarna nel misterioso suo destino. E noi rispettando questa solenne espiazione della vita, chiniamo la fronte su di una fossa, a ben giusta ragione sacrata da chi ha patito cotanto. (1) Fu acquistato e si conserva tuttora dal signor Luigi Picinini Rossari. (2) Nell'intendimento di avvalorare i sentimenti di cui fummo colpiti, e di togliere che vada perduta la memoria delle molte opere, più o meno finite, che il Cornienti lascia agli eredi, amiamo qui di riferirne l'elenco.

Quadretti finiti ad olio. Carlo VIII di Francia che visita nel castello di Pavia il morente Gio. Galeazzo duca di Milano. Rafaello in Vaticano visitato da Giulio II.

Bozzetti ad olio. Il denaro della Vedova. Davide e Bersabea. Il Magno Trivulzio alla presenza di Luigi XII, ecc. Leonardo da Vinci e Lodovico il Moro colla propria corte nel refettorio delle Grazie. Rinaldo ed Armida. La B. V. con S. Paolo, S. Agostino e S. Carlo. (Bozzo per la pala di S. Alessandro.) Una scena della strage degli Innocenti. (Esiste pure di questo il quadro abbozzato.) Bonifazio VIII assalito nei propri appartamenti dalle bande del Nogareto e di Sciarra Colonna. L'Adultera. Leonardo da Vinci sopraggiunto dalla visita di Lodovico il Moro, mentre sta esperimentando i meccanismi delle chiuse da lui immaginate. Lo stesso soggetto, in altro piccolo bozzo. Leonardo da Vinci mentre sta facendo il ritratto di Cecilia Gallerani. Fra Filippo Lippi e la monaca Buti nel monastero di S. Margherita in Firenze. Entrata di Salomone in Gerusalemme. Francesco Carduccio che rinfaccia a Malatesta Baglioni i suoi intrighi nel reggimento pubblico, intimandogli essere invece suo debito quello di pugnare per la patria. Il Doge Foscari. Paolo III che visita Michelangelo mentre sta disegnando il cartone del Giudizio. Cristo che mostra al suo Vicario in terra quale debba essere la missione di lui verso gli infelici e gli oppressi. (Allegoria.) Carlo VIII nel castello di Pavia. (Bozzo del quadretto suindicato.) Torquato Tasso in prigione. Medea furente. Venere che reca un neonato entro un cestello.

Acquistati dal sig. Gius. Puricelli Guerra Bacco fanciullo portato in trionfo dalle Ninfe. Ninfa dormiente con putto. (Vi hanno tre bozzetti diversi.) Ninfa entro un bosco. Psiche che sorprende amore addormentato. Amore sull' altalena. Costumi della campagna romana. (Cinque bozzi diversi.) Studio della testa d' un frate. Studio d' un interno. (La sua abitazione in Roma.) Testa di cane. (Studio dal vero.) Il principe Demidoff a cavallo. (Copia dal Bruloff.) L'Eclisse. (Altra copia dal Bruloff.) Episodio della resurrezione dei morti. (Copia dal Bruni.) Moltissimi disegni e memorie pei quadri storici, studii diversi, copie dal nudo, ecc.

(3) Veggasi il bello ed assai rassomigliante ritratto del pittore, di recente pubblicazione, eseguito a litografia dal di lui fratello Giuseppe Cornienti.