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I FAMOSI UNTORI DELLA PESTE SEGUITO ALLA COLONNA INFAME DI ALESSANDRO MANZONI

STABILIMENTO TIPO-LIT. DI ENRICO POLITTI. MILANO. CAPITOLO I.

CHI LA FA L'ASPETTI.

Copriran breve sasso, angusta fossa Le tue superbe, si, ma fracid'ossa.

FULVIO TESTI: canzone.

Cristo benedetto, se questo è il modo di piantare un pugnale in petto a un cristiano... » «E mandarlo all'inferno in carrozza, mentre gli altri suoi pari ci vanno a piè zoppo ». «Quello è stato un sarto maestro a fargli quell'occhiello in mezzo lo stomaco ». «Ricamo più, ricamo meno, è una pelle che già il diavolo non se la piglia per buona da farvi un otre di vino per le cantine di casa sua ». «Ecco cosa vuol dire andarle a cercare colla lanterna, perchè qui è il caso d'una vendetta ». «Chi la fa l'aspetti ! » E cosi dicendo, si fermavano tutt'e due colle braccia incrociate sul petto, a guardare un cadavere che metteva sangue da una larga ferita. Dall'abito e dal portamento non apparivano per nulla migliori del disgraziato, di cui s'erano tolto a far un po' d'elogio funebre; anzi a guatarli bene nel muso dovevano essere animali della peggior specie. Avevano tutt'e due intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull'omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale scappava fuori sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni, uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d'ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti... ecco i due galantuomini che presentiamo ai lettori. Ma dimenticavamo il meglio, i loro visi. L'uno, il primo che aveva parlato, pareva che sua madre n'avesse cavato un modello da un campanile, tant'era alto, e d'un pezzo solo e duro proprio come un masso; guercio d'un occhio, con due dita di manco nella mano sinistra, mancava gli fosse mozzicate anche le orecchie per classificarlo d'uno della masnada famosa condotta in Italia dal non meno famoso Carlo VIII, re di Francia. Il compagno pareva, ed era di fatti meno brutto, più aggraziato nella taglia, più cristiano nel tutto insieme; però la natura gli aveva regalato negli occhi un certo lumeggiamento di guardatura da far credere che fosse stato uno sbaglio con un gatto. Faccie però tutt'e due, diranno i lettori, e sto anch'io con loro, di riguardarmene di giorno o di notte, fossero anche in farsetto d'operaio, o camuffate della divisa di guardie di Pubblica Sicurezza. Ma quella razza, allora floridissima in Lombardia, adesso è perduta, e se rimane qualcuno, che vuol far vedere d'aver il ciuffo, è un bastardo, a cui possiamo dire ammazzasette e storpia-quattordici. Erano, in fine, due bravi della Valsassina, forse amici, certo confratelli di professione di quelli che il 7 novembre 1627 don Abbondio trovò sulla strada nella sua passeggiata, e che gli disturbarono lo stomaco e la recita del breviario. Tristissimi tempi quelli, che richiedano a ben comprenderli due pagine di storia, che, per non annoiarli, saremo brevi nel regalarle ai lettori, e anzi v'adopreremo le stesse parole d'un nostro amico. Estinta la famiglia Sforza, il Ducato di Milano, preteso ed invaso da Francesco I di Francia, era nell'anno 1535 caduto in possesso di Carlo V, poscia dei re a lui succeduti sul trono di Spagna. Abbandonarono l'uno e gli altri il Ducato in balia dei Governatori militari e del Senato, il quale, giudicando tamquam Deus, aveva autorità di confermare, cassare le costituzioni del principe, togliere e dare qualunque dispensa anche contro gli statuti e le costituzioni Nè i Governatori militari, nè il Senato si davan però del popolo cura più seria di quella che ne prendessero i re, stranieri, lontani, neghittosi od esclusivamente belligeri.


(I) Nov. Const. tit. de Senat. Il popolo gemeva sotto il peso della più esosa schiavitù spirituale politica e civile, la quale, per colmo di sciagura, non gli assicurava nemmeno i benefici della pace ; perocchè se gli era tolta la possibilità di una lotta contro la prepotenza della Spagna, la prepotenza della Spagna lo assoggettava alle tristi conseguenze della politica più ingiusta, ed aggressiva. Incerta, contradditoria, impotente era la legislazione, vigendo coi commenti e colle deduzioni dei trattatisti, il diritto romano ed il diritto canonico, gli statuti feudali e quelli dei comuni, le nuove Costituzioni di Carlo V e le grida dei Governatori, modificabili tutte nella applicazione ad arbitrio non soltanto dei giudici, ma perfino dei carnefici. Speciali, a seconda delle classi, le disposizioni legislative e le autorità giudiziarie ; per le immunità , pei privilegi, per le corruzioni erano per alcuni impotenti o compiacenti; per altri ingiustamente, orribilmente feroci. Cessata, colla fiducia nella giustizia, la sicurezza delle persone e delle cose, tolto col freno, alla prepotenza ogni sensibile incentivo alla virtù, la miseria doveva affliggere il popolo nel modo il più crudele. La produzione dei terreni già incagliata e menomata dalle istituzioni dei fidecommessi, dei maggioraschi, delle manimorte, da tutte le istituzioni insomma, che tolgono ai possessori dei terreni ogni interesse individuale a migliorarli, era incagliata e menomata dalle più inconsulte ordinanze, che proibivano perfino la coltivazione di quelle appartenenti ai ribelli. Se la produzione poi non era del tutto negata dalla natura o distrutta dalle vicende della guerra era assorbita quasi per intero dalle imposte e dalle ruberie dei Governatori militari, i quali giusta il detto dal Klok (1), se in Sicilia rosicchiavano ed a Napoli mangiavano, a Milano divoravano. I più importuni ed infesti regolamenti inceppavano, aduggiavano lo sviluppo dell'industria e del commercio, languenti del resto per difetto delle materie prime, e l'avvilimento degli animi. I pubblici funzionari ed i soldati, avviliti e corrotti, anzichè ai prepotenti ed ai nemici erano ai deboli terribili. I preti, più che ad altro, tenevano alle immunità, ai privilegi, alle ricchezze. Il popolo abbandonato alla propria miseria, consolato e sfibrato dal cattolicismo, non ardiva nemmeno l'insurrezione (2). E i nobili dal sangue purissimo celeste, disceso in loro magnanimi lombi d'antichi eroi? I nobili, non potendo usare delle armi in servizio od a danno della patria asservita, le rivolgevano, scimiottando quelli di Spagna, contro i deboli a sfogo dei più ridicoli puntigli, delle più basse vendette, delle più criminose esigenze. Sostituito in perpetuo


(1) De cerario. (2) NAPOLEONE PERELLI: Gli untori del 1630 O la Colonna Imfame Introduzion Istorica. il primogenito, dopo aver condannati i cadetti e le femmine al sacerdozio od al chiostro, si circondavano d'una famiglia nuova, più devota,più accarezzata, più cara, la caterva di scherani, feccia di uomini malviventi, de'quali brulicava, come vermi in un carnaio, tutto il contado. Ecco a gloriosa origine dei due visi da forca lasciati ai piedi del cadavere sulla strada che da Introbbio, la terra principale della Val- sassina, mena a Cremeno, dov'era il palazzo del loro padrone. Ma il ciuffo non li salvava, anzi li designava al rigore delle gride dei governatori. Ci badavano essi ? pare di no. Gli storici di quel tempo potevano benissimo gli anni contare dalle gride, che dal loro palazzo di Milano fulminavano le eccellenze castigliane contro i vagabondi ed i banditi che furfantavano nel Ducato. Diffatti fin nel 1585, e poi un anno dopo, il Governatore d'Aragona li proscrisse e minacciò di gravose pene; nel 1593 il Governatore Velasco le rinnovò contro i bravi ed i banditi in ispecie, e contro chi prestava loro aiuto comandando ai comuni di sonar campana a martello, prenderli ed ammazzarli, sotto pena di duecento scudi in caso di negligenza. Non v'è mai occorso di sedere in autunno sotto una pianta, e che il venticello vi faccia posare sul cappello una foglia, cui fate cadere nell'alzarvi? così, o poco meno succedeva delle gride, lanciate sul capo de' bravi. Allora, istizziti, facevano come un medico obbligato a raddoppiar la dose del farmaco, da cui non ha ottenuto nessuno effetto o appena un zinzino; e giù una gragnuola di gride, un diluvio di minacce, di multe e capestro, e, sotto la solita filza superba di cinque o sei tra nomi, cognomi e titoli che avevano i Governatori di Milano. Il 20 marzo 1595, una grida; nel 1598 un'altra; nel 1597, una terza ; nel 1508, una quarta; nel 1560, una quinta, furiosa come il suo autore, l'illustrissimo ed eccellentissimo signore, il signore Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano e Governatore dello Stato di Milano; ma anche questa fu valutata meno d'una buccia di castagna. Contento da una parte che il suo antecessore sia rimasto colle pive nel sacco, ci si provò nel 22 settembre 1622 un altro pezzo grosso di Spagna, Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la Hynojosa, Gentiluomo, ecc., ecc.; ma la sua grida parve un invito a festa da ballo, per cui toccò, il 24 dicembre 1618, menar più forti colpi di parole maiuscole stampate ad esterminio de'bravi al successore suo, Don Gomez Suarez de Figuerva, Duca di Feria, ecc. Credete che morissero di crepacuore o per lo marco ingiallissero in faccia per la itterizia? Ohibò. Allora, di mezzo le foglie dell'autunno del 1327, giù dall'Olimpo del potere un fulmine, e... sette mesi dopo, i raggi del sole di primavera illuminavano il ciuffo, e intiepidivano le spalle dei due bravi, da noi troppo lungamente lasciati a far dei punti desclamazione sul cadavere d'un assassinato. «Corpo delle seimilaseicento sessantasei legioni di diavoli, che sono nell'inferno! » ricominciò quello dei due che par il ritratto, che, ne' suoi sonnetti burleschi, ha fatto quell'ingegno matto di Francesco Berni:

« Credo che sia nipote di Longino: Com'egli è visto fuor, rincara il grano, A la più trista, ogni volta un carlino ».

«Corpo delle seimilaseicento sessantasei legioni di diavoli, che sono all'inferno ! » disse dunque costui. « Dio non paga il sabato ». «Sì», rispose l'altro, « perchè non può convertire le stelle in tanti zecchini, e la luna in una frittata pei dì di magro in paradiso. «Lascia stare i santi e le cose sante », avvertì il primo, con certa aria pinzocchera, da dar dei punti ad un lettore dell'Unità Cattolica ». « Ah, tu chiami santi quegli affari che ci luccicano sopra il capo ; e cose sante le stelle? Va bene; ma io per questo bestemmio forse ? Tu sì che sei da mettere in un barile d'aceto per conservarti ai posteri, tu che sai il numero delle legioni dei diavoli, e le hai contate ». «Non contate io, ma le ha contate un frate, un pelo della cui barba val più di tutti i peli ch'hanno ne' mustacchi i bravi di don Rodrigo, compreso il Griso » E questo frate come ha fatto a contare le legioni dell'esercito di Sua Maestà dalle corna, il Diavolo? » «Un giorno, mentre faceva orazione nell'orto dove esercitava la pazienza a piantar cavoli e seminar lattuga per la cucina del convento, gli è comparso davanti il Gran Negro ». E chi è costui? » domandò, con aria incredula, il compagno. «Sta a sentire, e non interrompi. Dunque, comparsogli davanti il Gran Negro gli ha detto : Io sono il demonio del primo ordine, gran maestro dei sabati, capo dei diavoli subalterni, ispettore generale della stregoneria, della magia nera e dei maliardi ». «Più nomi, cognomi e titoli d'un Governatore di quei che firmalo le gride! » osservò l'altro. «Zitto, che qui viene il peggio. Il povero frate, colla tonaca che non gli toccava le natiche dalla paura, lo guardò di tra le dita nelle due mani che s'era messe sugli occhi, e vide... Gesummaria ! che sorta di bestia. Un grosso caprone con tre corna in testa, due orecchie di lepre, i capelli irti, occhi rotondi, infiammati e semiaperti, una barbaccia di capra, un viso rivolto all'indietro tra la coda e le concie. e per piedi due zampe d'oca... » " E come si chiama sui libri questa sorta di mostro? » «Nel parlare delle streghe e dei maghi si chiama Leonardo » «Cristo, il mio nome di battesimo. Che fosse questa tua bestia un po' parente del mio padrino? Ma, via! questo signor Leonardo, dai piedi d'oca e la coda di capra, cosa ha finito a dire al frate? » «Gli ha detto: - Io sono venuto a farti sapere la potenza. di Satana, imperatore dei paesi bassi non di questo, ma dell'altro mondo. Nell'inferno vi sono seimilaseicento sessantasei legioni di demoni. Ogni legione di questi demoni si compone di seimilaseicento sessantasei diavoli, i quali sommati tutti insieme formano un esercito di quarantaquattro milioni centotrentacinque mila cinquecento cinquantasei demoni, con alla testa milleducento capitani ». «Eh! eh! e te l'ha data a bere grossa quel frate, perchè sfido a trovare un imperatore, fosse grande e potente cento volte Carlo V, capace di mantenere tutte quelle bocche a pane, e dissetarle con quel calore che fa laggiù in que' paesi. Per esser una panzana , è bella, e tu hai fatto bene a contarmela all'aria aperta!" «Vuoi dunque che un frate, che va attorno mandato dal convento di Pescarenico alla cerca delle noci, conti una cosa per un altra? Anzi, ti voglio persuadere. Frà Galdino, è lui che dice averla sentita da un padre cappuccino di Rimini, e l'ha narrata tal quale a me, frà Galdino m'assicurò che, siccome il suo confratello non voleva credere a guisa che fai tu adesso, il Gran Negro ha disegnato colla punta della coda un circolo sulla terra, dove si doveva seminare il prezzemolo, e li patatrach! S'è fatta una voragine profonda, e su in schiere di diavoli in processione, e già erano passate, per persuader quell'incredulo, metà le legioni, quando suonò il segnale dell'Ave Maria, e tanfele! indietro tutti a precipizio, e giù nella buca, e poi più niente! » Il compagno, invece di picchiarsi il petto con un ciottolo per pentimento di non aver creduto subito, alzò peggio di prima le spalle, con non poco dispetto del Mangiamoccoli, che, a costo di sfiatarsi per tutta la giornata, volle persuaderlo, e seguitò: «Tutti i quarantaquattro milioni centotrentacinque mila cinquecento cinquantasei demoni si dividono in sei grandi sezioni. I primi sono i demoni del fuoco, i quali abitano le legioni lontane; i secondi sano i demoni dell'aria, ché volano intorno a noi, ed hanno il potere di suscitare i temporali; i terzi sono i demoni della terra, che hanno corrispondenza cogli uomini e colle donne, e si occupano di tentarli; i quarti sono i demoni delle acque, che abitano il mare e i fiumi, per sollevarvi le tempeste e cagionare naufragi; i quinti sono i demoni sotterranei, che preparano i terremoti, soffiano in certe montagne le quali mandan fuoco, come a Napoli, scrollano i pozzi, e tormentano i minatori; i sesti sono i demoni tenebrosi, cosi nominati perchè vivono lontano dal sole, e non si mostrano sulla terra ». «Sicché a darti retta tutte le birberie che si fanno a questo mondo, e le disgrazie che ci toccano sono farina del sacco del diavolo ». «S'intende, ed è sicuro. Tutto il male che succede quaggiù ci è inspirato dai demoni. Essi suggerirono a Caino d'uccidere il fratello Abele; soffiarono tutte le scelleratezze, che cagionarono il diluvio; perdettero Sodoma e Gomorra; si fecero ,erigere altari presso tutti i popoli, ad eccezione dell'ebreo; abbindolarono gli uomini con oracoli e mille prestigi impostori fino alla venuta del Messia. Allora la loro potenza doveva essere annichilita affatto; e non pertanto si ritrovano, di poi, più potenti che mai; vedonsi cose, per lo innanzi, inaudite: le legioni infernali si mostrano ai santi anacoreti; le tentazioni diventano spaventevoli; le soperchierie del diavolo si moltiplicano; egli suscita gli uragani; torce il collo agli empi, dorme colle donne; predice l'avvenire per la bocca dei maghi e delle streghe, trionfa fino in mezzo ai roghi.... e manda Ario, e manda, sotto la tonaca d'un frate, Lutero per sedurci ancora cogli incantesimi dell'inferno.. » Ma l'altro, per tutta risposta, crollò la testa in atto compassionevole, facendo saltellare sulla fronte quel ciuffo che stava tanto in uggia ai Governatori di Milano. «Ah! sei proprio un luterano di Valtellina », esclamò quel dall'occhio guercio. «E tu un lumacone di quei che strisciano sui confessionali dei preti, e già vedi che t'è restato un bel soprannome, Mangiamoccoli ». «Oh, oh! non è poi più brutto di quello che hanno affibbiato a te, signor Grattapancia: ma sai che è curiosa questa di non chiamarci coi nostri nomi di battesimo? Anzi ti posso assicurare che è più facile trovare un bravo senza ciuffo, che uno senza il suo soprannome, e che razza di soprannomi ! Il mio, per esempio, non pare tirato giù da un sagrestano? Eppure io in chiesa ci entro come Pilato nel Pater noster, e l'ultima volta che ho messo i ginocchi sui gradini d'un altare, è stato giù a Pescarenico, quando una notte, se la porta di quel convento non era aperta, io arrischiavo d'essere appiccato al primo albero che la sbirraglia del castellano trovava nei dintorni ». «Dunque sei stato a un pelo di farti mettere la cravatta al collo dal bargello di Lecco? ma bene! e cos'avevi fatto di grosso? pisciato sulla porta d'una chiesa in tempo. di funzione? pizzicata una monaca, messe in isbaglio le mani in tasca del prossimo, consegnata una coltellata ad uno per commissione d'un altro? "E una storia lunga », disse, con un sospiro, il bravo che d'ora innanzi chiameremo col suo soprannome, i una storia che a contarla c'è da far scoppiar dalle risa un eremita, e far piangere un saltimbanco ». "Ma quel tuo soprannome di Mangiamoccoli, come t'è venuto? » "Devo cominciare a dirti, ch'io sono figlio d'un padre, che il simile pochi o nessuno l'hanno avuto ». "Eh diavolo! sarai mica, figlio del re o del papa », saltò su, ridendo il compagno. " Ci hai tirato presso; io sono figliuolo nientemeno che d'un patriarca d'Oriente ». «Un'altra bella come la storia delle legioni dell'inferno! sai che hai un talento d'oro a inventar frottole, e che ti potevan far notaio? » «Dico da buono: io, come mi vedi, bello e brutto qui tutto, sono figliuolo unico d'un patriarca d'Oriente ». «Mangiamoccoli!Mangiamoccoli! dondolando la testa, cominciò a dire l'altro. « Tu m'hai scambiato male per un villano da mettermi in un sacco colle tue storie buffone. Prima di tutto i preti d'adesso non hanno moglie... e pui... poi tu non hai faccia delicata d'esser figliuolo d'una bagascia, accarezzata da un pesce grosso della rete di s. Pietro » , «Alto là`co'titoli a mamma!» gridò Mangiamoccoli, facendo ciera brusca. « Ella era una ragazza, bella come occhio di sole, e più onesta d'una monaca di Varenna (1), la quale si è lasciata accalappiare dalle moine del serpente... e ne sgusciai io; e guarda mi bene se non ho faccia da Dominus vobiscum ! » «M'hai tanto infinocchiato, che son li per dirti : - ti credo ! ma prima voglio che mi conti tutta questa tua storia... » « Tu vorresti, eh, bel figliuolo! ch' io ti sbardellassi i fatti di casa mia, e tu tenerti abbottonato su quei di casa tua ? » «Il contrario; tu narri a me pel primo, ed io pel secondo a te ; e la partita così è pari ». « E quando s'ha da cominciare, perchè possa anch' io raccapezzare le mie idee? » e, colla mano destra, rimescolò il ciuffo, in aria d'uomo d'alto affare. « Il primo bel tempo d'ozio, che il padrone ci lascia, lo godiamo insieme a discorrere de'casi nostri, a patto che ci sia anche da bagnare il becco... ma adesso ci resta un'altra opera più necessaria da fare, ed è di far le esequie a questo cristiano ». Diffatti diranno i lettori, era tempo che quei due manigoldi tagliassero lì le ciarle, e pensassero un po' a levar su da terra quel cadavere, a cui batteva sul viso il sole di primavera. « Povero don Silvio, come t' han servito i birboni ! » esclamò, con aria di compassione, il Grattapancia, per chiamar anche l'altro bravo col suo soprannome. « Se stava a Milano a studiare, non gli capitava certo questo scherzo, povero don Silvio! Benedetto signore, gli grillava troppo il sangue, e credeva di mettere a soggezione il prossimo col far il burbero, col minacciar Tizio, Sempronio e Martino, col far accarezzare le spalle a uno, tagliar la cresta all'altro... finchè il colpo l'han menato a lui. ed è stato mortale! » Così dicendo, spartiva al morto i capelli arruffati sulla bella fronte, e sotto la testa gli poneva il cappello piumato, trovato a pochi passi,


(1) Per la riservatezza delle suore, nel 1566, san Carlo Borromeo sopprimeva il monastero di Varenna. e faceva conoscere, come, prima della morte, c'era d'esser stato un po' di lotta tra la vittima e l'assassino o gli assassini. Dissimo bella la fronte del morte, ma non dissimo tutto. Poteva avere ventidue anni, se pur ci arrivava; leggiadro in viso quanto un cavaliere può desiderare, d'una taglia aggraziata, vestito di velluto verde; pareva lì adagiato a riposare in un dolce sonno, se il pugnale, piantatogli in petto, e la sua mano irrigidita che ancor stringeva la spada non avessero fatta fede d'un assalto accaduto tra due nemici. E n'aveva tanti il disgraziato. Secondogenito, o cadetto come usasi pur dire, d'una delle più ragguardevoli famiglie della Valsàssina, don Silvio Arrigoni aveva, si può dir dal latte materno, succhiato l'odio di razza contro quanti non gli potevano o sapevano stare a pari di ricchezze e di soprusi. I primi balocchi fanciulleschi, spade e picche di legno; le prime ammonizioni, consigli di superbia; le prime preghiere, ringraziamenti a Dio di non esser del vile canagliume del rimanente del mondo; il primo abbecedario, da un canonico della famiglia Torriani di Primaluna: ecco come Matteo Arrigoni aveva creduto bene educare il suo secondogenito. E come lo volle crebbe, degno della stirpe, degno dei tempi. Lasciamo qui volontieri la penna ad un nostro chiarissimo storico, che ci pennelleggia i costumi d'allora. Privilegiati da prima erano i nobili, che alle virtù cittadine, al sentimento di patria, alla superbia nata dai meriti, avevano surrogato un'albagia, che facendoli gloriar soli nella gloria de' loro antenati, poneva le apparenze al posto della realtà, il fasto a quel della generosità, virtu inutili e gravi, imparate ne' collegi e ne' conventi, alle sode e vantaggiose. Nissuna età ebbe in conto maggiore i quarti di nobiltà, e chi derivava da magnanimi lombi era tutta cura di sprolungarsi dalla plebe sin nei minimi atti, nel vestire, nell'andare, nel parlare. I più potenti vivevano ne' loro feudi, esercitando piena giurisdizione fino di sangue, ed ivi con estorsioni, con pedaggi, con osceni diritti angariando la misera plebe. Gli altri, che fin dai tempi dei comuni erano stati obbligati ad ascriversi alla città, vivevano in quelle da tirannetti. Poche volte ne scontravi uno pedone per la città: nessuno senza servi e bravacci dietro : cocchi lungi assordanti ('), preceduti da'corrieri, numerose cavalcate, annunziavano con gran rombazzo, il venir di un signore. Talvolta uscivano anche mascherati, sempre liberali d'insulti alla plebe avvilita; e sui corsi, ne' teatri, alle chiese provocando a rissa i quieti, O i loro pari.


(1) Lo statuto 463 di Milano del 1552 vieta severamente alle donne d'andar in carrozza per città, eccettuate alcune primarie. Enrico IV scriveva a sua moglie che quel dì non andrebbe, a trovarla, perché la sua carrozza doveva servire al suo ministro. Nel 1636 Gualdo Priorato scriveva essere a Milano 115 tiri a sei, 437 tiri a quattro, 1031 a due, e 1503 cavalli da Sella.Relat. della città et stato di Milano. La spada, che avevano disimparato a trattare per la causa pubblica, era al fianco presta, ogni momento, alle vendette private: giacchè un insulto non si poteva tergere che nel sangue, in duello se fra pari e pari, se no pel bastone de' servi. Nè era quella vendetta l'impeto dello uomo incivile, che, ricevuta un' ingiuria, la rende a molti doppi nella prima collera: era, per dottrina venuta di Spagna e dagli Arabi, un dovere che non si proscriveva per volger di tempo, nè mutar di cose, e vile chi non l'adempisse: anzi il parentado, tutto il ceto, e in qualche caso l'intero paese tenevasi obbligato di mandarlo ad effetto (1), come i lettori avranno visto nella conversione del padre Cristoforo, ne' Promessi Sposi (2); e regnanti stessi ne davano funestamente gli esempi (5). Parve dunque risorgere, osserva il nostro storico citato, il medio evo colle sue violenze, colla guerra privata, colla vendetta personale, col diritto del pugno : se non che mescendovisi gli elementi della nuova coltura, s'istituì una scienza nuova, la scienza del duello e dell'onore, la scienza cavalleresca. Nè mancavano gli scrittori, la più parte legisti, i quali vi applicavano le regole della giurisprudenza. Ecco trovato per don Matteo i testi di scuola da dare in mano al suo figliuolo, perchè s'allevasse non soltanto prepotente di fatto, ma anche di diritto, e non gli mancasse mai argomento di dare o ricevere buoni colpi di spada. Don Silvio dunque, levato dalla canonica di Primaluna testa di legno peggio di prima, e con qualche desinenza di declinazione latina a memoria, fu subito mandato a Milano, dove allora cresceva la nuova generazione agli studi, e quivi messo sui libri di questa singolare scienza. In breve, perchè di cervello un zinzino n'aveva in capo, imparò a discutere, anche lui come gli altri, del modo di trovar querela, mutarla, accrescerla, stabilirla, lasciarla, e delle eccezioni dilatorie e perentorie; qual dirsi vincitore quando morti entrambi;qual moto sia vergognoso; qual pezzo d'arme più disonorevole a perdere; da cinquanta formole di clausole differenti da porre sui cartelli; poi del ricusare, rifiutare, ributtare; se accettar anche gli ignobili o sol gli uguali; e se l'elegger l'armi e assegnar il campo tocchi al provocatore o al provocato; quali le armi cavalleresche. Poi definizioni sottili dell'onore e sue specie ; e se stia nell'onorante o nell'onorato; altrettanto dell'ingiuria, considerata nella qualità, quantità, relazione, azione, passione, sito, tempo, luogo, moto, avere ;


(1) C. Cantù: Sulla Storta Lombarda del secolo XVII. Ragionamenti. (2) A. Manzoni: I Promessi Sposi, cap. VI. (3) In pochi anni intorno a quelli ove noi poniamo il nostro racconto, come Manzoni il suo, caddero, per vendette alte, fra Paolo Sarpi, D. Carlos di Spagna, Enrico III ed Enrico IV, ettglielmo d'Orange, il Waldstein, il cardinal Martinuzzi, i Guisa, il Coligny, il Ciarda vescovo di Castro. Frequentissimi avvenivano gli assassinamenti anehe di pieno giorno, ed in mezzo alla città. onde si distinguono le ingiurie voltate, rivoltate, compensate, raddoppiate, propulsate, tornate, ritolte, necessitate, volontarie, volontarie-necessitate e miste. Viene poi la dottrina del Carico, cioè dell'obbligo di risentirsi ributtare, ripulsare, provare, riprovare; ove stabiliscono questo aforismo, che il carico alcune volte nasce dall'ingiuria, ma non mai l'ingiuria dal carico; e se l'intendete, potrete anche fornirmi i numeri del lotto. Altrettanto sottili sono nel definir l'inimicizia e il risentimento; ove figurano la vendetta, lo scarico, la provocazione, il castigo, la vendetta traversale, il vantaggio, la soperchieria, l'assassinio, la via indiretta, il mal modo, il tradimento, la perfidia; quando assumere il risentimento per altri; se un'ingiuria resti cancellata da un'altra pari; poi un kirie di presunzioni, novera lo Specchio d'onore, tacendo pure le cento e mille che si poteano giungere. Or pensate quanto debbano occuparsi della mentita, il vero cardine di questo studio ! La quale è affermativa, negativa universale, particolare, condizionata, assoluta, privativa, positiva, negante, infinitante, certa, sciocca, singolare; generale per la persona, generale per l'ingiuria, generale per l'una e per l'altra; sulla volontà, sull'affermazione, sulla negazione; valida, invalida, sdegnosa, ingiuriosa, suppositiva, circoscritta,coperta, vana, nulla, scandalosa, vera, data veramente, falsa, data falsamente ; seguono le legittime, le impertinenti, le ridicole, le disordinate, le universali di cosa particolare e le particolari di cosa universale. Oh! che so dir io che i sopracciò aveano un bel che a distinguere le mentite valide dalle invalide, l'attore mentito ingiuriante dal reo mentitore ingiuriato, l'attor provocante dall'attore provocato ! Poi discuteano del provare, del richiedere, del mantenere, del verificare, del difendere, del sostenere ; e cosi dell'attore che si finge reo, dell'attore interpretativo, opponente le eccezioni di compensazione, dell'attore che tien luogo di reo provocato per la forma delle sue parole. Che se giungessero a conciliare gli animi, allora nuova messe rampollava di quistioni sulla soddisfazione e sulla pace, universale o particolare, esterna od interna, naturale, civile, pubblica, domestica; e sulle differenze tra pace, riconciliazione ed impiastro ; tra soddisfazione e restituzione, pene e castigo, confessione, pentimento e umiliazione; perdono e misericordia, e sulle sei maniere di ridirsi. Tale era la scienza intorno a cui esercitava l'ingegno don Silvio Arrigoni in Milano, finchè gli venne l'occasione di sfoderarla in campo in un bravo duello. Ma bisogna tornare un passo indietro. A. studiare in Milano, con don Silvio, erano calati dalle loro montagne altri Valsassinesi, e tra questi, per censo e superbia distintissimi, due cugini della nobile famiglia Manzoni, Gian Maria l'uno, e l'altro Giacomo, il primo avviato al notariato, e il secondo al seminario per uscirne prete. E vedete qui orgoglio montanaro! benchè a Introbbio fossevi un collegio di notai, pure il padre di Gian Maria, uno dei primati della valle, aveva preferito mandarlo a Milano, perchè il contatto co' cittadini lo annobilisse anche ne' panni, giacché nobile di sangue era già. Non è da dire che le due famiglie Arrigoni e Manzoni, si vedevano volontieri come il fumo negli occhi al loro paese, e non mancava che un salterello, cadutovi per caso o gettatovi apposta, per dar fuoco alla mina. Vedete cosa andò proprio a capitare. Un giorno nacque discussione tra un giovin nobile milanese, e Gian Maria Arrigoni circa gli scrittori in materia di giurisprudenza applicata al duello. Questo sosteneva Paride del Pozzo, il Muzio, Giovan da Legnano, Lancelotto Corrado, Giulio Ferretti,l'Attendolo, il Possevino, Camillo Baldo, Bellisario Aquaviva, Antonio Bernardi dalla Mirandola; l'altro invece, portava a cielo come autor degli autori il Birago (') milanese, e citava più per far vedere che anche lui li aveva letti, ma niente affatto per merito superiore, il Parisio, Jacobo Castiglio, il Pigna, l'Albergati,il Gessi, l'Ansidei, il Fausto, il Romei, Orlando Pescetti, e il Tonnina. Fin qui padronissimi tutt'e due di pensarla liberamente, ciascuno a suo modo; ma quando si venne sui Cinquanta casi dell'Olevano, lo Specchio d'onore, la Pace in prigione, la Mentita in giudizio, le Conclusioni del duello e della pace, evangelisti dell'umana riputazione, le di cui parole servono ad empire di tanti dogmi di fede, d'onore i margini delle cavalleresche scritture, tutt'altro che cavallerescamente i due cominciarono a darsi sulla voce, e a svillaneggiarsi a parole. Ci fu subito un prudente a metter acqua sul fuoco, ma c'era anche chi aveva gusto a soffiarvi dentro; il solito che succede in tutte le questioni di questo mondo. Il Milanese voleva che si stesse fermi agli oracoli d'Aristotile e dei giureconsulti romani, e il Valsassinese sui detti dei santi Padri, e su quel vangelo dov'è scritto ; « Se alcuno ti da uno schiaffo sulla guancia sinistra porgi anche la destra ! » e più che persuasione poneva una fina malizia in questa sentenza. « Pretendi tu forse, cuculo di montagna », incominciò a provocare il Milanese, « pretendi insegnare a me che son cittadino, e della patria dell'illustre Francesco Birago ? » «Devi sapere che le montagne », l'altro subito di rimando, « non costumarono certo fino adesso far di cappello alle città, e tanto meno un cuculo, come tu dici, dar lezioni ad un rospo di pianura ». «Tu menti, ch'io sia un rospo ! » « E tu menti ch'io abbia mentito ! » Qui c'era caso di prendersi pei capelli alla facchina, o per lo meno alla nobile di scambiarsi dei buoni colpi di spada. Ma quei benedetti


(1) Fra gli scrittori di materie cavalleresche Manzoni nomina come l'anto degli autori il nostro Francesco Birago (Promessi Sposi: cap. XXVII). pacieri si trovan sempre lì pronti a scongiurare i salassi, che certe teste calde si voglian fare, par preservativo d'un attacco di meningite. E anche qui due di que' che avevano più dose di senno che di furia, acquietarono la cosa per quella giornata, ed i due nobili antagonisti si lasciarono insalutati, con una bieca occhiata di tacita sfida. Don Silvio Arrigoni, il quale si avrebbe tolta in tasca piuttosto una salamandra che usare una cortesia di compaesano a Gian Maria Manzoni, gongolò tutto dalla gioia di poter soffiare a larghi polmoni in quelle ceneri, dove covava nascosto il fuoco. Corre a casa del milanese, e, medicandogli la ferita con olio di vitriolo, uscì a dirgli : « Ad accomodarla, sai la via; quel gradasso te l'ha insegnata col vangelo in mano. Se alcuno ti dà uno schiaffo sulla guancia sinistra, tu porgigli anche la destra! » Questo naturalmente infuriò, protestò e giurò di volerne soddisfazione. Detto fatto, dà di piglio alla penna, e, sotto la dettatura di don Silvio, scrive il più rigoroso cartello di sfida. Ci voleva uno che lo recasse al provocato, e subito don Silvio non lascia finire, che s'offre lui a far da portatore. L'altro naturalmente ringrazia e accetta tosto, ed ecco in viaggio per le vie di Milano il cartello di sfida. Ma don Gian Maria Manzoni, che non s'aspettava certo un simile ambasciatore in casa sua, era fuori, e c'era invece suo cugino prete, il quale legge la sfida, e, fatto viso di non conoscere il portatore, in risposta gli fa dare alcune bastonate dai servi di casa. Quando arriva l'altro pel pranzo, gli narra il caso, e quello dichiara ch'ha fatto male, perchè un ambasciatore è persona sacra. Ma il prete che ha studiato che di sacro a questo mondo non c'è che il carattere sacerdotale che lui riveste, e inviolabile nissuno fuori del papa, di rimando grida che il portatore, si chiami Pietro, Paolo o Antonio, nobile o plebeo, montanaro o cittadino, è un temerario, e che le bastonate erano state ben date e ben applicate, e che nessuno nemmeno Sua Santità gliele avrebbe tolte via. Tra i cugini la cosa s'accomoda, ma non così colle spalle ch'han toccate le carezze del bastone; e, da li ad un'ora, arriva per staffetta un pecoro di studente con un cartello di sfida, di pugno di don Silvio. Che fa allora don Gian Maria? Toglie per buono l'esempio del cugino prete, e fa bastonare il portatore, e chiuderlo fuori la porta. Poi siccome l'affare s'ingarbugliava e sarebbe stato un tirarsi addosso tutta la nobiltà di Milano con quel suo metodo di rispondere alle sfide, lasciò la città alle spalle, e si portò a Lecco dove, poco lungi dal convento di Pescarenico, aveva la sua famiglia un palazzo. Il prete, più uso a maneggiar breviari che spade, si portò al sicuro nell'arcivescovado. Vi fu accolto a braccia aperte, per essere stato l'arcivescovo Federigo Borromeo in casa dei Manzoni a Barsio, quando nel 1608 visitò la Valsàssina. Trovò di più che cercasse, perchè monsignore promise interessarsi lui a sopire lo scandalo. Intanto don Silvio, a cui non poteva passar il bruciore del carpiccio toccato, accattava briga con uno de'pacieri di prima, e lì ci fu duello e serio. Bravo l'uno, e valente l'altro minacciava il combattimento andar per le lunghe, quando un passo, scivolato all'avversario, gli fece piantar la spada nel ventre a quello, e rovesciarlo a terra cadavere. Vedi disdetta! il morto era un figliuolo unico d'una famiglia imparentata col sangue spagnuolo, e quindi doveva aver dalla sua il Governatore. Allora toccò a lui di fuggire, e tutto d'un fiato corse più centinaia di miglia, per finire a Vedeseta, dove aveva dei parenti. Intanto accadeva che l'arcivescovo cercando proteggere il prete Manzoni presso il Governatore, lo trovò più che ben disposto, e anzi su tutte le furie contro don Silvio Arrigoni, a cui voleva nientemeno che bandire addosso una taglia. Monsignore a cui non stava nè pel suo ministero, nè per prudenza di soffiar nelle braci, mise parole di pace, di compatimento per l'età inesperta, il sangue caldo; e ne riuscì, senza pensarlo, un'alleanza più che un'amicizia tra le due famiglie nemiche dell'Arrigoni. Visto che nessun più ne parlava, un anno dopo don Silvio passava da Vedeseta a Cremeno, e lì in casa del fratello, il primogenito, ricominciava la sua vita di soperchiatore. Ma sei mesi appresso, capitava a Barsio il padre, col lutto ancora nelle vesti e nell'anima dell'unico suo figliuolo uccisogli dall'Arrigoni, e vi piantava dimora in una casa dei Manzoni. La primavera seguente, vedemmo che tristo caso successa a don Silvio, a cui torniamo, per averlo lasciato già troppo in compagnia dei due bravi. E qui non possiamo a meno di ripetere anche noi con loro: Chi la fa l'aspetti!

Balbiani. - I FAMOSI UNTORI ecc. Disp. 1. Monsignore, a cui non stava né pel suo ministero, né per prudenza di soffiar nelle braci, mise parole di pace, di compatimento Cap. I CAPITOLO II

IL MISERERE DI DUE BRAVI

Non ebbe tanto cor Ercole mai Né quei che vanno in piazza a dare al toro, Sbricchi, sgherri, barbon, bravi, sbisai.

F. BERNI: in lode del Debito.

"Miserere mei, Deus..." cominciò il Mangiamoccoli a borbottare sotto voce, per non aver le berte dal compagno; e poi più forte : « Dammi mano, Grattapancia, che lo leviam su da terra ». « Secundurn magnam misericordiam tuam... » rispose questo ch'aveva inteso il salmo; » ma prima vo' vedere se ha in tasca per i funerali ». Cacciò dentro una mano nelle tasche del morto, e, nel cavarla fuori,seguitò nel suo miserere. "Et secundum multitudinem misericordiarum tuarum dele iniquitatem meam... ecco questi sono danari per suffragargli l'anima! » e mostrò al Mangiamoccoli un borsellino di seta, dove dentro si vedeva luccicar dell'oro. «Vedi la Provvidenza, che la c'è per chi fa le buone azioni ! » e aggiunse un altro versetto: « In te Domine speravi, beveremo in aeternum, o almeno per un mese ». Visto poi che il compagno restava li a bocca aperta, e come trasognato: «Ah! ah ! » ghignò di tutto gusto : « che ti pare Mangiamoccoli, è o non è una fortuna da far colla mezzina asperges me hysopo all'osteria del Botticello d'Intrebbio? » «Ma le va cavato fuori dalla borsa da fargli dire un po' di bene per l'anima... » avvertì il compagno. «Dirgli del bene, glielo dirò io anche senza il prete; perchè vuoi che gli dica male, se m'ha lasciato erede delle sue tasche? » « Ma tu sei un eretico, che non vuoi capire che i preti... » «I preti cantan come l'oche a pagarli, e per non far capire che buggerìe cantano, le cantano in latino, e credenzon paga » «Han forse da vivere di rugiada, come le cicale, i preti ? » disse Mangiamoccoli, da degno figliuolo d'un patriarca d'Oriente. « Se non ci vuoi metter del tuo, padrone ; ma dalla mia parte almeno ci vo' cavare tanto per una messa all'altare di sant'Antonio ». «Dalla tua parte» ripetè il Grattapancia. « Di qual parte parli adesso? » " Del danaro che abbiamo a dividere...» «Oh ! oh ! dividere è bella parola, e presto detta; ma c'è a domandare a me se son contento, perchè le mani gliele ho arrischiate io in tasca, e chi fa il peccato ha da far la penitenza, per tua regola..  » « E tu tienti tutto », esclamò Mangiamoccoli, levando le spalle; « e portati a casa da te il tuo morto ». «Originalone! e chi ti dice che io non voglia dividere? » In quel mentre il compagno, avendo cacciate anche lui le mani nelle tasche del morto, per vedere di pescar qualche cosa, gridò dopo aver molto frugato: «Se tu non mi vuoi dare nulla, questo tengo per me»; e cavò fuori un astuccio d'un legno ordinario, ma tornito e lustrato con una certa. finitezza. Provò ad aprirlo, e ne trasse un foglio scritto. " Cristo!" non potè trattenere una bestemmia il Grattapancia. «Sta a vedere che don Silvio s'aspettava l'olio santo presto, e che portava con sè, il suo testamento. Qua a me, che vediamo ! » a Facciam vedere al dottor di legge », disse scherzando il compagno, «chè noi non conosciamo l'A e l'I dell'alfabeto! » «Hai ragione, mi ero dimenticato », fe' le scuse il Grattapancia «che tu sei un figlio d'un patriarca d'Oriente ». «Là, taci, buffone! vien qui che leggiamo insieme ». E sciorinato all'aria il foglio, incominciarono dalle prime parole, scritte in carattere maiuscolo, che dicevano: IN LODE DI MARIA VERGINE Canzone. «Che bel principio per un testamento! » esclamò il Grattapancia. «Vediamo quest'altra tiritera che viene, messa in fila riga per riga, e tutte istesse come i gradini d'una scala ». CAPITOLO II

E, cascando dalle nubi quanto più proseguivano, lessero i seguenti versi, che non torneranno discari ai lettori, come quelli che sono d'una canzone inedita d'un autore di quel tempo. « Vergine Genitrice Senza sposo mortai madre feconda Ch'ha, sua prole felice Con Dio comune, timida e giocunda Vedrà fatto il suo seno Da Dio nel del un novo del sereno. » Humil e gloriosa Figlia del figlio, che giammai non nacque E fortunata sposa Di Dio, cui Padre, e Sposo essergli piacque Sola senza peccato Madre di lui, ch'huomo senz'huom è nato. » Non è di sol vestita, Ma veste il sol di pura luce ardente; Nè di stelle arricchita Ha la chioma, che splende, aurea lucente; Ma sono i suoi splendori D'aura beata gloriosi ardori. » Santa prima che nata, Povera al mondo e nel ciel Reina Fra gli affanni beata, Donna con Dio, con huomini divina Puote con humil zelo Tra Dio in terra ed essa alzarsi in cielo. » Ogni bella che bramma D'annoverarsi tra bellezze sante, Di sua beltà s'infiamma: Si che l'eterno Amor divien amante, E' n lei pura, ei fecondo, Puro discende Redentor del mondo. » Lucido in nube mirata All'angelica donna Angiol discende, Nè a pien l'alta ambasciata Bench'ei sia intelligenza, non sente: Ecco mortal l'eterno L'huom spera, ride il ciel, piange l'inferno. » Genera il Genitore, E mortale ha nel sen l'eterna vita, Amata ama, e l'Amore Infinita contien, se ben finita; SÌ che in essa converso fatto il facitor dell'universo. » Senza colpa ha concetto Gravida, ma non grave, et senza cura Ha nel parto diletto: Madre per gratia sol, non per natura. Il figlio è Verbo e tace, Et offeso dall'huom gli apporta pace. « Con humilta sublime Brama salute e la salute accoglie; Serva, il nemico opprime; Serva, da serviti l'hnomo discoglie, E col parto giocondo Spoglia il Limbo, apre il ciel, e salva il mondo. » Così la pena gloria La guerra pace e l'ira amor diviene, La servitù vittoria, L'ombra sole e di più tutto il mal bene; Onde hanno ín certo dono Il giusto gratia, e'l peccator perdono. » Piena di gratia rende Eva vuota di colpa. Ama l'offeso, Eva amata l'offende. Quest'ha l'amor, quell'ha lo sdegno acceso; L'una Morte e peccato, L'altra a suoi merti in ciel la vita ha dato. » Vive nata mortale Questa, e quell'immortal ch'è nata"muore: L'una a Dio farsi uguale Brama e serva divien del suo errore: L'altra serva si stima; Onde alla destra sua Dio la sublima. » Quella é infetta radice Horrida quasi anc' agli horrori; Questa é verga felice, Che vitali ha le frondi, eterni i fiori; L'una è pungente spina ; L'altra nel suo candor rosa divina. » Odorifera rosa Fra le spine del mondo il ciel vagheggia Sola è di sè gelosa: All'apparir del sol con lui festeggia E tra le pure foglie I suoi rami purissimi raccoglie. » Vera celeste aurora Nuncia del sol, che del suo lume adorna, E'l ciel di gloria infiora, E la terra di gratia imperla et orna, Alma all'alme riluce, E quelle al ben oprar dal mal induce. » Vago ciel luminoso Ch'unito a Dio per lui s'aggira e move, E di quel sol pomposo, Che sue antiche bellezze ha fatto nuove Depose coll'errore Gratie col lume e cogl'infiussi Amore. » Dominatrice Ancella Habita in terra e sol conversa in cielo Raccoglie in piccol cella L'immenso, e'l copre col vergin velo, E se gl'unisce pura Per amor, per grazia e per natura. » Ella è via, che conduce Dio all'huomo, e l'huomo a Dio fatto divino; Onde il cielo ha la luce, Terreno il ciel, la patria il pellegrino, Prigione la vittoria, Mortai la vita et immortal la gloria. » Credendo è tutta fede, Mentre ama, è carità; s'opra, è virtude; L'invisibile vede; Conoscendo, s'adopra, ed è salute; S'è Madre, é Verginella: S'è nel ciel, è del del più adorna e bella. » Liberai cosi diede Salute all'alma, al santi spirti Pace al mondo, all'huomo fede, Al vizio fine, et all'inferno noia, Al fallo antico oblio, Al cielo l'huomo, et alla terra Dio » . « Ed a te tutt'intero Ha dato un bel zero! »

esclamò, celiando, il Grattapancia, rivolto al compagno, che faceva il muso lungo dal dispetto di trovarsi colle mosche in mano. «E una santa e bella canzone ! » disse il Mangiamoccoli, tanto per avviare il discorso, e non parer come un pulcino bagnato. « Ma la quale non dà da empirsi l'epa e bagnarsi la gola , aggiunse il Grattapancia. « Questa è la miglior canzone del mondo; questi son versi cari e graziosi ! » e, scuotendo la borsa, fe' suonare le monete. In quel punto da un risvolto della strada spuntava un sacco di cenci, da dove metteva fuori la testa arruffata, e scolorita dal digiuno e dagli stenti, un mendicante. « Martinsuda! » esclamò il Grattapancia ; « adesso vedrai se val più una canzone alla Madonna o un sant'Ambrogio a cavallo ». Il mendicante veniva innanzi ; e mentre arremba gli ultimi passi che lo allontanano dai due bravi, diremo, perchè avesse lo strano nome di Martinsuda. Di battesimo il suo nome era Martino e nativo di Naggio, un paesello addossato al monte, nella vallata che da Menaggio corre a Porlezza, borgo il primo sul lago di Como e questo su quel di Lugano. Venuto su grande e grosso, di lavorare ebbe poca voglia sempre, e quasi diremo una naturale paura, per cui, quando non l'ingozzavano gratis et amore, toccavagli andar girellone per le vicine terre a domandar per elemosina ciò che non sapeva procurarsi col lavoro. Questa cosa scapitando presso i vicini la fama del paese, il curato, che aveva non soltanto anni , ma anche senno, lo fece chiamare, e lì sui due piedi gli fece un predicozzo sull'obbligo che hanno tutti, quando sono sani, di darsi d'attorno a guadagnarsi la vita, e come fosse una solenne porcheria, uno scandalo che un uomo, sano come un corniolo, girasse a tozzolare il pane, e fosse quello anzi un grosso peccato d'invocare sempre la carità, del prossimo, e il nome di Dio, che va soltanto invocato ne'veri bisogni dell'anima e del corpo. Sapreste indovinare, lettori, cosa scappò fuori a dire quel lumacone ? «Don Silvestro, giacché lo ha provato anche lei lo deve sapere, che a lavorare si suda!..» Il curato, visto d'aver perso ranno e sapone, lo lasciò andare senza un soldo e un sacco di pareri, che dai venti fino ai settant'anni non gli profittarono nulla; e Martino s'ebbe il solo guadagno d'un verbo che attaccarono que' del suo paese al suo nome, a guisa d'un titolo onori- fico, e per tutto il lago di Como, nella Valsàssina si conobbe Martinsuda. "Pater noster, qui es in coelo, sanctificetur.." cominciò a biascicar orazioni costui, accortosi d'esser vicino a della gente. "Nomen tuum, adveniat regnum tuum, fiat voluntas tua.. » gli troncò in bocca la preghiera, per seguitar lui, il Grattapancia: « Vedi che siamo cristiani anche noi, e che le orazioni le sappiamo ». "Panem nostrum quotidianum da nobis hodie..." «Razza d'un cane barbone! vuoi capire di finirla! Se ci metti una parola di più, ti mando da Domeneddio a desinare in secula seculorum. Ma sapete che siete dei solenni impostori voi altri pitocchi col vostro pater noster, ave Maria, salve regina, e l'altre cantafere studiate a memoria? Avete fame? che serve a borbottar Cristi e Madonne, si dice: - Ho fame, non lasciatemi morir per strada. - Ti cascan le brache e il farsetto da dosso, e ti entra il freddo nella nuda carne? Si va da un prete, e gli si dice: - Se avete due vesti, come dice il vangelo che è il vostro codice, datene una a me che non ne ho. Fatemi un cantuccio al vostro focolare, ed io vi terrò posto di fratello, poiché voi non avete figli. Non sapete dove dar del capo per trovar alloggio, quando non serve più di padiglione buono al letto sulla nuda terra la cappa del cielo? Si va alla porta d'un convento, e lì si picchia: l'ha detto il Signore, « picchiate e vi sarà aperto »; e dentro un angolo lo troverete da allungarvi distesi a dormire. Se vi sentite secca l'ugola a tormentar dalla sete... ma che sto io adesso a sbizzarrirmi il cervello in prediche con te, povero Martinsuda, che dopo esser stato un girandolino in gioventù sei cascato gocciolone in vecchiaia... » Il mendicante, a cui in tutta la sua vita non doveva mai esser capitato una simil storia, non sapeva da dove cominciare a domandare o andarsene, perché si era accorto d'esser nelle mani di due ciuffi, come lui intendeva i bravi. Però la mano, come irrigidita, teneva sempre stesa in atto d'aspettare i comodi d' un'altra mano che versasse l'elemosina. Il Mangiamoccoli, che non amava gli scherzi fatti ai poveri, stava per mettere le mani nelle sue tasche, a pescarvi qualche soldo, scampato al naufragio degli ultimi denari toccati dal padrone, quando il Grattapancia gli trattenne quell'atto di carità, dicendogli: » Io taglio e medico , ed un figliuolo d'un pescatore dell'Adda non è meno generoso del figlio d'un patriarca d'Oriente. Martinsuda, vien qua ». Il chiamato, spingendo gli occhi lippi sull'estremo margine delle orbite, guardò il bravo, e mosse due passi, che bastarono a metterlo colla mano sempre stesa, come instecchita, a portata dell'elemosina che volesse l'altro fargli. Difatti il Grattapancia, qual'angelo buono l'ispirasse in quel punto, cavò dalla borsa uno scudo nuovo, che luccicava, e lo fe' sdrucciolare in mano al mendicante. Monete d'oro e nemmanco d'argento Martinsuda non credeva di aver toccate mai, e neppur viste, perchè guardò lo scudo con infinita curiosità, e subito dopo si mise a covare con gli occhi il bravo, a modo che fa il rospo all'usignuolo. All'ultimo, domandò: «A cosa è buono questo coso? » «Per l'anima di san Gaetano, padre della providenza! mi domandi a cosa è buono questo coso? T'han proprio allevato su come un vitello i tuoi, o sei cresciuto da te come un fico selvatico, da non sapere a cosa è buono uno scudo? Guardaci, c'è su la figura d'un santo a cavallo; e quello è sant'Ambrogio che ha la virtù di far miracoli ». Parendo al mendicante d'udir bestemmie, stava col capo basso, e confuso; ma l'altro, come la ruota d'un mulino, a cui non manca la cascata: «Si, miracoli », ripetè. « Ti senti fame? egli ti farà trovar pronta la tavola dell'oste, e costui col berretto in mano. Hai sete? farà spalancare le porte delle cantine, e saltare i turaccioli delle bottiglie. Ti vuoi vestire a nuovo? in bottega a questo suono nessuno farà orecchio di mercante a servirti dal cappello alle scarpe. Hai sonno? ti procurerà un letto soffice e ben sprimacciato, colle lenzuola di bucato, e poca coperta d'estate, e un coltrone per l'inverno. Piove, tira vento, nevica? t'accenderà un'allegra fiammata. Sei malato? ti fa correre a casa il medico e lo speziale, e con ricette e farmachi prolungarti i preziosi giorni. Vuoi far carnevale? tutte le maschere ti son d'attorno, e balli e canti come un arlecchino. Cerchi amore? fuor della porta ogni donna te lo dà a grembialate. Desideri amici? leva questo coso dicontro ai raggi del sole, e gli amici ti s'aggrappelleranno intorno come le api, fuggite dal bugno, al primo ramo d'albero. Ti dà noia il vicino? compri la sua casa, e lo metti in istrada; ne acquisti il campo, e lo getti a mendicare. Ti rovina la pace un nemico? questo sant'Ambrogio a cavallo gli fa consegnare un palmo di ferro nel petto, o una palla di piombo nel capo, o, a far le cose più polite, un sorso d'acqua, ch'ha la virtù medesima di quella del pozzo della Samaritana, di dar la vita eterna. Secondo ti va a genio queto coso si apre a due battenti la porta della chiesa e del lupanare; e se dai retta ai preti, può, regalandolo però a loro, farti crescere le ali d'andar di volo in paradiso ovvero, non dandolo e pappandotelo allegramente, farti spuntar le granfie del demonio, che ti traboccheranno in societate diabulorum per infinita secula seculorum ». Martinsuda, capito l'antifona ch'aveva a fare con un matto allegro, invece di risponder amen, mise via lo scudo, e, con una riverenza, sfumò via. Allora finalmente, intascata l'uno la borsa e l'altro l'astuccio, pensarono a trasportare il morto, a cui già le formiche cominciavano a salir sul viso in processione, battistrade dei vermi del sepolcro. «Un per le due gambe a guisa d'una scala di legno, ed un per la testa, mi par una cosa oltrechè malfatta per un fratello del padrone, malagevole... » notò subito il Mangiamoccoli, a cui non piaceva punto il far da becchino colle sue spalle. « E vuoi dunque prendertelo sotto braccio come una soffoggiata di panni? » «Se ci fosse una barella, ve lo si collocherebbe tanto quanto a letto ». «Eh ! lo so; ma dove andarla a cercare senza levar sussurro tra questi villani... oh ! senti, che l'ho trovata ». Mangiamoccoli crollò la testa, con aria di chi non crede se non vede: «Tu ch'hai gambe e braccia da arrivare a suonar le campane colle nocche, col coltello fa di tagliarmi quattro o cinque rami di quel castagno giovine , qui alla nostra destra, il primo sulla strada; ed io mi tolgo l'impegno di farti una barella, capace di sostenere un bue ». «Ci hai avuto testa questa volta », approvò Mangiamoccoli, e corse a scappitozzare il castagno, che gemeva umore da tutte le ferite assassine del coltello del bravo. In meno di mezz'ora, il morto posava nella sua barella nuova, intrecciata, a guisa d'una gran corba, di rami di castagno, spaccati per mezzo. Cosi, col fardello funebre, si misero in cammino per alla volta di Cremeno, tagliando fuori dalla strada maestra, per non dar nel naso ai villani. «Pareva tutte piume, ma pesa », notò il Grattapancia, che faceva peggior fatica del compagno, avendo tutto il peso addosso a lui , nel camminare davanti. «Non sai che i morti pesano più .che i vivi? » «Bel talento ! Se lian l'anima di meno, devono pesar di più? » «L'anima non c'entra in questo conto... » «E perchè non c'entra ? » «Perchè l'anima non è cosa che si pesa come la farina da fare il pane... è un soffio.. è un... » «Un niente ». «Bestemmiatore, eretico, luterano... » «Vedi che bestione ! dico che è un niente , perché nel peso conta niente », rimediò il Grattapancia. « Hai mo' inteso? » «Voleva ben dir io che non avrei trovato un cane che nega l'anima » « Quanto a quello sarebbe. come a voler che ci fosse stato vino senza che Noè avesse piantata la vite. Coll'anima dentro, il corpo cammina, mangia, beve, e fa all'amore ed ai dadi ; con questa fuori, è un cadavere che imputridisce, diventa vermi e poi terra, e quattro ossa se le avanzano, pasto dei topi. Ma vedi in che discorsi melanconici mi fai cascare sempre tu ». « Che vuoi forse che cantiamo allegri. con le torce che abbiamo in mano? Senti: sai tu, dove mo sia stato il povero don Silvio, ch'erano tre giorni che mancava da casa? » «Chi domanda gli interessi ai padroni? Io l'ho trovato quand'usciva, e siccome il Mezzabraca lo voleva accompagnare, gli ha fatto segno di star li, che lui non voleva nissuno, e se n'è andato a piedi ». «Ch'abbia avuto una qualche amorosa nella valle?... «O di'piuttosto a Bellano dove la settimana passata io l'ho accompagnato col Succiarape fin nella porta di casa ultramonti ». «Ce l'ho accompagnato anch'io più d'una volta, e s'è sempre fermato una o due giornate , poichè d'amici n'aveva d'avere in quel borgo una filza più delle Ave Marie del rosario. I Boldoni, i Denti, i Magni, i D'Adda, insomma se c'era persona che contava in quel paese era carne ed unghia con lui. E anche da Milano, l'autunno passato, quel notaio ch' era figlio del conte di Chiavenna, e quell'altro notaio anche lui, impiegato al tribunale » " Alfieri si chiamava questo, e l'altro Balbiano... io i nomi li tengo a memoria », notò il Grattapancia. « E ti so dire anche che il primo è stato qui anche questo inverno, e sono venuti da Lecco a Cremeno insieme a cavallo, in una giornata che faceva freddo da gelar vivi, e con una spanna di neve per terra e sulle piante. Chi sa quel suo amico di Milano, come resterà di sasso a sentire queste brutte notizie, che l'hanno accoppato in mezzo una strada, a tradimento, come un cane ». «Gian Ambrogio gli scriverà di certo, e scriverà anche al notaio Balbiano, e torrà da loro parere sul modo di comportarsi per scoprire il reo ». «Si, che sulle coltellate c'è scritto sopra il nome di chi le ha date .... » «Ma dal manico e dalla lama del pugnale si può arguire... » « Ce ne son tanti d'asini che si assomigliano, e sta a vedere che chi ha fatto il colpo adoperava un'arma colle cifre del suo nome o lo stemma del casato. Vedi, se foss'io un giudice direi che il colpo viene dalla banda di Lecco... » «E perchè non da quella di Bellano, dove ci ha forse, e certo la amorosa? » «Io ragiono così, e sta attento se sbaglio. Don Silvio aveva dei nemici, questo lo ammetti anche tu... » «Chi va al molino s'infarina, e chi semina vento raccoglie tempesta! » «Benissimo. Non hai mai badato che schivava sempre le passeggiate verso Barsio, e che quando ci aveva a passare toglieva sempre due di noi in compagnia? e invece quando andava a Taceno da don Viviano, o su alla ròcca di Màrmoro dal conte Annibale, o anche fino a Bellano ci lasciava in pace il più delle volte, o se ci toglieva dietro era più per lusso che per difesa? » «Hai ragione sì, e anzi io direi che il nemico ce lo doveva proprio avere a Barsio, perché qui, anche con due di noi per angioli custodi, spronava il cavallo, e non abbandonava cogli occhi i margini della strada ». «Tu, Grattapancia, che ci sei stato qualche volta di fermata alla osteria col Pizzagatto, il braccio dritto del conte di Baiedo, tu saprai contare sulla punta delle dita le persone che ci possono essere capaci di dispensare una coltellata di questa fatta ». «Villani tondi, quadrati e bislunghi, ecco tutta la gran popolazione di Barsio, se togli i Manzoni che han nobiltà e superbia da far cavare il cappello davanti ai loro cani». «E questi sarebbero capaci? » " Io non saprei, perché non li ho mai provati fuori del loro brodo, dove dicon tutti che conviene lasciarli stare. So ch'hanno un prete capace di schiodar Cristo a un bisogno, e riconficcarlo in croce, e che una volta, in pieno mercato di Lecco, ha dato uno schiaffo ad un che gli disse una brutta parola, uno schiaffo, ti dico, da lasciargli nella guancia l'insegna delle cinque dita in pegno dei quattro denti buttatigli in gola". «E l'altro se lo ha preso in pace lo schiaffo? » " In pace o no, pel momento gli convenne sputar miele col sangue che gli usciva di bocca, e smucciare via, per la folla che già gli s'ingrossava d'intorno. Ma siccome era parente della serva del podestà, trovò poi modo di far chiamare da costui il prete, il quale v'andò franco, come si trattasse di portarsi in coro a cantar compieta. Il podestà che non voleva scadoli, tanto più che poteva capir presto una visita di monsignor arcivescovo, accomodò la cosa dando, cogli occhi ragione, e colle parole torto al reverendo. Ma la cosa non fu finita lì. Un altro giorno, si credette il percosso in dovere di restituire lo schiaffo al prete, il quale tranquillo gli volse l'altra guancia: e l'altro credendosi schernito, gliene appoggia un secondo. Il prete allora, invece delle mani, v'adoperò i piedi, e gli scaraventò tali calci da farlo cimbottolare in terra, e fu fortuna che li non ci avesse i denti! Si tornò dal podestà, e adesso sono due che voglion ragione. Allora per poter dare un giudizio da Salomone il podestà, al posto d'una grida, si tira davanti il libro del vangelo, e gli dice qualmente abbia torto d'aver percosso l'avversario, avendo Gesù Cristo dichiarato di volgere la guancia destra a chi ha percosso la sinistra. - Va bene! notò il prete: però Gesù Cristo non ha soggiunto cosa convenga far dopo, ed io ho creduto bene regolarmi da me. — E la ragione fu sua; e il podestà ne ha fatto un carnevale di ridere, e ha fatto ridere a pranzo, in quel giorno, tatta la brigata de' convitati di don Rodrigo, quel signore ch'ha la buona lana del Griso al servizio ». « Dunque, tolti i Manzoni, a Barsio non ti pare che ci possano essere altri che possano aver avuto ruggine con don Silvestro? » «Cioè... ruggine io non so; ma adesso mi viene in mente che ci sta, appunto in una casa dei Manzoni, un vecchio venuto che fa un anno o un anno e mezzo se non fallo: lo dicono Milanese, ma pare un orso cacciato dalla fame e dalla neve giù dai monti. Sempre solo, cupo come se fosse in collera con tutti i santi, vestito di nero, una barbaccia grigiastra, occhi che più indemoniati non li deve avere il basilisco... «Quello sta a Barsio? » esclamò il Mangiamoccoli, che aveva prestata molta attenzione a quei connotati. « Allora è quello che io ho incontrato due volte a passar, al chiaro di luna, da Cremeno; e l'ho visto fermarsi alla due piante che sono in faccia al portone di casa del padrone, e lì stette più di dieci minuti come una statua, soltanto che moveva le mani. Il mattino dopo, mi sono cavato la curiosità di vedere che diavolo avesse fatto lì inchiodato ad una pianta; e ho visto incisa sulla corteccia una croce, fatta sicuramente colla punta d'un pugnale. Gli tenni d'occhio per un'altra volta, e fu la seconda che ci venne, e fece lo stesso sull'altra pianta ». «Cosa aveva preso quel luogo per il cimitero? » «Croce, vendetta! » notò il Mangiamoccoli; « e se questo morto, ch'abbiamo quì, potesse parlare, chi sa... Già a me fin da quelle due uniche volte che l'ho visto m'è parso un lupo mannaro ». « A. me par invece che sia un cristiano, ti dirò, men bello di tanti altri, ma cristiano battezzato, calzato e vestito » «Ciò però non toglie che possa essere un lupo mannaro. » « Allora ci avrebbe quattro zampe, e coda, lasciato stare il muso che gli può passare ». « Ohibò! certe volte sono come noi, e cert'altre sono veri lupi ». «Lupi in veste d'agnelli, ho sentito da ragazzo che il curato del mio paese li predicava dal pulpito , e raccomandava di guardarsene, come dall'olio bollente; ma cristiani, sotto una pelle di lupo, li lascio a te in sogno ». «E se fosse mo il diavolo, che li coprisse di una pelle di lupo, e li facesse andare attorno per le città e per le campagne, mandando urli orribili, e commettendo guasti e rovine? » Il Grattapancia gli guardò bene in viso, per veder se diceva da senno o da burla; ma accortosi che stava serio il compagno, crollò la testa, e fece spallucce, come faranno certo molti de' miei lettori. L'idea superstiziosa sparsa nei tempi d'ignoranza che gli uomini potessero essere cangiati in lupi è una delle più antiche credenze (1). L'esistenza dei lupi mannari è attestata da Virgilio, Solino, Strabone,

I Plinio, testa assennata meglio dei suoi contemporanei, scriveva: « Noi dobbiamo riguardare come falso che l'uomo possa trasformarsi in lupo, e quindi riprendere la sua ferma primitiva (lib. VII) ». Pomponio Mela, Dionisio, Afro, Varone, sant'Agostino, s. Tommaso, e da tutti i teologi e giureconsulti degli ultimi secoli. Questa stravagante idea ebbe tuttavia a sussistere per lungo tempo ; e la filosofia non era per anco giunta a distruggerla in Francia, ove si cominciò appena a dubitarne sotto Luigi XIV; e ci volle la medicina a darle l'ultimo tracollo, dichiarando la cosa del suo dominio col nome di licantropia (1). 0: va ben compatito Mangiamoccoli nato in paese di montagna, dove le superstizioni si mantengono con tenacità quanto le tradizioni più care, se prestava fede ai lupi mannari, come ai misteri della Santissima Trinità. «Chi non crele alle parole, crederà ben ai fatti! » disse quel buon credenzone della montagna. « Stammi attento, che ti fo toccar con mano, se ci sono o no i lupi mannari ». «Servirà ad ammazzar la noia di questo funerale.... » borbottò il Grattapancia, con uno sbadiglio che voleva dir più fame che sonno. «Sai dove è la valle

d'Intelvi ? »

« Quella che si prolunga tra i monti da Argegno, sul lago di Como ad Osteno, sul lago di Lugano, tutta castagni e noci... » «Bene, su per quella valle, in un paese in cima in cima, che si chiama Lanzo, da dove, andando per un sentiero sepolto tra le siepi di nocciuoli si arriva a un certo punto che si gode la vista di dieci o dodici paeselli e più, che fan da corona intorno a Lugano; a Lanzo, dico, abitava il conte Barilano di Paraviso, venuti i suoi la prima volta cogli Spagnuoli e rimastivi sempre di padre in figlio. Costui una sera; stando al balcone del suo palazzo, scorse un cacciatore di sua conoscenza, e gli gridò: - Perino, portami il selvatico che ammazzi. - Sarà mia premura, rispose quello, e se ne andò per la sua caccia. Contento d' aver già trovato a cui vender il selvaggiume che prenderebbe, camminava cogli orecchi e gli occhi attenti, sopra un pianoro tutto piantato a noci, dove solevano, nella breve stagione, pascolare le mandre, quando saltò fuori improvviso, da dietro una ceppata di faggi, un giovin lupo, e gli s'avventò contro» . «Una buona archibugiata a bruciapelo », suggerì il Grattapancia come se fosse presente al fatto ». «Sparò si, lui presto; ma andò fallito il colpo ». "Maledizione di Dio!2 «Allora il lupo inferocito gli si precipitò addosso, e l'avrebbe squarciato in due a guisa d'una focaccia, se non era svelto col coltello da caccia affilato come un rasoio, a tagliargli via d'un colpo netto, la zampa dritta. Che urli, misericordia del Signore! che urli la brutta bestia; e via zoppicando, e perdendo sangue; nè più s'è vista ».

(1) Delirio melanconico, per cui l'infermo credesi cangiato in lupo. «Pelle di lupo e cuor di serva di prete una cosa dura a passarsi, mio caro; e per una zampa non sarà morto il lupo ». «Morto? i lupi mannari non muoiono così per poco; sentirai. S'era fatto notte al cacciatore, e pauroso naturalmente che dai cespugli venissero fuori altre visite di quella sorta, prese il sentiero verso il paesello, che si vedeva in alto, spiccato tra le piante cappitozzate fino a un tiro di schioppo dalle case. - E così la caccia com' è andata? gli domandò il conte di Paraviso, ch'era li ad aspettarlo sulla porta. - Male! ho attaccato un lupo, e non m'è restato che questa zampa; e gliela porse. » «Li c'è da far sudare ai fornelli un cuoco! » «Vorresti tu mangiare la mano d'un cristiano? » «Cosa? » esclamò il Grattapancia guardando in faccia l'altro, che nol burlasse. «Quella zampa non era una zampa di lupo, ma la mano d'una donna; e il conte di Paraviso ebbe a cader per terra dallo spavento, quando nel dito mignolo le vide un anello d'oro che conobbe per quello di sua moglie. Corse dentro in casa subito a verificare, e la trovò seduta pacifica al focolare, però col braccio destro nascosto sotto il grembiale » « L'avrà abbrancata pel collo, scommetto! » «No : le ha solamente detto con voce che non ammetteva repliche : - Fammi veder la tua dritta? e siccome lei non moveva il braccio : - Anima di diavolo, le soggiunse, eccotela la tua mano. Allora la sciagurata confessò tutto, com'ella era ascritta alla legione dei lupi mannari, e quella sera aveva, in quella forma bestiale, assalito il cacciatore Perino, il che si confrontò anche, accostando la mano al moncherino, da cui era stata tagliata. Che avresti fatto tu ne'panni di quel povero marito ? » «Io... io... » ma non trovava punto una sentenza questa volta il Grattapancia. « Oh! m'ero dimenticato che tu sei un luterano della Valtellina, e che a queste cose non credi... Dunque senti cos'ha fatto quel marito prudente. L'ha fatta prendere dai servitori, legare come un fascio di legna, e trascinare ad Argegno, dove fu chiusa dentro la torre, che si vede ancora. Intanto lui era corso a Como dal vescovo, e già veniva su dalla città l'ordine di bruciarla in questo mondo per mandarla ad arrostire eterna mente nell'altro, quando il diavolo, che gli premeva averla forse subito a casa sua, se la portò via la notte d'un sabato, dopo un fracasso che pareva rotolasse addosso al paese tutta la montagna ». «Caro il mio cattolico, apostolico, romano... » saltò su il Grattapancia » io sono un po' san Tommaso in fatto di fede... e ti dico che mi hai contato una bella storiella ». a Però vera, come il diavolo che porterà via te, se tieni sempre dalla religione di Lutero... » «Il quale la seppe più lunga però del papa, e gliel' ha fatta tenere. Ma, via! lasciamo la fede da una parte, e poichè la carità la facciamo a portar questo morto, ci resta la speranza di arrivar presto a casa ». «E la strada l'accorcerò io », disse il Mangiamoccoli, « con un'altra storia d'un lupo mannaro, se però tu ci metti volontieri le orecchie a sentirla... » «Ci metto tutti i cinque sentimenti, purchè passi questa maledizione di far da becchino a un morto, col quale non c'entriamo nè col pugnale, nè col manico. «Ma è fratello del padrone e requiem a lui ». " Oh! per questo, anche lux perpetua. Dunque conta quest'altra storiella, che possiamo ingannare il tempo". «Un carbonaio della Val Cavargna, e propriamente del paese dove son nato io, si era dato al diavolo, il quale lo trasformava in lupo una volta la settimana. Cosi trasvestito, lo stregone maledetto commise tanti malanni, che s'è stati obbligati scrivere all'arcivescovo di Milano, per far venire un qualche santo che lo esorcizzasse. Ci mandarono su in montagna un prete, che da solo, con due spruzzate d'acqua santa e quattro parole di quelle stampate nel messale, sarebbe stato capace di mettere in fuga tutte le seimila e centosessantasei legioni di demoni. Cominciò a far comparire il diavolo..." " Il diavolo? e com'ha fatto?" " Ha borbottate certe parole latine, e il diavolo, li pronto agli ordini come un servitore, è comparso con tanto di coda e di corna da far paura a chichessia non però al prete, che gli domandò il nome del lupo mannaro. Ma quel biricchino non voleva dirlo, e gli toccò ripetere due volte il comando, e fargli la minaccia di batterlo, se non obbediva a metter fuori il nome e cognome del miserabile, che gli aveva venduto l'anima. Posto tra l'uscio e il muro, gli convenne parlare, e indicò il carbonaio; poi sparve in una fiamma grande, e dello stesso colore di quelle che si veggono salire dai cimiteri, quando le anime hanno bisogno un po'di bene dalla gente di questo mondo". "Finché parli di queste, ci credo, perchè le ho viste anch'io, e....e non mi fanno piacere, tel confesso, quando io allungo il passo, e mi vengon dietro". "Allora devi dire un requiem ai tuoi poveri morti... Ma tu mi hai messo fuori di strada. Dunque, l'indomani, il prete ch'era la prudenza e la santità nello stesso tempo in persona, spiò lo stregone, e lo arrestò nella notte mentre che andava al sabbato sotto la forma di lupo". «Peccato! sarebbe stato una bella festa da ballo, lui vestito da lupo, le streghe a cavallo delle scope, coi gattacci neri che suonavan dì musica..." e il Grattapancia fece una grossa risata. «Forte il lupo mannaro, robusto il prete durò per un pezzo la

Balbiani - I FAMOSI UNTORI ecc. ... lo chiarirono i fatti che accompagnarono l'ultima battaglia di queste due potenti fazioni. CAP. III.


(vedi immagine corrispondente) lotta tra di loro, finché il sant'uomo riuscì a tagliargli, d'un colpo solo, l'orecchia sinistra, dopo di che la bestia, urlando dal dolore, scappò via. Lui raccolse da terra 1' orecchia, e, guardatala, trovò che, invece d'un'orecchia di lupo, era un'orecchia d'uomo. Quella notte non potè dormir tranquillo, perché il diavolo, che si vedeva in pericolo di perdere un'anima bell'e comprata per casa sua, gli fece sopra il capo un gran rumore. Appena fatto giorno, tal quale era andato a letto balzò in piedi, e andò in compagnia del curato e d'altre persone dabbene a trovare nella sua capanna il carbonaio, e videro ch'aveva la testa fasciata. Gli domandarono che aveva, ed avendo risposto che s'era scottata alla fossa del carbone un'orecchia, l'obbligarono a farla vedere, e trovarono così che gliene mancava una, la sinistra. Non ci volle altro per confermare i sospetti. Lo stregone fu quindi condannato ad esser bruciato vivo; ma, mentre che si dava fuoco al rogo, il diavolo gli comparve accanto, lo portò via alla vista di tutti, e d'allora in poi non si videro più lupi mannari nella valle ». «Anche questa storiella m'è piaciuta come l'altra; ma dimmi, questi tuoi montanari hanno così paura di questa sorta di lupi, or di due ed or di quattro gambe ? » «E chi non ne avrebbe paura? Quando sentono nelle strade gli urli del lupo mannaro, il che succede soltanto nel colmo della notte, si guardano bene dall'affacciarsi alla finestra, perché ne verrebbero strozzati». «Ma uno come me, ch'avesse coraggio... » «Un disperato come te, potrebbe benissimo costringere il lupo mannaro a lasciare la forma presa ad imprestito, dandogli forte un colpo di forza in mezzo gli occhi ». «Dunque io non ne ho più paura. Ma dimmi un po', questi mezzo cristiani e mezzo lupi e tutto diavolo cosa mangiano, quando vanno in fregola di mezzanotte? » «La qualità distintiva dei lupi mannari è un immenso gusto per la carne fresca". «Uh, leccardacci! » fece il Grattapancia. «Strangolano cani, bambini.. » «Gatti, lucertole, rospi, formiche.... » «Tu credi ch'io ti burli, e dico invece cose vere come le litanie della Madonna ». «E chi ti dice cavolo? Se mangiano cani, perchè non mangeranno gatti? » «Come! grande come sei non sai ancora che i gatti assistono al sabbato, che ballano colle streghe, e che il diavolo prende spesso la forma di quest'animale? T'ho proprio a citar dei fatti per persuaderti? Ebbene senti anche questa, ch'è vera e successa in Milano. Un maniscalco, una notte, nell'andare a casa, fu assalito da tre grossi gatti, e, difendendosi, li ferì nel muso. L'indomani, il capitano di giustizia venne ad arrestare il maniscalco, e lo mise in prigione sotto l'accusa d'aver maltrattate tre signore della città. Il maniscalco stupefatto assicurò che non aveva maltrattate che dei gatti, e ne esibì le prove le più evidenti, perché egli aveva conservato del pelo. Allora fu messo in libertà, perché videsi che il diavolo c'era entrato in questo affare in modo colpevole ». «Manco male che non l'hanno abbruciato, povero diavolo ! » «Non senti che non ci aveva colpa ? » «Mo tu credi », saltò su il Grattapancia a protestare, « che tutti quelli bruciati dai preti e dai frati fossero proprio tutti carne non buona ad altro che d'infilzar sullo spiedo, come un porcellino di latte, per metterlo ad arrosto ? » «Bel mondo, se lasciassero andar attorno a spasso i maghi e le streghe ! vedi s'io fossi un conte, un duca... » « Un re, un imperatore a far desideri e debiti costa poco, e convien farli addirittura grossi » «Dunque s'io foss'io, un conte, o un duca... insomma uno che può comandare a bacchetta farei, come ha fatto un principe d'un paese lontano, lontano credo di Russia ». «Trangugiamo anche questa che sarà l'ultima, perché là si comincia a veder il campanile, che sia benedetto, di Cremeno « Avvertito questo principe che un suo vassallo cambiavasi, a suo piacimento, in ogni sorta di bestie, lo mandò a prendere, e dopo averlo fatto ben bene incatenare, gli comandò di provare in sua presenza la sua arte magica, ciò ch' egli fece cangiandosi incontanente in lupo. Tutti a scappare spaventati; ma il duca, che aveva pronti due grossi mastini, glieli aizzò contro, e, in pochi minuti, lo fecero a pezzi ; e cosi avessero fatto di tutti i maghi e di tutte le streghe del mondo vecchio e del mondo nuovo ». « Amen! » rispose il Grattapancia, « e lauti Deo, che ci siamo » Erano arrivati a Cremeno. CAPITOLO III

UNA LE PAGA TUTTE

Il perverso tuo cor prende conforto Qualor più afflitta la virtù rimiri; Ma se poi della pace afferra il porto, Ti s'apre un mar di duolo e di sospiri.

R. MENZINI: sonetto

Sulla porta di casa Arrigoni stava di guardia, senza lo schioppo però, il Succiarape, altro de' bravi del signore, il quale, visti i compagni con la barella, stava per gridare, se non gli avessero fatto segno di tacere. «Il padrone? » domandarono premurosi i nostri due. «A tavola colla solita brigata». «V'è forestieri? » «Il curato di Taceno ». "Don Viviano è della casa », notò il Grattapancia. «E come prete », aggiunse il Mangiamoccoli, « penserà a mettere in corpo a Gian Ambrogio la rassegnazione, e sotto terra il morto ». «Corpo d'una marmotta de' miei monti ! » disse, dopo aver pensato un poco, il Succiarape. « Mi dimenticavo, che, sarà mezz'ora, è arrivato da Oggiono don Paolo Emilio Parlaschino, quel ch'era maestro a Sellano, poi ad Asso... » «Lo conosciamo il poeta , che , l'ultima volta ch'è stato qui ha scritto in stampa col carbone quelle tre righe sotto la Madonna. A proposito, se il morto lo collocassimo nella stanza della Beata Guarisca, Che vi parrebbe? » E poichè gli altri due assentirono col capo , così fecero , andando innanzi il Succiarape ad aprire la porta, che metteva in una stanza a pian terreno, dove non c'era che un vecchio tavolo e tre e quattro sedie. Quella camera si chiamava dal nome della pia fondatrice del monastero del Cantello (1), perché quivi si conservava un di lei ritratto al naturale, opera non spregevole di Jacopo de Scipioni, pennello montanaro (3), del quale era pure l'immagine della Madonna che prega, sotto cui il Parlaschino aveva scritto i seguenti versi:

« Qui vive ed ora in atto humile e pio vergine Santa e s'udiriano gli accenti! Ma non parla con noi, parla con Dio (3) ».

Sulla tavola, accomodata per altare vicino alla Madonna, deposero il cadavere, e mentre Grattapancia. e Succiarape studiavano il miglior molo di recare la notizia al padrone, il Mangiamoccoli scappava via, e tornava subito con due candele, che accendeva davanti la Madre del , Signore. E proprio giusto il proverbio, che

« Non v'è al mondo un si tristo ladrone Che non abbia la sua divozione ».

Intanto che costui biascica De profundis pel morto, e gli altri due si grattan in capo per trovar un motivo di presentarsi in sala da pranzo del vivo, noi diremo brevemente della valle, dove abbiamo condotti i nostri lettori. Giace la Valsassina fra una doppia catena di altissime montagne, che Alpi (1), od emanazioni delle Alpi si possono considerare, e sono quelle che sorgono ad oriente del Lario, e le altre che segnano i confini delle provincie di Bergamo e di Sondrio con la cornense, di -cui la Valsassina fa parte per la giurisdizione civile , mentre per l'ecclesiastica appartiene alla diocesi di Milano.


(1) Nata in Barsio, ove ancora si addita la sua casa, Guarisca Arrigoni non si abbandonò a' vani dilettamenti del suo secolo, cui la domestica agiatezza e la beltà delle forme porgevate largo campo e incentivo, ma coll'animo e colle azioni onninarnente si volse alla vita spirituale; e mentre i suoi consanguinei, seguendo il partito ghibellino, bruttavansi nel sangue dell'opposta fazione, essa fondava (1408) sopra un delizioso colle denominato Cantello presso Cremeno una chiesa dedicata a Sant'Antonio, ed uno spedale poi viaggiatori'e pellegrini, pei miserabili si dell'uno che dell'altro partito. Vissuta santamente, santamente morì. I1 suo corpo giace nella chiesa di S. Bernardino a Porta Magenta in Milano, ed é tenuto in venerazione, onorandone il nome col titolo di beata. (2) Nativo di Averara; vago coloritore e buon pratico, ma un po' troppo servile imitatore delle opere altrui, del quale restano alcuni dipinti nelle chiese di Sant'Alessandro e delle Grazie in Bergamo. (3) Questi versi sono originali inediti di Paolo Emilio Parlaschino, tolti da un manoscritto del medesimo, rinvenuto dall'egregio consigliere A. L. Perpenti. (4) Plinio: Hist. Nat., lib. III, cap. VI: Appare divisa in quattro vallate, cioè in Valsàssina propriamente detta o valle di Pioverna, di Varrone, Casarga, e di Perledo(1). La valle di Pioverna si estende da levante a ponente per circa miglia dieciotto. Il suo ingresso dalla parte orientale è una spaccatura di montagne, alta , lunga e stretta in modo che quasi la rinserra e chiude. Tristo e melanconico luogo, ove solo regna il silenzio della natura, ed ove la mestizia, la sorpresa, il terrore ti assalgono ad un tempo! Apresi quindi la valle a guisa di anfiteatro, e di nuovo si rinserra per allargarsi e rinserrarsi ancora. La Pioverna, uno dei principali fiumi della provincia di Como, discesa dal monte Corneto, serpeggia, a guisa d'immane biscia, per quanto lunga la valle, finchè fra le due rocce di diversa natura, ove uno strato di men ritroso masso riempiva i loro intervalli, si è aperto in profondissimi valloni a viva forza un letto, le cui alpestri e ripide sponde vietano, quasi del continuo, il potervisi valicare. Accresciuta dai torrenti Valle di Cremeno, Bobbia, Aquaduro, Troggia e Fregerola, per entro i cupi e precipiti burroni aggirandosi le acque, parte sfuggono per sotterranei anfratti al Lario, e parte, dove le rupi si restringono e per poco combaciano, vanno a formare il celebre Orrido di Bellano. Di poco meno estesa della valle di Pioverna è quella di Varrone, che le corre parallela, ma tortuosa, profonda e senza pianura. Il fiume Varrone, che le dà il nome, ha origine nel monte omonimo nel territorio d'Introbbio, e, precipitando di balza in balza, rompesi fra scogli e fra massi, e mugghia al di sotto di' paeselli disseminati sulle due alpestri chine. I torrenti di Valimarcia, Legnasca e altri minori gli corrono tributari, e così precipita a mescersi, tutto bianco di spuma, alle onde del Lario, presso Dervio, ove , lavoro dei secoli, lasciò il monumento d'una estesa pianura, oggidì in coltura di gelsi e viti, formata co' suoi sassi e le sue ghiaie. Compresa fra le suddette è la valle Casarga o Margnica , che vogliasi con altro nome chiamare, dalle sue terre principali di Casargo e Margno. Il suo letto però è alquanto più alto di quello delle valli di Pioverna e di Varrone , dolcemente incurvato a guisa di conca, e disposto a prati ed a campi di grano saraceno. Il Maladiga, con breve corso che va a mettere nella Pioverna, la irriga. La valle di Perledo, infine, che viene pur detta Monte di Varenna, piuttosto riviera che valle andrebbe chiamata; poìchè, situata in aprico


(1) La valsassina geografica è diversa dalla politica. Questa non comprende che la calli di Pioverna, di Perledo e Casarga, e i due paesi di Premana e Pagnona nella valle di Varrone. La geografica è tutto quel territorio circoscritto dalle creste di quei monti, i chili versanti sono nelle suddette valli. Con ciò anche Sellano, Tremenico, Sueglio, Vestreno, Introzzo e Dervio, restano compresi nella Valsassina, come da alcuni storici del medio evo fu asserito. declivio, domina, assai lungo tratto, il Lario, e le sue scene più variate e pittoresche prospetta. Oh, salve adunque la bella Valsàssina , dove v' ho condotti, o lettori, col mio racconto. Ora saliamo col Mangiamoccoli lo scalone, che mette alla sala, dove è imbandita la mensa, a cui, oltre la consueta brigata d'amici, sono convitati, quel giorno, don Viviano Gussalli , curato di Taceno , e don Paolo Emilio Parlaschino, letterato, per quei tempi, distinto. Da sull'uscio si sentiva dentro un gran frastuono di forchette, di coltelli, di bicchieri, di piatti, e sopratutto di voci discordi, che cercavano a vicenda soverchiarsi. Al bravo venne in quel punto un'inspirazione di ritirarsi, e stava per farlo, quando un servitore nell'aprire l'uscio lo scoperse alla vista del padrone, che stava seduto proprio in faccia. «Chi t'ha insegnato », urlò il signore, « a star ad origliare alla porta del padrone? » «Io ero venuto per... » «Chi t'ha chiamato? Cosi si eseguiscono i miei ordini? » e dalla collera tremava al signore la voce. Il bravo si sentì rimpicciolire il cuore a quella sfuriata, e s'augurò d'essere le mille miglia lontano, e maledisse i camerati che avevan imbarcato lui a far la triste ambasciata. "Dunque? gridò la stessa voce minacciosa. Accortosi che il temporale non dava alcun segno di calmarsi, pensò bene di infilar l'uscio, e andarsene questa volta però con una bestemmia anche lui, che, sul libro del diavolo, valse dieci di quelle de' suoi stessi camerati. La sala , vasta quale oggidì non costuman più fabbricarne nelle case, foggiate più ad alveari che ad abitazioni di cristiani, appariva décorata di vecchie tele, dove i pittori della valle s'erano sbizzarriti col loro ingegno a dipingere fatti illustri della famiglia Arrigoni ; cenci sporchi e polverosi, li chiamava il padrone, che si conservavano per non sapere dove buttarli a figurar peggio. Ma era cotesta una umiltà che voleva ostentare, mentre n qualcuno gli fosse capitato per la prima volta avrebbe avuta la poco piacevole fortuna di sentirsi intronate le orecchie delle gesta, più o meno antiche e tutte memorande, de'antenati, dipinti in quei due giganteschi quadri, che tenevano luogo di insulsi arazzi. E si avrebbe detto come un Pietro e Donato Arrigoni, padre e figlio, fossero stati il primo ambasciatore di Francesco Gonzaga, marchese di Mantova a Luigi XII re di Francia; il secondo prefetto delle reali milizie, ambedue ad elevate cariche saliti in quella Corte, ed insigniti del titolo di conti; titolo, avrebbe aggiunto, a cui egli poco teneva benchè discendente in linea retta. Tra quel gruppo di visi arcigni v'avrebbe distinto Simone Arrigoni, che fu segretario del duca Filippo Maria Visconti, oratore al pontefice Eugenio IV, collaterale generale di Francesco I Sforza e della duchessa Bianca Maria; come pure suo figlio Emilio , capitano nella valle di Lugano, e successogli nella carica di collaterale. Ma delle tele istoriche della sala tre sole valevano per pregio artistico, e perchè forse più diligentemente conservate , ed erano due ritratti in rozze cornici , queste come la pittura di mano valsassinese. Quelle tre faccie, ch'avevan del tipo romano, si guardavano in cagnesco, benché fossero parenti, e stavano l'una appesa ad una parete e le altre due di contro. Sulla stessa tela d'un di que' ritratti, sotto la figura, era scritto il nome dell'eroe. « M. Leone Arrigoni, il quale fu oratore da Clemente VII papa, per patria Fiorentino, de Medici, per il signor Gioan Jacomo detto il Medichino, Marchese di Melegnano , et allora di Masso et Lecco Signore Adoperò il Marchese il suddetto signor Leone in tutte queste sue legationi dal sommo Pontefice, dall'IM. Signori Venetiani, dalli Agenti dell'Imperatore et dal duca Sforza. Fu il sig. Leone homo civile, modesto, catolico, et liberale; passò all'altra miglior vita l'anno 1540 con mestitia di tutti questi contorni (1) » Sotto l'altra figura era scritto cosi: « M. Damiano Arrigoni, prodigio della nostra patria di scienza et virtù, leggendo la letion greca pubblicamente nella città di Milano, essendo poi delle sette arti liberali peritissimo (2) ». Il pittore, o chi l'ha pagato, sotto il terzo ritratto aveva pensato bene di scrivere il nome e le virtù in latino, forse per paura che i nipoti le imitassero... « Petrus Pauolus Arrigonus, Presides Senatus, uno omnium consensu Pater Patriae. Anno MDLXV ». A capo della tavola , riccamente imbandita , sedeva il padrone di casa, don Gian Ambrogio, l'erede del nome e della; superbia degli Arrigoni di Cremeno. Così il codice della gerarchia di famiglia d'allora. L'albagia aveva partorito quest'altro male, che, pel lustro delle famiglie, si volle che un solo ereditasse intiero il patrimonio. Felice dunque chi nasceva il primo! egli il signore, egli l'accarezzato, egli l'erede: gli altri dovevano cercare un rifugio ne' conventi e nella milizia, o darsi ad un nobile far nulla, godendo alla tavola del fratello primogenito il piatto cui avevano diritto, ed ingannando il resto de' giorni, lunghissimi perchè disoccupati, col donneare, cioè con quel cicisbeismo, che sotto la vita politica, toglieva anche la domestica che n'è il ristoro; o col fare il devoto, o se, tanto poteano, darsi compagni di


(1) Paride Cattaneo Torriani: cronaca dei Torriani e descrizione della Valsassina: manoscritto.

(2) Paride Cattaneo, ecc.: op. cit. soverchieria e libertinaggio a qualche prepotente, per uscir dalla classe degli oppressi, ed entrare in quella degli oppressori (1). Già vedemmo quel che a don Flaminio toccasse. Ma ho detto felice il primogenito? fallai: che quand'anche potesse dirsi felice un uomo diviso da' suoi fratelli o alzato sopra loro a modo di non poterseli aver amici, un uomo che doveva studiare a render infelici altri, come avevano fatto i suoi padri per lasciar tui grande e ricco, egli riceveva una immensa eredità, ma tutta legata in fedecommessi, onde non poter godere che dell'uso. Un errore giovanile, un eccessivo tributo, una straordinaria avventura, una disgrazia lo portava a spendere di là dell'annuo ritratto? non poteva coll'alienare una porzione rimettere l'altra e pareggiar la diffalta: non gli restava che vendere le scorte, i buoi, gli arnesi rurali ; con qual danno dell'agricoltura pensate! Ma a don Gian Ambrogio la fortuna non fu un minuto solo avversa, e poteva riposare tranquillo fra due guanciali, che le selve e i prati non gli lasciavano mancare un reddito da tirare innanzi con decoro. Anzi era ricco cosi da rivaleggiare colle più cospicue famiglie della Valsàssina, tra le quali per orgoglio e censo i Manzoni di Barsio. Era in quel punto del pranzo sorta una viva disputa tra il padrone di casa e il curato di Taceno, un'anima candida di prete che voleva bene alla sua valle quanto al crocifisso dell'altare; e questa disputa era occasionata dalla pretesa dell'Arrigoni, ghibellino fin nella midolla, che i Visconti fossero stati più buoni e più umani nel governo dei Torriani loro emuli. Il Parlaschino, come professore e rettore ch'era allora del collegio Calchi-Taegio a Milano, voleva che accettassero il suo arbitrato, e Dio sa che sorta di sentenza da Salomone sarebbe scaturita da quel suo cervello balzano. «I Torriani », urlava il ghibellino, non pensando che parlava con un prete, « furono un branco di pecorari, buoni soltanto a baciare i piedi dei papi ». «Meglio pecore, che tigri che leccano il sangue, come i vostri Visconti », gridava il curato. «E traditori », aggiungeva il Parlaschino. «I Visconti han tradito nessuno » ; li difendeva Gian Ambrogio. «Come! Matteo volete sostener che non ha tradito? Il saccheggio che durò sei giorni, le case dei Torriani invase , depredate , arse ed appianate sono o non sono un tradimento, una barbarie, un assassinio? » «In guerra non si regalano confetti, come a nozze » «Ma i galantuomini non si voltano neppure colle armi dalla parte dei Tedeschi contro la propria patria ».

(1) C. CANTÙ: op cit. «Dove mi andate adesso a trovar fuori la patria in una scaramuccia di quella fatta, dove i Torriani andarono col capo rotto? » «Deciderò io », si metteva di mezzo, colla sua autorità di professore, il Parlaschino; « a strepitare non si conchiude nulla, e la questione è uscita dai termini della buona rettorica. Dunque io credo che si debba investigare quale delle due fazioni deí Torriani e dei Visconti meglio intendeva, e più sinceramente, al bene d'Italia. Ed io domando: quale di essa rappresentava la causa più giusta? quale mirava a prosperar la nazione di più savi ordini, di governi più stabili e riposati? » «Io sto al giudizio di nessuno », protestava, pel primo, il padrone di casa. «Ciò che vuol significare che conoscete il torto dei Visconti a paragone storico coi Torriani ». E lì, di seguito, botta e risposta, tra le quali suonava distinta la entenza del professore, che dividiamo noi pure. «I Torriani ed i Visconti furono quelle fra le grandi famiglie di Lombardia, in cui meglio, per così dire , si verificarono l'indole e gli interessi de' Guelfi e de' Ghibellini. «Stette contro i primi la fortuna, arrise la vittoria ai secondi; e perciò non è da far meraviglie se questi tengano nella storia un posto più distinto di quelli ; distinto dico, non onorato, perocchè la vittoria e la grandezza ponno ben render famosi degli uomini, onestarne le opere e i fini non ponno. Chi però a giudicare fra i Torriani e i Visconti facesse fondamento sui risultati della sovraccennata ricerca, ho per fermo che non istarebbe in fra i due, e tosto proferirebbe una sentenza più favorevole a' vinti che a' vincitori ». «Ohibò! ohibò! » protestava il padrone di casa. « Voi, caro e sapiente professore, avete dimenticato il Veh victis! del capitano Brenno ». Ma il Parlaschino, come se sentenziasse dalla cattedra: "E di veto" , prosegui, « o sia che guardisi al come arrivarono i Torriani alla Signória e al modo con che l'esercitarono, o sia che pongasi mente alla lotta da essi coi loro emuli sostenuta e alle conseguenze che tenner dietro alla loro origine , emerge evidentemente quanto la lor causa fosse più giusta di quella dei Visconti, e come ad essa fosser più direttamente congiunte le migliori sorti della patria ». «Chiacchiere, chiacchiere ». «E fatti storici », gli troncò in bocca le parole. « Pagano Della Torre accoglie amicamente i Milanesi che fuggono dal campo di Cortenova, ove il loro coraggio non bastò a fronte della possanza del secondo Federico; li ricovera sulle sue terre di Valsàssina; largheggia loro ogni maniera di soccorsi. I popoli, se le passioni non li travolgono, sentono la forza del beneficio e sanno essere riconoscenti; il perché Pagano viene dai Milanesi salutato padre e benefattore, e sollevato alla cima del potere nella loro città divisa, che, mercé la prudenza di lui, si ricompose a concordia. Pagano non invanisce dell'acquistato potere, che dai liberi voti dei Milanesi viene poi trasmesso ai suoi discendenti, fregiati com'egli dell'onorevole titolo di Capitani e difensori del popolo. Potevano i Torriani salire al potere per una via più onorata? E ben degni in progresso si mostrarono, che il popolo ponesse in loro tanta fiducia, poiché sempre, come i tempi volevano , ne promossero i vantaggi a quel modo che essi li potevano comprendere ed aiutare ». « Tutti santi da iscriverli nel leggendario i vostri Torriani!» esclamò, beffando, il ghibellino. «Fra i vari individui di questa famiglia che tennero in Milano la Signoria, solo di Napoleone si narra che trascorresse all'arbitrio ed alla tirannia; gli altri usarono temperatamente dell'autorità, e nell'atto stesso che sempre si mostrarono fedeli alla parte loro, mai non soverchiarono la misura del giusto, neppur colla parte contraria ». «Un tiranno, Napoleone, adesso ci siete cascato a confessarlo». «Uno sciagurato piuttosto, che espiò ben duramente le colpe sue; ma l'esempio del fine a cui esse l'avevan condotto non fruttò ai Visconti, i quali condannato l'avevano a quella terribil morte che tutti sanno. L'arcivescovo Ottone, per ferocia abbominevole come principe , più abbominevole come prete, venuto a porsi co' suoi nel luogo degli espulsi Torriani, riuscì a far rimpiangere , non che il consueto temperato dominio di questi, la stessa superba tirannia dello spento Napoleone. Il crudo e sospettoso governo dell'arcivescovo, le ambiziose mirò di Matteo Visconti, la spensierata baldanza di suo figlio Galeazzo cospirarono al risorgimento dei Torriani e al loro ritorno nella patria » « E chi gli impediva di venire a Milano? » «L'esilio, che li tenne lontani venticinque anni, fra infiniti patimenti ed oltraggi. Tuttavolta non si legge che essi siansi mai abbandonati a sanguinarie vendette, come altri avrebbero fatto. Anzi, cinque anni vissero come privati cittadini di una libera patria, poi ottennero le civili magistrature, ma non ne abusarono a danno del comune, e nemmanco si valsero dell'autorità, che per esse possedevano larga ed intiera per arrecare molestia, o tendere insidie ai loro espulsi rivali ». «Bugie ! » urlava il padrone di casa. «Matteo Visconti non viveva forse tranquillo sulle sponde dell'Adige e del lago di Garda; e Guido Della Torre non vel lasciava in pace, come se testino fosse della gabbia del castello Baradello, nella quale era stato rinchiuso, per diciotto mesi, suo zio Napoleone? Dopo tutto questo, la bilancia della giustizia potrebbe rimaner sospesa fra i Torriani e i Visconti? » Rimasto un poco a veder che effetto facevano le sue parole, sull'animo, dell'impassibile capo di tavola, e visto d'aver buttato ranno e sapone, continuò la sua arringa di C!cero pro domo Turriana. «Ma quanto non pure la giustizia politica, sibbene la lealtà stessa, il coraggio, la costanza stessero piuttosto dalla parte dei Torriani che dei loro fortunati rivali, lo chiarirono i fatti che accompagnarono l'ultima battaglia di queste due potenti fazioni. Matteo Visconti non aspettò già, come egli aveva ipocritamente fatto rispondere a Guido Della Torre, non aspettò per ritornare alla patria, che i peccati dei Torriani fossero maggiori de' suoi; ma fe' briga per ritornarvi coll'aiuto di an gran potente, vogliam dire d'Arrigo di Lucemburgo ». «Il pensiero del cantore della Divina Commedia », colse l'altro a volo l'occasione di combattere il guelfo coi versi del fiero poeta ghibellino

« Ahi gente, che dovresti esser divota, E lasciar seder Cesare nella sella, Se bene intendi ciò che Dio ti nota!

« Guarda com'esta fiera è fatta fella, Per non esser corretta dagli sproni, Poi che ponesti mano alla predella ».

«. Messer Alighieri intendeva dell'Alberto tedesco e non dell'Arrigo che il Visconti mandò a invitare, perchè inforcasse i suoi arcioni. Ed ora, con Dante, ripeto anch'io:

« Giusto giudicio dallo stelle caggia ».

«L'imperatore, mosso dai conforti di Francesco da Garbagnate, amicissimo del Visconti, venne in Italia, e Matteo tosto accorse a fargli ossequio, e intanto che Guido Della Torre avvisava a' modi di serbare intatto il decoro e i privilegi della patria, egli ed i suoi partigiani lo caricarono di velenose accuse presso il Cesare di Germania. Con lui entrò in Milano, nè punto adontossi che venisse fatto oltraggio alla patria bandiera, e sempre si mostrò inchinevole ad ogni cenno di Arrigo » «E dov'è il tradimento ? » «Eccolo, e vedete se fu da Caino con bacio di Giuda. Come amico porse la destra a Guido, perché l'imperatore lo volle, ma, serbando l'odio nell'animo, non dubitò di tradirlo appena gliene venne il destro. Con esso lui congiurò a' danni di Arrigo sotto colore di mantenere le franchigie della patria, ed, il di del pericolo, lo abbandonò in balia dell'avversa fortuna; che anzi consentì che il suo figliuolo Galeazzo, non meno di lui cupo e più avventato, volgesse contro i Torriani quell'armi che entrambi avevano giurato brandire per la causa comune ». " Stratagemma... " «Tradimento. I Torriani, gridati ribelli e nemici dell'impero, videro le loro case rovinate, ed espulsi dalla. patria andarono miseramente raminghi. Matteo, venuto in maggior grazia, fu creato Vicario imperiale di tutta Lombardia, e gettò così le fondamenta di un principato che si rese poscia ereditario nella sua famiglia. Per tal guisa, colla rovina dei Torriani si spensero tutti gli antichi ordini di questa nostra patria, e si venne innalzando l'edificio della grandezza di una sola famiglia, che tutto invase per volger tutto soltanto al suo vantaggio » . Qui fece punto fermo il professore, e al padrone di casa parendo ormai d'averne abbastanza di tutta quella orazione improvvisatagli dal suo illustre commensale, gli disse a modo di complimento: «Dal collegio dei notai della Valsassina non ne escono tutti gli anni di oratori pari vostri, e vi dovete aver la gola arida, come il pavimento d'un forno ». «Alla salute vostra adunque », esclamò il professore, versando nel bicchiere, e levandolo a portata delle labbra. "Viva la buona amicizia!" rispose il capo di tavola. «Evviva la Valsassina e Milano!» aggiunse il curato di Taceno , buon patriota quant'altri mai. Prima però di vuotare il suo bicchiere, volle il Parlaschino dar, come lui diceva, un pizzicotto alla Musa, e improvvisò: « Sitis atrox peracriter Torquebat me non aliter Quam dica fames Tantalum: Est vixisse miraculnm ». E giù d'un fiato il vino, dopo di che disse : «Anche l'acqua è buona, quando toccan malattie maligne; e per prova che la Musa, in quel momento, gli era favorevole declamò : « Salvete, sancti latices Gytannici, qui vindices Sitis fuistis tempore, Quo me privabat robore. Vos ut Crystallunz lucidi, Semper aestate frigidi Refrigeratis omnia Siti correpta labia Vos per quietem coelitus Siti commolus halitus Mihi sedatis, rivuli Deiparae dulciduli. lucundi sinus montium, Haustus felices omnium, Qui vestram opem sentiunt, Tantisque donis gestiunt ».

E avendogli, a questo punto, l'amico suo don Viviano versato altro vino nel bicchiere, lo vuotò, proseguendo nell'ode sacra alle acque di Gitana (1).


(1) Forse le acque cantate dal Parlaschino, che due volte gli avevano ridonata la salute, sono quelle medesime, per le quali fu fabbricato lo Stabilimento IdropaticO di Regoledo, sul lago di Como. « Reatus Pater Larius Virtulis vestrae conscius Vos in se totus excipit Nihilque vestrum despicit.

Nos veneramur lectulum In quo cubatis: pabulum Circa vos colunt humiles: Salvete, sancii latices»

Com'è da credersi il padrone di casa e la sua solita brigata di parassiti che aveva tutto l'anno a tavola, e più di tutti don Viviano Gussalli, lodarono il cantore dell'acqua, il quale non si lasciava intanto pregare a tracannare un terzo bicchiere di vino ». Era il settimo da che s'era seduto a mensa, e non doveva esser l'ultimo, benchè il curato lo avvisasse, a voce bassa, di non alzar troppo i gomiti. « A te che sei il poeta dei tordi » , gli gridò il Parlaschino, « a te adesso lodare il vino ». «Come! poeta anche don Viviano? » disse l'Arrigoni, con la premura d'uno che s'interessa delle buone fortune del prossimo. «Fo versi », rispose il prete tutto umile, « versi che fanno dormire gli amici, e sbadigliare le sante Muse ». «Don Gian Ambrogio », gridò il professore, « non gli credete, che è un poeta gastronomico, e ha messo in un'ottava i tordi, come la mia serva li mette allo spiedo. Vedete se dico una bugia ». E tratto di tasca un vecchio portafoglio, da dove scappavan fuori le carte da tutte le parti, ne scelse una, tenuta in miglior conto delle altre, e la spiegò davanti gli occhi del padrone di casa, dicendo : «di corpo del reato è qui ». L'Arrigoni, in mezzo il silenzio e l'attenzione della brigata, lesse:

« A .P. E. PARLASCHINO VIVIANO GUSSALLO « Hor che costì in Oggionno vi trovate, Charo mio Parlaschino, a tutte l'hore, La grande affetion, che mi portate, Non vi lasciate (Ahimè!) partir dal core; Anzi se un qualche buon Tordo mangiate, Dite, vorrei che questo per mio amore Prete Vivian Gussallo innanzi havesse Cosi ben cucinato e sel godesse (1) ».

«Oh! ma per un tordo », esclamò il curato di Taceno, « me ne ha fatto generosamente l'offerta don Paolo Emilio d'un piatto, conditi anch'essi con un'ottava, dove dice:

(1) Versi originali inediti di Viviano Gussalli. I FAMOSI UNTORI DELLA PESTE

« A VIVIANO GUSSALLO P. E. PARLASCHINO

« Charo Gussallo mio, se disiate Tordi meco mangiar con buon sapore Spedite di venir, e non tardate, Che qui vi sto aspettando a tutte l'hore; Scolpito in cor mi sete, e dubitate, Scemar si possa il mio verace amore I Vorrei, Viviano, a fe', che si potesse Farvi padron di Roma, e che valesse (1) ».

A troncare le gioconde rime entrava un servitore, con una lettera sopra un bacile d'argento; e fatto arco della schiena innanzi il padrone gliela porse. Con gravità don Gian Ambrogio la prese da sul bacile, la spiegò adagio, e si accinse a leggerla, levandola con arabe le mani davanti agli occhi. Ma, Dio mio! subito che viso arcigno, e che testa arruffata gli vennero appena v'ebbe posato sopra gli sguardi. Il servitore che, dopo averlo piegato ad arco, raddrizzava il dorso per andarsene, a quel caso straordinario gridò : «Beata "Vergine dei sette dolori! illustrissimo, si sente male? Casca per sant'Antonio benedetto ! vuol che io lo sorregga ? » «Mi reggo da me... » balbutiva, vacillando, l'Arrigoni ». «No, che non si regge... casca... Muto! soccorso ! » Benché si sentisse davvero come un velo sopra gli occhi e un nodo di passione al cuore, pure ebbe tanto impero sopra di sè stesso da accennare col dito al servitore, che nol toccasse, e si lasciò cadere tra le braccia del Parlaschino. Il curato di Taceno, alzati gli occhi al cielo, pregollo che non fosse un accidente di gocciola, come allora chiamavansi i colpi apopletici. La lettera fatale era sempre lì sulla tavola, spiegata, sicché il Parlachino potè gettarvi sopra gli sguardi, e leggervi la tremenda sentenza, che minacciava tornar fatale al padrone di casa, come le tre famose parole che il famoso dito di Dio scrisse sulle pareti della sala dove banchettava quell'ubbriacone di re Baldassare. Ma qui le parole invece di tre erano quattro, e invece d'essere scritte in ebraico o caldeo erano scritte in latino, sopra una croce rossa disegnata sulla carta. Mors ferro nostra mors! Non erano mica un bel complimento per piatto di frutta d'un banchetto. Fatto uno sforzo sopra sè stesso, Gian Ambrogio si svincolò dalle braccia dell'amico, e si levò in piedi, pallido, contraffatto, col viso proprio

(1) Versi originali inediti di P. E. Pariaschino. Balbiani. - I FAMOSI UNTORI ecc. ... gli eroi, che a Legnano e Cassano vinsero Federico ed Ezzelino, ecc. Pag. 55.

(vedi immagine in originale) di Lazzaro, sbucato dal lenzuolo funerario, quando Cristo gli comandò: Vien fuori! Girò gli occhi intorno come un incantato, e visto il servitore che s'allontanava, gli urlò dietro. «Chi t'ha consegnata cotesta lettera d'inferno ? » «Ecco io venivo », incominciò il servitore, tremando di dir qualche parola che disgustasse il padrone, « io venivo, come dico, fuor delle cantine della casa, quando una figura nera d'uomo mi ha sporto da fuori la inferriata della finestra, che dà sulla strada, la lettera, e m'ha detto: - Recala al tuo padrone. E ha aggiunto... » E siccome qui gli si imbrogliava la lingua a proseguire, e si faceva or rosso or smorto in faccia, come lo assalisse la febbre terzana, il padrone, minacciandogli il pugno chiuso : «Un cancro ti venga in gola, se non parli subito, o maledetto». «Oh, sant'Antonio benedetto! » umile, umile supplicò il servitore. «L'illustrissimo sa la mia profonda, profondissima devozione, il mio attaccamento alla casa, il mio... » «Inferno che t'inghiotta ! » gli gridò furibondo Gian Ambrogio. « Che t'ha detto colui che ti diè la lettera ? parla; fuori, per Dio ! l'altre parole, che t'ha aggiunto ». "M'ha aggiunto", si fece animo il malcapitato a dir la verità, «che una le paga tutte, e poi è sparito, come fosse stato un'ombra... » «Una le paga tutte! » ripetè l'Arrigoni, accigliandosi , e riflettendo. « E tu l'hai conosciuto ? » «No: ma credo fosse l'assassino di don Silvio, che il Signore abbia in gloria ». «Assassino di don Silvio ! » «Don Silvio assassinato ! » E tutti i commensali furono in iscompiglio. «Giuro a Dio, guai a chi m'ha ucciso il fratello ! » e una spuma sanguigna, colle terribili parole, gorgogliava dalle labbra di Gian Ambrogio. «La vendetta non è di cavalier cristiano ! » suggeriva il curato. «Oh, ma il vangelo è fatto per chi ha latte, invece di sangue, nelle vene », protesta va il Parlaschino, posando fieramente la destra sull'impugnatura della sua spada. «A cui preme l'onore di casa Arrigoni mi segua! » ruggì, feroce nell'ira, Gian Ambrogio. Ma nell'atto che si toglieva dalla cintura un pugnale per correre a piantarlo in cuore all'uccisore di suo fratello, se pur ne avesse saputo il nome o saputo raggiungerlo, lo prese un male improvviso, e cadde a rifascio sulla mensa, rovesciando per terra piatti e bottiglie. «Chi ce lo salva adesso ? » gridò il Parlaschino. «La scienza di Galeno », rispose una voce, e comparve, quasi nel punto stesso, un cavaliere sull'uscio. CAPITOLO IV

IL POETA MEDICO DEL LAGO

La tua loquela ti fa manifesto Di quella nobil patria natio... DANTE:, inferno, c. X.

Era Sigismondo Boldoni di Bellano letterato, poeta, filosofo e, per fortuna di Gian Ambrogio Arrigoni, anche medico. Il quale; toccatogli subito il polso, gridò: « A me una catinella: quest'uomo abbisogna d'una brava cacciata di sangue, o muore soffocato ». E dunque la Beata Vergine che v'ha mandato! » esclamò il curato di Taceno. « Tu sei proprio un miracolo vivo di dottrina! » disse il Parla-sellino, che gli era confidente da molti anni. Il servitore corse a fornire il medico dell'occorrente per un salasso, e subito dalla vena aperta spicciò una zampilla di sangue, che si vedeva quanto fosse infiammato dall'ira. « Ve'come si rianima il poveretto! » notò il prete ad uno de'muti commensali, che, da valenti e puliti cavalieri del dente, seguitavano a sparecchiare la mensa del bello e del buono. " Oh, il sangue è una gran cosa!" " Lo ha versato anche nostro Signore per noi!... » si credette in dovere di rispondere, colla bocca piena, il parassita, mentre si versava da bere. I «Adesso mi par fuori di pericolo, non è vero? » domandò il Parlaschino al medico, vedendo che l'infermo ansava a larghi polmoni. «Due uomini forti che lo portino, come un bambino, nel suo letto », ordino l'uomo di scienza. E il servitore, che chiameremo Domenico, volò d'abbasso a far salire il Mezzabraca e il Succiarape, perchè gli altri due non si mossero d'un dito dalla camera mortuaria, dove avevano recato dalla cucina una paniera col desinare. «adagiò tu sollevagli la testa tu abbraccialo a mezza vita.... e tu tienilo pei piedi: ma adagio, nel nome santo di Dio! cosi va bene ». Insegnava, suggeriva e ordinava nello stesso tempo il medico il trasporto del suo ammalato. E perchè le cose procedessero secondo le buone regole della sua nobile arte, Sigismondo Boldoni, in aria magistrale, si mise in coda all'ambulanza; nè venne via di camera del padrone della casa, finché non lo vide bene adagiato sul letto e migliorato nel polso e nel respiro; nè mancò di lasciarvi a sorvegliarlo, con ordine, in caso di bisogno, di chiamarlo subito, il servitore Domenico, come il più vecchio e quel che gli parve più affezionato al padrone. Tornato nella sala, dove, santa Lucia conservi loro la vista! continuavano allegramente il loro pranzo quei tali cavalieri che ho detto, vi trovò il Parlaschino colle braccia aperte a riceverlo, e festeggiarlo come il suo più caro amico. «Tu sei sempre quel mio buon amico », disse il Boldoni, restituendogli l'abbraccio. «E perchè non dovrò esserlo? Amico di Giuseppe Ripamonti, di Ericio Puteano, di Scipione Arato, del Tibaldeo, dei fratelli Faggi, di Viviano Gussalli, che qui vedi, perchè non vorrò esserlo di te, a cui io ho fatto da profeta ne' miei versi? » «Oh! mel ricordo, generoso amico », disse il Boldoni commosso; a io languivo in carcere, gettatovi per un disgraziato duello, quando, più caro del raggio del sole, mi giunse l'armonia e il conforto del tuo sonetto ». «Oh, divina la musa che sgorga dal cuore il rigagnolo de' suoi versi! » esclamò don Viviano Gussalli. «Tu mi predicevi fama grande, a cui sarei salito fuor dal carcere... » « E non l'hai tu forse raggiunta, o Sigismondo, nelle filosofiche e mediche discipline? » "Sì, ma dopo un esilio che mi ha sbranato il cuore, che mi ha fatto provare ad ogni Ave Maria della sera l'agonia dell'anima, descritta da Dante ..... » « E la cagione dello esilio è egli lecito saperla, o è segreto che patisce rivelarsi anche l'amicizia?" «Tutta Milano seppe la condanna all'esiglio, ma pochi conobbero la cagione che mi fece piombar sul capo una grida del governatore » . Accortosi, da un urto datogli nel gomito dal Parlaschino, che vi erano orecchie di più che non convenissero ad una confidenza, si tirò nel vano d'una finestra, e qui i tre si strinsero in un segreto colloquio. «Sapete ch'io sono nativo di Bellano, e che la mia povera madre era una valsassinese, di Primaluna, e proprio della famiglia Cattaneo. Orbene, ella a Milano aveva un fratello, e a dodici anni, arrobustito di corpo per l'aria pura de' monti e del lago, mi vi mandava per farmi educare e crescere, come voleva il decoro della famiglia. Con uno strappo al cuore lasciai la patria, dov'io credeva dovesse finire per me il mondo, e, traverso un velo di lagrime, vidi l'interminabile uniforme pianura, che stanca gli occhi e agghiaccia l'anima ». « Anco a me, quando fui a Milano la prima volta », notò il prete,« mi pareva che in mezzo le strade strette, tortuose, mi dovesse mancare il fiato, e, nel guardare in su per cercare il cielo, quelle grondaie mi pesavano proprio sul cuore, il quale mi si gonfiava come per voglia di piangere ». «Dunque eccomi in Milano, in questa antica capitale del ducato; ma quanto mutata da quella d'una volta! » « Non lo ha forse scritto il nostro Giuseppe Ripamonti e stampato? » notò il Parlaschino. « Quella città che già erasi pareggiata a Roma, ora aveva bevuto l'obblio di ogni arte buona, campo che inselvatichiva. Quasi tra sè facessero zuffa le lettere e la santità della religione, erasi cessato di parlare; in buon latino, senza arte d'umanità, uno squallido gergo offuscava le scienze , solo intente al vil guadagno ed all'ambizione. Cittadini e nobili non più coltivavano le pulite lettere. Alle leggi e al diritto non davasi mano solo per conseguire magistrati, ricchezze, comandi: ed i volumi de' giureconsulti, siccome colle molteplici leggi turbarono ed impacciarono il genere umano, così sbandirono il buon sapore della latinità; nelle epistole e nelle magnifiche risposte nulla tenendo di decoroso e d'antico (1) ». «Peggio i medici » ; e, dirizzando la voce e gli occhi al Boldoni : «Tu, Sigismondo, tu il devi sapere, tu degno e sapiente discepolo di Esculapio, a cui, come Socrate, morendo, un gallo, tu, vivendo, un libro hai dedicato (2) ». «Non vi erano trattenimenti od accademie da occupar pubblicamente tanto popolo e clero: licei della gioventù civettina erano le piazze, le pancaccie, le botteghe, inutili giuochi, cavalcate, altri alimenti della pigrizia. Così tra la quiete di que' tempi avvezzandosi a delicature e comodi, l'ozio e l'inerzia debellavano chi debellò eserciti potentissimi(3)». «Anzi peggio », notò giustamente don Viviano Gussalli : « quel valore che prima, ben diretto, aveva formato gli eroi, che a Legnano

(1) RIPAMONTI, dec.VI, lib. 2, capo I. (2) De foetri. (3) RIPAMONTI: op.cit. e Cassano vinsero Federico ed Ezzelino, ora, o trascurato, o temuto, o mal soffocato dai governi, avventavasi a fini ribaldi, a braveggiare, a far guerra alle strade od ai pacifici paesi, come nel Cremonese, nel contado di Bobio, nel marchesato di Pregola e Fortugnano, nelle valli di Strafora, di Nizza, di Carene, nel Tortonese, nel Pavese, nell'Oltrapò, a Pontremoli, Canegrate, Domodossola, Romanengo, Brissago, » «E il governo », aggiunse il Boldoni , « quasi ad ogni delitto manda fuori una grida, promettendo impunità e premi a chi rivela i rei od i complici: bandisce sul loro capo grosse taglie, cioè spinge, così ragiono io, a commettere un delitto per vendicarne un altro, premia il tradimento, eccita alla guerra intestina, spedisce i birri; ma i birri, i bargelli, i custodi delle carceri, dovendo comprare l'impiego dai podestà e dai giudici, se ne rifanno ora vendendo l'impunità di portar armi, ora parteggiando coi ladri, ora facendosi ministri dei prepotenti (1); nè valenti che in parole, e premurosi di serbarsi in vita, sono tutto studio per schivarli; e se mai per caso s'avvengano in loro, gli invitano a bere un tratto da compagnoni, poi tirano di lungo ». «I cittadini nostri, riporto sempre le parole dell'amico nostro Ripamonti », seguitò il Parlaschino, « non solo avendo cumulati e cresciuti, ma anche inventati nuovi piaceri fra la lunga pace, fiacchissimi traevano l' età, dimentichi del sapere e della via stretta che mena alla salute ». «La plebe poi, restia ai precetti del vero, accorreva sempre là ove fossero guadagno, giuochi, azzardi, balli, tripudi, principalmente nei dì festivi ». «I prepotenti nobili, la gioventù loro futura erede, intendevano l'animo alle, ricchezze ed a quelle cose tra cui si sciupano le ricchezze e si esercitano i vizi della fortuna e dell'alto animo: onde inimicizie e stragi ». « I cherici dati al mercatare e alle donne; alcuni armati, i più semitogati, soci e ministri de' laici, e partecipi dei peccatori, anzi maestri di peccato, trascurando i templi e le sacre cose, e facendo tali opere che il tacerle è bello (2) ». « E sì che ha fatto di tutto il concilio di Trento per tornarli al diritto cammino », disse don Viviano con voce piena di dolore e d'ira per tanti scandali del clero. « I nostri nipoti non se lo potranno mai più immaginare che vi siano stati preti senza un po'di carità, d'amorevolezza e di grazia (3); e ci chiameranno religiosissimi, perchè si sono

(1) Grida 23 dicembre 1600. (2) RIPAMONTI: op. cit. (3) « se un prete non ha un po' di carità, un po' di amorevolezza e di grazia., bisogna dire non ce ne sia a questo mondo ». A. MANZONI Promessi Sposi, cap. XXXIV. moltiplicate chiese (1), benefizi e solennità. E sapete perchè tanta corruzione è entrata nella casa di Dio, e tanto vitupero ha profanato l'altare del Signore? Io ve lo dirò ». Il bravo curato, stato un minuto a meditare sui mali della Chiesa cattolica in que' tempi, i quali mali ancor durano adesso, disse: «Anzichè levarsi al sacerdozio, Dio sa se faccio per accusar alcuno,i più probi e sapienti, ogni genia vi trova asilo, ogni ignorante, ogni malvissuto vi si ricovera per aver agio, sicurezza, asilo. L'essere il clero immune dal foro secolare, lo rende baldanzoso: con vendite simulate agli ecclesiastici, o col legarli a nome di benefizio, sottrangonsi i fondi alle gravezze... » «I preti vanno attorno carichi d'arme... intendono a turpi guadagni, tengono senza pudore in casa le complici ed i frutti de' loro peccati. È piuttosto unico che raro quel parroco che talvolta spieghi il vangelo o la dottrina a' suoi, e la predicazione è abbandonata ai frati, singolarmente ai mendicanti, non dipendenti dal vescovo, e spesso più desiderosi dell'applauso che del frutto, o del frutto della borsa non delle anime (2) » «E senz'altro, non basta forse il proverbio, che non c'è strada a mesto mondo più comoda d'andare all'inferno in carrozza come l'andare prete? (3) » «E Milano », saltò su il Boldoni, per continuare la storia del suo esilio, « Milano io l'ho trovata come l'ha descritta il grande storico Francesco Guicciardini, allorchè discorre di quando le furono arrivati sopra gli Spagnuoli » «Cosa da muovere estrema commiserazione, dice, ed esempio incredibile della mutazione della fortuna a coloro che l'avevano veduta pochi anni innanzi pienissima di abitatori, e per ricchezza dei cittadini, per il numero infinito delle botteghe ed esercizi, per l'abbondanza e delicatezza di tutte le cose appartenenti al vitto umano, per le superbe pompe e suntuosissimi ornamenti così delle donne come degli uomini, per la natura degli abitanti inclinati alle feste ed ai piaceri, non solo piena di gaudio e di letizia, ma floridissima sopra tutte le altre città d'Italia; ed ora si vedeva restata quasi senza abitatori gli uomini e le donne con vestimenti incolti e poverissimi, non più vestigio o segno alcuno di botteghe o d'esercizi, per mezzo dei quali solea trapassar grandissima ricchezza in quella città, e l'allegrezza e l'ardire degli uomini, convertito tutto in sommo dolore e timore (4) ».


(1) «Erano in Milano 238 chiese, delle quali 71 parrocchiali ; 30 conventi di frati, 4 collegi di preti regolari. 34 monasteri di monache e 9 di orsoline : 32 compagnie di disciplini : infinite congregazioni devote : 19 compagnie della croce ». Morigia: Nob. di Milano. (2) C. CANTÙ: Rivol. della Valtellina, cap. I. Como 1881. (3) OLTROCCHI: Note alla vita di san carlo, c. I, 1. 2. (4) ODICCIARDINI : storia d'Italia. I FAMOSi UNTORI DELLA PESTE "Chi semina vento non ha a dolersi se raccoglie tempesta", notò il Parlaschino. «Così era accaduto », disse il Boldoni: « secondo la semente erano venuti i frutti. Basti dir questa, e lo assicurò un Comasco (1), che scrisse sul commercio, che dal 1616 al 1624 nella sola Milano erano venuti meno ventiquattromila operai; settanta fabbriche di panno ridotte a quindici; e così in tant'altre città. E tant'erano cresciuti i debiti, che volendosi portare in processione il corpo d'un santo (2) molto caro ai Milanesi, si dovette per quattro giorni prima e dopo la festa guarentire i debitori dalle molestie e agli imprigionamenti, se si volle avere con corso di popolo a far onore alla sacra bara (3). Quindi le persone oziose migrarono a portare l'industria loro altrove, dov'erano carezzati ». «Avevan forse a rimaner in patria a morir d'inedia, quando a due passi di qui, su quel di Bergamo, chi lavora seta è ricevuto a bracciaaperte (4)? E i padroni fanno a gara per aver gli operai milanesi (5). A Venezia, quello è un buon governo che fa il suo e il bene del popolo, a Venezia si ha per massima di secondare, di coltivare l'inclinazione degli operai di seta milanesi a trapiantarsi nel territorio bergamasco, e quindi fare che vi trovassero molti vantaggi, e sopratutto quello senza di cui ogni altro è nulla, la sicurezza (6) ». «In Lombardia si danno privilegi esclusivi a chi inventa o migliori alcuna opera: le varie manifatture sono legate in corpi e maestranze,che spendono a far pompe e liti, impacciano i tribunali coi loro privilegi, annoiano colle ridicole pretensioni i balzelli, cadendo sulle materie prime, aggravano il popolo, e cosi rincariscono il prezzo delle maestranze: la mercatura è gravata di tributi, non solo esorbitanti (7), ma pazzi ». «Quando i nostri nipoti leggeranno le gride che contengono la dolorosa istoria della rovina del nostro commercio, stenteranno a credere che sia potuto durare un excellentissimo Senato di barbassori lombardi e spagnuoli, lento, ridicolo, non fatto per la nazione, che era in dovere di rappresentare Ed i governatori peggio ancora. Non fu il duca di Terranova che, nel 1588, proibì di portare le sete fuori di Stato, sperando che dovessero convertirsi in stoffe nel paese, ed in quella vece ne scoraggiò la coltura? Non fu un altro bel talento di Spagna che impose una gabella sul portar seta in città, e un'altra sul portar fuori i panni? (8) »


(1) Giovan Maria Tridi. (2) San Carlo. (3) Grida del 27 ottobre 1638. (4) A. MANZONI: I promessi sposi, C. VI. (5) Ib., c. XVII. (6) Ib., c. XXVI. (7) Il valor capitale del commercio in Milano era di lire 21,316,143; e vi era imposto l'estimo di scudi 27,958. (8) Gride dal 17 al 24 luglio 1600. «Mentre così la Lombardia andava, di anno in anno, decadendo dall'antica floridezza del suo commercio, Bergamo solo mandava fuori ogni anno per 254,000 ducati in ferro ed in acciaio; 360,000 in panni alti ; 270,000 in bassi; 167,000 in saie e buratti; 24,000 in spalliere, e vi smaltivano all'anno 300 balle di lana spagnuola, 1,000 tedesca, pesi 25,000 di veneziana e puliese (1) ». «Ecco dunque un povero popolo avvilito, pitocco, vanitoso, furfante, ignorante », tirò giù il Parlaschino una filza di epiteti giusti, ma poco generosi verso i Lombardi del suo tempo. «E ozioso, aggiungasi », disse don Viviano. « E di chi la colpa, se non del governo, che guastò l'opinione? » «Le idee spagnuole », riprese il Boldoni, « compirono l'opera delle armi spagnuole. Gli Italiani erano stati fino allora industriosi, dati alle arti ed al traffico: dall'India al Baltico facevano commercio: a Londra, a Zurigo, a Parigi, fino a Mosca, potete trovar ancora la contrada dei Lombardi, ove si mettevano i nostri a guadagnare, cambiando e prestando argento, e vendendo quelle stoffe e quei panni che i nostri posteri saranno costretti a procacciarsi di là. Nel 1420, per dir d'un solo anno, lo Stato milanese mandava alla sola Venezia, da cui adesso va a mendicarlo, 29,000 pezze di panno (3). E chi di noi tre, che le storie leggiamo per diletto e ammaestramento, chi non si ricorda le parole del milanese Conio? «Ad altro, dice, non se attendeva che acumular ricchezze: le pompe e voluptate erano in campo, et Giove con la pace trionfava per modo, che ogni cosa si stabile e ferma si dimostrava, quanto mai fosse stata negli passati tempi. La corte de li nostri principi era illustrissima, piena di nuove fogge abiti et delicie; non di meno in epsa tempestate per ogni canto le virtute per si fatto modo rimbombavano e questo illustre Stato era costituito in tanta gloria, pompa e ricchezza, che impossibile pareva più alto poter attingere ». «E mancanti forse, oltre il Conio, altre autorità, che non possiamo coi nostri propri occhi consultare ? Frà Isidoro Isolani che nel 1518 scrisse le lodi della sua patria (3), conta come, nel 1492, erano aperte in Milano 14,600 botteghe, e più all' entrar del nuovo secolo: 18,300 case da venti persone ciascuna (4). «Luigi Guicciardini, nel descrivere i Paese Bassi, sapete cosa scrive di noi e delle cose nostre? «Da Milano e dal sito Stato, sono le sue stesse patole, c' inviano

(1) Così lo storico Fra Celestino. (2) Le quali 29,000 pezze, valutandole otto lire al braccio, e trecento alla pezza, darebbero quasi noce milioni di lire, ricavate dalla sola Venezia ed in solo panno. (3) De patriae urbis Iaudibics. (4) Quando nel 1706 gli Spagnuoli abbandonarono la Lombardia , lasciarono in Milano 100,000 abitanti. molte robe, come oro ed argento filato per gran somma di danari, drappi di seta, d'oro di più sorte, fustagni infiniti di varia bontà, scarlatti ed altri simili, pannine fine... buone armature eccellenti, mercerie di diversa sorte per gran valuta, ed infino al formaggio appellato parmigiano per mercanzia d'importanza. «E l'autore del Compendio delle Croniche di Milano, stampato nel 1576, e che voi dovete aver letto, che scriveva di Milano? «Ogni cosa con basso pretio si vende. Invero è cosa maravigliosa di vedere la grand'abbondantia che vi se ritrova delle cosa per il bisogno dell' huomo. Quivi veggonsi tante differenze di artefici et in tanta moltitudine, che sarebbe cosa molto difficile poterla descrivere: laonde si suol dire volgarmente, chi volesse rassettare Italia, rovinasse Milano, acciocchè passando gli artefici d'essa altrove, inducano l'arti sue in detti luoghi. «Tale era il fiore del commercio (1), quando le proprietà e le merci erano guarentite da chiare leggi : le quistioni di negozi decise dai consoli speditamente e senza intervento di curiali: buone tariffe e conosciute proteggeano l'industria paesana: era fatta abilità ad ogni cittadino di esercitare come e dove volesse l'opera sua: data agevolezza agli stranieri che qui venissero; tenuti i mercadanti immuni da certi pesi, gratificati quelli che facessero meglio, onorati tutti ed avuti in gran conto. Allora i nostri negoziatori; ben accolti da per tutto, trattavano da pari a pari coi re, cui accomodavano di denari, e vedevano i loro figliuoli salir i primi gradi della spada e della toga. «Tutt'a un tratto vennero questi boriosi Spagnuoli a dirci, che il mettersi a traffico era una vergogna e un contaminare il sangue: parve indegno che un conte od un marchese ponesse sua firma ad una cedola di cambio: si attribuì alle arti una stima pubblica in ragion inversa della loro utilità; e se non bastavano gli errori volgari, la legge stessa, per rincalzo dichiarò esclusi dal Consiglio di Stato i negozianti, scaduti dalla nobiltà chi si volgeva al commercio. Allora a vedere e non vedere i più grossi capitali furono levati di giro; i meglio accreditati negoziatori se ne tolsero: appena uno crescesse in fortuna, voleva levarsi di dosso la macchia dell'esser nato negoziante col divenire inutile alla società (2); i padri, invece di mandar i figliuoli alla bottega


(1) A cui piacesse invece di parole l'eloquenza dei numeri, il ragioniere Barnaba Pigliasco calcolò come, nel 1580, sulla piazza di Milano si facessero contratti per lire 29,512 e 482: la filatura e la tiratura dell'oro e dell'argento desse un utile di lire 800,000: le stoffe di seta guadagnassero tre milioni annui; l'argenteria 80,000 lire. Ed avvisate che, essendo l'oro piu scarso, il danaro valeva assai più, tanto che potete con una lira d'allora agguagliare tre almeno delle presenti. (2) Era (il padre Cristoforo) « figliuolo d'un mercante, che trorandosi ossei fornito di beni di fortuna area rinunziato al traffico.... Nel suo nuovo ozio cominciò ad entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo che area speso in far qualche cosa aquesto mondo.... studiava ogni modo di far dimenticare che era stato mercante.... con quel che segue nel capitolo IV dei Promessi Sposi. ed al telonio, gli inviavano al maestro ad imparare latino e scienze di niun uso a chi fosse uscito di scuola, e le ricchezze sudate dall'industria dei padri più non erano che un fornite a corromper la giustizia e salvare la tirannia. Cosi era miserabilmente ridotta Milano, quand' io cominciavo a sedermi a scuola di latino. Già udiste il nostro Ripamonti lamentare il dibassamento del sapere; e poichè un popolo fiacco non sarà mai glorioso d'arti e di scienze, stampossi sugli scritti, sulle fabbriche, sulle pitture l'abbiettezza dei Lombardi e la boria, primo ed eterno patrimonio degli ignoranti. Che melensi concetti ne' libri, e che goffaggine ambiziosa negli autori! Pareva avessero giuocato a gara di accozzare le qualità più disperate, di trovar modo di riuscire rozzi insieme e affettati nelle stesse pagine, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo! E che sorta di titolo ai libri pescavan fuori dalla scatola del cervello. La Fenice; panegerico di Giuseppe Avogadro per san Carlo :1' Onnipotenza epilogata, la Colonna di fuoco, la Pioggia d'oro, il Minimo Massimo, prediche di Lodovico Agudio pei ss. Antonio da Padova, Teresa, Maria Maddalena, Raimondo da Pennaforte: la Celeste Pandora, cioè la Madonna, di Antonio Gagliardi; il Carbonchio fra le ceneri, i Tesori del niente, il Briareo della Chiesa, sono elogi di Cesare Battaglia pel santo di Padova, il beato Gaetano Tiene e san Nicolò. Pio Chiepario intitolò l'Ambrosia, il panegerico del beato Ambrogio da Siena. Non manca che qualche ingegno strambo che ci venda un Cannocchiale storico che fa guardare fino al principio del mondo, e tira appresso le cose più memorabili fin'ora succedute, ed un'altro che cioffra una presa della Tabacchiera spirituale per guarire i raffreddori dell'anima; e poi c'è da mettere una libreria che almeno farà ridere i figliuoli de' nostri figliuoli ». " Le arti cavalleresche ecco quelle", disse don Viviano, a onde cercavano fama senza gloria i Milanesi, mentre lasciavano rallentare l'im pulso, che migliori tempi avevano dato alle lettere ed alle arti belle » " I primi schermidori e ballerini delle Corti europee uscivano dalla scuola nostra », nota il Parlaschino. « E quando a Milano fece il suo ingresso il 30 novembre 1508 per la porta Romana (1) la regina Margherita d'Austria, sposa di Filippo III non si è forse fabbricato a posta un teatro nella Corte, dove si fecero mille belle bizzarrie, fra cui un combattimento con spade e pugnali, ed un altro con aste, aggiungendovi poi certe invenzioni nuove di balli ? E c'era un maestro a tal uopo, ma famoso, Cesare de' Negri detto il Trombone (2), che

(1) La qual porta « in allora maritala a tosi bene scargellati marmi, come di presente si mirano, e ne 1 Martin Basso il di lei architetto ». Torre: Ritratto di Milano.

(2) Egli stesso descrive queste rompe nelle Orazie d'Amore, Milano, Ponzio e Pinaglia 1604: ove conta che a Milano erano valentissimi alla danza 115 cavalieri, 66 dame, 36 zitelle. aveva otto scolari non meno famosi, tra' quali era il valentissimo orefice Bernardino Torre, quel che fece i bei lavori intorno al san Carlo in Duomo. E vedete tanto teneva più a capitale 1' abilità, delle gambe che delle mani, che fece stampare l'attestazione del Trombone, qualmente egli aveva ballato bene in presenza della sposa augusta ». «Non sarebbe stato meglio che quei buoni ambrosiani di Milanesi avessero portato i loro quattrini al prestino, invece di buttarli in feste?.. » « Tu, don Viviano, ragioni d'oro », gli rispose il Parlaschino. « Ma le feste che fa il popolo ai principi sono da lui pagate si, ma da altri comandate. E qui ne fu un bel caso, e non sarà l'ultimo a questo mondo. Volevi forse che per l'Austriaca Margherita, gemma preziosa proposta da Imeneo per le delizie matrimoniali di Filippo il terzo, Milano, la seconda capitale del regno, non facesse nulla? E ci ha pensato il vicario di provvisione facendo girare un avviso, come qualmente si era stabilito che duecento e più cavalieri nobili, di età di diciannove anni in su, vadino ad incontrarla vestiti a spese loro tutti di seta bianca et oro come meglio a ciascuno parerà, purchè abbino calze abborsate con tagli, et calzette di seta bianca, berretta di velluto nero solio con piume bianche, spade, pugnali et azze dorate in spalla, ogni cosa guernita di velluto solio bianco, et scarpe di corame bianco. Invitava quindi a trovarsi pronti, avvertendo che S. E. contro gl'innobedienti ha ordinato che si proceda alla pena di 500 scudi, e maggior pena ancora all' arbitrio suo, alla quale saranno tenuti i padri per i figliuoli, né si admetterà alcuna escusatione, perché S. E. cosi comanda ». «Ecco le feste spontanee che il popolo fa a' suoi padroni ! » esclamò il Boldoni, anima repubblicana, benché legata, per ragion di vivere, al soldo del governo. «Questi adunque », seguitò il Parlaschino, « le furono incontro colle prime autorità del paese, e venti cavalieri vestiti di scarlatto ad oro. La regina, in lutto per la morte allor allóra avvenuta di quel buon Filippo II, montava una chinea bianca, sotto a baldacchino d'argento trapunto d'oro, portato dai dottori di collegio, vestiti con lunghe toghe di damasco soppannate di velluto, e col cappuccio d'oro foderato di raso. Anche il duomo, benchè in fabbrica, lo si obbligò a far festa, col mettergli posticcia, dipinta in tela, una facciata secondo il disegno del Pellegrini.... insomma la vollero, e fu una solennità ». «Lasciamo da banda », saltò su il Boldoni, « le feste che i Milanesi regalano ai principi, e statemi attento, che non ho ancor potuto mettermi in carreggiata di narrarvi la storia del mio esilio. Cinque anni volarono subito, come suol accadere nella cara età, quando l'anima sogna; e tutti i dodici mesi avrei trascorsi in città, se mio padre e la tenera mia genitrice non facessero vive istanze per avermi a Ballano, sul bel Lario, a godere la stagione della vendemmia. Ma appena una foglia vizza si staccava da un albero del nostro giardino, che guardava sul punto dove l'onda del lago si congiunge con quella del fiume, davo l'addio alla mia terra e alla mia gente per correre a Milano. Qui mi mancava il consiglio amorevole del padre, la carezza affettuosa della madre, non vedevo la luna specchiarsi nel lago, il primo e l' ultimo raggio del sole indorare la cima del monte; ma il mio cuore era felice anche senza questi esseri, che un tempo veneravo come sacre cose, perchè il mio cuore aveva trovato un altro amore ». «Nè, Creator, nè creatura mai fu senz'amore, o naturale, o d'animo, lo lasciò scritto Dante », disse don Viviano. «Tutto che è in natura c'invita all'amore », notò il Parlaschino. « Ogni grande, ogni menomo oggetto, gli insoliti e comunissimi, i mo- struosi e quelli che più paiano degni della luce degli angeli, tutti sono all'uomo consiglieri d'amore. Tutto è amore: 1' universo non è che amore ». «Tu hai ragione, o amico », esclamò il Boldoni. « Il bisogno d'amare per noi mortali è come l'aere puro da cui abbiamo vita. Nei palazzi e sotto gli umili tetti delle capanne, ogni cosa nella natura universa conta il bisogno d'amare; bisogno, il quale è un fuoco divoratore, un male crudele, che da giovani raramente s' ignora, ed anche invecchiando non si spegne. L'amore ci insegue, ci infiamma sempre; e invano vorremmo armarci contro di esso. Epperò l'amore soggioga i potenti, e riposa sulle guancia delicate della fanciulla; regna sui mari e sotto la capanna del pastore: nessuno degl' Iddii immortali, nè fra gli uomini sfugge ai lacci suoi; e colui ch'ei possiede è in preda al delirio ». «Delirio sì il mio! » ripetè il Boldoni. « Rotolato dai monti, nudo masso io pretendevo tramutarmi in alato Cupido, colla freccia da ferire il seno d'una Venere del patriziato ». « Tu pur se' nobile ! » l'avverti con sussiego il Parlaschino, il quale per dar maggior lustro alla sua famiglia voleva far credere che avesse dominato Parlasco, uno de' tanti paeselli della Valsàssina. « Nobile? il sono stati i miei, e lo devo esser, come della loro medesima stirpe anch'io; ma che val nobiltà, dove impera la superbia castigliana? » «Dunque di gran lignaggio era quella che il tuo cuor amava? » «D'altissimo come nipote al governatore medesimo, che la voleva imparentare al suo figliuolo, e la teneva in conto d'una preziosa gemma per ornamento della sua discendenza. Il cugino di quella vezzosa creatura delle mani di Venere e d'Amore m'era amico, e non passava giornata che meco non la dividesse in piacevoli divertimenti, e massime le notti stellate nelle quali soleva, scambiando Milano per Siviglia sua patria, andare sotto i balconi delle belle a cantare amorose canzoni, che facevan di pudore annebbiar la luna ». « Faceva il romancero », disse il Parlaschino; « ma alla cugina non volgeva le sue premure? » « Come a gioiello che credeva avere in sicuro nello scrigno paterno e che i ladri non arriverebbero a rapirgli, non badava punto, e dettava invece sonetti per altre fanciulle della città ». « E la cugina tollerava simile scandalo? » " Ella non sapeva, e, quando seppe non volle credere che don Fernando fosse tanto villano da preferirle una volgare. Io che ardevo tutto di lei, le giurai che mi credesse, poichè l'amavo come una volta sola in vita si può, come Dante amò Beatrice, Petrarca Laura.... Allora le salirono le fiamme al viso, e promise il cuore e tutta sè stessa darmi a patto che io le fornissi, fra breve, una prova degli amoreggiamenti del cugino colle donne della città ». E come tu t'accostavi a lei, senza che il governatore si avvedesse? » «Per mezzo d'una sua aia, che aveva una vendetta a fare contro don Ferdinando, per averla costui messa in burla in una sua canzone. E costei ci proteggeva, ci agevolava le vie a trovarci soli, senza sospetto, esposti ai dardi che scambievolmente ci vibravamo 1' un l'altro dagli occhi.... Così durò. un mese ». «Amante riamato? » domandò il Parlaschino. «Lo credevo; e fu allora che mi cascò sul capo un fulmine a ciel sereno. Io avevo sorpreso che don Fernando amoreggiava una figliuola de' conti Trotti, e una notte io lo colsi a lanciare ad un balcone, dove dai vetri usciva lume, lanciare qualcosa, come una lettera, e poi fuggire, come un ragazzo che ha saccheggiata una pianta di frutta nell'orto del vicino. Un po' di vento che tirava in quel momento, o il caso, che tante volte fa da buono e tant'altre da cattivo ministro della Providenza, la cosa gettata ripiombò , dopo pochi minuti, in istrada, ed io la raccolsi, colla velocità, lo confesso, d' un gatto che balza sul topolino. Alla prima lampada, accesa davanti una Madonna sull'angolo dalla via, guardai e lessi.... due ottave da far schiattar dalle risa l'amore il piu serio ». «Parturiunt mantes, et nascitur ridiculus mus (1) » uscì, con un proverbio latino, il curato. «Due giorni dopo, quel miracolo di estro poetico era nelle mani della nipote del governatore, che rise e pianse ad un tempo dal dispetto a leggere queste strane ottave: « Trotta, ben voi di Trotta il nome aveste Che in voi di Trotta ogni gran pregio è nato; Quella il bel sen di candidezza veste, E 'l petto Voi d'uno splendor beato ;


(1) Partoriscono i monti, e ne sbuca fuori un ridicolo topolino ...fu a Barsio a far visita a san Carlo, che alloggiava da quei nostri amici, e lo trovò a tavola coi notabili, i preti e i frati della valle. CAP. V. pag.77 .

(vedi immagine corrispondente) CAPITOLO IV

Quella è pesce sovrano, e Voi celeste; Gran nuoto a quella, a Voi gran senno é dato; Quella d'acque dolcissime si pasce, In Voi d'Amore ogni dolcezza nasce.

Quella di belle macchie ornato ha'l dorso, Ornata Voi di mille pregi siete: Quella ferisce con pungente morso, Voi con dardi d'amor l'alme pungete; Quella, mentre il ciel arde, ha freddo il corso, E Voi nel foro altrui fredda vivete; In ambe un sol divario avvien ch'io veda; Predatrice Voi siete, e quella preda ». Quella. E Voi


" E indovinò di ...fossero i versi? » domandò il Parlaschino. «Scritti di pugroatriqui, e con sotto il suo nome, Don Fernando Mendozza marchese della noisa ». « Tua dunque quella fossero i versi? l'orafa creatura », notò uno degli amici. ' «Mia per quel giorno; e poi tra me l'odio del cugino e la vendetta dello zio. Dai modi pol'ore, creatura nottrane messo in sospetto don Fernando, l'aveva vivamente incalzata ad l'animo su quelle novità, ed ella gli aveva posto sotto gli occhio ottave famose, protestando di volersi andare a rinchiudere in mio monastero piuttosto che divenir sposa d' un pescatore di trote. E ci invitai davvero tutta l'autorità dello zio governatore a ricomporli in pace, e per dare una lezione, che se ne ricordasse un pezzo, l'aia disgraziata fece incarcerare e torturare, finchè confessò il nostro amore segreto ». «E a te? » «A me non toccò di meglio. Non sospettando di nulla, poiché eravamo in promessa di scriverci e ricapitar le lettere per mezzo di un servo di casa, mi lasciai sfuggir dalla penna una specie di cantico dei cantici sull'amore, e caldo ancor di quella poesia ch'avevo in cuore, inviai il foglio al suo destino, che invece delle mani della giovinetta furono in quelle del governatore ». "Chi sa che furie! «Io scrivevo colla fantasia sbrigliata d' un ragazzo di diciassette anni....

« L'amore è un enigma. Sogni deliziosi della primavera di nostra vita! Voce ingannevole! Ignoto soffio! Ammaliatore maraviglioso e funesto genio, disceso fra noi qual monarca, fuggitivo amore, donde venisti?- «Se terrestre fosse la tua origine, come stender potresti sull'uomo un risplendente scettro? Come col misterioso tuo soffio daresti la vita all'intera natura? Ed in questa misera valle l'ebbrezza de' tuoi trasporti e gli ineffabili tuoi diletti come ci rapirebbero a noi stessi e sarebbero contemplati dal cielo. » Se' tu dunque nato nelle immortali regioni? Sei essenza increata, angiolo, divinità? No. Se dall'eterna vòlia a noi discendesti, pura sarebbe la tua dolcezza, il tuo fuoco divino, nè il delirio e il tradimento a turbar verrebbero la felicità del tuo impero.

" Instabile figliuolo del Piacere, noi, scherzando con le tue armi, ci esponiamo a tuoi colpi : ma quando tu vieni a noi, perfido chi ti segue? Il dolore. Che ne arrechi? Le lagrime. Essere immaginario e a un tempo reale, tu non sei dunque nè uomo, nè Dio? Ohimè! Quel che tu sia enigma inesplicabile, luce passaggera, od eterno raggio, la tua occulta possa è cosi più formidabile; e dimostri appartenere simultaneamente all'inferno ed al cielo ». Tu dunque hai fatto, in fin de' conti, l'analisi dell'amore? » "Si, e il governatore marchese della Hynoiosa s'è tolto l'incarto di spiegarmi l'enigma, col mandarmi un ordine di sfratto dallo Stato, facendomi troncar sui due piedi gli studi". "Ti sarà ben suonato all'orecchio il vaticinio che Dante udi un giorno:

e Tu lascerai ogni cosa diletta Più caramente; e questo a quello strale Che l'arco dell'esilio pria saetta.

e Tu proverai conio sa di sale Lo pane altrui, e corm'è duro calle Lo scendere e salir per l'altrui scalo ».

A questo punto il servitore Domenico entrò ad avvertire gli ospiti che il padrone augurava loro la buona sera, e li aspettava pel domani; rimanessero però il curato e il Parlaschino; e il medico passasse nelle sue stanze, perchè aveva a parlargli. Senza quell'accomiato scommetto che alcuno dei commensali sarebbe rimasto per tutta la notte colle gambe sotto la tavola. Venuti altri servitori a sparecchiare la mensa e ad accendere i lumi, perchè il sole era andato sotto da più d'una mezz'ora, restavano solo il Parlaschino e il curato di Taceno. CAPITOLO V

ORGOGLIOSI E PITOCCHI

« Vedrete non forma di repubblica, anzi piuttosto uno miserabile, e lacrimando latrocinio pieno di tutti i mali, fatiche e miserie, che nella umana fragilità si possono considerare ».

BUONACCORSO DA MONTEMAGNO Il Giovane.


Siccome l'aria pura de' monti, penetrando ne' polmoni, vi desta affetti più ardenti di libertà, che non nelle città, cosi è facile immaginare donde ripigliassero il discorso il curato e il professore. «La lingua batte dove il dente duole, dice il proverbio », cominciò il prete pel primo ; « e noi per cavarci il dolore dovressimo poter levarci di Lombardia il dominio spagnuolo ». «Il regno dei pitocchi ! » disse l'altro. « Che si deve dire d'un imperatore, come Carlo V, con una monarchia estesa ai due emisferi, sulla quale, secondo l'incenso de' cortigiani, non tramonta mai il sole, il quale grand'uomo non ha nelle casse cento sessanta lire imperiali da pagare il residuo del salario d'un professore di Pavia ? » «E chi fu questo creditore ? » «Fu Niccolò Boldoni di Bellano al quale venne pagato l'interesse della somma in ragione del cinque per cento ogni anno, sui proventi del sale. E siccome fidarsi è bene e non fidarsi è meglio, s'è dovuto stenderne un lunghissimo istrumento in concorso del governatore di Milano, che ci dovette mettere di sua zampa la riverita firma Marino Caracciolo, Anch'io sono già rassegnato a sentirmi dire qualche fine di trimestre : Messer professore, tenete il digiuno sino a fin d'anno, che la cassa non può dare di quel che non ha. Ma quello ch'io non posso raccapezzarmi è dove sprofondino tanti galeoni carichi d'oro, che dal Nuovo Mondo vengono tutti gli anni in Spagna (1) ». « Sai la storia di quel re Mida, il quale impetrò dagli Dei che quanto toccava si mutasse in oro, talchè indorandosegli fra le mani anche il pane, dovette cader sfinito dalla fame? Pensa che lo stesso succeda agli Spagnuoli. Colmi del denaro venuto dal Nuovo Mondo, crescono loro i bisogni più che cresce la ricchezza, come gli ubbriachi hanno più sete quanto sbevazzano più ». « Hai ragione: ed eccoli quindi costretti a cercare sempre nuovi tesori dal di là dell'Oceano collo scannare, assicurano, quei poveri Indiani cui regalano la civiltà europea, e dalla nostra Lombardia col dissanguare i corpi, e quel che più monta, coll'avvilire gli animi, e spegnere ogni sentimento di nazione ». « La vita dei popoli, sentenziò l'altro, « non patisce già tanto dalle devastazioni passeggere della guerra, quanto dal venir meno la giustizia e la sicurezza, e da un reggimento sconsigliato e maligno. Sel provò la nostra Lombardia quando al posto delle antiche leggi, non dirò buone, ma opportune ai tempi ed al paese, entrarono le Nuove Costituzioni, che furono come la pietra del sepolcro del commercio, delle arti e del sapere. Nè quel guasto somigliò alla ruina impetuosa d'un torrente disalveato ; sibbene alle esalazioni venefiche, le quali uccidono uno alla quieta, senza neppure se ne avveda ». « Uno sguardo a quel governo, e non avrai vena che non tremi dall'ira. O povera Lombardia, in che ugne grifagne sei cascata ! Carlo V colle sue Nuove Costituzioni t'ha preparato il lenzuolo funerario, per quando t'avrà succhiato tutto il sangue, come dicono costumino fare i vampiri. Uno sguardo, don Viviano, a quel reggimento, che ci fa retrocedere al basso impero romano, e peggio ancora" « O tempora I o mores ! » esclamò il prete, a guisa di giaculatoria. Il Parlaschino, aizzato adesso dal ricordo del salario tardato a Nicolò Boldoni, proseguì la sua catilinaria contro il governo spagnuolo. « Re lontani centinaia di miglia, divisi da frapposte nazioni, si affidano interi a qualche ministro, nè ci fanno risovvenire che sono al mondo se non collo stampare il loro nome in testa agli editti, e coniare la loro faccia sulle monete. Da Madrid, che non è mica la strada dell'orto, arrivano i provvedimenti a guisa dei soccorsi di Pisa, e dopo avervi mandato un oratore a bella posta che parli, preghi, supplichi, baci le mani, s'inginocchi, e per poco non li adori come il Santissimo Sacramento, dietro un'incensata di quelle magne. Il governo, con una farragine di editti e gride prolisse e altisonanti,

(1) Giovanni Bodino calcolò che, sino al 1568, erano venuti dall'America in Ispagna 100 milioni in oro, il doppio in argento. Ogni anno la flotta recava 18 milioni. non mira a sposare per nulla affatto l'interesse pubblico coll'interesse privato, ma soltanto a ottenere che Sua Maestà Cattolica Carlo o Filippo domini, pesi sullo stomaco e gravi sulla borsa ai sudditi senza contrasto di sorta, e senza una premura al mondo di renderli se non felici, tranquilli, sicuri in casa loro. Per paura che attecchisca qualche buona industria nazionale, ecco il governo subito, con regolamenti assurdi ed ambiziosi, ne inaridisce ogni cespite, proprio come un raggio maledetto della canicola all'erba d'un prato. Parla sempre de' bisogni del re, non mai di quelli del popolo ; e dove ha finito a spopolare un borgo o una città si vanta d'avervi piantato l'olivo della pace. Serba le apparenze della giustizia con un diluvio di leggi, che poi non cura siano eseguite...." «Nol profetizzò forse Dante ? » l'interruppe il prete: « Le leggi son, ma chi pon mano ad elle ". «Qui tutto è commesso ad un governatore, sempre straniero al paese e per lo più spagnuolo e soldato, che dura in carica tre anni, quando appena trenta basterebbero ad un ingegno versatissimo nelle leggi e nei magistrati per solamente capire quel sistema assurdo e complicato di leggi e di procedura. E che superbia nel sangue questi governatori! Sai di quel nobile milanese che ricorse a Sua Maestà contro Sua Eccellenza? " «In questo mio cantuccio di parrocchia di montagna certi aneddoti arrivano rado o mai ». «Ebbene, senti e ridi, se ti dà la coscienza. Un Milanese, di quei che contano, si appellò a Madrid contro una sentenza pronunziata a suo danno dal governatore. Avuta giustizia, presentò a Sua Eccellenza il rescritto di Sua Maestà che cassava la sentenza. Come, dicono, facesse Piero Capponi sulla faccia di re Carlo VIII, il governatore, preso il biglietto reale, lo fece in pezzi, e, battendo i piedi in terra, proruppe: Por Sant'Jago de Galizia! il re comanda a Madrid, a Milano comando io E la ragione, per quella volta, fu sua ". «Che orgoglio d'Oloferne! «E il generale Giovanni Serbelloni, tre anni fa, non ne fece forse una più marchiana?" « Fu sconfitto in Valtellina ". «Il perchè lo do in un secolo a te e ai posteri a indovinarlo». "Diamine! " «Il di innanzi che toccasse le botte, gli fu ricapitato una lettera di gran premura, dove gli si annunziava l'avanzarsi formidabile del nemico, e lui non la lesse. E sai perché? perchè nella soprascritta non erano stati messi tutti i titoli a lui dovuti". "Terque quaterque somiero!" esclamò don Viviano. " E i soldati che fanno di meglio? Cenciosi, fetenti, quali nefandità commettano a quanto , di viva voce, potrei dirti, non credi, ma credi alle relazioni stampate" E cavata una carta manoscritta dal portafoglio: «Ecco un documento, che, se va ai posteri, ha da inchiodare il governo spagnuolo alla gogna della storia. Leggi ». Don Viviano lesse quanto segue: - « Breve informazione dei disordini, eccessi e misfatti che si commettono dalla soldatesca nello Stato di Milano, con tal rovina et esterminio dei popoli, che il signor Oratore rappresenterà alla Corte ». " È copia dunque", disse don Viviano, « d'una relazione che si è mandata a Madrid?" «Certo: un documento ufficiale ». Don Viviano prosegui nella lettura. - « Contro i comandamenti espressi di S. M. nella maggior parte dello Stato non hanno avuto luogo le caserme, nè si sono guardati gli ordini, ma si è alloggiato senza discrezione, e con viva forza e violenza si entrava nelle case dei particolari, nè han potuto i poveri sudditi, benchè facessero ogni sforzo possibile, accontentare l'ingordigia dei soldati i quali hanno dissipato et distrutto in poche ore quello che basteria per molti mesi, gettando a male et grani, et vini, et altre vittuaglie, trattando con pessind termini di parole et di fatti i patroni per violentargli ad eccessivi et impossibili tributi, et ultimamente sei cento Alemanni del regimento del colonello Pepenheim, alloggiato in Sorico, Gera et Bugiallo, terre del contado di Corno confinanti con la riva di Chiavenna, di mezzogiorno saccheggiarono dette tre terre, e legarono gli Ufficiali del soldo di S. M., et gli levarono dodici mila scuti, che havevano per dar mezza paga al detto reggimento, et nella restituzione si sono trovati mila ducento scuti meno: nè di questi contenti, il tenente colonello Magni, sotto pretesto di non poter ritenere gli soldati per non essere pagati voleva mandare di propria autorità gli soldati ad alloggiare nelle altre terre del medesimo contado, con ordine di dargli il soccorso; come pure cominciò a mettere in esecutione: delle quali sutto questo colore estorse due mila ducatoni, con ruina et desolatione di quelle terre. Delle contributioni resta in facoltà, et arbitrio de'colonelli, ufficiali et altri 'capitani da pretendere et volere in effetto quantità de denari esorbitantissime, et totalmente impossibili, a segno che tale colonello ha estorto sino a trecento scuti per giorno con estirpatione delle terre, siccome ogni capitano vuole sedici, vinti, trenta, quaranta e cinquanta scuti, et più al giorno per la propria persona, et alla rata caminano gli ufficiali. Nè di tutto ciò contenti ancora, hanno riscoduto violentemente, et a viva forza fattosi pagare tante rationi morte, che importavano il doppio più dell'effettivo numero de' soldati, in modo che per ogni cento soldati effettivi si trovano duecento rationi et più, il che non menó cade in notabile pregiuditio del servigio di S. M. che in total ruina dello Stato; nè si sono partiti delle terre'et ville, ove occoneva: alloggiamento o transito, se prima non hanno conseguito tutto ciò, che volevano. Per il qual effetto non solo vi han levato et bovi et carri, ma condotti prigioni i terrieri, et con bastonate, et con ferite malamente offeso i deputati al reggimento delle medesime terre, saccheggiando ostilmente le case et abbrucciando le cassine. -» In alcune terre han levato affatto la libertà ai terrieri di vendere et contrattar alcuna sorta di vittuaglie, o merci senza il consenso od intervento loro, non ad altro fine, che per mettere violentemente la mano sopra il danaro.

» Si sono battute le strade depredando, spogliando, assassinando apertamente i passeggieri, et levando le vittuaglie, che si conducevano alle città et altri luoghi, in modo che quasi in niuna parte si è potuto senza pericolo della roba et della vita camminare, et tant'oltre è arrivata la temerità, che non dubitarono sino sopra le porte delle città stesse commettere simili delitti et misfatti.

- » Dei reggimenti d'infanteria et cavalleria alemanna gran parte di abbominevole eresia è bruttamente macchiata, in modo che, dopo la perdita della robba et della vita, et dell'onore, non mancano ancora pericoli all'anima istessa. Del che si vede, che da nemici appena poteva lo Stato ricevere maggior percossa, desolatione et ruina, non essendosi per li ricorsi fatti ottenuta alcuna sufficiente provvisione, nè visto alcun esemplar castigo contro i delinquenti et malfattori, benchè dei misfatti constasse per legittimi processi, che però non è meraviglia se il soldato ha preso magg or baldanza di cumular et moltiplicar eccessi et delitti più atroci; al che si aggiunge il danno della militia formata nel medesimo Stato, il qual danno quanto sia stato grave, da questa fra le altre cose si può comprendere. Prima che le comunità sono state costrette pagar grosso soldo ai soldati tassati alle loro terre, e mantenergli esenti da tutte le gravezze personali, oltre la spesa et perdita delle armi somministrate più volte a costo delle provincie, che sebbene da principio fu data intentione, che non uscirebbe dallo Stato, nondimeno è stata mandata fuori; ove come inesperta et inabile, rimase totalmente distrutta et dissipata. Et da qui è avvenuto, che molti terreni per mancamento de homeni rimangono inculti, et molte ville derellite. Onde quando a S. M. piaccia di continuare in essa militia, sarebbe ragionevole che la camera rilevasse lo stato delle spese, che per ciò sono necessarie. Stando dunque tutto ciò, giuntovi poi la perdita di tanti guastadori, bovi et carri consumati nelle guerre, et il mancamento di un terzo, et più delle persone, si trova questa Provincia ridotta a termine tale, che non può sostenere i carichi camerali correnti, non che pascere et mantenere poi li eserciti reali, ancorchè venissero con la necessaria provvisione del denaro, del quale resta totalmente vuoto et esausto questo Stato, sì nel pubblico, come nel privato per l'infinite estorsioni et estrationi di esso fatte non solo dagli ufficiali, ma anco da privati soldati, et ormai le private città, et le terre dello Stato sono totalmente impe- gnate, che non bastando le facoltà, nè avendo più entrate da vendere, sono stati forzati costituire redditi sopra l'estimo delle proprie persone, di maniera che, quando ancora cessassero questi tumulti et calamità, non hanno speranza di potersi disimpegnare per lo spatio di moltissimi anni, nè perciò è meraviglia se siano già notabilmente mancati li traffici, distrutte le arti, et mutate le Terre di habitatori, causa che una gran parte delle terre restano intuite, et grandemente diminuite le reali entrate ». «I posteri », esclamò don Viviano, “ hanno a rimaner estatici davanti un documento di questa fatta! " Il Parlaschino, rimesso nel portafoglio la carta che aveva finito di leggere, ne trasse una seconda, dicendo: «Qui c'è un altro staffile, che la storia adoprerà sulle spalle agli Spagnuoli, come fece sant'Ambrogio su quelle degli Ariani ». «Cos' è? » «Estratto di lettera del Vicario di Provisione a Fabrizio Bossi, del 15 aprile 1625 ". "Robba di sei anni fa: leggi pure, che ti prometto di mettermela a memoria come una predica. Il Parlaschino, con voce e aria professorale, lesse quanto segue: - « Nello Stato di Milano alloggiano di presente da trenta mila fanti e quattro mila cavalli, oltre che si fa nova leva di sei altre compagnie: la levata della gente alemanna è stata di quattordici mila pedoni et mille e cinquecento cavalli, tutti compresi sotto tre reggimenti, de'quali sino adesso sono arrivati circa dieci mille fanti, et sei compagnie d'archibuggieri, mischie di diverse nazioni con cavalli piccoli. L'infanteria è assai bella gente, ma così questa, come la Cavalleria senza disciplina et ubbidienza alcuna, talmente insaziabile et insolente, che per tutto ove alloggia va rubando, distruggendo, saccheggiando ogni casa, con mali termini amo nell'onore delle donne. Ogni capitano vuole dodici scudi per giorno, il tenente otto, il sergente sei, e gli altri ufficiali alla rata, et quando così prontamente non vi è dato loro questo tributo, sono prorotti in grandissimi eccessi, come avvenne il giorno di Pasqua nella terra di Besozzo nel Ducato di Milano, ove posero a sacco fino alle case de' nobili, finché per forza ebbero tutto ciò che pretesero. Negli alloggiamenti di transito tal capitano ha voluto cento scudi in una sera, e quando i consoli, o altri particolari si sono opposti a una tanta rapina, li hanno maltrattati con gravi percosse o ferite mortali, il che tutto ci fa temere di quei disordini et incontri, che da tanta rapacità et violenza si possono congetturare. Nel detto numero di trenta mila fanti si sono compresi sei mila Svizzeri. Ha S. E. delegato il luogotenente dell'auditore dell'esercito a processare e punire i delinquenti tuttavia si dubita che quel rimedio gioverà poco, perchè non sogliono quelle barbare nazioni prestare ubbidienza ai altri, fuori che ai Capi loro, i quali negli stessi delitti sono più macchiati, e colpevoli. A questo stato sono ridotte le cose dentro lo Stato, di fuori poi si trova egli circondato da due eserciti francesi, l'uno nella Valtellina, e l'altro nel Genovesato: s'aggiunge che lo Stato è anco aggravato d'un terzo per provincia d'infanteria di milizia, il mantenimento della quale è di grandissima spesa allo Stato, cosi per le paghe, come per le armi che gli deve provvedere, oltre il danno che sente di perdere gli homeni, che attendono alla coltura ». «Quousque tandem abutere patientia nostra! » prese a brontolare don Viviano contro gli eserciti di Sua Maestà Cattolica. "I soldati stranieri", notò il Parlaschino, « sono tutti filati da una sola conocchia, la prepotenza. Pigliali dal capo o dai piedi, sotto la divisa di Spagna, di Francia o di Germania, troverai corpo e anima di solennissimi ladroni. Tra i flagelli che Dio manda in terra bisogna annoverare il transito delle truppe, e metterlo in riga, subito dopo la peste di san Carlo ». « Paolo Giovio di Como », citò un'autorità storica il Parlaschino , « non ha forse lasciato manoscritte queste parole a' suoi ? (1) »

« Traboccando il lusso e la licenza, le più nobili matrone ruppero a libidine sfacciata; e mentre i Francesi, uomini subiti, liberali, violenti in amore, già n'avevano parecchie contaminate, gli osceni Spagnuoli, astuti, importuni, con assidui corteggi e scaltri artifici salirono al talamo di molte. Giacchè altre per cattiveria e lascivia, quali per gran prezzo, le più per ambizione, per tema, per rivalità delle altre, fanno getto del pudore. Che se alcuna savia e pudica rifiuta gli ignominiosi proposti, non è da nobili cavalieri corteggiata, si mandano soldati a far sacco nelle ville e nelle sue campagne: nè si finisce sinchè i mariti se ne ricomprino colle notti delle mogli. Casa alcuna non è sicura dalla militare avarizia, se la padrona non si spalleggi della brutta lascivia di alcun insigne uffiziale ». -

«Oh, che razza di satiri! » esclamò don Viviano. «Lascia un po' stare la foia di que' cani da pagliaio », suggerì l'altro, « e senti quello che ultimamente mi toccò leggere sopra la pitoccheria che i re di Spagna hanno nelle ossa. Siamo a'tempi di Fer- dinando e d'Isabella, re d'Aragona l'uno e di Castiglia l'altra .. » «Quei che hanno mandato il povero Cristoforo Colombo, dopo un regalo d'un nuovo mondo, a finire in una carcere ». «Essi proprio, le due più famose anime ingrate che siano albergate in corpo umano. E quello ch'io ti racconto adesso è appunto un altro esempio della loro trista coscienza verso chi li ha arricchiti di una nuova corona. Gonsalvo di Cordova, il grande capitano, che conquistò l'Italia, un giorno fu dal re chiamato a rendere i conti delle somme ricevute durante la guerra.

(1) Da un dialogo latino manoscritto presso la famiglia Giovio In Como. »La lista del denaro ricevuto era la seguente:centotrentamila ducati la prima volta; ottantamila scudi la seconda; tre milioni di scudi la terza; undici milioni ]a quarta; tredici milioni la quinta; e oltre a ciò venivano altre somme che il tesoriere del regno presentò per secondare gli ordini emessi dalle loro Maestà. »Il gran capitano, alla presentazione della nota del denaro che gli era stato consegnato, rimase non poco mortificato; e all'ingiunzione di giustificare il come l'aveva speso, rispose, che non s'era preparato a dare soddisfazione su ciò, ma che il giorno appresso non avrebbe mancato di darne conto esatto. In fatti, ventiquattr'ore dopo, si presentò avanti il Consiglio presieduto dal re e dalla regina in persona, ed aperto un gran libro, ad alta voce cominciò a leggere così: -« Duecentomila settecentotrentasei scudi e nove reali spesi fra poveri, monache e frati, affinché pregassero Dio per la prosperità delle armi spagnuole. -» Centomila scudi spesi in pale, picche, chiodi, tende ed alcune armi. -» Cinquemila ducati spesi in polvere e palle. -» Diecimila ducati spesi in guanti profumati, per preservare la truppa dal cattivo odore che tramandavano i cadaveri dei nemici, sempre abbondanti sui campi di battaglia. -» Cento e sessantamila ducati per porre e rinnovare campane, che si ruppero con l'uso continuo di suonare tutti i giorni per le nuove vittorie riportate sopra i nemici. - » Cinquantamila ducati per acquavite da distribuirsi alla truppa il giorno della battaglia. - » Un milione e mezzo di ducati per mantenere prigionieri e feriti. - » Un milione in messe ed in Tedewn all'Onnipotente. - » Tre milioni in messe per i morti amici e nemici. - » Settecentomila e settecento novantaquattro ducati in spionaggi, ecc. - » Cento milioni, infine, per la pazienza che ho avuta ieri nello apprendere che le loro Maestà mi domandavano dei conti, dopo che ho loro regalato un regno. - « I tesorieri rimasero confusi; gli assistenti si contorcevano per contenere le risa; allora il re e la regina levarono la sessione, ed ordinarono che non si facesse piú menzione di tale rendiconto ». Don Viviano rise di tutto gusto, e, stropicciandosi le mani: « Il gran capitano » disse « ha avuto una buona lingua in difesa della sua buona spada ». Ma noi lasciamo i nostri due letterati in sala a divertirsi a' panni de'Spagnuoli, e rechiamoci al letto del malato. Ormai gli è passato il capogiro che minacciava di stramazzarlo a terra morto, e anche la febbre gli è diminuita. Al fianco destro col polso in mano gli sta il medico, e al fianco sinistro il Grattapancia, nell'attitudine d'un soldato che aspetta gli ordini del suo superiore. "Nissuno però, sei ben certo, che non v'abbia visti ? " diceva in quel punto il padrone. «Anima viva no. È un'ora quella, in cui si può andare attorno senza camicia per quanto alla vergogna della gente ». « Va bene : ma occhio che nessun curioso venga a aleggiare d'intorno la casa, finché v'è il morto. E.... e il pugnale recalo sua me, che me lo tenga per memoria! » Il bravo, con un inchino, lasciò la stanza. " Don Sigismondo, mio buon amico disse rivolto al Boldoni" « Credete che, per domattina, io possa accompagnare il mio povero fratello al camposanto? « Lo spero, perché il polso è migliorato, e da qui a domani abbiamo una dozzina di ore, per rimettervi calma nel sangue e pace nell'anima". «Calma nel sangue sì, ma pace nell'anima mai più in eterno! esclamò, con accento d'ira e di dolore. «E non avete potuto scovar nulla dai vostri uomini ?" «Nulla, che mi metta sulle vere tracce dell'assassino. Ma io ho un sospetto, che mi brucia il cervello come un ferro rovente. "Non inviperitevi d'ira " , gli raccomandò il medico, « se vi preme domani rendere gli estremi offici di pietà al fratello, e recarvi dal pretore a notificare il delitto . «Eccomi.... tranquillo come un olio », disse l'Arrigoni, mal calando l'agitazione. Poi, provandosi a calmare l'affanno che gli lacerava il cuore: «Don Sigismondo », disse, « che fortuna è stata di passare voi davanti la mia casa, mentre quel violento male mi assaliva ». «Venivo da Barsio, da casa dei Manzoni, miei buoni amici... "I Manzoni ! » ripetè l'Arrigoni. « I Manzoni vostri amici! » e guatò fisso il medico, come avesse paura che questo pensasse d'avvelenarlo.» E perché non saranno miei amici ? » rispose il Boldoni. « Non è forse mia madre della famiglia Cattaneo di Primaluna? E la mia famiglia fu sempre di casa dei Manzoni, e mio nonno fu a Barsio a far visita a san Carlo, che alloggiava da quei nostri amici, e lo trovò a tavola coi notabili, i preti e i frati della valle". «Anche voi siete inguelfato di san Carlo sciamò l'Arrigoni, «come se in paradiso non vi debba entrar più nissuno senza il suo permesso ». «Io non son co'santi in chiesa », rispose il Boldoni,

« soltanto amo e rispetto chi amò ed ama, rispettò e rispetta i miei : così io la penso ».

« E cosi la pensate tutti voi altri di laggiù a Bellano, tanto che avete messo insieme del denaro per regalare un candelabro che non lasci dormire san Carlo all' oscuro. Un oratore in duomo a Milano è scappato fuori a paragonarlo a Carneade ; adesso manca che anche il prevosto di Bellano il quale si picca d'estro poetico, salti fuori con un qualche confronto magno, e paragoni il cardinale, che riposa i sonni eterni in una cappella della cattedrale di Milano, lo paragoni, per esempio, a Platone o a Carlomagno... » « Voi vi appalesate troppo nemico del nome Borromeo per esser giusto », lo ammoni il Boldoni. «Caro don Sigismondo, convenite meco che un santo fabbricato dopo venticinque anni, dacchè lasciò pastorale e mitra può valer poco pei contemporanei. Volete fabbricar uno e cimarlo santo senza un difetto al mondo ? Aspettate i cento anni, come ha continuato sempre fare la Chiesa per lo passato ». «Lasciam stare la questione del santo; e ragioniamo, se volete, dell'uomo ». «Sentiamo da qual parte vorrete prendere a glorificarlo ». «In mezzo a tanta privata e pubblica miseria non ci è forse di giocondo conforto il trovare un uomo che pose ogni cura colle opere e coll'esempio per alleviare i mali della sua età ? «Opere ed esempio! alle prove, don Sigismondo. Et a fructibus eorum, ce ne avverte il vangelo, cognoscelis eos! » «Nato in tempi opportuni si fece chiaro per riforme religiose... » «Come a mutare un ospedale, quall'era quello della Guarisca Arrigoni, al Cantello, in un monastero di benedettine, contro l'espressa volontà, lasciata per testamento, dalla pia fondatrice : belle riforme, e di buona coscienza ! » «Si fece chiaro anche per zelo », seguitò il Boldoni la litania delle virtù affibbiate al santo di casa Borromeo, « per pietà, per santità di costumi » . «La quale santità non gli ha impedito di mettere le mani sulla robba altrui, come ha fatto cogli Umiliati. E voi che siete di Bellano saprete che v'era una casa con un prevosto, e che vi possedeva una quarta parte del borgo ». «Ma voi dimenticate che Gesù. Cristo ha detto agli apostoli, e per essi ai papi, ai cardinali, ai vescovi, ai prevosti, ai curati, ai preti, ai frati e alle monache, e a tutti quelli che si sono battezzati per cristiani, che il suo regno non era di questo mondo? » «Se voi state alla regola del possedere, caro don Sigismondo, in paradiso non trovate un sacerdote su mille, perchè par che adesso il clero si sia fabbricato un idolo del proprio ventre ». «Dunque voi stesso confermate che il Borromeo ha fatto bene a riformare... » «Riformare vuol dir tòr via un abuso, ma non sopprimere e incassare le rendite dei possedimenti altrui...


(1) Alcune poesie di Gio. Ambrogio Sartirana, prevosto di Sellano dal 1582 al 1832 si leggono in una raccolta posseduta dai marchesi d'Adda. " Oh, bei galantuomini anche gli Umiliati, che fanno tirare una schioppettata a tradimento a san Carlo... » «Avevano forse a mandargli dire: - Guardati dalla pelle, che te la vogliano crivellar col piombo ? » «Sempre un delitto; e fu una fortuna che il colpo fallisse, e fosse pronto il mio avo Niccolò a visitargli la parte contusa dal tiro scellerato". « Ma lasciamo andare la schioppettata, la quale fece più male a chi la diede che a quel che la doveva ricevere nella schiena; e sentiamo le belle riforme, che l'han fatto santo ». " Quando egli entrò al governo della diocesi ", rispose il Boldoni, « trovò che la discordia, la lussuria, il tradimento, la simonia, la ra- pacitù ed ogni brutta turpitudine insozzava il clero. Molti fra i sacerdoti commerciavano di vacche e di cavalli, ed erano sì ignoranti che non sapevano manco la forma essenziale del sacramento, nè che vi fossero casi riservati al papa e al vescovo (1) ». «I quali hanno le reti che pescan meglio! » disse, con satirico riso, l'altro. «Egli fondò vari collegi e seminari pel clero, istituì le scuole della dottrina cristiana, ove la festa si doveva insegnare anche il leggere e lo scrivere, mise visitatori e vicari che tenessero congregazioni pievane, elesse i preti oblati per far le missioni, e per coprire le parrocchie più difficili e meno provviste .. » «Questionava come un accattabrighe col governatore; e credendo di fulminarli a parole, non potendo co' fatti, dopo aver fatto suonare un sabbato, tutte le campane di Milano a corruccio, come di morto, la domenica con pompe di terrore faceva leggere nelle varie chiese, e borbottava lui stesso in Duomo, i nomi del presidente del senato, del gran cancelliere, del governatore, scomunicati per aver posto impaccio alla giurisdizione ecclesiastica ». «Era nel suo diritto; e per una volta o due o cinque, ammettiamo, che cozzò co' prepotenti Spagnuoli, quanto bene non fece al popolo, il quale cascava di miseria, col propagare, per mezzo di pastorali ai curati, la coltura del grano; e non lo si chiama ancor forse da noi carlone dal suo nome? » «Oh, quanto a questo benefizio grido anch'io: - Viva il cardinal arcivescovo! e poiché ha dissipato il principato d'Oria, ai nipoti resta d'ornarsi del titolo di principi della polenta ». Il Boldoni lo mirò in faccia meravigliato di trovargli tanta voglia di berteggiare a' panni d'un santo. L'Arrigoni ripetè: « I Borromei gli hanno proprio a sentir gratitudine della vendita del principato d'Oria; ma voi che vi dilettate a tramandare ai posteri le inclite gesta degli avi, scrivete su qualche foglio la mia idea sul principato della polenta! » (1) Oiussani e Oltrocchi: Vita di Carlo, lib. II E tornò a ghignare come un matto. Senza esserne perciò scandolezzato, altro a levargli ogni voglia di scherzare più oltre, prosegui a dire: « Spesso visitava le parrocchie della diocesi, ove più vi era bisogno di ammonire, di correggere, d'istruire; e nei paesi dov'è stato s'addita ancora i luoghi e le strade che percorse, le fonti a cui bevette ». "Una bocca adunque che santifica quel che tocca! " i Nel 1566 vedeva Lecco e la sua pieve, salendo fino agli alpestri villaggi di Brumano e Morterone, ed instituiva la parrocchia di Maggianico (1). Il 23 ottobre dell'anno stesso, passò nella valle Averara soggetta alla pieve di Primaluna, ed ivi eresse in parrocchia la chiesa di san Giacomo. Discese poi nella Valsassina, cresimando il dì 24 a Barsio, il 23 ad Introbbio, il 26 a Primaluna, dove dormì presso la famiglia Torriani..... » "Infatuati del Borromeo, da conservarne religiosamente il letto in cui dormì, ed i lenzuoli! » «E fermatosi in Primaluna il dì dopo a cantar messa, il 28 salì a Premana (1). Trascorrendo quindi la valle di Varrone per recarsi alla montagna d'Introzzo, incontrò un torrente che non poteva passare per essere ingrossato dalle pioggie ». " Lì s'era un santo ", saltò su a interromperlo, come il solito, l'Arrigoni, « un santo di quelli a' quali Domeneddio dà retta, doveva distendere il suo mantello come ha fatto in antico san Gusmeo nel traversare il lago senza barca, ovvero come Mosè batter sull' acqua col pastorale ». «Perché pretendere un miracolo, quando c'era un buon cristiano pronto a prenderselo sulle spalle, e trasportarlo di là? » "Ma ecco che il diavolo ci ha messo la coda, e a mezzo il torrente il santo ha tombolato nell'acqua ». "E che importa, fu un bagno, di cui s'asciugò alla prima osteria trovata sulla strada; e fu tanto paziente di regalare uno scudo d'oro al disgraziato che l'aveva lasciato cadere, invece di fargli amministrare due tratti di corda, come avrebbe ordinato un governatore o un presidente del senato, e anche un pretore. E sapete il torrente che nome ha preso, e porta adesso? Valle del Cardinale (5) ». "Valle del bagno andava chiamata più giustamente, non vi pare? » e fece un sorriso pieno d'ironia. «Nel 1582 tornava in giro dalle nostre parti; visitava Dervio e Bellano, e ritornava nella Valsàssina recandosi il 13 di agosto a Perledo od il 15 ad Esino (4). Valicato il monte scendeva quindi a Cortenova


(1) Cantù: vicende della Brianza. T. II, pag. 26. (2) Dai registri parrocchiali. (8) Gitucani : op. et. lib. II, pag. 139. (4) Dai registri parrocchiali. Balbiani - I FAMOSI UNTORI, ECC. Disp. 5. con un gran mantello, un cappellaccio sormontato da due penne di falco; e al bagliore della lucerna gli ha veduto il viso contornato da una gran barbaccia ove venne accolto dal popolo con indicibile esultanza di venerazione. Gli uomini, le donne, i ragazzi facevano a gara per avvicinarglisi, e toccar la corona, il piviale e la mitria che veniva portata da' suoi ministri ». «E la mitria è poi restata a Cortenova, e la tengono i signori Mornico nel loro oratorio de' santi Fermo e Rustico, come un'ala di Cherubino! » «Da Corteneva, ad istanza d'un oblato di Margno, a cui voleva un ben dell'anima, il giorno 18 salì ad Indóvero a consacrarvi la chiesa di San Martino, e, vestito degli arredi vescovili, con una scala a piuoli ascese sul campanile per benedir le campane, che non si potevari calare. E chi l'accompagnava e gli era a' fianchi, come dissi, era un Valsassinese, Marco Aurelio Grattarola ». «Che, dopo cinque secoli », aggiunse l'Arrigoni, satirico sempre, « disertò dal tabellionato avito per farsi oblato, e farsi mandare a Piuro in Valtellina a far risuonare dai pergami le massime del concilio di Trento. I dogmi di Lutero non lasciavano dormire sonni tranquilli nè al papa, nè ai vescovi.... e nel contado di Chiavenna e in Valtellina a molti pareva miglior vangelo di Cristo la parola tradotta in volgare d'un frate tedesco, che non le bolle latine d'un papa italiano ». « E il Grattarola fu a Piuro verso la pasqua, e trovò che gli eretici, eccitati da un frate ribelle al convento, menavano orge nelle chiese. Però le eloquenti prediche dell' oblato frenarono le menti impazzite, e a sè riguadagnarono gran parte di quegli abitanti. Se non che sapendo gli eretici che era stato arrestato l'arciprete di Sondrio, presero uggia, e chiamarono il Grattarola dinanzi ai tribunali accusandolo di spia del cardinale, di violator delle leggi, perchè straniero era venuto fra i Reti, di propagatore di storte opinioni, di promotore del calendario gregoriano, di segreto istigatore del popolo, e di sollecitatore di notturne adunanze. L'accusato assai bene si difese, e la santità della sua vita, e l'austerità e tranquillità del suo aspetto valsero sul cuore de'giudici » « I quali », volle terminare a suo modo l'Arrigoni, « presolo per un ghiottone, gli commutarono la pena capitale, a cui volevasi condannarlo, nella multa di una lauta cena da darsi ai giudici; ma, accortisi che aveva più prediche in testa che soldi in tasca, gli condonarono anche questa e lui allora pensò bene di sgattaiolarsela, intanto che aveva gambe d'andarsene, a così buon mercato » «Dopo Crandola », seguitò il Boldoni, « andò nelle valli Taleggio, A verara e Torta, camminandovi un mese. Di là per venire a Barsio, dove Niccolò mio avo fu a fargli visita, sali al monte Bobbio, sul quale avendo trovato un pazzo , che gli era corso a porgergli la mano , e gliela strinse » «Una gran degnazione di Sua Eminenza! » notò l'altro. «Nel venir qui nella vostra Cremeno incontrò il popolo, che pro- cessionalmente veniva verso di lui, ed egli si mise fra la folla a cantar le litanie. Confessò il clero della valle che generalmente trovò migliore di quello delle altre pievi, diede alcuni ordini, e perdonò agli abitanti il tributo di un anno che gli dovevano come arcivescovo di Milano, con patto che fosse convertito in ornamento delle chiese (1) ». «Non sono le chiese le case del Signore, ed essi i sacerdoti, e perchè non dovrebbero dare? » « L'anno appresso rivedeva Lecco, e già s'inoltrava di bel nuovo nella sua cara Valsàssina, quando a Ballabio ricevette lettera che stava per morire il marchese Sforza suo cugino, onde tornò indietro per assisterlo ». Qui tacque un istante il Boldoni, e poi conchiuse : «Or parmi bene, don Gian Ambrogio, avervi detto abbastanza qual fosse San Carlo, e come io stimi il suo casato, e il cardinale Federigo in particolar modo ». «Guelfo ! guelfo !. » esclamò l'Arrigoni. « Voi vorreste che lo scettro facesse riverenza al turibolo; e che si facesse l'unum ovile coll'unus pastor, a patto però che questo sia il papa! » «No : io sto col vangelo : a Cesare quel ch'è di Cesare, a Dio quel ch'è di Dio ».

(1) GIUSSANI. Op. eit. lib. VIII. CAPITOLO VI

Blasone e Chierica

Perchè veston di seta e non di panni, Son spettabili viri, ognuno gli guarda, Son come fra gli uccelli i barbagianni. ......... Guardate un prete, quando va per banchi, Che sberrettate egli ha da ogni canto, Quanta gente gli è sempre intorno a' fianchi. F. BERNE In lode dei Debito.

Stettero infermo e medico a guardarsi tra di loro, come due campioni che non lasciano alcun fianco scoperto all'assalto dell'avversario. Ruppe il silenzio pel primo l'Arrigoni, domandando: «Dunque, don Sigismondo, non m'avete ancor detto qual buon vento v'abbia incamminato sul sentiero di casa mia, mentre tanto ne avevo bisogno ». «Già ve l'avrei detto, se voi, togliendola co'guelfi e ghibellini che al mondo non sono pili, non m' aveste impedito di dire quello che già avevo sulle labbra ». «Avete ragione, don Sigismondo; io vi ho fatto saltare di palo in frasca, ma adesso torno nel seminato, e v'ascolto ». «Io venni ieri da Lecco sulla bass'ora, dove il cardinale Federigo Borromeo, nostro buon arcivescovo, m'aveva pregato di procurargli quanti libri vecchi, stampati o manoscritti, potessi trovare, perchè avete a sapere, e il Parlaschino ve lo avrà detto, ch' egli intende fondare in Milano una biblioteca....  » « Ho visto, l'ultima volta che fui a Milano, la fabbrica sul disegno di Fabio Mangoni, e son contento, dopo che suo cugino san Carlo ha venduto il principato d'Oria, gli sia rimasto tanto da spendere ancora come nessun principe si sente in potere di fare ». « A Lecco, dopo esser stato dal prevosto (1) che promise aiutarmi nelle ricerche, ho pensato d'incamminarmi per la Valsàssina, e tirai dritto il viaggio, senza fermarmi, fino a Ballabio, e quindi a Barsio, dove, la notte, ho dormito da Gian Maria Manzoni, che fa vita insieme con suo cugino prete....» L'Arrigoni, a sentir nominare quest'ultimo, atteggiò la bocca, come gatto che, per sbaglio, abbia leccato aceto. « Questa mattina capitò per mia fortuna, e fortuna della biblioteca che sta formando il cardinale, capitò da Primaluna il nobile don Filippo Cattaneo Torriano, il quale ha promesso di farmi vedere e darmene copia, quando l'andrò a trovare a sua casa, di più di cento e sessanta trattati e cento sermoni, oltre diverse memorie storiche (2) di un suo parente Paride Cattaneo Torriani (3). «Un prete che fu a Venezia, poi, dopo qualche tempo, a Modena in qualità di segretario di quel vescovo, poi a Roma, a Siena, a Firenze, a Ferrara, Pavia, ed altrove; e, in ultimo se ne ritornò in patria, dove venne investito d'una di quelle prebende canonicali, finché san Carlo, il gran riformatore, soppresse tutt'e sei i canonicati, e mangi pane, chi ne ha del suo ». « Voi tralasciate che fu anche pronotario apostolico, e membro della Accademia degli Affidati di Milano ». «Come a uno che pretendeva discendere dalla celebre famiglia Della Torre, per cui impiegò la vita quanto l'ebbe lunga a raccogliere memorie in proposito, quei titoli gli calzavano, come un paio di stivali a chi va a caccia in palude ». Il Boldoni, ormai assuefatto, come lo saranno pure i nostri lettori a non badare alle continue ed importune interruzioni, piene pur di sarcasmo, del suo malato, prosegui : "Lieto adunque di poter recare, dopo le ferie di pasqua, tornando a Pavia, alcuni manoscritti al cardinale arcivescovo per la sua biblioteca, io pensavo di recarmi la stessa giornata di oggi ad Introbbio nel locale del collegio de' notai della Valsàssina, quando un biglietto mi fece mutar strada e . «Un biglietto! e di chi? » «Uno strano, stranissimo biglietto vi dirò, perché di simile, in fede di Nostro Signore, è il primo che mi capita fra mano ».


(1) Longo Gio. Pietro ritratto dall'anno 1625 al 1630. (2) Le opere che rimatore, é lui, e per le quali è benemerito sono le seguenti: Cronaca dal principio del mondo finoi nostri (circa l'anno 1560); un Breve discorso sopra la città di atélano; un Breve sommario della origine della nobil famiglia Torriana ; una genealogia della nobil famiglia della Torre, qual comincia dal principio del mondo fino a' giorni nostri, cioè 1535 circa le calende di luglio, ed una Cronaca dei Torriani, e Descritione della valsassina. (3) Nacque in Primaluna da Galeazzo nel 1531, e vi morì nel 1614. " Una sfida no, chè di duelli siete pratico, tanto che v'hanno messo fino in prigione: dunque cos'era ? » «Era... ciò ch'io non lo so ben spiegare neppur adesso a mente posata,.... era un avviso segreto una specie di biglietto minatorio... » « Per l'anima di Dio! che v'era scritto su? » «Queste sole parole, che parevano dettate da uno spartano: - Casa Arrigoni di Cremeno ha bisogno del medico... » « Questo v'era scritto? » « E sotto ancora: - Mors ferro nostra mors! » «E l'assassino del mio povero fratello ! » ruggì, come fiera ferita in un fianco, l'Arrigoni; e una vampa di furore col flutto del sangue agitato gli salì al viso. Il medico fu pronto colla mano a consultargli il polso, se mai sovrastasse qualche pericolo. Ma non accadde nissun sinistro, e l'infermo, col dismetter della collera, riebbe il polso calmo. Anzi provò a discorrere come prima, e tranne un po' mozzicate tra i denti le parole gli uscirono libere dalla gola. «Mors ferro nostra mors! » ripetè , e tornatogli in mente, che la stessa funerea sentenza aveva trovata sulla croce, mandatagli disegnata dentro la lettera misteriosa, si sentì di nuovo assalito da un fremito, che passò presto anch'esso. « E il biglietto », domandò poco dopo, « vi fu consegnato a Barsio? » " Nell'uscir dal paese, per andare a Introbbio, mi s'accostò un uomo che mi parve un carbonaio al viso e alle vesti, e mi domandò, s'io ero il dottor Sigismondo Boldoni di Bellano ». «E come colui ha saputo il vostro nome ? » «Grillo lo sa: perchè tranne in casa de' Manzoni, a cui sono famigliare , in Barsio, io credo , nessuno conosca s'io mi chiami Giorgio o Martino ». «A tavola quanti eravate? » « In sette; don Gian Maria, il prete, due altri, vestiti alla buona, che dal viso e dalla confidenza parevan cugini... » a L'uno avrà avuto nome Francesco... » a Appunto ». «L'altro Simone ». a Precisamente ». «Il primo noi lo chiamiamo il Bonazzo, e sta di casa qui al ponte di Cremeno ; e l'altro il Gambarello: sui quarant'anni tutt'e due, e cogli occhi e la barba e i capelli neri, come l'ala d'un corvo... » " Essi proprio, vi dico; i quali facevan quattro, io cinque, don Filippo Cattaneo sei, e una certa Caterina... Caterina... adesso il cognome m'è sfuggito?... che fa sette... » «Caterina Rozzona », suggerì l'Arrigoni, è l'amica del Bonazzo, cioè di quello che si chiama, in ragione di battesimo, Francesco Manzoni. Ed eravate voi sette soltanto? » «A tavola si, ma sul finire venne un tale, ch'io ho veduto allora per la prima volta, e che mi pareva ben disgraziato o ben misantropo, perchè s'è seduto come una mummia, quasi senza fare una parola » «Vestito di nero? » «Come un prete, e siccome tale non mi parve, l'ho creduto per lo meno un vedovo da poco. Anzi alle poche parole, che gli cascarono, dopo una buona mezz'ora, di bocca, mi sembrò un Milanese, per quella benedetta s che loro hanno il difetto d'infilzare al posto della z ». «Avete avuto lungo discorso con costui? » «Se non apriva bocca, neppure ad assaggiare, per buona creanza, il vino che il prete, cugino del padrone di casa, gli aveva versato? Le poche parole tra noi corse furono sulla gran novità del giorno, cioè la biblioteca che va formando il cardinale arcivescovo, e si discorse della gente spedita da lui in Europa, in Tessaglia, in Soria, e in altre parti d'Oriente a raccogliere quantità di libri e codici greci, latini, arabi, ebraici, etiopi, cofti, armeni, turchi, indiani, persiani... » «Bene ! Benissimo! » approvò l'Arrigoni, col far d uno ch'è stucco e ristucco di sentire una cosa... « Gli avete però voi detto il vostro nome? » a "Siccome si parlò di Bonaventura Cavaleri, allievo del Galilei e scolaro del Torricelli, che fa parte del collegio dei dottori adetti alla biblioteca, e della sua opera la Geometria degli indivisibili, ed io dicevo di conoscerlo personalmente, e che il cardinale aveva fatta una savia opera ad ascriverlo in quel posto, siccome quello che comprendeva i meriti di quel sommo uomo... il Milanese, vestito di nero, desiderò sapere il mio nome, e poco dopo, alla guisa che venne, se ne andò, quasi insalutato hospite ». «E voi come l'avete giudicato?» «Un matto sulle prime ; ma poi don Gian Maria mi contò che aveva avute troppe disgrazie in pochi anni , e che queste l'avevano fatto cosi selvatico. Ma voi, coi due passi che sono da Cremeno a Barsio, dovete ben conoscerlo quel misantropo ». «Io... io... attendo a' fatti miei », rispose , alquanto imbarazzato l'Arrigoni. «Rumores fuge, è un savio proverbio per città, ma in una valle tranquilla come questa. » «Io non m'addomestico cogli orsi... poi io la penso ghibellinescamente, e in casa Manzoni sono tutti guelfi... » «E dàlli co' Guelfi e Ghibellini che non sono più » , esclamò il Boldoni non avvedendosi, che quella ragione portata dal suo malato non era la vera, come gli traspariva dalla fronte annuvolata. Toccò ancora all'Arrigoni a riprendere il filo del discorso. a Sicché voi non siete mica partito con quel Milanese da casa dei Manzoni? » " Tre ore dopo, e forse più. E come dico, appena lontano quattro passi delle ultime case di Barsio, sulla strada che mena ad Introbbio ho trovato questo carbonaio, il quale, saltato fuori da dietro una ceppata di faggi, dove pareva appostato ad aspettare qualcuno, mi domandò s'ero io il dottor Sigismondo Boldoni di Bellano ». « E voi? » « Gli risposi pronto di sì, e attesi che volesse mai da me quello sconosciuto. Fu allora che trasse di sotto il farsetto il biglietto, e tornatomi a far dire ch'ero proprio io in persona il dottor Sigismondo Boldoni di Bellano, me lo diede, e mi disse insieme: - Veda, cavaliere illustrissimo, cosa le scrivono » «Allora andavagli domandato, chi glielo aveva dato" . «Oh ! subito fu la prima mia domanda; ma colui si scusò in una parola sola che non conosceva la persona che di vista... » «Dovevate farvi dare almeno i connotati a, disse, con ansietà , l'Arrigoni. « Diamine la furia! io non fo mica il bargello da cercar che occhi, che naso, e di che colore sono i capelli del prossimo» . L'altro si morse dal dispetto le labbra, e non osò domandar più nulla. Ma il Boldoni, capito che l'aveva pizzicato sul vivo la sua risposta, subito soggiunse: « Vi pare giusto, che io chiedessi tante cose ad uno il quale non sapeva neppur da che parte si cominciasse a discorrer con un po' di senno, e non faceva che ripetere la stessa storia di non conoscere quella persona neppur di vista? » « Pare impossibile! » " Lo stesso anche a me parve, per dio Bacco! perchè si affida un 'biglietto ad uno che non si conosce, perchè lo passi ad un terzo che anche lui non conosce ?... » " Quel ch'io riflettevo adesso" «Ed io ci ho pensato fin dal momento, che ho ricevuto il biglietto, e ho detto tra me: - Gatta qui sotto cova! E ho stretto e serrato lì colle domande, proprio tra l'uscio e il muro, il carbonaio, il quale allora contò una filastrocca, da cui vedete anche voi se ci potete cavarne un costrutto ». "Ce lo caveremo, e bene; e troveremo il bandolo di questa matassa, tanto da fabbricarne una fune per chi ha assassinato il mio povero fratello". «Ha cominciato a dire ch'egli è proprio un carbonaio del paese di Pasturo, da dove era venuto la mattina ad Introbbio per far arrotare i ferri da fender la legna". " E li aveva i ferri? » " Me li ha mostrati per verità di quel che diceva; ed ha soggiunto che, a voler metter fuori un suo sospetto, quella persona, la quale gli aveva dato il biglietto, era la medesima che, due ore prima dell'alba, era passata dalla sua capanna sul monte, e aveva chiamato lui per nome ». «Dunque si conoscevano? » «Ma no. E qui dove perdeva appunto il capo il carbonaio; il quale; credendo sulle prime che non chiamassero lui, perchè di Giovanni De-Divizi, com'è il suo nome e cognome, a Pasturo ve nè altri, aveva pensato di non aprire. Picchia però e ripicchia quel di fuori, gli toccò vestirsi, e andar fuori colla lanterna in mano a vedere ciò che volessero da lui », «E trovò? » «Trovò un uomo di circa la sua età, con un gran mantello, un cappellaccio sormontato da due penne di falco; e al bagliore della lucerna gli ha veduto il viso contornato da una gran barbaccia, dov'erano più i peli grigi che i neri ». «E gli ha domandato cosa volesse? » « Certamente; e quello gli ha gradito: - Voglio scaldarmi, ch' ho la carne intirizzita dall'aria della notte. Per Dio! era tempo, che mi aprissi la tua maledetta capanna. - Fuoco, fuoco! gli rispose egli: la legna è verde, e con tutta la brace dell'inferno non si riuscirebbe ad accendere una fiammata. - E tu va alla fossa, e reca carbone. - Non ho esca, nè acciarino. - Li ho io. E non sapendo che diavoli d'armi potesse colui aver sotto il mantello, gli convenne obbedire" «Un bandito di sicuro! » «Così lui lo ha creduto; e quando fu acceso il fuoco, o meglio suscitato una gran nube di fumo, tra cui l'uno non vedeva l'altro, cominciarono a discorrere. Seguitando lo sconosciuto a chiamarlo Giovanni, egli gli domandò chi gli aveva detto il suo nome, e quello rispose: - Il Padre Eterno. - Cosa? - Il Padre Eterno, e si mise a sogghignare della meraviglia del carbonaio, il quale credette davvero d'avere a fare con uno stregone". «Scommetto che avrà avuto paura quel povero montanaro ». « Paura si un po', che fosse, come dico, un mago di que' che vanno alla tregenda il sabbato colle streghe; e un po' che fosse un qualche brigante, come ne sono tanti sulle montagne di confine col Bergamasco, il quale gli menasse un colpo a tradimento. E per ogni buona ragione colla mano destra toccava il manico dell'accetta, colla quale avrebbe avuto una buona difesa pronta. Finalmente dopo fumo e fumo, che levava il respiro, benchè avesse lasciata socchiusa la porta della sua capanna, scoppiettò un'allegra fiammata dal fascio delle ginestre e de' ginepri buttati sul focolare; e i due compagni poterono guardarsi in viso ». « Questa volta l'avrà ben riconosciuto! » «Ohibò! dacéhè mondo è mondo, mi narrava egli, era quella la prima volta che gli capitava davanti gli occhi quel viso cupo, che pareva in collera con tutto il genere umano. Guardò, per prima cosa, se gli potesse scoprire armi in dosso: ma chi gli poteva veder sotto il mantello che si teneva addosso? Quel che gli dava maggior sospetto, erano le mani che teneva nascoste, e forse posate sul manico d'un pugnale, o sul calcio d'una pistola ». «E... cos'accadde, in fine, con questo metà orso e metà brigante? » domandò impaziente l'Arrigoni. « Nulla. Soltanto al carbonaio pareva di vedergli la ciera d'uno a cui l'hanno fatta grossa, o è lui che la vuol fare agli altri ; perchè trabalzava d'in sulla panca, dove sedeva; e doveva aver anche la gola ben secca, perchè chiese, con voce strozzata, da ber ; del latte. - Dove vado io adesso a indovinare l'alloggio d'una vacca o d'una capra su pella montagna, per poterle mungere? - Allora dammi acqua, e sia ben fresca. - Oh, i bei calori che fanno, per cercar... Ma non lo lasciò terminare, e gridò di nuovo: - Acqua fresca, per Dio che ti tenga lontana dalle disgrazie, o Giovanni. - Ma come fa lei a sapere, che io ho nome Giovanni... - Giovanni De-Divizi , acqua al tuo ospite, disse questa volta in tuono di comando , e con una voce che , per l'arsura della gola, pareva il sibilo d'un basilisco irritato ». « Doveva portargliela questa maledetta acqua, e mettervi un pizzico d'arsenico da fargli passare la mattana di salire in montagna a disturbare un povero carbonaio che dorme, per farsi dare da bere dell'acqua fresca in primavera ». « Credereste ? recatagli una mezza secchia d'acqua, attinta li fuori ad un fontanile, la bevve tutta in due sorsi, come se si fosse trattato d'un bicchier di latte. Per me quell'uomo, io giudico, che aveva o fatta una gran corsa, o veramente il sangue infiammato... » " Come un'ora fa l'avevo io, e la sete mi comincia adesso », e il malato, avendo il braccio destro fasciato pel salasso, tirò fuori di sotto le coltri il sinistro, e colla manó tolse da un tavolino una tazza di vetro piena d'acqua di miele e d'orzo, che tracannò d'un fiato. «Appena l'alba cominciò a farsi in cielo, mi raccontava il carbonaio, quel mio ospite singolare si alzò, disse che dentro c'era un fumo da soffocarvi, usci, e non l'ho più veduto, tranne che fosse proprio quello che mi diede poco fa la lettera, coll'ordine di consegnarla nelle proprie mani del signor dottore Sigismondo Boldoni di Bellano, che ho il piacere e l'onore di riverire nella sua garbatissima persona ». «Non ci capisco niente io », esclamò l'Arrigoni, facendosi serio. «E chiaro come il sole. Il carbonaio parti a giorno fatto dalla sua capanna, è stato a Introbbio pe' suoi negozi, nel tornare ha trovato... » «Ma come si fa a non conoscere un tale col quale si è stati insieme, s' è discorso un quattro o cinque, mettiamo anche sette ore prima ? » notò l'altro, voltandosi impaziente di fianco nel letto. « Sapete cosa m'ha risposto colui, quando gli ho fatta quest'osservazione? M'ha risposto che son tanti gli asini che s'assomigliano, e che ciò quanto a faccia era lui, naso, occhi, barba, tutto; ma quel che gli aveva rotto il sonno sul monte aveva mantello, cappello e brache da tutt'altro che distinto cavaliere, come chi gli aveva consegnato il biglietto ». « Ah ! un cavaliere dunque... » esclamò, con un ruggito di belva feroce, l'Arrigoni. « Un cavaliere che mi fa la gentilezza di mandarini il medico a casa ! Per Dio ! è troppa cortesia cotesta ; non vi pare, don Sigismondo ? » « Io rimasi, come dico, estatico. » «E questo paladino grazioso è giovine? è vecchio? » «Saprallo il carbonaio; poi neanche lui lo sa, chè me l'avrebbe detto, dopo ch'io gli ho fatto sdrucciolare in mano qualche cosa di meglio d'un grazie colla bocca ». «Il biglietto voi l'avete letto subito? » " Non aveva fatti due passi lontano da me il carbonaio, ch'io avevo già letto quel singolare invito od ordine che sia, senza nessuna firma, e con sotto quella sentenza che starebbe meglio scritta sulla trave maestra d'una forca, che non sopra una lettera ». «Mors ferro nostra mors ! » ripete ancora l'Arrigoni. « E che vi parve volessero ripigliare queste parole? » «A dir come la pensai in quel punto, e verifico adesso quelle parole mi venivano a dire, ch'era stato commesso o doveva commettersi quanto prima un assassinio; e mi misero le ali ai piedi, sperando di arrivare a tempo a trattenere l'anima in corpo a qualche cristiano, ferito a morte ». « E invece avete trovato un morto, che per poco non trascinava anco me, bell'e vivo e a tavola, nel sepolcro » « Anche la vipera in farmacia è salutare », disse il medico a Un nemico vi voleva far male, e, in cambio, gli dovete la vita ». « Si, ma qual vita attossicata, vedova di gioie, piena di sospetto e d'odio? » rispose l'Arrigoni, con un accento di dolore profondo. « Io e don Silvio, il mio buon fratello, se fossimo nati gemelli, non ci avressimo voluto più bene ; noi la casa, il patrimonio, la famiglia avevamo insieme; gli amici suoi erano i miei, i nemici egualmente. Adesso, morto lui, io solo rimango del ramo di nostra famiglia, un ramo che il dolore e l'odio, che mi ribollano in seno, disseccheranno quando un fulmine non Io scapezzi dall'albero della vita » " Ma il nobil nome degli Arrigoni non finirà mica, dove, Dio non voglia, aveste a mancar voi ». a No, per castigo de' nemici del mio casato: la famiglia Arrigoni, originaria di Vedeseta nella Valtaleggio.(1) »


(1) La Valtaleggio o Valtaeggio fa parte del distretto dì Zogno, pure nella Provincia Bergamasca. "Quella valle", lo interruppe il Boldoni, « che si stende dal sud al nord per otto miglia circa, ed ha la figura di un quadrilungo irregolare, traversato longitudinalmente da torrente, che credo dia nome al territorio, stretta ed angusta che non ha la centesima parte di terreno orizzontale e piano, con montagne irte e minacciose.... » « Ad esservici stato a dimorare un mese non la descrivereste meglio », lodollo l'altro. " Ebbene da qui è originaria la mia famiglia, la quale poi s'è suddivisa in vari rami, che hanno dato frutti di begli ingegni». «L'aria generalmente sottile », notò il Boldoni, « punge gli ingegni, e li dispone alle speculazioni richieste dal bisogno, mentre comunica alla macchina il maggior grado di robustezza ». «Lasciato da parte », cominciò l'altro a noverare, « Pier Paolo Arrigoni figlio di Emilio della terra di Baiedo, ingegno perspicacissimo che da avvocato fiscale salì al grado di questore delle rendite dello Stato, poi di senatore, reggente del supremo consiglio delle cose italiche in Ispagna, ed infine di presidente del senato di Milano, e fu il primo a cui per stima toccasse il titolo di eccellenza, lasciato dunque costui da parte, Fabio e Mario suoi fratelli non furono forse decurioni della città di Milano? Pompeo ed Orazio suoi nipoti, non furono il primo cardinale ed arcivescovo di Benevento, ed il secondo avvocato fiscale ed autore di opuscoli legali, dei quali dovreste tór copia per la biblioteca del vostro Borromeo? Pier Jacopo, professore di rettorica nel collegio di San Simone in Milano, non fu l'autore d'un opuscolo latino, roba da biblioteca anche questo, stampato cinque anni fa ? » Qui la furia e l'ansietà del vantare i suoi illustri antenati e contemporanei gli intopparono la gola con un nodo di tosse, per cui dovette ricorrere alla tazza dell'orzata. Rimesso in tono di voce, prosegui : « Non furono Giovanni Arrigoni, cameriero del duca Francesco I Sforza ; Matteo, uomo facoltoso a Brescia nel 1438; Giovan Pietro, uno dei dodici del reggimento di Milano nel 1564; Paolo, presidente del senato di Mantova nel 1578; Vincenzo, vescovo in Dalmazia; Orazio, commensale del duca Guglielmo di Mantova; Lelio ambasciatore dei duchi di Mantova a Roma, ed aio di Ferdinando; Camillo, primo carnerado del duca; Scipione, capitano delle guardie?... e mi perdonino quelli che, per poca memoria, non per mancanza di rispetto ho tralasciati ». Sfuriata, senz'accendersi il sangue, la boria genealogica, che gli gonfiava da tanto tempo l'animo, per non poter mai trovare l'amico, il quale gli affittasse l'attenzione delle proprie orecchie per una mezz'ora, don Gian Ambrogio Arrigoni si lasciò andare col corpo, coperto d'abbondante sudore, come sfinito nel letto. Il medico, raccomandatogli di starsene ben acquattato sotto le coltri, lo lasciò solo, promettendogli di mandare il servitore di camera a vegliarlo, dove gli occorresse qualche cosa. Quand'arrivò in sala, trovò accresciuto il numero degli ospiti d'un tale che non seppe subito decifrare, se fosse un prete o un porcaio, tanto gli apparve nelle vesti e nella persona sudicio. Bisognava però che fosse amico della casa, perchè subito gli era stata recata una bottiglia, da cui succhiò senza bisogno di bicchiere, forbendosi poi il grifo colla manica dell'abito, che una volta era stato nero, e adesso non aveva più un colore classificabile. Brutto in viso come tutti i sette peccati mortali messi insieme, e butterato dal vaiuolo come un crivello. La barba rada e di peli ruvidi come le setole d'un maiale. Ecco la prima figura che capitò sotto gli occhi del Boldoni, rientrando in sala. Ed eccovi, lettori, don Modesto , parroco di Cremeno. Abborriva i poeti e le poesie come mi figuro che Adamo ed Eva abborissero i pomi, dopo quella tal disgraziata scorpacciata, fattane nel paradiso terrestre. Quindi don Viviano non gli era sul buon libro, e lo salutava, quando gli toccava passar d'appresso, con quel guardo bieco col quale un cane vede un osso in bocca a un suo confratello. C'era però un mezzo motivo di ragione. Quando dalla Val Cavargna un ordine arcivescovile Io trasferì a Cremeno, s'era fatta un po' di festa per l'ingresso di questo nuovo pastore, e vari preti s'erano messi insieme per accogliere il collega. Don Viviano, venuto anch'egli per riceverlo, non aveva potuto nascondere il ribrezzo che gli fece quell'antipatica figura, e l'altro se ne accorse, e masticò subito assenzio. Mentre sono in chiesa alla solenne funzione dell'installamento dei nuovo parroco, ecco che sulla porta della casa presbiterale si trova appiccicato un foglio, con su questi burleschi versi:

« Chi vuol veder quantunque può Natura In far una fantastica befana, Un'ombra, un sogno, una febbre quartana, Un model secco di qualche figura;

Anzi pure il model della paura, Una lanterna viva in forma umana, Una mummia appiccata a tramontana, Guardi il parroco novo addirittura ».

Or coteste due quartine del Berni, che alludevano al parroco di Cremeno, se togli via l'ultimo verso aggiuntovi da qualche umor allegro, come al papa allude una bombarda (1), per poco non fecero scoppiare


(1) E fu un tratto una vecchia lombarda, Che credeva che 'l Papa non foss'uomo, Ma un drago, una montagna, una bombarda.

E vedendolo andare a vespro in Duomo, Si fece croce per la meraviglia: Questo scrive uno istorico da Como. la bile in corpo a don Modesto, che subito corse col pensiero e coll'odio sul curato di Taceno. " Getta giù un'occhiata benigna, o Signore », esclamò rivolto al cielo, col muso ringhioso d'un cane ch'abbaia alla luna, » e disperdi dalla faccia della terra i poeti!" "E non fate arrabbiare i vostri santi ministri, se v'hanno a servire bene ! » aggiunse Veneranda, la serva del curato ». Da quel giorno don Viviano non ne ebbe più una buona da don Modesto, il quale, per la festa del patrono del paèse e per qualche grosso funerale che capitasse per l'anno, invitava tutti, fuori del curato di Taceno Ma una volta appunto un funerale fu l'occasione di mettergli addosso una febbrona per una settimana. Un'altra sorta di malandrini di que' tempi, che certi bietoloni s'ostinano a chiamar migliori d'adesso, erano gli zingari. Nel maggio 1587, l'Aragon denunziava come ne crescesse il numero ogni giorno: il Fuentes nel novembre 1605 visto che, i Cingari, gente pessima ed infame, vanno vagando, commettendo rubarle li aveva sbanditi e che nissuno li ricettasse o li tragittasse. Ma essi seguitarono a battere la Lombardia in grosse comitive, facendo credere d'avere ordini e patenti per ottenere alloggio come soldati; e capitarono anche nella Valsàssina, venendo una truppa d'essi ad attendarsi al ponte di Cremeno. Gian Ambrogio Arrigoni, che allora aveva vent'anni, come amico del Visconti, capitano di giustizia a Milano, gli mandava a dire, per mezzo del fratello costi ai studi che era arrivata una grossa banda dizingari, « i quali, diceva la lettera, numerosi ed armati violentavano questi sudditi, massime nelle terre piccole, ad alloggiarli nelle proprie case, con il cui titolo ci commettono le rapine, furti e svaligiamenti che sono propri di questa mala razza di gente, ricavando anche d'altre terre estorsioni di danari, col pretesto d'esimerle da sì fatta malvagità  ». Il capitano di giustizia, per chi nol sapesse, era iscelto dal re fra i dottori collegiati, aveva un vicario dottor di legge, e benchè senato sedesse all'ultimo posto, teneva la scorta di sei alabardieri, con giurisdizione criminale su tutto lo Stato, e civile nelle cause de' curiali e degli uffiziali regi. Figuratevi se il Visconti, insignito di tanto potere, non dovesse prestarsi contro gli zingari, e già aveva aizzato il governatore a fulminare una grida, irta di minaccie sanguinose, più che non di chiodi la botte ove fu nesso Attilio Regolo, quando venne a morire, di morte improvvisa, e alcuni volevano dietro un archibugiata, il capo della masnada, attendata al ponte di Cremeno.


(1) Grida del gennaio 1857 del governatore Fuenealdagna. Ora una zingara dopo aver pianto a dirotte lagrime la morte del suo marito capitano dell'orda, diede ordine ad un amico del defunto, che vestisse il miglior vestito del morto, ed andasse in chiesa a dargli ordini per le esequie, e che dicesse ch'essendo l'estinto di nobilissima e ricchissima stirpe, tutti i preti vi intervenissero, acciò si facessero con maggior pompa e decoro. Don Modesto consumò più carta in quell'occasione a scriver lettere d'invito, che nomine avesse sciupata in seminario ne' latinucci; e la Veneranda in cucina parve, la vigilia del funerale, un terremoto contro le tre o quattro sue comari, venute a darle una mano nello sgozzare, sventrare, pelar galline, arrostir polli, lessar quarti di manzo e di vitello, marinar trote del fiume, ammanir pasticci. Leccardo come una gatta il suo curato, come diceva la Veneranda, aveva fatto venire da Lecco un po' di ambrosia degli Dei, così chiamava il cioccolatte, e fattolo stemperare in una gran pentola di latte, doveva servire per prelibata colazione dei reverendi confratelli all'indomani mattina. Più arido che la pomice co' poverelli, gli piaceva largheggiare sui fornelli della cucina, con dispendio inutile, notava la serva, perché mentr'essa faceva onore ai pasti, col diventar grassa come una gallina mantenuta a riso, lui era sempre quel magro impiccato di prima, quando stava sulle montagne di Cavargna, quasi a cavallo delle nubi. Dal numero degli invitati, s'intende ch'era escluso don Viviano; e anzi la Veneranda, per paura che se lo dimenticasse, gli era venuta a ricordarglielo con queste parole: « Mi figuro, che non farà mica la bestialità d'invitare a tavola quel poetaccio maligno di Tacèno ». "Libera nos, nomine!" le aveva risposto, con un versetto del breviario, il curato. Di fatti al funerale v'erano tutti i parroci della Valsàssina, eccettuato don Viviano, che non se l'ebbe mica a male, e quel giorno tirò giù dalla sua musa più versi dell'ordinario. All'ora fissata, don Modesto colla processione de'preti, e una più grossa di popolo che spaternostrava per strada si mise in cammino, cantando miserere, verso la tenda del morto, e v'arrivò che ne inchiodavano la cassa. Brontolate le parole del rituale e spurgata la tenda con quattro spruzzi d'acqua santa, accompagnarono, stuonando tutti ad un punto, il cadavere alla chiesa, dove il sagrestano aveva nel mezzo rizzato un gran catafalco da collocarvi la bara. Poi messa e uffizio da morto, con grand'urli, e consumo di candele. Finite le esequie, il curato, non volendo metter fuori del suo, mandò il sagrestano dalla vedova del morto a domandarle la paga. E perché Taddéo, ch'aveva un po' dello scemo, non s'imbrogliasse sulla ... tutte le loro cose mobili di più valore portarono dentro al medesimo mare in un luogo detto Rivo alto, dove mandavano ancora le donne, i fanciulli, ed i vecchi loro,...

CAP. VII. Pag. 110. specifica delle spese occorse nel funerale, gli aveva consegnata una nota manoscritta, da consegnare nelle mani della vedova. La trovò al cimitero, coi capelli giù per le spalle, come una Madonna addolorata in compagnia della sua figliuola, e circondata dalla truppa de' zingari. Consegnata la carta, la zingara ebbe ad inarcar le ciglia a veder le grosse cifre esposte dal parroco; ma ad un certo punto non potè stare dal ridere, ciò che fece gongolare anche il sagrestano per la speranza d'una mancia di sopra mercato al conto. Don Modesto, con offesa delle accademie italiane, invece di scrivere spese per cera, aveva semplificato in una parola sola cereali; e questo aveva fatto smascellare dalle risa, in mezzo al suo dolore, la vedova del capitano de' zingari. Ma il sagrestano aspettava come un gendarme spedito dall'esattore fiscale, e bisognava pur soddisfarlo. Che pensa ella allora? - A quella chierica li pago io i cereali - e, ricompostasi a dolore, disse al sagrestano: « È ragionevole che ciascheduno abbia il suo, e questo solea spesso dire la buon'anima di mio marito, che mi ha lasciato alquanti beni; e giacché tutti i preti sono concorsi all'esequie del morto, vi prego avvisarli, acciò vengano anche tutti qui a ricevere il pagamento ». Al nostro Taddeo non pareva ragionevole e civile di incomodare tante rispettabili persone, per farle poi venire in quel melanconico luogo, tanto più che i reverendi in quel momento stavano sul finire del pranzo: ma non fece parer di nulla, e andò a recare la risposta prima alla Veneranda in cucina, poi in sala all'orecchio di don Modesto. Obeso com'era dal soverchio cibo, gli toccò di tracannare un altro bicchiere di vino prima di poter aver fiato di parlare; e finalmente, girati gli occhi lustri sulla brigata dei confratelli reverendi, li avverti cilme tutti dovessero, per piatto delle frutta, recarsi al campo santo a ricevere la quota del funerale, e conchiuse a riguardo della zingara colla sentenza latina: rustica progenies semper villana fuit! "Amen! 2 rispose in cuor suo ciascuno. Se a farli sedere a tavola ci vollero dieci minuti, ci vollero due buone ore a far che tutti fossero in piedi, e in ordine di ricominciare fa seconda processione al cimitero. Litigando nel pensiero con sè stesso d'aver messo troppo a buon ruercato il funerale, mentre poteva calcar la penna più grosso su certe cifre, per esempio sui cereali, don Modesto, a braccio d'un castrone suo pari, arrivò alla porta del camposanto, con in coda i preti che saranno parsi agli angioli del cielo una riga di formiconi. Al loro comparire nel recinto dei morti, scoppiò un solo ululato di pianti, da far gemere l'anima di tutt'altra gente che preti, alzati allora da tavola. La vedova, colle mani fingendo di asciugarsi le lagrime, chiamò: "Carmela! Era il nome di sua figlia, che corse a gettarsi tra le braccia materne, come vergognosa di trovarsi esposta agli sguardi di tutta quella mandra sazia, oltre il naturale bisogno, di cibo e di vino. «Carmela, mia cara figlia », le disse poi, « restiamo debitrici noi due a questi degni ministri del Signore, ch'hanno cantato e pregato per l'anima di mio marito e tuo povero padre ». «Giacché hanno cantato per l'anima di mio padre », rispose la figlia, così subornata dalla madre, « bisogna soddisfarli. Cantate voi, ed io ballerò ». E così dicendo, si misero a cantare la madre, ed a ballare la figlia e tutti i zingari intorno alla fossa del morto. Se non scoppiò don Modesto di bile come quella rana della favola rivale del bue, fu un miracolo; però gli mancò la voce, e fu soltanto a casa, co' panni caldi sullo stomaco, che potè prorompergli il rutto della scomunica: «Anatema sit! » I castighi poi invocati dal cielo sopra la testa degli zingari da parte della Veneranda, superarono in numero gli spropositi usciti di bocca al curato in venticinque anni di pulpito e di confessionale. E gli invitati? diranno i lettori. Mogi mogi, come cani scottati, colla coda tra le gambe e il muso a terra, tornò ciascuno alla propria parrocchia, senza neppure poter ridere, perché toccati nella borsa. Don Modesto da sulla porta capito ch'erano mortificati di doversene andare com'erano venuti, li salutò con un versetto delle lamentazioni di Giobbe: «Miseremini mei, miseremini mei, saltenz vos, amici mei (1)! » Uno però più furbo degli altri volle rimanere, e fu don Gregorio, il quale non soleva partire mai da una casa dov'era stato invitato, se prima non aveva visto tabula rasa nella dispensa. «Che ne dice, don Gregorio », gli domandava la Veneranda, poiché il padrone s'era messo in letto colla febbre; « cosa ne dice di questo scandolo? » «Post factum nullunz consilium» brontolò colla bocca, mezzo impedita da una polpetta. «Che sant'uomini benedetti! » gli rispose la serva, « tutti lo stesso ; ma non hanno capito che il latino va tenuto soltanto per la chiesa? » «Già, già! » e la bocca piena non gli lasciò uscir altra ragione. «Dunque è stato o non è stato una porcheria, una profanazione? »


(1) Abbiate pietà di me, abbiate pietd di me, almeno voi, o amici miei! (2) Dopo il ratto non vale alcun parere. domandò ancora la Veneranda, che non poteva da sola smaltire la bile dallo stomaco. Quare tristis es, et quare conturbo me, se di denaro non ce n'è?» cacciato giù il boccone con un bicchiero di vino, finalmente disse don Gregorio in rima. La Veneranda, visto che non abbandonava nè il latino, nè polpette, colla scusa di sparecchiare il tavolo di cucina, portò via il tegame e la bottiglia del vino. Allora don Gregorio, messi da una parte i bisogni del corpo, si rivolse a quelli dell'anima, e, poichè era estate, sdraiatosi all'ombra d'un pero del giardino, provò a borbottare il breviario. Questo accadeva il sabbato ; e la domenica don Modesto, dopo il vangelo arrampicatosi sul pulpito coll'ansia d'una faina che insidia un pollaio, volse un'occhiata sul gregge, e cominciò a parlare di scomunica. A chi sul capo intendesse lanciarla, i lettori avranno capito. Tra le altre preziose novità contate ai fedeli di Cremeno ci fu questa, che siccome i corpi dei santi mandano un buon odore, così quei degli scomunicati sono neri, puzzolenti, enfiati e tesi come tamburi. E, questo era ancor poco, perchè la terra santa, seppellitovi uno scomunicato nel Suo seno, lo rigettava; e quindi tremassero quelli che provocassero la collera del Signore. Visto che il suo buon popolo stava à muso levato, come tanti vitelli alla poppa, ad ascoltarlo, cercò e trovò subito un terribile esempio da sbraitare giù dal pulpito. Per non levare ne aggiungere, riportiamo le sue medesime parole. « Il glorioso sant'Agostino apostolo d'Inghilterra, avendo fatto una predica sulla necessità di pagare le decime, gridò quindi in faccia di tutto il popolo, prima di cominciare la messa. « - Nel nome di Dio Padre, Figliuolo e Spirito Santo, se v'è uno scomunicato in chiesa n' esca, e non assista al divino sacrifizio! « S'ode un gran fracasso, e si scoperchia uno degli avelli, da cui col lenzuolo in capo balza fuori, facendo scricchiolar le ossa, un morto da più di cento cinquant'anni. A tutti, meno il santo apostolo, si drizzarono i capelli in testa, e fu un sol grido di misericordia domandata al Signore. «Dopo la messa sant'Agostino, preceduto dalla croce, andò fuori di chiesa, e cercò il morto, che trovò rannicchiato in mezzo le ortiche in un angolo del sagrato. « - Fratello cristiano », gli domandò, « pel comune segno della nostra redenzione, rispondimi, parche hai tu abbandonato il tuo sepolcro dopo un secolo e mezzo, e sei uscito di chiesa? « - Io sono morto in istato di scomunica. "- Ah, poveretto! » esclamò subito il santo; « ma dimmi, dov'è sepolto il ministro di Dio, che ti ha ha pronunziata contro la sentenza di scomunica; dimmi, ch'io vada teco a fartela cancellare d'in sul capo. "Il defunto rispose che lo procedesse, e gli venne dietro fino in chiesa, e qui gli additò, colla mano ischeletrita, una sepoltura presso l'altare della Madonna. " - Quì giace il buon religioso che mi ha scomunicato, per aver io negato di pagare le decime. " Il popolo devoto stava a vedere, e, ad un cenno del santo, s'inginocchiò, perchè aspettavasi un secondo miracolo. " Levati gli occhi al cielo, da dove viene l'aiuto, sant'Agostino pregò in segreto, poi gridò ad alta voce: "- Frater Blasi, veni foras(1)! "A. quella chiamata, cominciò a moversi la pietra del sepolcro, a sollevarsi; poi a spuntar fuori un non so che di convesso, liscio e luccicante; quindi alzarsi e comparir distinto un teschio, e tutto uno scheletro infine. La folla tremava, il povero scomunicato si lasciò cadere in ginocchio, mentre il santo ringraziava Iddio d'aver rinnovato il miracolo di Lazzaro. "- Fratello Biagio che sei nella gloria del Signore ", gli disse, per la croce di Gesù. Redentore ti prego di assolvere dalla scomunica cotesto disgraziato, che non può aver pace, dopo cento cinquant'anni, per aver negato di pagare le decime. "- Per la croce santa del nostro Signore, tu me lo domandi, ed io non posso rifiutare, e ciò serva d'esempio ai cristiani, adesso e sempre ». "Allungò il morto il suo braccio ischeletrito, e posò la mano sul capo dell'altro morto, e disse: " - Ego te absolvo in nomine Patria, Fili, et Spiritus Sancii. " - Amen! rispose tutto il popolo; e i due morti ripiombarono nei loro avelli". Questa predica, che fece l'effetto di far sdrucciolare molti quattrini nel bosso portato in giro dal sagrestano, non giovò nulla presso la truppa degli zingari, i quali andavano a messa lo stesso, senza paura che la scomunica facesse loro cascar sul capo l'architrave della chiesa. Rassegnato don Modesto, che non voleva guastarsi la salute per le miserie di questo mondo, ripeteva alla Veneranda le parole del vangelo : - Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva ". "E' sbagliato questo suo vangelo ", correggeva la serva: " andava detto meglio così: -Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e paghi ". Ma la Veneranda non terminava qui i brontolamenti, e voleva che

(1) Fralello Biagio, vieni fuori! il curato andasse a casa degli Arrigoni, da quel degnissimo cavaliere ch'era il signor Gian Ambrogio, e gli si raccomandasse per far cacciar via del paese quella scandalosa marmaglia di vagabondi. « Credete voi forse che don Gian Ambrogio sia il re di Spagna di comandare alto e basso? » le faceva osservare il curato. "Non è il re di Spagna, ma ha a Milano di quelli che contano assai, di quelli che hanno sempre ragione ", ribatteva la serva. E a Milano volete forse che proteggano questa gente schifosa, che ha il colore della faccia e i capelli diversi dai nostri, e che va attorno avvoltolata ne' suoi cenci, da cui mandano un tanfo da ammorbare l'aria... e piena di... lei mi deve capire, chè quando andò per quel funerale il dì dopo le toccò di mutarsi da capo a piedi ». « Oh, a questo s'è potuto rimediare; ma ai denari... » e grattatosi in capo don Modesto esclamò: « Sono discendenti di Cam, e basta! » « Cam! » ripetè la Veneranda, più usa a infarinar il fegato che a infarinarsi di sacra scrittura; " Cam quel fratello leccardo, che ha ceduto all'altro la primogenitura per un piatto di lenti... » "Quell'è Esaù: Cam è quel figliuolo di Noè, che quando il patriarca ebbe bevuto la prima bottiglia di vino da lui fabbricato, e s'addormentò senza camicia... » "Adesso so", disse la serva; Cam, invece di coprirgli le... vergogne, ha chiamato i fratelli Giuseppe ed Eliseo.." "Sem e Jafet", corresse il curato; oh, che confusionaria d'una donna, che mi mettete insieme i patriarchi e i profeti coi figli di Noè... "Ebbene chiamati i fratelli Sem e Jafet », prosegui la Veneranda,fece loro vedere il padre nudo.... come un verme. E lei dice che zingari sono discendenti di quello svergognato?" "Discendenti di Cam, inventore della magia ". "Stregoni! " fece la Veneranda inorridita." Fo bene io a non dar loro un becco d'un quattrino per elemosina, quando mandano intorno i loro figliuoli, con un straccio di camicia sola, che non copre loro il.... ginocchio. La moglie del sagrestano si è lasciata trarre a compassione, e ha dato per carità a una zingara che aveva un bambino in braccio e l'altro per mano, le ha dato una moneta, e sa cos' è successo? Tutte le altre monete che aveva in tasca non le trovò più..." "Rubate?" "Ohibò! per stregoneria, andarono a raggiungere la prima ». Ma il curato non si risolveva mai ad ascoltare e mettere in pratica i pareri della serva, benché tutte le volte che incontrava per strada una persona coi capelli cresputi, la carnagione bruna, gli anelli d'argento negli orecchi si tirasse dalla banda opposta, borbottando: " Libera nos, Domine!" Un giorno gli toccò risolversi a recarsi a casa degli Arrigoni, e sarebbe andato a piedi anche a Milano, anche a Madrid a raccoman- carsi alla clemenza di Sua Maestà Cattolica, piuttosto che patire nella sua cara funzione del cenacolo. Un giorno che la serva era andata a Biosio, un paesellino sopra Bellano, a trovare certi suoi parenti, due zingari gli capitarono alla porta, e gli proposero, s'aveva qualche lavoro minuto di ferro, chiavi, toppe, chiavistelli e simili ingegni di comandarli pure a loro, che, come, magnani, avrebbero avuto premura di servirlo. Il demonio dell'avarizia gli mandò un pensiero, e disse: « Farò guardare per casa; intanto m'occorrebbero un paio di gratelle, una pel pesce, l'altra per la carne.... le avreste bell'e fatte? » « Per domani, ch'è venerdi », rispose uno de' due zingari, ch'esercitava rozzamente l'arte del magnano, « può calcolare di mangiare pesce arrostito alla moda del glorioso martire san Lorenzo ». Quel giorno, essendo senza serva, rimediato alla meglio per la colazione, a pranzo ed a cena si recò da don Gregorio, e nel passare dal fiume lasciò ordine al mugnaio, che. gli pescasse un po' di pesce pel domani. Pronti i pesci, furono non meno pronte le due gratelle; soltanto, avutele in mano don Modesto disse al magnano: « Ehi, bell'uomo, voi saprete che io sono in credito per quella volta del funerale ». «s'intende... e le due gratelle costano...» «Mettetele in acconto... in acconto... » e scappò dentro in casa,dicendo tra sè - Ci volevo io a servirli questi gabbamondo, com'ha cia restar la Veneranda, quando vedrà... » Arriva la serva, e, in quel mentre, viene chiamato il curato a confessare un moribondo nel punto più lontano della parrocchia, per cui non ha tempo di dirle altro, se non che prepari i pesci per la cena. Quando tornò, e fu dopo l'Ave Maria invece della sua cara cena, a cui pensando per tutta strada gli era corsa l'acquolina in bocca, trovò pane e raviggiuolo. "Veneranda, mettete i pesci in tavola, e venite anche voi a sedervi, « disse don Modesto. Ma la serva, intenta a far calze, faceva orecchio da mercante, per cui dovette ripetere il comando con voce di preghiera. «Questi benedetti pesci », tornò a dire, « sono o non sono cotti? » «Domandi a Giuda, che li ha mangiati... » «E voi dove avevate la testa », gridò il curato, aizzato dall'appetito e dalla golosità, « di lasciar portar via i pesci dal gatto ? « Glieli ho dati io " ; e seguitò a far calze, non badando ai visacci che faceva il padrone. «Che! che! credete forse, Veneranda, che io compri le trote per i; gatto? » "Cosa predica lei dal pulpito?" cominciò la serva ad ammonirlo: « Non predica forse, che quando una cosa è di standolo va gettata via?" «Cosa c'entra il vangelo colle trote, che m'ha portato il Martino del mulino ? » «C'entra tanto che, come donna timorata di Dio, li ho dati a Giuda, perchè non potevo permettere che un ministro del Signore mangiasse pesci cotti sopra una gratella scomunicata». «Veneranda, Veneranda «, brontolò il curato, « voi finirete a farmi credere che abbiate perduto il cervello..." « A me mi pare che sia lei che ha perduto il... » e si morse la lingua; poi, vedendo che il padrone digrignava i denti come un mastino, a cui si voglia levar di bocca un osso : « Oh ! me l'hanno detto il bell'affare che ha fatto nella mia assenza; ricevere in casa due Zingare. » "Ehi, dico, fu. sulla porta, ed erano due uomini, come me... » corresse subito il curato. «Comprar da loro », seguitò la Veneranda, « le gratelle, fabbricate con ferro scomunicato... E voleva che io, quando della brava gente m'ha avvertito, permettessi che un curato mangiasse del pesce cotto sopra arnesi stati in mano della stirpe di Cam? » Don Modesto, in cuor suo, maledisse Noè, che aveva maledetto Cam, e maledisse anche la Veneranda co' suoi scrupoli ; ma non gli traspari nulla dal viso. Volse l'occhiata bieca, che di ragione sarebbe toccata alla serva, sul pane e sul raviggiuolo, e brontolò: «Fiat voluntas tua! ma dovevate riflettere, donna benedetta, che in me sono due persone in questo caso, prima il creditore, e poi il curato, ed io ho fatto per aver almeno un acconto... » «Ma, benone a, saltò su la Veneranda, con una loquela di cui non l'aveva mai creduta capace. « Mi dica un po', quando il signor Modesto Canape creditore andrà a casa del diavolo, cosa sarà di don Modesto Canape curato? » Non trovando una ragione buona da portarle, don Modesto chinò il capo, e s'accontentò di cenare senza i suoi cari pesci arrostiti sulla gratella. Poi, senza neppur fare il chilo, datale bruscamente la felice notte, andò di sopra, e si mise a letto. Nel calcarsi in capo la berretta da notte, invece di dire, com'era solito: In manus tuas, Donnine, comendo spiritum meum, mandò di cuore un'ultima maledizione al patriarca Noè, che aveva maledetto Cam, alla Veneranda che aveva gettati via i pesci, e a Giuda che li aveva mangiati. La notte fu poi un sogno solo di zingari, di pesci, e di balli dove figurava anche il gatto. L'indomani, dopo la messa, la Veneranda gli recava ;il cappello e il bastone. "C'è forse qualcuno che sta male ? » domandò don Modesto. "C'è, che deve andare a casa del signor Gian Ambrogio Arrigoni, e raccomandargli che scriva a Milano a chi si deve, perché a Crenteno è tempo di far finire gli scandoli ". Il curato, capì in aria l'antifona, e andò come una pecora a raccomandarsi ad una delle bestie grosse del paese. L'Arrigoni, giovinotto allora, che sapeva il brutto tiro giuocato dagli zingari al prete, e n'aveva riso per più d'una settimana, ricevette don Modesto con aria di protezione, e gli promise di interessarsi a far allontanare dal paese quelle pietre di standolo. Anzi, avendo pel dì dopo un pranzo, dov'era invitata una brigata d'amici, pregò il curato di favorire da lui a mangiare un piatto di minestra in compagnia, e cosi potrebbe dargli una risposta quanto agli zingari, ai quali avrebbe lui stesso, in giornata, fatto una intimazione d'andarsene colle buone, prima di metter mano alle brusche. Il giovanotto, che aveva la sua buona parte di scapestrato, intendeva divertire la brigata alle spalle del curato, il quale, preso l'invito come un segnalato onore, se ne ritornò alla casa, edificato della pietà insigne dell'Arrigoni. E alla Veneranda, che l'aspettava ansiosa: « Magnificat anima mea Dominum ! » gridò, levando le mani: «se n'andranno o colle buone o colle brusche! » e narrò le parole fatte con Gian Ambrogio. Il quale intanto, preso il cappello, la cappa e la spada, si recava al ponte di Cremeno. Sull'ingresso d'una di quelle tende, quella che pareva la meno sdruscita vide una bella creatura di quattordici ai quindici anni, che, colle sue piccole dita affilate, intesseva un paniere. Benché di pelle bruna, lo colpirono que' capelli e quegli occhi neri, e quel sorriso ingenuo, che lasciava vedere due filari di denti bianchissimi; e gli venne una viva tentazione di dirle una graziosa parola. Si guardò prima d'attorno, e vide nessuno; soltanto udì un rumore di martelli che battevano ferro, e qualche voce d'un linguaggio, che gli parve tedesco. "Per chi lavori tu questo bel panierino?" domandò alla giovane. "Per chi me lo vuol comperare", rispose d'una voce, che le tremava a dover parlare una lingua che non era la sua nativa. «Allora quel panierino è mio », le disse il giovane galante, e, in pari tempo, le gettò nel grembiale uno scudo. "Grazie, bel signore; e dove glielo porto? " «Verrò io domani a prenderlo, o manderò... » e divorandola cogli occhi: « Come tu ti chiami? « Carmela ». Non mancava il dì dopo il curato al pranzo, e tra i lauti piatti e i generosi bicchieri dimenticò ogni ira contro gli zingari. Cosi di loro non si dimenticava il padrone di casa, e, la notte un servitore fedele riaccompagnava, al ponte di Cremeno, la giovinetta panieraia, che aveva recato il lavoro delle sue mani a Gian Ambrogio. «Oggi parlo, domani scrivo », con queste parole, e l'invito per due volte alla settimana a tavola egli aveva finito a chiuder la bocca al curato, che, se l'Arrigoni glielo avesse comandato, avrebbe anche baciato la vedova del capitano degli zingari. Però, in capo a quindici giorni, dovettero andarsene ; e la Veneranda, accorsa a vederli partire, raccontava la sera al curato, che non aveva veduto le due streghe che avevano ballato nel cimitero. «Le avrà portate via il diavolo belle e vive! » aveva detto una comare. "Oggi non è sabbato forse? " aveva notato un'altra. «Saranno andate alla tregenda ». Intanto don Modesto era diventato tutto di casa Arrigoni, e non passava giornata senza recarvisi a fare una visita. Il padrone si divertiva ad averlo qualche volta a pranzo, e, la sera poi a bere una bottiglia. Nè quel vino era gettato per istrada, che don Modesto non cessava, per tutto dove andava, di portare a cielo la generosità e la grandezza di casa Arrigoni di Cremeno. E il popolo, che beveva grosso alle fandonie del curato, accresceva di rispetto verso don Gian Ambrogio il quale poteva contare così su tutto il paese in un bisogno. I servitori di casa gli avrebbero baciato il lembo delle vesti; i bravi gli facevano riverenze, tranne un solo, il Grattapancia. Il quale, appena aveva sentito don Modesto ch'entrava sotto Patrie della casa, disse al Mangiamoccoli: «S'è sentito l'odore del cadavere, ecco il corvo ch'arriva! » Ma il curato, benché avvertito della disgrazia, prima di piangere le lagrime della condoglianza, aveva pensato bene di salire in sala, dove don Sigismondo Boldoni lo trovò, colla bottiglia davanti, nel ritornare dalle stanze del suo malato. CAPITOLO VII

Il pellegrinaggio in Italia d'un esule.

Quasi stella del polo chiara e ferma Nelle fortune mie sì gravi, e'l porto Fosti dell'alma travagliata e stanca.

PIETRO BEMBO, Canzone.


«Ci caschi addosso proprio in questo momento, come il formaggio Sui maccheroni », gridò al Boldoni il Parlaschino, vistolo entrare; e battendo confidenzialmente sulle spalle del curato di Taceno: « Vedrai, se don Sigismondo ha vissuto al pari della lumaca dentro il suo nicchio, sotto il padiglione d'una foglia di cavolo ». «E che parti ha girato dell'Italia? » domandò don Viviano. «Nel settentrione e nel centro della penisola », rispose per l'amico il professore. " È stato a Venezia" « La Palmira marittima! » esclamò don Viviano. « E unica al mondo », disse il Boldoni, « per la sua posizione, ed una delle più interessanti d'Europa pe'suoi grandiosi monumenti, per le sue gloriose memorie, pe'suoi tesori artistici. Perseguitato, io mi mettevo sotto le potenti ali del leone di San Marco; esule, mi ricoveravo nella città fondata dagli esuli ». « O santa terra, che ospiti quelli che non hanno più una terra a cui dare il nome dolce di patria, nè una zolla dove possano, morti, riposare le ossa in pace! » Così, a modo di giaculatoria, esclamava quell'anima buona di don Viviano, mentre il Boldoni seguitava a questo modo. « Campeggiando Attila re degli Unni Aquileia, gli abitatori di quella, poichè si furono difesi molto tempo, disperati della salute loro, come meglio poterono con le loro cose mobili, sopra molti scogli, i quali erano nella punta del mare Adriatico disabitati, si rifuggirono. I Padovani ancora veggendosi il fuoco propinquo, e temendo che vinta Aquileia, Attila non venisse a trovargli, tutte le loro cose mobili di più valore portarono dentro al medesimo mare in un luogo detto Rivo alto, dove mandavano ancora le donne, i fanciulli, ed i vecchi loro, e la gioventù riserbarono in Padova per difenderla. Oltre a questi, quelli di Monselice cogli abitatori de' colli intorno, spinti dal medesimo terrore. sopra gli scogli del medesimo mare ne andarono ». « Oh, il maledetto flagello di Dio; oh, benedetto il pontefice che dalla città santa gli mosse incontro a fermarlo nel cammino delle stragi! » Don Modesto all'entusiasmo del suo reverendo confratello levò gli occhi alla soffitta, brontolando: - Chi maledice e chi benedice mo' costui! Il poveretto sapeva di storia e di geografia, quanto di moralità un padre barnabita. « Ma presa Aquileia, ed avendo Attila guasta Padova, Monselice, Vicenza e Verona, quelli di Padova ed i più potenti si rimasero ad abitare le paludi che erano intorno a Rivo alto. Medesimamente tutti i popoli all'intorno di quella provincia, cacciati dai medesimi accidenti in quelle paludi si ridussero. Cosi costretti da necessità lasciarono luoghi amenissimi e fertili, ed in isterili, deformi e privi di ogni comodità abitarono ». "Necessitas non habet legem!" scappò fuori con un proverbio, il parroco di Cremeno, per far vedere che aveva studiato anche lui, e aveva capito. " E per essere assai popoli in un tratto ridotti insieme ", andò innanzi a dire il Boldoni, « in brevissimo tempo fecero quelli luoghi non solo abitabili, ma dilettevoli; e costituite in tra loro leggi ed ordini, fra tante ruine d'Italia, sicuri si godevano, ed in breve tempo crebbero in riputazione e forze. Perchè oltre ai predetti abitatori vi si rifuggirono molti delle città di Lombardia, cacciati massime dalla crudeltà di Clefi re dei Longobardi ; il che non fu di poco aumento a quella città : tanto che ai tempi di Pipino, re di Francia, quando per le preghiere del papa venne a cacciare i Longobardi d'Italia, nelle convenzioni che seguirono intra lui e l' imperatore de' Greci, fu che il duca di Benevento ed i Veneziani non ubbidissero nè all'uno, nè all'altro, ma di mezzo la loro libertà si godessero ». "Trai due litiganti il terzo gode!" mise fuori, questa volta, don Modesto un proverbio italiano. " Oltre a questo" , quasi non fosse interrotto, seguitava il Boldoniz a come la necessità gli aveva condotti ad abitare dentro all'acque, cosi gli forzava a pensare, non si valendo della terra, di potervi onestamente vivere, ed andando con i loro navigli per tutto il mondo, la città loro di varie mercanzie riempivano, delle quali avendo bisogno gli altri uo- mini, conveniva che in quel luogo frequentemente concorressero. Nè pensarono per molti anni ad altro dominio, che a quello che facesse il travagliare delle mercanzie loro più facile; e però acquistarono assai porti in Grecia ed in Soria ; e ne' passaggi che i Francesi fecero in Asia, perchè si servirono assai dei loro navigli, fu consegnata loro in premio l'isola di Candia. E mentre vissero in questa forma, il nome loro in mare era terribile, e dentro in Italia venerando; in modo che di tutte le controversie che nascevano il più delle volte erano arbitri". « Oh, sapiente reggimento di popolo! esclamò don Viviano. « Qual diverso modo di governo da quello al nostro. Qui vedete gli umili e pacifici cittadini essere crudelissimamente da superbi, iniqui e potenti abbattuti e soperchiati. Qui vedete le abbandonate e lacrimabili vedove, e gli innocenti pupilli nelle mani degli affamati ed insaziabili rubatori essere miserabilmente straziati. Qui vedete le pudiche e caste vergini perfino dal timido seno delle afflitte loro madri essere rapite e scelleratamente svergognate. Qui vedete i tempi ornatissimi e i sacri e reverendi altari essere profanati e denudati! « A Venezia nulla di coteste infamie , disse il Boldoni.

« Se vedeste solo il San Marco, col piano della facciata ornato dei quattro famosi cavalli di bronzo dorato, che, trasportati da Roma a Costantinopoli, da qui a Venezia vennero condotti, trofeo di vittoria. E dentro le sacre soglie, profusi i marmi, i bassorilievi, le scolture, i bronzi, le dorature ed i mosaici. E la mente vola allo spettacolo qui occorso d'un vecchio nonagenario e semicieco, che brandisce la spada e consacra gli ultimi suoi giorni alla gloria della sua patria, e inginocchiato all'altare si fa mettere la croce sul cappello ducale in guisa che tutta Venezia possa vederla, e sapere di che palpiti generosi batte l'anima in petto ad Enrico Dandolo".

« Viva Venezia, che va alla crociata! » esclamò don Viviano. "Quante memorie gloriose mi destava in Venezia la vista delle navi! E nel veder ondeggiare il vessillo del leone dagli alberi, il mio pensiero volava alla malnata gara che, pel dominio de'mari, s'era più .erudelmente accesa fra le due rivali regine, Venezia dell'Adriatico, Genova del Mediterraneo " . «O divino poeta, come se'stato profe'a di loro, quando gridasti all'Italia:

Cerca, misera, intorno dalle prode

Le tue marine, e poi ti guarda in seno S'alcuna parte in te di pace gode (1).

« Sessanta galere veneziane solcavano il Mediterraneo, predando e alando a fondo tutte le navi genovesi, nelle quali s'imbattevano. Il


(1) DANTE : Purgatorio c. VI. danno grave e l'ingiuria inasprirono gli animi già esacerbati dei Genovesi; che perciò raccolsero in fretta ottantacinque legni, e li spinsero nell'Adriatico sotto la condotta di Lambo Doria, a vendicare le offese. « All'annunzio che la flotta genovese batteva il mare veneto, it popolo si commosse, e il doge chiamò all'armi il fiore della nazione. In pochi giorni si allestirono novantacinque vascelli, e Andrea Dandolo ne fu eletto capitano. « Marco Polo, che aveva già molto navigato, che aveva combattuto e acquistato gran nome, fu de' primi a schierarsi arditamente tra i difensori della patria; e a lui il capitano affidò il comando di una galera. « Salparono in bellissimo ordine; a il di otto settembre del 1298 incontrarono la flotta genovese nelle acque di Curzola, presso le coste della Dalmazia. Circuirono i legni avversari, e gli assalirono. D'ambo le parti si combattè valorosamente; alla fine riuscì ai Genovesi di rompere quel cerchio di navi nemiche, e di portar in esse lo spavento ela morte. Sopraggiunse a gonfie vele un rinforzo di Genovesi, ch' entrati subito in battaglia, fecero decidere per loro la contrastata vittoria. « I Veneziani perdettero 44 navi; quali mandate a picco, quali cadute in potere del vincitore, e un gran numero di prigionieri. Fra questi movevano sopra tutti a pietà Marco Polo, ferito, e Andrea Dandolo, tutto cosperso di sangue e incatenato all'albero maestro del proprio vascello. Quanta era la costernazione che la notizia della battaglia aveva recato a Venezia, altrettanto era il giubilo che destava in Genova, ove la novella era precorsa all'arrivo di Lambo Doria. E quando questi, seguito dalla navi conquistate, s'appressò a Genova , il popolo plaudente , le campane e le trombe assordarono l'aria di suoni festivi. « Lambo Doria entrava trionfante in porto; e Andrea Dandolo, non potendo a quel frastuono e a quella vista frenare il dolore, antepose la morte all'avvilimento; scostossi dall'albero quanto la catena il permetteva, e vi si lanciò contro disperatamente, e, rottosi il capo, fini in tal guisa la vita e la schiavitù. « L'anno vegnente Venezia fu costretta a sottoscrivere la pace coi Genovesi ». Don Viviano tornò alla Divina Commedia, e disse: " Ed ora in te non stanno senza guerra Li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode Di quei che un muro ed una fossa serra (1) ".

"Tristo vaticinio e pur troppo vero! " esclamò il Parlaschino. «E Venezia e Genova durarono inimiche ». Coutinuava sempre l'emulazione tra la regina dei Mediterraneo


(1) Dante: Purgatorio, C.VI. ... venuti oratori fiorentini all'imperatore a pregare, che l'acque delle Chiane non fossero sopra il paese loro sboccate;...

CAP. VII. Pag. 125. e la regina dell'Adriatico », disse il Boldoni : « Già le due repubbliche eransi mosse ben tre funestissime guerre. Cominciarono la quarta nel 1378. Vittor Pisani, ammiraglio veneto, sconfisse la flotta genovese: ma poi, indebolito dalle malattie e travagliato dalle tempeste, fa vinto. I Veneziani ingrati chiusero l'ammiraglio in prigione ». «Solita moneta, colla quale il popolo paga i suoi benefattori! » esclamò don Viviano. « Ma viene poi il dì del pentimento, in cui il popolo si batte il petto gridando: Domino, peccavi! Saputasi questa nuova dai Genovesi, tosto muovono la loro flotta, e, a voga arrancata, s'avvicinano a Venezia, penetrano nelle lagune, pigliano Chioggia, e minacciano d'uno sbarco la stessa città del Leone. La repubblica, trovandosi allo stremo di viveri, senza marinai, senza navi, senza ammiraglio, chiese umilmente pace a qual siasi patto, purchè fosse salva la sua libertà. I Genovesi, risoluti a distruggere affatto Venezia, ricusarono » « Io l'ho pur detto, Dio non paga il sabbato!» « Voi avete ben ragione, don Viviano: e la storia maestra della vita ce lo insegna. Avendo i Genovesi, capitanati da Pietro Doria riprese tutte le città della Dalmazia ed espugnata Chioggia , i rappresentanti della repubblica veneta chiamarono il popolo alla difesa della patria. La necessità destò Venezia a sforzi stupendi: nobiltà e plebe gareggiarono d'amor patrio: si vararono galere, si raccolsero ciurme, si allestirono artiglierie, si sollecitò l'arrivo di una flotta che era in Oriente. "Mancava un capo. Il popolo si ricordò di Vittor Pisani, che era tuttavia prigione ne' sotterranei del palazzo di S. Marco. Corse là. in tumulto, acclamando il nome di lui, e chiedendo che venisse liberato subito e rifatto ammiraglio. "Vittor Pisani udi le grida del popolo, trascinossi alla finestra del suo carcere, - Fermatevi, gridò, o Veneziani. Voi non dovete gridar mai altro, se non Viva San Marco ! - Era questo il grido della repubblica. » Il governo liberò il magnanimo Vittor Pisani di prigione , e lo rifece ammiraglio. Egli allora chiuse ai Genovesi l'uscita delle lagune, e li costrinse ad arrendersi ». «E Marin Faliero vedeste voi dove l'hanno ucciso gli aristocratici ? » « Nel palazzo, dov'aveva regnato io ci fui, e vidi il luogo, dove gli fu mozzata la testa. Qual tremenda giustizia è stata quella! » « Io che ne sono ghiotto, m'augurerei », esclamò il Parlaschino, « di non mangiar più fichi in vita mia, purchè ad ogni pianta penzolasse, attaccato pel collo, un traditore, per seguire il buon esempio dato da Giuda! » «E tutti gli zingari appiccati pei piedi! » aggiunse, colla voce d'un cane arrabbiato, don Modesto. «Eppure Marin Faliero non era stoffa d'uomo di dover finire per mano del carnefice. Vediamo, di fatti, come il caso successe. » I pericoli esterni aveano reso dentro Venezia vieppiù assoluta l'au- torità dei patrizi, e specialmente del Consiglio dei Dieci. Il popolo più non partecipava nella elezione dei magistrati. Il doge medesimo, che eleggevasi a vita ed in apparenza era capo dello Stato, sempre spiato e assistito da alcuni consiglieri, non aveva del potere se non i pesi. » Il doge Matino Faliero fece di ciò dura esperienza. Era egli stato offeso gravemente nell'onore da un superbo patrizio, per nome Michele Steno. Domandonne soddisfazione al Consiglio, ma non l'ottenne. Allora il doge cospirò coi popolani per rovesciare il governo aristocratico. » La trama fa condotta con gran segretezza. Ogni cosa era pronta,e mancava appena un dì all'esecuzione: quando una spia svelò la congiura. A un tratto i cospiratori sono presi: messi alla tortura confessano, e segnano il doge per loro capo. » Marin Faliero venne arrestato. Condotto innanzi al Consiglio dei Dieci, non niegò, e fu condannato a morte. Nel palazzo medesimo, ove egli aveva regnato, gli fu dal carnefice mozzata la testa. Subito dopo uno dei dieci si fece alla finestra, e brandendo la mannaia ancora fumante del sangue del doge, gridò al popolo: - È stata fatta giustizia del traditore ! All'istante si spalancarono le porte, e la moltitudine contemplò il corpo esanime di Marin Faliero ». « Requiem eternam dona eis, Domine! » invocò pace al giustiziato don Modesto. « E il povero conte di Carmagnola »,disse don Viviano, « come fu punito nel superbo viaggio della sua vita! » « E allora doveva starsi a sentirsi intronar le orecchie dalle bronzo delle vacche al pascolo », aggiunse il Parlaschino, « che non gli sarebbe toccato di lasciar la testa sulla piazza di San Marco. Ti pare, don Sigismondo?» « Che vuoi? io mi feci raccontare in Venezia la storia di quello sciagurato, e m'ha commosso ». «La sento volontieri anch'io cotesta storia; ma non contatela troppo campassionevole, perché io sono tenero di cuore, e il piangere mi mette le convulsioni », disse don Modesto, facendosi delle brigate, or che la bottiglia non gli poteva più far compagnia. Il Boldoni incomincio. «Francesco Bussone, figliuolo d'un villano di Carmagnola, custodiva le vacche. Dal luccicare delle armature e dalle parole di alcuni soldati si invaghì del mestiere delle armi, e li seguitò agli stipendi di Facino Cane, signore di Pavia. Francesco aveva anima gagliarda in corpo gagliardissimo: e in breve s'avanzò da oscuro soldato, a condottiero di cinque squadroni. » Morto Facino Cane, Francesco passò a servigi di Filippo Maria Visconti, duca di Milano. Combattè in Toscana e in Lombardia, e n'ebbe in premio le cariche di consigliere di Stato e di maresciallo, il titolo di conte di Carmagnola, e in moglie Antonietta Visconti, parente del duca »Grato il conte a tali favori, diè novelle prove di valore, e salvò Filippo Maria da una congiura di nobili milanesi. Spedito poscia contro Genova, il bravo generale la piglia d'assalto nel 1421, e ne governa il popolo in nome del duca di Milano. » Ma tante virtù e tanti onori, accumulati in un villano di Cargnola, finirono collo svegliare l'invidia dei cortigiani. I calunniatori riuscirono a dare ad intendere al duca che il suo generale si voleva far sovrano di Genova. Filippo Maria, uomo sospettoso e debole, prestò facile orecchio all'accusa, e, con un decreto ingiusto, tolse a Carmagnola il comando di Genova e della cavalleria. » A quella notizia il Carmagnola stupi, e fu punto sul vivo. Venne a Milano, disse ch'era innocente, e supplicò di essere ammesso alla presenza del duca per scolparsi da ogni taccia. L'ingrato principe non lo volle ascoltare. » Sdegnato il Carmagnola per tanto affronto, parte di Lombardia, va in Piemonte, poi a Venezia, per suscitare nemici al duca. Persuade infatti la repubblica veneta di muover guerra a Filippo, e nello stesso tempo è nominato condottiere di quella impresa. Fece tre campagne, e due volte ottenne la vittoria. Conquistò la provincia di Brescia, che tolse al Visconti, e che d'allora in poi fu unita agli stati della repubblica veneta; e nell'anno successivo, che fu il 1427, diede, presso Maclodio, tale sconfitta all' esercito milanese che Filippo Maria tremò sul trono ducale. »La fortuna delle armi non continuò favorevole ai Veneziani, e sospettarono che Carmagnola li tradisse. Colle arti più fine pensarono adunque a levargli il comando dell'esercito, invitandolo di recarsi a Venezia, ove finsero che il Senato avesse bisogno di un suo consiglio. » Il Carmagnola credette sincera la chiamata: ubbidì senza esitare; approdò a Venezia e salì subito a palazzo. Entrato nella sala del collegio e non iscorgendovi il doge, se ne partiva per andare a pranzo a casa sua. Ma appena sceso dallo scalone, gli si fecero incontro otto nobili, i quali gl'intimarono di passare nel carcere ch'era nello stesso palazzo. Quale fu allora il suo stupore ! Confuso, soffocato dall'ira, cedette alla forza, e fu chiuso in prigione. Di lì a pochi giorni venne condotto innanzi al Consiglio dei Dieci. Questi lo giudicarono reo, e lo condannarono alla morte. »Un messo del senato discese nel carcere a leggere la sentenza al conte di Carmagnola. Egli ascoltò con animo intrepido il fatale decreto, poi chiese grazia di vedere ancora una volta la moglie e l'unica sua figliuola. »Appena le donne furono condotte nelle segrete, il conte le abbracciò e disse: - Io vado a morte; ricordatevi ch'io vi ho amato come la pupilla de' miei occhi. » La moglie quasi fuor di sè pel gran dolore, non seppe dir parola, e la figlia rispose: - Ah! perchè non è conceduto a noi di morir teco! »Ed egli rispose: - No, vivete; ambedue vivete; ma quanto più potete in umile condizione. » Ciò udendo le misere donne, struggevansi in calde lagrime. Allora il conte tirò un fazzoletto dalle tasche e porgendolo alla moglie, disse con dignità: - Prendi, asciugati le lagrime; il piangere è debolezza, quando è necessità il soffrire. » Que' teneri pianti che avrebbero commosso le pietre, non toccavano punto il cuore del carceriere; il quale invece si impanzientiva, perché il dialogo andava in lungo. Il Carmagnola strinse allora al seno per l'ultima volta la moglie e la figlia nel piu cupo silenzio, poi, mentre si allontanarono, tenne su loro gli occhi fissi fissi, ma asciutti. Il carceriere avviava le donne verso la porta ; e quando ne furono alla soglia,la figliuola del conte si volse, supplicando al carceriere:- Lascia ch'io, baci ancora la mano del padre mio; ch'io la, bagni di queste lagrime; ch'io sfoghi le mie angosce. - Il, custode non consenti. » La mattina seguente, 5 maggio 1432 il Carmagnola venne condotto, con le sbarre alla bocca, al patiblo. Fra le due colonne della piazzetta di S. Marco fu tagliata la testa ad uno dei più illustri capitani d'Italia, che forse era innocente; ma era superbo, prepotente, e per certo avea dato sospetto di essere 'un traditore ». « Ah, coscienza di Caino quel custode! » gridò don Modesto, misurando un pugno nell'aria. «La superbia lo ha precipitato! » notò don Viviano. " Come la magnanimità", aggiunse il Parlaschino,

« innalzò il suo successore ».

i E come si chiamava, e che fine ha fatto? » domandò il curato di Cremeno, accarezzando la bottiglia vuota. «A rimpiazzare il conte di Carmagnola nel comando dell' esercito veneto, che combatteva contro il duca di Milano, la repubblica di San Marco aveva chiamato in servizio, con buoni stipendi, il capitano Bartolomeo Colleoni, che aveva fatto le sue prime armi sotto Giacomo Caldura. » Postosi dunque alla testa de' Veneziani mostrò somma sapienza nell'occasione di soccorrere Brescia, imperocchè con novissimi ingegni fece trasportare le barche dall'Adige sulla cima di un monte presso Tòrboli, e di là poi le fece calare, con universale meraviglia, nel lago di Garda. Ivi le allestì e le armò. Con questa flottiglia, creata all'improvviso, costeggia, difende le case amiche, assicura a Brescia il passaggio dei viveri, e così le salva dal cadere in mano alle soldatesche del duca. » In quella medesima guerra fu indi costretto daflo scarso numero de' tuoi combattenti a chiudersi in Verona. Ivi non pertanto teneva fronte ad un numero assai maggiore di Milanesi ed a Jacopo Piccinino, loro esperto condottiero. Questi, siccome era arditissimo, s'innoltra un bel di fra le prime squadre venete, che stavano a guardia delle mura; e colla lancia alla mano, alcuni ammazza, altri pone in fuga, e s'apre strada fin dentro la città. Invano si tenta di pigliarlo, chè egli ben sa allontanare col valor suo ogni nemico. Ma nel calarsi da una cateratta, Piccinino vi rimase chiuso. "L'ardimento del soldato incognito e la stranezza del caso andavano di bocca in bocca; sicché lo stesso Colleoni accorse ove, ciò avveniva. Jacopo Piccino, conosciuto nel Colleoni il generale supremo, invocò la sua magnanimità; perché non dal valor de' soldati, ma dalla sorte era stato preso.- Il tuo ardire, i tuoi detti, rispose il Colleoni , ti fanno degno del mio rispetto; il valor tuo ti rende degno della mia amicizia. Nessun uomo t'ha vinto, nè io oso prenderti. Rimani perciò libero, e torna se vuoi al tuo campo. » Il Piccinino, commosso a si benigne parole, vuol baciar la mano al Colleoni in segno di gratitudine; ma questo generoso lo bacia in volto. Poi, datogli una spada: - Prendi, gli dice, accetta il premio del tuo coraggio. Uomo meritevole di miglior fortuna, possa tu eseguir imprese che onorino te e l'Italia. " Dopo che Bartolomeo Colleoni ebbe fatto accompagnare sano e salvo Jacopo Piccinino al campo dei Milanesi, voltossi ad un suo uffiziale, e esclamò : - Piacesse al cielo, ch'io avessi mille soldati simili a costui!» "caso dei due Foscari ", chiese il Palaschino, « non vi ha commosso esso pure? A che croce dolorosa furono posti padre e figlio, e che morte han fatta!" "La caduta di Costantinopoli in mano de' Turchi", disse il Boldoni, « aveva rovinato il commercio di Venezia. I successivi progressi loro impegnarono poi questa repubblica in guerre lunghe e pericolosissime. »Intanto lo Stato si restringeva sempre più nei patrizii. E ben lo seppe la famiglia Foscari. "Francesco Foscari era doge: e i suoi consigli erano stati principal causa degli acquisti fatti in Lombardia. Jacopo, di lui figliuolo, fu accusato di aver ricevuto regali da principi stranieri. Alcune prove concorrevano a suo danno. Fra i tormenti egli disse di si, e fu mandata a confine. » Mentre era a confine, venne in Venezia ucciso il capo del Consiglio dei Dieci. Jacopo fu sospettato reo di questo delitto, e di nuovo fu torturato, e condannato a più lontano confine. " Ma i tormenti e l'esiglio gli turbarono la mente. Chiese e ottenne di venire a Venezia. Sbarcò, abbracciò il padre e gli amici, e tosto riparti. »Poco stante si riconobbe ch'egli era innocente della uccisione imputatagli. Ma invano egli domandò giustizia, invano domandò per grazia di ripairiare. Allora, acciecato dalla smania di rivedere la patria, scrisse a qualche principe straniero per averne protezione. »Le sue lettere furono intercettate. Jacopo venne ricondotto a Venezia, processato, e lacerato colle torture. Non confessò alcuna cosa, e tuttavia fu di nuovo condannato a confine. Il vecchio doge impetrò di vederlo prima della partenza. »Reggendosi a stento col bastone, entrò nella camera ove si medicavano le piaghe della tortura al suo figliuolo. Questi lo supplicò di poter morire in patria. Ma il doge : - Torna all' esiglio , gli rispose : perché così vuole il Consiglio, e obbedisci. Così disse soffocando il proprio dolore: ma nel rientrare in casa, cadde svenuto. Jacopo morì sbarcando nel luogo destinatogli a confine. »Francesco Foscari avea parecchie volte chiesto licenza di rinunziare alla carica di doge : ma sempre indarno. Questa volta il Consiglio l'invitò a smetterla. Egli ricusò : il Consiglio lo depose. » Francesco Foscari uscì dal palazzo dopo 34 anni di dogato glorioso : ma sentendo il suono delle campane, col quale si:celebrava la ettitiertie del successore, subitamente morì » a E dopo Venezia qual città avete visitato! » domandogli don Viviano. " Dall'Adriatico passai al Mediterraneo, da Venezia a Genova, la patria dello scopritore del Nuovo Mondo ». «Cristoforo Colombo, genio italiano anche lui! » esclamò il Parlaschino. " E come ha finito miseramente, e come ha dovuto pitoccare l'aiuto dei re di Spagna per farli padroni delle miniere dell'oro ! » «La storia di questo poveretto è degna d'essere posta nel leggendario dei santi, accanto a Giobbe, e a sant'Àntonio per la pazienza avuta in tutti i quarti d'ora della sua vita », disse don Viviano. « Giacché voi siete letterato di storie" , saltò su don Modesto; «letterato come Tito Livio e... Omero... fatemi sentire, come ha fatto questo Genovese a scoprire il Mondo Nuovo. " La primavera dell'anno 1471, verso il mezzogiorno, sotto la sferza del sollione e l'opprimente caldura del cielo andaluso, salendo una collina distante una mezza lega dal piccolo porto di Palos, due viaggiatori posavano all'ombra di un portico innanzi al monastero di Santa Maria di Rabida. La fronte aveano bagnata di sudore, gli abiti, non in tutto dimessi, ma per la polvere malandati, i calzari logori dal' lungo camminare; l'aspetto chiedente ospitalità al primo vederli. E larga ospitalità concedevano a que' tempi i conventi de' Francescani che erano alberghi pei poveri pellegrini, sicché poco tardarono i monaci a venir incontro ai due forestieri. "De' quali uno giunto appena a mezzo il corso della vita, era alto di statura, robusto di forme, severo di lineamenti, e nobile nell'aperta fronte, pensieroso nello sguardo, grazioso e dolce nell'atteggiarsi delle labbra. I capelli, che aveva biondi e traenti al bruno nella prima sua gioventù, cadevano bianchicci sulle tempie, e accennavano al lavoro del pensiero che invecchia, e della sventura che incurva. La tinta del suo volto già prima colorita, era fatta pallida dallo studio, e abbronzata dal sole; il suono della sua voce accentuato, sonoro e penetrante come di chi è solito proferire alti pensieri, e non sprecar parole in vano chiaccherio. Nè scorgevasi ombra di leggerezza ne' suoi atti; egli era grave e composto, e pareva raccolto in un'idea, intento ad osservare sè stesso, quasi uomo che preghi nella casa di Dio. » L'altro era un fanciullo da otto a dieci anni. I suoi lineamenti, femminili a primo guardarli, ma resi più severi dalle premature fatiche morali, avevano tale rassomiglianza con quelli dell'altro viaggiatore, che non era da ingannarsi, dicendolo o figlio o fratello di lui. » I due stranieri erano Cristoforo Colombo di Genova e Diego suo figlio, che venivano pedestri dal Portogallo, per offrire ai re di Spagna, mercè il soccorso di poche navi, il compimento dell'unità fisica del globo. » Un trattato tra Ferdinando, Isabella e Colombo venne finalmente sottoscritto a Granata il 17 aprile 1492. Isabella assunse le prime spese della spedizione. Era giusto, chi avea prima creduto, e generosamente appoggiata l'intrapresa , i mezzi ne prestasse; era giusto che la gloria dell'esito cadesse specialmente su colei, che fede avea avuto nel genio, fede in Dio. Assegnossi a Colombo il piccolo porto di Palos; di là era partito l'impulso, là doveva tornare il movimento. »Allo spuntare del 3 agosto, Colombo accompagnato dal priore e dai monaci del convento della Rabida, e benedetto il mare e le vele, salse sulla maggiore delle 3 caravelle, la Santa-Maria. Appena messovi il piede v'inalberò la bandiera ammiraglia, di un oceano ignorato, e lo stendardo vicereale di una terra sconosciuta. S'affollava innumerevole il popolo sulla riva per assistere ad una partenza, che temevasi senza ritorno; non era festante accorrenza, ma doloroso e come estremo addio ; lagrime scorrevano dagli occhi; e la speranza non parlava nel cuore di nessuno; poichè nessuno ben augurava dell'impresa, nè felicitavala. Le madri, le mogli o le sorelle dei marinai imprecavano allo straniero, il quale poneva tante care vite in pericolo. » Un lieto venticello che soffiava d'Europa, spinse la flottiglia verso le Canarie, estremo punto cui giungevano i naviganti sull'Oceano. Il vulcano Teneriffa mise lo sgomento nell'animo de' marinai. Il cielo era tutto in fiamme, il mare acceso come vivo fuoco. Viaggiarono altre 200 leghe, quando un fenomeno suscitò un terribile dubbio, e questo era la variazione dell'ago magnetico, unica guida. Ma quindi sulla fede d'un uccello, svolazzante intorno agli alberi della flottiglia, proseguirono il viaggio con più sicurtà. La dolce ed eguale temperatura di quella parte d'Oceano, il limpido cielo, le onde cristalline e trasparenti, la viva luce, l'aere puro e sottile, il più chiaro splendore delle stelle e l'orizzonte più lontano, più vago di colori e di forme mutabili e pittoresche, le acque quasi portanti sul loro dorso lontani profumi, che d'onda in onda traspiravano, tutto insomma in que' liberi corpi penetrava i sensi di serenità, le anime di convinzione. "Anche il mare recava di tanto in tanto lieti presagi. Vedeansi di spesso piante sconosciute sormontar alle acque. Piante e animalucci ancor floridi e vivi non dovevano partire da molto lungi. Un uccello, d'una specie non usata a correr sui mari e far lunghe traversate, ecco comparire un giorno sopra gli alberi delle caravelle. Donde veniva egli? Ove se ne va ? In qual parte di cielo vuol riposare? Ma di lì a poco l'attenzione è soffermata dalle acque; l'Oceano muta colore e temperatura; qui somiglia immensa prateria, che al vento s'agiti e ondeggi; più lungi campo brullo ed arsiccio, immobile e biancastro. La sera e la mattina altro richiama l'attenzione; lungi lungi s'elevano strane apparenze, e monti e valli e la riva, desiderio dei naviganti. Ma la terra cosi di frequente annunziata non mostravasi ; i miraggi si dileguavano; il primo albore mattinale fugava i fantastici orizzonti e le terre in quelle ottime illusioni sperate. Le prore de' navigli seguitavano a lanciarsi nell'infinito, la piccola flottiglia a tuffarsi in un Oceano immensurato, a profondarsi in un abisso senza termine. Ma poi l'orribile prospettiva di morire di sete e di fame in quella lotta degli elementi sfuriati, li spaventava; e già mormoravasi sotto voce di Colombo e della sua costanza sublime, che e' chiamavano ostinazione; e del suo genio, che e chiamavano capriccio ; attalchè si rimproveravano la loro devozione, la loro buona fede per la quale sacrificavasi la vita di 120 uomini alla demenza d'un solo. "Ma ogni qualvolta que' rumori stavano per dichiararsi apertamente , fosse caso o Providenza, mostravansi nuovi presagi, i quali quanto più erano inattesi, i timori mutavano in speranze. Cosi il 20 settembre i venti regolari d'est variarono, passando a sud-ovest. I marinai salutarono ciò, come indizio di vita e di mobilità negli elementi, come palpito dell'aria sulle vele. La sera uccelletti, della più gentile specie, soliti a riposare domestici fra gli arbusti e i verzieri volteggiarono bisbigliando sopra le caravelle. I1 loro canto, simile all'udito tante volte sott'esso i carpini della casa nativa, tra i mirti e gli aranci dell'Andalusia richiamava la patria, e come gli invitava a prossime rive. Intanto le alghe marine comparivano sulla superficie delle acque, più fitte, a cosi dire, e più verdi, come prato innanzi al raccolto. Di nuovo la paura invadeva i cuori. Solo Colombo, ritto e fermo, cercava una via traverso que' misteri dell'Oceano. La calma sovvenuta nel passaggio della linea gettò l'equipaggio nella costernazione. Il mare ad un tratto, senza che alitasse soffio pur leggero , gonfiossi : subito pensarono a sotterranee convulsioni. Un'immensa balena si mostrò addormentata sulla superficie delle acque, e subito immaginaronsi mostri divoranti le navi. Le paure crescono; la ciurma raccogliesi intorno agli alberi, e fa proposito di costringere i piloti a virare di bordo, di por le mani su Colombo. Ma il Genovese non intimorivasi; conoscendo quei complotti, ne scompigliava le file col mostrarsi securo e fidente in un migliore avvenire. »La natura venne in suo soccorso spirando di nuovo i venti del nord-est, e spianando le onde sotto i solchi della flottiglia. Innanzi il cadere del giorno, il comandante della Pinta, che viaggiava daccosto la nave ammiraglia, gettò primo il grido: Terra ! Terra! dall'alto della sua poppa. L'equipaggio ad una voce rispose a questo grido di salute; in ginocchio sul ponte, intuonarono l'inno: Hosanna in excelsis Deo! Quel canto religioso, primo forse che salisse al Creatore dal seno del vergine Oceano, volò d'eco in eco sull'onda. Quando cessò, ognuno salse sugli alberi, sulle antenne, sui cordami , per vedere coi propri occhi le rive intravvedute a sudovest. La flottiglia si guidò verso quel punto. Ma al levar del sole l'illusione cessò. » L'Oceano di nuovo aveva spianato la sua superficie; un sole senza nubi vi si rifletteva come in uno specchio; fiotti carezzanti coronavano i navigli d'una schiuma leggera. I delfini più numerosi fluttuavano nei solchi lasciati dalla poppa, mare e cielo parevano popolati; e tutto infondeva ne' marinai rinascenti speranze. Il 1.° di ottobre, e' credevano d'aver fatto, 600 leghe, partendo da Teneriffa, ma il giornale dell'ammiraglio ne notava 800. Tuttavia moltiplicavansi i segnali. La più leggera delle bar che la Nina, che precorreva nel corso le altre, il 7 ottobre, sventolò infine la bandiera annunziatrice della scoperta. Ma una nube aveva cagionata l'illusione. In tutti i volti si mostrò il malcontento , su tutti i labbri suonò la minaccia; non era più la lontananza della patria, le fatiche e gli affanni, che la ciurma imputava all'ammiraglio , era di più , la vita sacrificata senza speranza, era il pane e l'acqua che mancavano su quell'Oceano, in quel deserto. Il Ligure contenne la furia dell'equipaggio coll'autorità, ond'era da' sovrani di Spagna investito. Il cielo medesimo chiamò a decidere fra essi e lui; offerse la vita in pegno delle sue promesse , chiedendo loro soltanto tre giorni, e dopo riprenderebbero il cammino dell'Europa; giurò e fu creduto. Al levarsi del secondo giorno, freschissimi giunchi mossero attorno alle caravelle. I marinai accolsero con allegrezza quei testimoni d'una prossima terra; eran come la voce della riva che confermava le predizioni di Colombo. La sedizione cadde a' ginocchi innanzi l'ammiraglio insultato la vigilia, e la notte venne scendendo sui canti religiosi che salutavano un nuovo mondo. L'ammiraglio aveva promesso un premio a quegli che primo scoprisse la terra. Ma questa scoverta la Previdenza riservava a lui, ricompera come l'avea al prezzo di 20 anni di vita, dí costanza, di affanno. Passeggiando la notte sul ponte del suo vascello, e spingendo il suo sguardo nelle tenebre, uno splendore di fuoco passò, si spense, e ripassò davanti agli occhi suoi a livello delle acque. Cosi a Colombo apparve primo la terra e la vita sotto forma di fuoco, la notte dell'11 al 12 ottobre. « Era Colombo in braccio all'angoscia affannosa che accompagna la procreazione delle grandi idee, quando un colpo di cannone risuonante sull'Oceano a qualche centinaio di passi, scoppiò come la voce poderosa di un mondo, e lo fece balzare d'un tratto, e cader a ginocchi sulla tolda. Era il segnale convenuto, a cui tenne dietro un grido generale; terra! terra! che levossi dalle antenne, dagli alberi, dai cordami dei navigli. "Il crepuscolo per l'aere diffondendosi , fece a poco a poco uscire dal seno delle acque le forme d'un isola. Gruppi d'uomini, di donne e di fanciulli mostravansi mezzo nudi sul limitare d'una foresta. Colombo, indossati i suoi distintivi come ammiraglio dell'Oceano e vicerè dei futuri regni; copertosi del mantello di porpora, e impugnato nella dritta mano lo stendardo ricamato, con suvvi una croce e le cifre di Ferdinando e Isabella insieme congiunte come i regni loro, e sormontate dalla comune corona, discese nella sua scialuppa, e mosse seguito dai suoi luogotenenti, verso la riva. Toccando la terra, cadde a'ginocchi e pregò: - Dio eterno e onnipotente, Dio buono che per la forza della tua parola creasti il cielo, il mare, la terra, sia il tuo nome benedetto, sia la tua maestà glorificata di secolo in secolo, e giacchè permettesti che l'ultimo dei tuoi servi scoprisse questa parte ignorata del tuo impero, fa che questa giovane terra ti conosca, ti esalti e ti adori. - Dopo di che diede a quell'isola il sacro nome dl San Salvatore. »Così un Italiano ha completato l'universo, riunito al vecchio un nuovo mondo ». «Dopo Genova, tu fosti a Firenze, non è vero ? » domandò il Parlaschino. Don Viviano, attaccato alla Divina Caramella come un'ostrica allo scoglio, esclamò :

« Godi Fiorenza, perchè sei sì bella ».

« Mi si cita Dante, e, un Dante auspice, io incomincerò a dire di Firenze. Egli è cosa verissima, secondo che Dante e Giovanni Villani dimostrano, che la città di Fiesole, sendo posta sopra la sommità del monte, per fare che i mercati suoi fossero pià frequentati, e dar pià comodità a quelli che vi volessero con le loro mercanzie venire, aveva ordinato il luogo di quelli sopra il poggio, ma 'nel piano intra le radici del monte e del fiume Arno. Questi mercati giudico io che fossero cagione delle prime edificazioni, che in quei luoghi si facessero; mossi i mercatanti dal volere avere ricetti comodi a ridurvi le mercanzie loro, i quali col tempo ferme edificazioni diventarono. E di poi quando i Romani, avendo vinti i Cartaginesi, resero delle guerre forestiere l'Italia sicura, in gran numero moltiplicarono; perché gli uomini non si mantengono mai nelle difficoltà, se da una necessità non vi sono mantenuti; tale che dove la paura delle guerre costringe quelli ad abitare volontieri ne'luoghi forti ed aspri, cessata quella, chiamati dalla comedità, più volontieri ne' luoghi domestici e facili abitano. »La sicurtà adunque, la quale per la reputazione della romana repubblica nacque in Italia, potè far crescere le abitazioni già nel modo detto incominciate, in tanto numero, che in forma di una terra si ridussero, la quale Villa Arnina da principio fu nominata. » Sorsero di poi in Roma le guerre civili, prima contro Mario e Silla; dipoi intra Cesare e Pompeo; e appresso intra gli ammazzatori di Cesare e quelli che volevano la sua morte vendicare. Da Silla adun que in prima, e di poi da quelli tre cittadini romani, i quali dopo la vendetta fatta di Cesare si divisero l'imperio, furono mandate a Fiesole colonie, delle quali o tutti, o parte posero le abitazioni loro nel piano appresso alla già cominciata terra. Tale che per questo aumento si ridusse quel luogo tutto pieno di edifici e di uomini, e di ogni altro ordine civile, che si poteva numerare intra le città d'Italia. » Ma donde si derivasse il nome di Florenzia, ci sono varie opinioni. Alcuni vogliono si chiamasse da Florino uno dei capi della colonia. Alcuni non Florenzia, ma Flurenzia vogliono che fosse nel principio detta, per essere posta propinqua al fluente d'Arno, e ne adducono testimone Plinio, che dice: i Fluentini sono propinqui ad Arno fluente. » La qual cosa potrebbe esser falsa; perché Plinio nel testo suo dimostra dove i Fiorentini erano posti non come si chiamavano. E quel vocabolo fluentini conviene che sia corrotto, perché Frontino e Cornelio Tacito, che scrissero quasi nei tempi di Plinio, gli chiamavano Florenzia e Fiorentini; perché di già ne' tempi di Tiberio, secondo il costume delle altre città d'Italia si governavano. E Cornelio riferisce esser venuti oratori fiorentini all' imperatore a pregare, che l'acque delle Chiane non fossero sopra il paese loro sboccate; nè è ragionevole che quella città in un tempo medesimo avesse due nomi. »Credo pertanto che sempre fosse chiamata Florenzia, per qualunque cagione così si nominasse; e così da qualunque cagione si avesse l'origine, la nacque sotto l'impero romano, e ne' tempi de'primi imperatori ccminciò dagli scrittori ad essere ricordata. E quando quell'impero fu dai barbari afflitto, fu ancora Firenze da Totila, re degli Ostrogoti, disfatta, e dopo duecento cinquant'anni di poi Carlo Magno riedificata; dal qual tempo infine agli anni di Cristo mille e duecento quindici visse sotto quella fortuna che vivevano quelli che comandavano all'Italia (1) ». (1) Niccolò Machiavelli: delle istorie Fiorentine. « Dunque Firenze vi parve città degna di ricettare, dentro le sue mura, l'Olimpo degli Dei? » disse il Parlaschino. « Tante volte contemplando Firenze dall'alto dei colli che la circondano ho ripensato entro me stesso alla primitiva forma della città, alle sue mura bastionate, alle sue strade strette e tortuose, alla selva di torri che sorgevan maestose fra i solidi ed imponenti palagi, alle chiese primitive dalle linee purissime e semplici , alle graziose logge de'nobili, ed a tante altre cose delle quali non resta che la memoria. » Codeste idee me ne hanno suscitate altre. Ho pensato ai fatti compiutisi fra quelle mura, alle battaglie cittadine avvenute a piè di quelle torri, alle antiche feste che avevan luogo su quelle piazze, agli uomini illustri nati e cresciuti fra quelle abitazioni, agli splendidi fondatori di que'palagi e di quelle chiese, agli artisti semplici e modesti che hanno adorno di tante opere insigni la città loro. »Firenze patria di tanti sommi ingegni, sede del commercio e delle industrie più fiorenti, cuna delle arti e dell'ingegno e nello stesso tempo campo dei partiti accanitissimi che per tanti secoli hanno desolato l'Italia intera, non ha strada che non ricordi alla mente qualche avvenimento o glorioso o tristo, non monumento che noli dimostri o i talenti dell'esecutore o la splendida munificenza di chi lo fe' costruire, non casa che sia stata cuna o d'una illustre famiglia o di qualche celebre personaggio ». « Chi sa quali palpiti, don Sigismondo, v'avrà destati in cuore la vista della patria dell'altissimo poeta, illuminata dal primo raggio del sole! » esclamò, con entusiasmo, don Viviano. « Oh, si uno stupendo spettacolo mi si presentò nell'istante in cui il sole, sollevando il superbo capo dalle colline di Settignano, indorava la cima de' colli che fan corona alla bella valle dell'Arno ed alla superba Fiorenza! Rimasi un momento estatico a quell'aspetto, e una folla di idee e d'immagini mi corse alla mente assorbita, per così dire, in quella meravigliosa contemplazione. Firenze, la città delle arti e delle lettere, la patria di Dante, di Michelangelo, di Machiavelli e di una infinita schiera di personaggi illustri, Firenze col suo Palazzo Vecchio, colla sua Cattedrale, co' suoi vetusti palazzi, con tutte le sue memorie e colla sua storia giaceva sotto il mio sguardo; e Fiesole di faccia rischiarata dai primi raggi del sole, pareva mi dicesse nella sua muta favella: - Vedi, questa è mia figlia! Il mio sguardo fissava meravigliato e stupefatto la bella città, e correva intorno intorno alla mirabile curva dei colli e al poetico scorrer dell'Arno, finché perdevasi oltre il bosco delle Cascine in un nuovo orizzonte tutto piano, infinito come la natura, nel mare : e ritornando dal lato opposto vedeva tutto il viale deí Colli, coronato d'olivi, finché arrivava a S. Miniato colla sua celebre torre, colle mura michelangiolesche, col superbo cimitero. E cosi un misto di soave e di serio, di gaio e di tristo, d'allegro e di melanconico occupava la mia mente ed il mio cuore. E pensai !... « Pensai a' tempi in cui quella vallata, ora sì fertile e rallegrata da sì popolosa e superba città, non era che un piano incolto,e limaccioso occupato dall'acque indomate dell'Arno e l'idea della potenza dell'uomo che legò al carro del proprio ingegno i fiumi e i mari, che domò la terra e l'obbligò a produrre quanto la sua superbia o la sua volontà o il suo desiderio esigevano, che innalzò centinaia di case, alle quali i giganti della mente soprapposero miracoli dell'arte, m'atterri in uno e mi rese superbo d'essere anch'io uomo! Ed entrai colla mente in quelle case, in que' palazzi e vidi la virtù ed il vizio in lotta continua, accanita, eterna: vidi que' grandi che pel bene della famiglia, della patria, della società sudavano e componevano opere immortali e ad immortali od oscuri sacrifizii soggiacevano, e vidi i tristi minar l'opere de' buoni, tentar di convergerle in danno, godere del lutto altrui e sacrificare all'egoismo, alla brutalità delle proprie passioni tutto ciò che di più sacro e di più grande avvi nel mondo. .E in mezzo alla tristezza di questa considerazione le colline mi ridestavano il pensiero della quiete, della attività, della dolcezza della campagna e la mente si sollevava a quell'orizzonte splendido, ceruleo, gentile che l'anima ai più alti, sublimi e cari desideri eccitava. E le leggi dell'armonia dell'universo sollevavano il pensiero all'armonia della natura, nella quale la mente si perdeva come nel caos dell'infinito e del nulla... "E che ti è parso di Urbino?" gli domandò il Parlaschino. « Chi vi va, e non move il primo passo a vedere la camera dove nacque Raffaello (1) Non fu egli il grande maestro che mostrò al mondo tutto quello che di bellezze si può fare nell'aria di una vergine, dove sia accompagnata negli occhi modestia, nella fronte onore, nel naso grazia e nella bocca virtù? E le sue Madonne, le sue Sacre Famiglie non vi paion forse cosa viva? E con che mano distribuiva sulle tele la bellezza, qui severa, ma elevata; là nobile; altrove, semplice e schietta; qua elegante; colà elegante e graziosa insieme. E tanto è grande che fino il più terribile elemento rispetta le sue divine opere ». «Gli elementi », si mise a numerarli don Modesto, « sono il fuoco, l'acqua.... ». « Questo è l'elemento, che compì un miracolo per Raffaello, cui visibilmente Iddio proteggeva. Egli aveva dipinta una stupenda tela, Santa Maria dello Spasimo, di commissione de' frati del convento dello stesso nome in Sicilia, e l'aveva ad un capitano consegnata, perché, veleggiando a Palermo, ve la recasse. Ma, ahimè! la nave, a cui era affidato un cosi prezioso deposito, sorpresa da una violenta tempesta, ruppe contro uno scoglio: il mare ingoiò uomini e merci, però sostenne sulle sue onde burrascose la cassa che conteneva il quadro, e la depose illesa sulle spiagge di Genova ».


(1) Il 6 aprile 1873 fu stipulato in Urbino dalla Regia Accademia Raffaello l'istrumento di compara della casa «Questa è una grazia ottenutagli certamente dalla Madonna! » gridò, con prosopopea di quaresimalista, il curato di Cremeno.

« vuolsí così colà, dove si puote Ciò che si vuole, altro non dimandare »,

gli inchiodò in bocca le parole don Viviano, con due versi di Dante. «E ben era d'uopo », seguitò il Boldoni, « che il furore de' venti, e l'onde del mare avessero rispetto ad un'opera di tanta bellezza: in cui rappresenta Gesù che porta la croce al Calvario; le donne in vederlo prorompono in pianto; ma egli, come profeta, lor risponde, che non piangano no per lui, ma pei loro figliuoli, annunziando la sciagura di Gerusalemme. Si vede in lontananza il Calvario, al quale si scende per tortuoso cammino, su cui cade il divino Nazareno, perchè lo tira un manigoldo colla corda che lo teneva legato. La povera madre che accompagna il figliuolo condotto al supplizio, inginocchiata non si volge a lui, al quale non poteva dare verun soccorso, ma in atto di efficacissima supplica manifesta che, essendo caduto a terra, ha bisogno della commiserazione di chi lo tiri su per sollevarsi. Le stanno al fianco la Maddalena, san Giovanni e le altre Marie, che la accompagnano e la soccorrono, sostenendola sotto le braccia. "Gesù si vede caduto, non debole però, nè abbattuto, anzi in atto di minacciare colle sue parole, come riferisce il santo Vangelo, ed il suo aspetto di bellezza quasi incomprensibile si manifesta come accesso di spirito profetico. L'azione di tutta la figura è animata e nobile, il braccio sinistro, che con la mano bellissima appoggia sopra una pietra è tutto steso; colla destra abbraccia la croce che l'opprime, come non volendo che gli sia tolta, e anzi come se desideri di sollevarla: pensiero degnissimo del grande intendimento di Raffaello, che fino in una azione, che a molti sembrerebbe indifferente, si ricordò che Gesù pati va perché voleva. » I caratteri dei manigoldi sono espressi con mirabile varietà, e mostrano che tra i cattivi se n'incontrano di pessimi. L'uno, tirando colla corda il Salvatore, pare animato dal solo brutale desiderio di arrivare col paziente al luogo del supplizio: l'altro, sostenendo in qualche modo la croce, si mostra come spinto dalla compassione a sollevare Gesù, ed un terzo, caricando la croce sulle spalle di lui, ed alzando la lancia in atto di minacciare, esprime la maggior nequizia nel voler ancor più opprimere il Signore già caduto ». " E a Roma quando ne andaste?" domandò al Boldoni don Viviano. " Dopo aver visitato Perugia, la patria del valoroso Braccio da Montone che la sua terra signoreggiò. Come mi palpitava il cuore nell'accostarmi alla città eterna, alla metropoli dei miracoli d'arte si sbalza col destriero nella cupa voragine vittima stoltamente devota ai numi d'inferno, onde placarli irati contro alla patria. Roma, al cui nome impallidisce ogni più chiaro lustro di fama, quasi a somiglianza del sole, che, dove appare sull'orizzonte, fa tacere il lume delle stelle. Quei giorni ch'io vi rimasi presso cardinali miei amici, io mi alzavo mattiniero quanto la lodoletta a ricevere sul capo la prima benedizione della luce. E volgendo dai suoi colli gli occhi sulla città, che meritò d'essere regina del mondo, mi si profondevano gli occhi di lagrime , pensando come lasciata la concordia, distraziato il volere comune, voltati gli animi alla elezione privata de' privati cittadini, di regina è divenuta serva, di governatrice in misera memoria. »Ahi, quanti e diversi stati ha in sè ricevuti! Perchè trovatesi in un tempo le forze universali in tre cittadini, in Crasso, Cesare e Pompeo; morto Crasso da' Parti rimase l'universale governazione in Cesare e Pompeo, e l'ambizione dell'uno contendendo colla gloria dell'altro, infiammati i discordanti animi alle civili sedizioni , finalmente si sparse in Ematia con crudele effusione di sangue civile; sicchè di vise le volontà degli uomini, spogliato l'erario, dissipato l'ordine delle pubbliche ricchezze, divisa la potenza, disprezzata la fama, a poco a poco sì massima città, il cui vigore non poteva per tutto l'orbe abitato misurarsi, a tanta calamità è divenuta, che appena si vedono le reliquie delle alte mura ». «Sei tu salito al Campidoglio? " chiese il Parlaschino. «Il Campidoglio e il Colosseo di Roma pagana , San Pietro e il Vaticano di Roma cristiana sono opere stupende, e immortali. Lascio da parte il Colosseo, che io non ho parole per descriverlo, ma del Campidoglio chi può dalla mente aver cancellato le gloriose memorie delle trionfali salite di capitani romani con dietro il carro prigionieri i re d'Europa e d'Asia? E il Campidoglio mi ricordava Cola da Rienzi, l'ultimo deí tribuni, l'amico carissimo del Petrarca; mentre la Mole Adriana, ridotta a castello, mi rammaitava l'ultima difesa di Crescenzio, l'ultimo dei consoli: e mi pareva vedere vagolare l'ombra di Stefano Porcari, tradito il di che voleva suonare il campanone del Campidoglio per la repubblica! »Il Vaticano mi parve palazzo degno d'abitarvi Iddio in persona, come il San Pietro, tempio degnissimo per esser vi adorato da tutto il mondo! E nel Vaticano io ho ammirato la bibbia di Raffaello ». «Ehi! ehi! che eresia è questa », saltò su, come un can da pagliaio don Modesto, « che eresia è questa di inventare una bibbia nuova? » «Per Bibbia di Raffaello" , gli spiegò il Buldoni, « s'intende in Roma una serie inestimabile di quadri dipinti a fresco nelle Logge Vaticane, e disposti a quattro a quattro nei compartimenti delle piccole vòlte di ciascun spazio che è tra trave e trave. E siccome questi quadri comprendono in cinquantadue soggetti la storia del l'Antico Testamento, così questa unione di pitture si è chiamata la Bibbia di Raffaello » «Magnifiche cose, mi figuro », disse il Parlaschino. «Quei quadri sono improntati dell'immagine tanto grande quanto semplice dei costumi della prima età del mondo e della vita patriarcale, ed hanno l'ideale di una specie di poesia, che non è quella del Parnaso Greco, ma quella che ispirò il condottiero degli Ebrei sul Sinai, cui in Firenze aveva riverito vivo nel marmo. - Vivo nel marmo!- brontolò tra sè don Modesto. - Quante stravaganze dicono questa gente letterata! Don Viviano invece, non potendo al Dante, s'abbrancò ad un altro poeta, declamando:

Chi è costui, che in sì gran pietra scolto Siede gigante, e le più illustri e conte Opre dell'arte avanza, e ha vive e pronte. Le labbra sì, che le parole ascolto?

Questi è Mosè: ben mel dicea il folto Onor del mento, e'l doppio raggio in fronte; Questi è Afose quando scendea dal monte E gran parte del Nume avea nel volto.

Tale era allor che le sonanti e vaste Acque ei sospese a sè d'intorno; e tale Quando il mar chiuse, e ne fe' tomba altrui.

E voi, sue turbe, un rio vitello alzaste? Alzata aveste immago a questa eguale, Ch'era men fallo l'adorar costui (I) ».

I versi stupendi fecero digrignare i denti al parroco di Cremeno, che li sentì nell'orecchio col medesimo piacere d'una mano ruvida sopra una piaga. «Il divino Sanzio, nella favola di Psiche a, seguitò il Boldoni, « gareggiò collo stesso Omero, principalmente nel rappresentare il banchetto degli Dei, il Mercurio che s'innalza al cielo, e l'apoteosi di quella fanciulla deificata, come nel dipingere il padre dei Numi, che abbraccia il figliuolo di Venere. Oh! quanto belli ed incantatori sono quelli amorini alati che portano, come in trofeo, l'armi o gli attributi di una delle dodici divinità maggiori. Chi scherza colle folgori di Giove, chi col tridente di Nettuno, chi colla clava di Ercole, chi colla lancia e collo scudo di Marte ». «Degna pittura per una sala dell'Olimpo! » esclamò il Parlaschino. «E non a torto il pennello del Sanzio fu detto divino. Oh, vedessi tu quella favola, descritta con colori, ne' quali s'infuse l'amore, perchè Raffaello amoreggiava e dipingeva, onde si confusero insieme il lume della pittura e dell'amore, e ne usci l'arte adorna di tutte quante le sue grazie".

(1) Zappi Giovambattista. «Sempre una favola », borbottò don Modesto, « e le favole sono sempre favole! » «Dico io forse che siano vangelo? » disse, un po' risentito, il Boldoni. « Chi ha occhi in testa, capaci di contemplare il bello, e buon senso in cervello capace di comprenderlo, davanti quella pittura deve esclamare : - Son persone vive; Venere che incita il figlio contro Psiche, e che poi, sul carro tirato dalle colombe, si reca da Giove, perché sia connivente all'ira sua; Giove che ascolta le sue parole seducenti; Cupido che, nell'ubbidire al cenno della madre, si innamora della fanciulla odiata da lei; e la povera Psiche, la quale è obbligata di scendere all'inferno per rapire un vaso misterioso a Proserpina, affinché perisca nella perigliosa avventura; l'ira di Venere contro Giunone e Cerere, che pigliano la difesa di Psiche; ed il connubio infine della fanciulla con Amore, celebrata nel consesso dei Numi ». «Egli ha immortalato, col suo pennello, la religione dell'Olimpo greco e romano, che il vangelo ha cancellata dalla faccia della terral... » «Certamente, don Viviano. E chi vistala una volta, potrà dimenticare la Galatea, che, sopra una conca, rompe leggermente il mare, mentre i Tritoni amoreggiano colle sue Ninfe; per cui l'aria e l'acqua ridono di voluttà? Galatea, ritta in mezzo, colle chiome e colle membra abbandonate al bacio degli zeffiri, palesa anch'essa il primo senso di amore nel languido sfolgoramento degli occhi per virtù di quegli strali che contro lei vanno scoccando alcuni fanciullini alati, sospesi nell'aria ». « A Raffaello », disse il Parlaschino, « era la bella Fornarina inspiratrice al lavoro, ella che infondeva nei colori quella vita, quel dilettevole incanto che è l'amore stesso ». «Come la Laura è stata la Musa della penna del Petrarca, la Fornarina doveva esserlo del pennello del Sanzio. E fu sulle rive del Tevere, in cui Roma specchia i suoi colli, che il pittore la vide la prima volta. Era un vespro, e Raffaello , dopo aver lavorato trascuratamente qualche ora nel palazzo Ghigi scendeva nel giardino, che lambiva il Tevere. Qui sedeva come preso da malinconia , forse ripensando alla sua natale Urbino, ricca di torrioni, di campanili, di palazzi, d'acque, d'alberi e di fiori. In quell'istante era dominato più che maì dal desiderio di trovare una Musa inspiratrice alle sue grandi concezioni. Egli guatava all'onda del Tevere, che sotto gli fuggiva frangendosi nei piloni del vicino ponte, e nelle nasse dei pescatori; e di quando in quando di lontano, là dove pareva che il cielo infiammasse i campi di Albano e di Narni. La brezza che spirava dal Gianicolo, da quel colle che un di doveva essere reso sacro del sospiro dell'infelice Cantore della Gerusalemme Liberata, veniva ad accarrezzargli dolcemente la bella fronte, recandogli in pari tempo all'orecchio l' uniforme mormorio dei mulini di Trastevere. D'un tratto egli si riscosse. Rasente la via del Tevere, e precisamente vicino al palazzo del Ghigi, eravi uri muricciuolo che cin- geva uno spazio di terra coltivata ad orto, in fondo al quale sorgeva una rustica casupola attinente ad una bottega da fornaio: un mulino ad acqua, alcuni frulloni, vagli, madie, mulinelli, e pale erano sparsi qua e là. " Una fanciulla bella sovrumanamente, credendo di non essere veduta, scendeva dalla casetta e si avanzava per l'orto, canterellando un rispetto (1), e, con giovanile abbandono, ella andava, lungi i suoi passi, spiccando a caso le vetticciuole delle erbe e le odorose teste dei fiori, mentre lo zaffiro scherzava fra il velo che le copriva il collo, candido come ala di cigno. Come giunse all'orlo del Tevere, si assise sul greto, e, sprigionando dai calzari i bellissimi piedi, li tuffò nell'acque. Il sole, quasi volesse compiere tutta la poesia di quella scena, mandò un suo raggio sullo spillone d'argento che la fanciulla, seguendo l'uso trasteverino, teneva fitto nel volume delle treccie. Il cielo stesso sembrava festeggiare tanta bellezza. Raffaello fissò il sapiente suo sguardo nella giovanetta; ne notò la superba leggiadria delle forme e i neri capelli,e le labbra tumidette, e le molli ombre, e la varia ingenuità delle pose verginali; onde sentì nel petto accendersi vivissima la fiamma dell'amore. Stette lungamente nella contemplazione, mentre il cuore gli batteva a rotti sbalzi. Indi si riscosse, ed esclamò involontariamente: - Sei pur celeste cosa, o Fornarina! » A quegli accenti la fanciulla si volse rapida; guardò il pittore per un istante arrossendo per verecondia, e, ritirando prestamente dall'acqua i piedi, si accingeva a fuggire agli sguardi di fuoco di lui, quando; - Non ti allontanare da me, le disse Raffaello, appoggiandosi al muricciuolo. Tu sei la donna che da molti anni io vado cercando. Mano mano ch'io crebbi, mirai in viso le figlie degli uomini e nausea mi fece volgere altrove gli occhi: vidi l'altera per la venustà delle forme, e non la bramai; scorsi il rossore della timida, e non mi commossi. Una sola immagine turbava il mio spirito. Angoscioso correvo presso la donna creata dalla mia fantasia, e spesso, nel delirio della passione. le dirigeva la parola esclamando: - Forma divina, esisti tu veramente ? Oh ! non fuggire al mio sorriso. Vieni, angelo, a far lieti i miei giorni, ed io sospirerò d'amore! - Fornarina, venni da un mio scolaro a sapere che in questo luogo abitava una fanciulla bellissima, mammola soave nascosta ad ogni sguardo umano. Il mio cuore, interpretando chi fosse, palpitò di fortissimo desiderio di vederla. Fornarina, vuoi tu amarmi? Per nulla devi temere di me; io tramanderò ai posteri il tuo nome! » La fanciulla , animata a quella nuova eloquenza d'amore, osò alzare gli occhi , li fissò sul volto di Raffaello, e: Chi siete voi,gli domandò con voce tremante. - La casa in cui nacqui, proseguì il


(1) I Romani chiamano rispetti certi loro canti popolari. pittore, situata sul pendio d'un monte, prospetta, sin ogni ora e da ogni parte, maghifiche scene; a mattina il sole, che sorge dall'Adriatico; a mezzodì un panorama svariatissimo inondato di luce; a sera questo panorama sfumato di mirabile chiaro-scuro. Ivi superbi ergano le creste il Furlo, il Nerone e il San Simone, ne' cui burroni scaturisce il fiume, nel quale testè avevi tuffati i bei piedi. Alle falde di quei monti, si distende la mia città natale... Sotto gli occhi del padre ho studiato quella arte, che mi diè fama di pittore gentile. » La giovinetta, rinfrancata sempre più, rispose: -Chiunque voi siate, o signore, è necessario che vi dica un mio capriccio. Se la vita dovessi consacrare ad un pittore, il mio cuore ne avrebbe già fatta la scelta. In Roma vi è tale artista che non vidi mai, ma del quale udii molto a parlare come di fortunato, cui inspira la stessa Madonna; ella scende persino dal cielo soltanto pel piacere di farsi ritrattare da lui. In Vaticano ne contemplai le pitture, che nell'anima mi fecero provare un diletto insolito. Egli ha poi il nome d'un angelo; si chiama Raffaello... Sanzio allora, interrompendo la giovinetta, esclamò: - Raffaello tu hai detto?... Io sono quel che tu cerchi; in me vedi, o Fornarina bella, il pittore del Vaticano, l'angelo fortunato che dipinge la Madonna! » La fanciulla chinò la testa, si rifece rossa in viso, e non ebbe voce di parlare. Raffaello prosegui - Ah, tu mi ami già nel segreto del tuo cuore, ed io pure ti amerò, o divina creatura. La nostra vita, nell'ebbrezza dell'affetto corrisposto, sarà un continuo aprile. Allorchè la stella, protettrice degli amanti, si leverà lenta lenta in mezzo alle armonie del bel cielo d'Italia, parola umana non saprà imporre nome al sentimento di cui ci sentiremo signoreggiati. Sì, amiamoci liberamente, Fornarinal... Tutto quanto è bello ama quaggiù! » La fanciulla, spogliata d'ogni timidezza dall'affetto che il cuore già le Infiammava, levò il bellissimo volto, e gli occhi fissò in viso al pittore. Quanto bello! Le anella della bruna capigliatura, che gli fuggivano dal berretto, gli andavano a cadere con bella grazia sugli omeri, e più sul destro, verso il quale un po' chino volgeva il lungo ed esile collo. Il volto regolare e dalle fattezze delicate, avvenenti, conciliava la simpatia; e la veste corta alle ginocchia, succinta nei fianchi, lo palesava seguace dell'arte divina d'Apelle, di Giotto e Cimabue. - Perché non dovrei amarvi, signore? disse la giovinetta. La vita di noi due sta tutta nell'anima; e quando questa è accesa dal più bello dei sentimenti non possiamo resistere... Si, le vostre parole mi fanno certa che l'amor nostro non avrà confine; sarà una perenne visita ai fiori della gioia; sempre liberi, sempre inebbriati delle più soavi dolcezze. » Raffaello, quasi in estasi, sporse dal muricciuolo la mano alla giovanetta, e questa lentamente alzò la sua; si strinsero quei due felici le destre; gli sguardi si scontrarono, e, più che le labbra avessero potuto farlo, si espressero lunghe promesse di un eterno amore. Il sole intanto, simile a grande astro di fuoco, si coricava dietro ai monti d'oeCidente ; il venticello vespertino spirava accarezzando le erbette tenerelle colle ali profumate, e mentre due farfalle aleggiavano in amoroso desio sul capo dei due giovani, il mormorìo di un bacio rompeva il silenzio che da alcuni istanti regnava in quel solitario angolo di Roma. Primo bacio di amore, che non si cancella più dai labbri e dall'anima! » " E Raffaello ", saltò su a dire don Viviano,« immortalando la sua Fornarina sulla tela, ha tramandato a noi la memoria di quel giorno per lui avventurato, e fu poeta come il Petrarca per Laura.

« Un pensier dolce è rimembrare, e godo Di quell'assalto, ma più provo il danno Del patir, ch'io restai, come que' ch'hanno In mar persa la stella, se il ver odo. Or lingua dl parlar disciogli il nodo A dir di questo insinuato inganno, Che amor mi fece per mio grave affanno; Ma lui più ne ringrazio, e lei ne lodo. L'ora sesta era che l'occaso un sole Aveva fatto, e l'altro scorse il loco Atto più da far fatti che parole. Ma io restai più vinto al mio gran foco Che mi tormenta, che dove l'uom suole Desiare di parlar, più rimar fioco ».

«Possibile che costui non possa aprir bocca senza vomitar versi !... » brontolò don Modesto. «Tutte le sale del Vaticano tu dunque hai potuto visitare? » domandò il Parlaschino. «Coll'amicizia de' cardinali ho potuto vedere le migliaia di stanze del palazzo del papa» " E che ne fa Sua Santità.", saltò su ringhioso don Modesto, pensando alle due stamberghe dove lui ricoverava, « che ne fa Sua Santità di tante camere? » «Biblioteca, pinacoteca, dove campeggiano le pitture di Raffaello, come nella sala di Torre Borgia s'ammira dipinto il grande incendio che consumò una parte del Borgo Vecchio in Roma... » «Ai tempi di san Leone papa », fu pronto don Viviano a citar l'epoca, a il quale comparve nella loggia del Vaticano, e colla sua benedizione arresiò il dilatamento delle fiamme » «Spettacolo spaventoso », lodò la pittura il Boldoni, a e tutto pieno di concetti espressi con tanta chiarezza, che muovono a pietà. Dirò solamente d'uno ammirabile e compassionevole in vedere quella donna, che per suo scampo appena ha potuto salvare quelle due creature e quei panni, in atto di dolore di aver lasciate l'altre sostanze in preda alle fiamme: quella cuffia di uno dei suoi putti significa che erano in letto adagiato nelle piume, e che l'aere freddo lo fa andar ristretto. E per notare espressamente il grande incendio ha voluto che lo sventolare dei capelli di quella donna, secondo che cammina avanti, vadano sventolando all'innanzi, e non come leggieri restino sventolando dietro di lei, che questo succede, sebbene non spiri il vento. Ma gli incendi non possono mai essere grandi, se non vi soffia il vento. Similmente quella bellissima giovane che aiuta, alzando il vaso dell'acqua, anche ad essa il vento soffia nel sottile zendado, e fa comparire la bellezza della sua persona. O gran Raffaello ! » «Miracolo che non sputi fuori versi dal gozzo! » borbottò il curato di Cremeno all'indirizzo del curato di Taceno. Il quale, quasi gli avesse letto nell'interno la bile che covava, saltò su a declamare, proprio rivolto a don Modesto, che s'abbrancava colle due mani alla bottiglia, come se volesse stritolarla:

« Questi è il gran Raffaello: ecco l'idea Del nobil genio e del bel volto, in cui Tanto natura de' suoi don ponea Quanto egli tolse a lei de' pregi sui.

Un giorno ei qui, che preso a sdegno avea Sempre far su le tele eterno altrui, Pinse sé stesso, e pinger non potea Prodigio, che maggior fosse di lui.

Quando poi Morte il doppio volto e vago' Vide, sospeso il negro arco fatale, Qual, disse, è il finto e il vero? e qual impiego?

Impiaga questo inutil manto e frale, L'Alma rispose, e non toccar l'Immago, Ciascun di noi due nacque immortale (1)».

«Sant'Antonio benedetto, ha finito!» brontolò don Modesto, e tirò più libero il fiato, come se gli avessero levato un grave peso da sullo stomaco. «La falce della morte », disse il Parlaschino, « lo colse immaturo » ! «Beato Raffaello, a cui la stessa morte immatura fu un benefizio del cielo ! Così egli lasciò tutto perfetto, e non mosse mai linea ignobile, non palesò mai vil pensiero, sollevando ogni tratto suo alla dignità, alla grazia, alla bellezza. E memorabile è il distico del Bembo:

« Ille hic est Raphael ; timuit quo sospite vince Rerum magna parens et moriente mori».

11 quale vuol dire, che.... »

«Lasciate », lo interruppe don Viviano, « che traduca qua il nostro curato ».

(1) Zappi Giovambattista. Tutti si volsero dalla parte di don Modesto, il quale aveva gli occhi addosso al curato di Taceno coll'odio d'un basilisco. Il Boldoni, coll'ingenuità d'un bambino, ripetè i due versi latini,e disse: "Animo, signor curato, butti fuori due bei endecassillabi". " Io... io non sono un poeta io », grugnì don Modesto, « e un curato n'ha abbastanza del latino della Santa Messa ». «Dirò io per voi, e dirò in rima », esclamò don Viviano.

" Questi è il gran Raffael: lui vivo, vinta Natura esser temè: lui morto, estinta ".

" Bravo! " gridarono il Boldoni e il Parlaschino. «Anche la rima ci ha voluto mettere! » borbottò don Modesto. In quel punto entrò il vecchio servitore Domenico, che veniva dalle stanze del suo padrone. CAPITOLO VIII

Uomini rari in qualunque tempo.

«... impiegato uno ingegno egregio, tutti i mazzi di una grande opulenza, tutti i vantaggi d'una condizione privilegiata, un'intento continuo nella ricerca e nell'esercizio del meglio ». ALESS. MANZONI, I Promessi sposi, cap. XXII.

«L'illustrissimo signor don Gian Ambrogio », disse il servitore rivolto al curato di Cremeno , « desidera vederla e parlarle per il funerali, che si ha a far domani ». «Son qua venuto apposta, agli ordini.... agli ordini dell'illustrissano! » rispose don Modesto, e brontolato in latino di messale: « I mulatio dexterae Excelsi! corse via, colla fretta d'un solerte bottegaio, a cui premono gli avventori. Rimasti soli i tre preti ,fu pel primo il Parlaschino a domandare al Boldoni, se, come medico, giudicava l'Arrigoni fuori d'ogni pericolo. «Si, ma a patto che non s'infiammi il sangue in questioni, le quali finiscono a far cattiva digestione anche ad un sano, come un corniolo". «A tavola durò più d'una mezz'ora », notò don Viviano, «nel paregiríco dei Visconti, che, secondo lui, sono stati nel governo di Milano viene due angioli del paradiso, immacolati, casti... e per poco non ce li faceva concetti senza peccato originale ». «E dava addosso invece », aggiunse il Parlaschino, « ai Torriani, Tinsi che non fossero della nostra valle, gloria nostra, e quel che impostati galantuomini nella difesa del popolo e nell'amministrazione di la cosa pubblica ». «E sapete », disse il Boldoni, « che discorsi mi tenne al letto, e gli facevano montare le fiamme al viso? L'aveva accanita coi Borbonici, e con san Carlo in specie, il quale, a sentir lui, era stato poco meno d'un bandito come il prevosto di Seveso, che, agguatato alla sua chiesa tutt' in armi, apposta i viandanti, ruba, ammazza, e nasconde le sue vittime nelle sepolture ». «Ma Sua Eminenza il cardinale Federigo l'ha avuto nelle mani, e l'ha condannato al remo », avvertì il Parlaschino. « Ma ne è fuggito, e lo so dal cardinale stesso. Vedete, don Viviano, se don Gian Ambrogio vi pare che debba avere la testa a senno di met- tere in un fascio un luminare della Chiesa milanese con un brigante capo banda. Io gli ho fatto toccar con mano, una per una, le virtù, massime la carità del santo cugino del nostro arcivescovo; ma quello fu cocciuto nella, sua opinione » Don Viviano, che per far un servigio alla santità di Carlo Borromeo avrebbe tolto a fare a piedi, a mezzo l'inverno, i duemila seicento di- ciassette metri del Legnone dal livello del mare, si ricordò in quel punto d'un panegirico in onore di san Carlo, detto da lui con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nella chiesa de'Santi Nazaro e Celso in Bellano, due anni prima. Il curato di Taceno era fecondo oratore pe' suoi tempi, e onesto uomo, amante del decoro della patria, quale il simile quel paese, oggidì cresciuto in censo e popolazione, non avrà mai più in avvenire. Don Viviano dunque, entusiasta del santo milanese, che, secondo noi, non è un vaso d'elezione, per adoperare una frase di conio ecclesiastico, incominciò a predicare ai due amici le virtù del cugino del cardinal Federigo, allora felicemente regnante, come si costuma dire di chi siede in alto. « Io sento nascermi, e per tutto il cuore diffondersi qualunque volta mi ricorda di s. Carlo Borromeo: e nel commovimento della tenerezza non dubito di asserire a me stesso, e ad altri che nessun paese troverà fra suoi cittadini uno che di lui più benefico sia stato mai alla sua patria. Fu quel cavaliere veramente l'uomo di Dio, e fu veramente l'uomo del popolo. La religione santificò, ma non restrinse la magnificenza dello animo signorile. Vissuto dalla prima giovinezza nella urbanità, e nella luce della corte del suo Pio IV, imparò ch'era nato grande. Egli, per sè sì moderato e frugale, seppe infatti, giusta ogni conveniente grandezza, albergare Enrico III, che ritornava dalla Polonia al trono di Francia, e la imperatrice Maria, figliuola di Carlo V, e moglie prima del secondo Massimiliano. » Sino dalla sua legazione di Bologna esercitò la magnificenza ornando di bronzi e di marmi la piazza e il liceo. Arrivato alla sua Mi- lano riedificò l'arcivescovile palagio, e le scuderie, e le carceri. Colla opera del celebre prelato Ormineto , istituì l' almo collegio Borromeo in Pavia condotto poi dal nipote , pari splendido, cardinal Federigo, alla presente amplitudine. Innalzò il sontuoso tempio sacro alla Madonna del Rho; e partito dal duomo festosamente col governator di Milano fu lieto di gettare la prima pietra al bellissimo tempio de' Gesuiti, che tanto amava. Ed in ogni sua fabbrica si ammirava, colla sontuosità dell'impresa, la dignità dell'architettura. » E quali non furono le sue regie liberalità? Disegnato vescovo di Milano fece in Venezia ed in Genova monetare sua argenteria per trenta mila scudi che, distribuiti nelle mani dei poveri, formarono come la pompa del suo ingresso. Inaudita largizione fu quella di vendere il napoletano principato di Oria a un di presso per quaranta mila zecchini, e in un giorno solo farne limosina di tutti: ed a limosina furono destinati pur altri venti mila venuti a lui per lascito di donna Virginia Della Rovere sua cognata. Questi modesti spettacoli della limosina, e questi cittadineschi dispensamenti meritano miglior plauso dalla ragione che non gli strepitosi sollazzi dati al popolo romano dai prodighi edili che insanguinavan per fasto le arene colle pugna dei gladiatori furiosi, e delle bestie africane. Che se gli edifici erano pubblici, ed eran gloriosi, erano essi medesimi diretti a far la sua patria più costumata, e più buona nell'atto di farla più bella e più agiata. » Eziandio, siccome è necessaria ad uno Stato la Religione, così necessari ne sono i ministri. Dunque Carlo Borromeo, che intendeva appartenere questi a sè in singolare maniera quasi la più congiunta famiglia sua, a educarli si accinse diligentemente, onde forma divenisse. del gregge, dottori di retto sapere, e maestri di puro costume. Tre seminari fondò in Milano ; e tre nella diocesi: e queste fondazioni non erano solamente alzarne i domicili coi sassi, ma provvederne le mense. colle entrate, ma abbellirne gli altari colle suppellettili, ma popolarne le biblioteche coi volumi. I più illuminati fra essi ben quattro volte raccolse in sinodi reverendi per chiedere lor pareri sopra il savio reggimento del popolo, egli che tanto studiosamente aveva promosse nell'universale Concilio di Trento la riforma del mondo. » Dall'ecclesiastica gerarchia discese a tutti i bisogni degli ordini secolari; e dopo aver sostenuta ed onorata la Religione, nella quale è riposto il primo vigore di ogni buon governo, si aggirò intorno collo esame a tutto l'edificio sociale, e di ottimi presidi lo provvide, e lo rafforzò. Oltre ai languori del corpo e della mente ne' vecchi, ne' mentecatti, ne' malati di ogni maniera, le femmine pervertite, le spose mal maritate, le fanciulle pericolanti trovarono dall'opera sua rimedio, o custodia. Il pentimento e l'innocenza erano del pari sotto alla sua protezione; benché, a dir vero, godesse in generalità anzi impedire il male provvedendo, che medicarlo o castigarlo piangendo. Ad ogni genere di persone del più contaminato ed ignobile volgo della sua grande città propagò o le sue vigilanze, o le sue curazioni. I piccoli montanari stessi, che giù discendevano dalle rupi nevose degli Svizzeri vicini, e nelle piazze le loro aspre mani e le loro curve spalle sottomettevano ai servigi più duri, sentirono le carezze della sua carità. Già quelli tra gli Svizzeri ed i Grigioni, che alla sua custodia eran commessi, formarono sempre una porzione diletta delle sue cure. Fondò per l'Elvezia un Collegio che pervenne a godere la entrata di otto mila scudi Tre delle loro vallate ebbero una sua visita amorosa, inerpicandosi talora carpone su per que' dirupi, e su per que' ghiacci, ed entrando faticosamente ira misere borgate, ed in affumicati casolari. » Ma a provare che s. Carlo Borromeo fu un cittadino alla sua patria beneficentissimo dirò più distintamente cose più sensibili, e che dal mondo si sogliono più pregiare. L'anno cinquecento e settanta giorni strema carestia. Il cardinal Borromeo comperò pane, e cibò la sua Milano. Il Duca di Albuquerque governatore per il monarca delle Spagne imitò l'esempio dell'arcivescovo con altri ricchi: ma l'arcivescovo spese tanto che s'indebitò. Andando al palagio di lui si apriva agli occhi una scena nuova, ed una nuova grandigia. Le sedie eran di legno, le bianche pareti erano segnate da pochi quadri gli utensili scarsi e sparuti: ma all'ingresso del cortile schierate si vedevano capaci caldaie fumose, entro a cui bollivan carnami, e minestre che i famigli del cardinale dispensavano a sordida turba affamata. Quei vestiboli, e quegli atri avrebbono allora messo a miei occhi splendor più solenne e glorioso, che se avessero le logge tumultuato da stuolo d'inargentati servitori, e quelle pavimento risonato dagli urti dei cocchi dorati, e dalle percosse delle zampe di destrieri generosi. Nelle tacite ore della notte aggiravasi per le contrade a cavallo quasi solitario in traccia di famelici e di bisognosi non con altro treno che di alcuni servi, che gli recavan davanti ceste e sporte con dei mangiari, e che egli seguiva con una borsa di denaro aperta pendente dal collo, e coperta dall'episcopale roccetto. " Ma il flagello della fame fu vinto appresso da quello di una peste famosa negli annali infausti di Lombardia. Qual più miserando aspetto, e più atroce, e più pauroso di quello funestissimo della pestilenza, la quale maceri, ed affligga, ed impiaghi, e strugga una moltitudine immensa? Quella Milano, che già risplendeva di fioriti panni, che già abbondava di squisite mense, che già si allegrava di giulivi festeggiamenti, ai tempi di s. Carlo intristi taciturna, squallida, gemebonda. La peste spogliava del pari i palagi e i tuguri. Gli abitatori vivi mancavano alle case; ed ai morti mancavano i feretri, ed i sepolcri. Io non ho la tetra vaghezza di funestare la immaginazione con descrizioni lugubri. Restringomi ad asserire che la vigilanza, e la cura di quel tanto periglio fu tutta del Borromeo: e che il Borromeo fu il padre di tutti, e però il vero padre della sua patria. » Non lo descriverò nell'atto di rinnovare, benché quaresima non fosse, la cerimonia di spargere sulle teste il cenere penitenziale, cenere che avrà ricordata allora la umana caducità, eziandio cadendo sopra biondi capelli, e sopra fronti giovanili, più che non la ricorda oggi dopo,' le cene e le danze sparso sopra le fronti appassite ed i crani canuti. Non lo descriverò in atto di portare un inalberato pesante Crocifisso, in cui egli, pastor amoroso e mediatore fra la terra ed il Cielo, teneva fissi immobilmente gli occhi, bagnati di lagrime; mentre intanto le ignude piante straziate bagnavan di sangue gli sterpi ed i sassi. Non lo descriverò arrestato colla divina Eucaristia in mano da una ambasceria pubblica, perché si astenesse da quella amministrazione dei Sacramenti, e guardasse più la sua vita, dalla qual dipendevano le vite di tanti altri: egli s'intrattiene sorpreso, ascolta grave, risponde amorevole, ed entra pietoso nella camera di un sacerdote, cui vuole prestare il viatico. Ometto simili cose; perché non esalto ora Carlo Borromeo come un arcivescovo, nè come un Santo; lo esalto come un cittadino utile, e come un provveditore politico. Allontanatosi dalla città il governatore supremo, ricovratisi i nobili cospicui negli asili dei loro feudi e delle loro castella, egli chiamò i rimasti, e costituì una novella forma di legislazione e di correggimento. Intanto i servitori dimessi dalle famiglie, i garzoni licenziati dalle botteghe, gli artefici oziosi di ogni mestiere formarono colle mogli desolate e coi figli famelici uno squadrone, umile bensì e supplichevole, ma confuso e disperato che assalì coi lai, e colle lagrime il palazzo dell'arcivescovo. Dimorare in Milano era un'afflizione, uscirne una impossibilità; perchè i Milanesi erano interdetti dal fuoco e dall'acqua per ogni società delle vicine contrade. Non si sgomentò l'intrepido uomo. Di tal gente creò soldati, sentinelle, Infermieri, fornai, cuochi, lavatori di lini, purgatori di lane. Quattrocento più scelti adunò in Melegnano al palagio detto della Vittoria fabbricato dal re francese Francesco I: ed ivi determinò una disciplina di ore, e di occupazioni che fu maravigliosa. Per suo consiglio si costrussero fuor delle porte solitari recettacoli e villerecce capanne. Usciva anch'egli fuor delle mura per i dintorni a cavallo; nè dalla sella giù discendeva per riposare, o per mangiare; ma solamente per provvedere e per consolare. Se assiso sul suo destriere aveva con poco pane calmata a disagio la natural indigenza, dopo le diurne fatiche e scorrerie attendendo sulla tarda sera una frugai cena, defraudò qualche volta anch' essa 1' espettazione dei famelici. Fu a suo carico, nel tempo della pestilenza, il pascere ogni giorno da sessanta in settanta mila persone. Il denaro non mancò; eppure allora si tacquero le gride degli onerosi tributi, e s'interruppero le esazioni degl'inquieti gabellieri. Le sue prediche, ed i suoi prieghi trassero dalle mani e dalle orecchie delle matrone pendenti, e anella: ma egli si trasse il primo dal dosso le vesti e le lenzuola dal letto, che donò poi intero ad un poveretto. Ottocento braccia di panno rosso, e settecento di pavonazzo si misurarono per coprire carni nude di miseri. Già prima gli argenti e le pellicce erano passate dall'episcopio allo Spedale dei vecchi. Non più restarono in casa nè portiere, nè tende, eccetto la fodera di un tap- peto, che divenne la coperta della sua tavola, e conservò tal onore sino alla morte di lui.Insomma il munifico cittadino diede tutti gli averi per soccorrere a tutti i bisogni, bisogni moltiplici, cotidiani, improvvisi, miserandi, che tutti credeva egli essere bisogni veracemente e propriamente suoi. Pensò sistemi, dettò leggi, scelse ministri, preservò sani, divise infermi, distribuì ospizi, rinserrò alberghi, inviò esploratori, determinò custodi, alimentò nutrici, e fece ai lattanti pargoletti prestar servigio eziandio le capre, vegliò giorno e notte, scorse ogni loco, visitò pressochè ogni malato sino a recarsi via in seno un bambino, tolto dalle poppe di una madre infetta. Insomma fu l'angelo tutelare di Milano allora, ed appresso. » Cessata la ria pestilenza gli restò a carico un popolo desolato ed allora rimasto s. Carlo poverissimo ritornò ricco, perchè la frugalità, e la parsimonia, e la mortificazione somministrano dei tesori secreti, ignorati dal molle e dal fastoso. Dopo la peste fondò un Collegio per le mendiche fanciulle ; ed un altro per i mendicanti orfanelli; e potè, morendo, consolare in fine cogli avanzi l'ospedale maggiore, dichiarato suo erede. E qui m'arresto, e rammento il detto di Marcello nell'assedio di Siracusa, che per espugnarla facilmente non avrebbe altro desiderato, fuorché in Siracusa vi fosse un uomo di meno, cioè Archimede. Infelice Milano se aveva entro alle sua mura un tal uomo di meno ! Indi mi rivolgo non senza qualche orgoglio a interrogare le preterite età, che mi mostrino un cittadino più operoso e più benefico. No, nè Temistocle, nè Aristide, nè Camillo, nè Fabio giovarono meglio i loro concittadini. Dico che non giovarono meglio, perchè migliore cosa è salvare i fratelli che uccidere gl'inimici. Lascio celebrare a Tito Livio gli eroici furori del suo Decio , che si sbalza col destriero nella cupa voragine vittima stoltamente devota ai numi d'inferno, onde placarli irati contro alla patria. Non sono di laude avaro a tanti bravi capitani che eziandio ai giorni nostri cadon sul campo combattendo: ma la fede che si dà, l'onore che si professa, la ricchezza che si spera, il plauso che s'immagina, la corona, la storia, il poema, la terrestre immortalità della fama destano il cuore animoso. Forse l'avere nel capo il Campidoglio avrà fatto Scipione stesso più prode a vincer Annibale, ed a distrugger Cartagine. Quanto alla turba dei volgari soldati essa è una folla quasi di macchine animate che ebbra e confusa dal rimbombo del tamburo, dall'urlamento dell'ufficiale se ne va spinta al macello per l'abito di veder altri ad andarvi. Ma a che vaneggio io mai in tali confronti? Lascio verdeggiar volentieri sulla fronte de' guerrieri i loro allori: quella sentenza gli uditori porgano che a loro piace fra un capitano che suda sul campo romoroso di una battaglia, ed un vescovo che per lungo tempo solo, abbandonato, senza speranza d1 premio, senza conforto di plauso giorno e notte pena nel silenzio di una metropoli deserta; e. che fra la Ambrogio, che respinse dalle soglie della casa di Dio Teodosio contaminate della strage d'un popolo.

Cap. VIII. Pag. 147. mestizia ed il pianto guerreggia la morte, la quale mira su di ogni squallido volto che gli si presenta davanti. L'intendimento mio è provare che il cristiano giusta i principi dell'evangelio, in tutti gli uffici della vita, sarà un amator della patria, ed ancora temporalmente utile cittadino. Per dare un esempio nomino s. Carlo Borromeo, ed esaminando tra le difficili vicende del mondo una che è singolare, con essa provo che fu un preclarissimo cittadino insignemente propizio alla umanità: onde dedurre si possa che non solo non si oppone il cristianesimo all'amor della patria, ma questo amor perfeziona; perchè la santità che è la perfezione del Cristianesimo, come appare in s. Carlo, rende il patrio amore perfetto. Leggendo la storia di Milano sembra che quel cospicuo paese sia destinato a ricevere pubblici comodi da' suoi arcivescovi. Due nomi risuonano chiari alle orecchie degli eruditi oltre al beatissimo del divino Ambrogio, che respinse dalle soglie della casa di Dio Teodosio contaminato della strage d'un popolo. Il primo è quello di Ansperto, che nel secolo nono ristabilì a Milano le sue mura, rialzandola dalla umiliazione di tre secoli e mezzo dopo la celebrata strage di Uraia, goto spedito da Vitige suo zio. Ariberto è l'altro dell'undecimo secolo, che seppe difendersi da Federico imperatore come nimico, potè aiutarlo come confederato, volle più settimane festeggiarlo come ospite. Ma l'uno e l'altro furono anzi sovrani che cittadini; e l'uno e l'altro se portarono la mitra in testa, portarono ancora la spada in mano. Già io de' militari non voglio favellar più. Il cardinale Carlo Bor- romeo fu nipote di un sovrano grande, ma visse sempre quanto al mondo da umile e da privato. L'esempio suo però divien appunto più adatto, perchè esempio di pacifico gentiluomo. Chi mi opponesse che s. Carlo avrebbe adoperato in non dissimil maniera ancora in dissimil paese, io lo pregherei a non voler ricorrere ad un sofisma usurpato dalle stesse magnifiche ampiezze della celestial carità. Certa cosa è, e ciò basta al mio proposito, che Carlo Borromeo fu milanese di patria, e che Carlo Borromeo salvò Milano sua patria ". A quel brano di panegirico, recitato con tanta enfasi, tolse a rispondere il Boldoni. " Stanno bene le virtù predare di carità del santo Borromeo, ma non lo imita forse nel costume della vita anche il cugino Federigo? ,Non è stato egli ad ammansare quel lupo feroce, che il proprio castello aveva ridotto a un covo di assassini?" "Bernardino Visconti ", disse don Viviano, " a cui egli ha fatto entrare in cuore un raggio della grazia divina, e lo ha convertito alla pietà, all'amor del prossimo ". " Federico è innanzi negli anni, ma giovine d'anima: lasciate che venga una peste, che l'Altissimo tenga però indietro per mill' anni, e vedrete quello che saprà fare il cardinale arcivescovo, vedrete i miratoli della sua carità, del suo bell'ingegno. E voi, don Viviano, avrete ben udito qualcuno de' suoi magnifici discorsi, che suol tenere nell'entrare alle visite delle parrocchie (1) ; ma voi non sapete che ha scritte più di settanta opere, tra le latine e le italiane, le quali se non sono tutte capolavori, non sono prive di interesse ». «Una miniera il suo cervello, esclamò il Parlaschino, « da cui cava fuori libri, come i minatori nostri la vena (2) ». «Non par cosa da credere , aggiuse don Viviano, « che possa scrivere tante carte e mandarle alla stampa, colle correzioni cha ci vogliono, un uomo, come lui, occupato in tutti i ritagli di tempo ». « Eppure le opere son lì stampate che parlano chiaro, come il suo autore non abbia amato troppo le oziose piume e il dolce far niente, di che hanno ammorbato l'aria questi orgogliosi Spagnuoli ». «E voi, che lo sapete, di che tratta tutta questa filza di libri stampati da Sua Eminenza? » domandò don Viviano. « Materie diverse trattano », soggiunse il Boldoni. « Ce n' è per tutti i preti della, terra, che vogliono arar dritto nella vigna del Signore. Eccovi le opere latine stampate » E cominciò la lunga litania. «Lettere sulla giurisdizione ecclesiastica, a Filippo IV. Dell'assoluta istituzione del Collegio Ambrosiano nelle lettere. Esordii delle visite plebane, trattato ai campagnuoli; trattato al clero plebano. Delle donne estatiche ed illuse. Pallade adorna, o sia del culto delle arti buone. Della prudenza nel creare il vescovo. Salomone, o l'opera reale. Dell'estasi naturale. Della vita perfetta, dell'acquistar l'abito dell'orazione, della continua orazione, del vario genere di rivelazioni ed illusioni. Vita di Caterina da Siena monaca conversa (3). Epistole domestiche; lettere patenti. De' Costumi di Cristo e della B. V.: della dignità della narrazione evangelica (4). De' vari costumi d'ainore. Ad una mente arida, lettera. Trattati due alle sacre vergini. Dei tre vizii Avarizia, Superbia, Concupiscenza. Note ai dodici profeti minori. Dell'azione della Contemplazione.


(1) Si conservano questi discorsi sotto tolo di Exordia plebanarum visitationum. (2) In Valsassina erano in escavazione diverse miniere di ferro. (3) Anche in italiano. (4) MS. anche in italiano. Della vera ed occulta santità. Osservazioni sull'apocalissi. Del presbiterato. Del fuggir l'ostentazione. Della villa Gregoriana, o del disprezzo delle delicature(1). Della stima non volgare, o di Pio IV. Della scelta degli ingegni. De' consiglieri. Filagia, o l'Amor della virtù. Paralleli cosmografici della sede e delle apparrizioni dei demonii. Della Providenza di Dio , e della sua permissione cogli spiriti maligni. Delle cognizioni che hanno gli angeli e i demonii. Della pittura sacra. Museo della Biblioteca Ambrosiana. Delle cose da trovarsi. Dell'ordine delle cose. Di alcuni passi della S. Scrittura usati sovente. La grazia dei principi (2). Dell'esercizio e della fatica dello scrivere. Dell'imparare le scienze. Delle scelte prove delle cose divine. De' proprii studii, commentarii. De' primi nomi delle cose. De' numeri pitagorici. De' trovati cabalistici. Dichiarazione de' cantici, secondo il senso letterale. Sermoni sacri. La Cipria sacra, o dell'onestà del costume d'un ecclesiastico. Delle lodi divine. Degli atti della prudenza. Delle lingue, dei nomi e del numero degli Angeli. De' sacri libri teoretici. Di alcune insane tentazioni. De' miracoli dei Gentili. Della vita contemplativa, o della salute ascetica. De' sacri oratori de' nostri tempi. Del vescovo predicatore. Della giocondità di una mente cristiana (3). Meditazioni letterarie.


(1) Anche in italiano. (2) Anche in italiano. (3) Anche in italiano. Discorsi sinodali. Orazione consolatoria ed esortatoria ai vescovi. Constituzioni del Collegio e della Biblioteca Ambrosiana. Litanie della Chiesa monzese».


Opere Italiane stampate.

« Regole d'alcuni capi necessarii pelle sacre cerimonie e il canto fermo. L'Idiota, ovvero della facilità dell'orare. Delle laudi divine. Ragionamenti spirituali fatti alle monache di S. Marta, vol. 2. » «Eh ! eh I » fece il Parlaschino, « il cardinale ha uno scaffale lui solo di libri, da cominciare la Biblioteca ». «Senza contare le opere manoscritte latine e italiane, perchè egli studia sempre in tutti i ritagli di tempo, che gli avanzano delle sue occupazioni come arcivescovo di Milano. Alla sua morte, Dio sa qual altro tesoro di scritture gli trovano da aggiungere, alla raccolta numerosa, che ha fatto e continua a fare di manoscritti per la Biblioteca » Noi, che li abbiamo visti, ne diremo i titoli; e prima cominceremo dalle opere latine manoscritte. « Varie cose riguardanti il reggimento della chiesa milanese. Eloquenza estemporanea, coi discorsi recitati i n varii luoghi e tempi. Degl'impedimenti della vera penitenza. Confronto del salterio ambrosiano col romano. In che differisca la volgata dalla parafrasi caldaica dei salmi. Argomento de' salmi. Note ai sermoni sacri. Parallelo della vita di Gesù con quella d'Adamo. Del culto de' pii esercizii in casa. Lezioni sopra Giona. Apparato a diversi discorsi. Manuale di erudizioni. Note ai salmi. De' pellegrinaggi sacri e solitarii (1) Lezioni sulle vite de' santi. Della peste di Milano nel 1630 (2). Atti per finir le controversie tra il foro ecclesiastico e'l secolare.


(1) Anche in italiano. (2) Libri di tutto pugno di Federigo Borromeo, nella Biblioteca Amrosiana.. Relazione latina delle stesse controversie.

Altra relazione.

Varii editti sulla materia stessa ».

Elenco delle opere italiane manoscritte. » Trattato sopra le versioni della sacra scrittura. " sopra il gesto, la voce, il luogo e le vestimenta del corpo umano in ordine al culto divino. " sopra la pratica della virtù. " della filosofia cristiana. " sopra la simmetria, proporzione e connessione che hanno fra sè le parti dell'universo. " dell'orazione. " ai Conservatori del Collegio Ambrosiano. " sopra l'amor divino. Commentarii sopra i Cantici di Salomone. "sopra i salmi e Giob. Ragionamenti fatti ai vescovi, parrochi, oblati. " alle monache. Raccolta di esempii e sentenze morali. " di varie osservazioni.

Lettera sopra un'immagine di Orfeo trovata in Roma. Materie da meditarsi negli esercizii spirituali. Meditazioni e riflessioni morali cavate dalla vita dei santi. Modo di agevolare la vita religiosa. Quattro libri di addizioni a diversi trattati. Viaggio spirituale. Della vita di alcuni santi. Di cose mirabili udite o vedute. Esercizii spirituali. Sfera, o sia globo mirabile. Lettere alle monache della Maddalena al Cerchio. Regole per gli oratorii secreti. per la congregazione de' cherici nella casa degli oblati. Effimeridi letterarie. La luce mattutina, cioè racconto di ciò che udì un Persiano da un venerabile vecchio sopra le cose celesti e divine ». Conservasi inoltre un buon fascio di lettere, mandategli da più cospicui ed eminenti uomini del suo tempo. Chi ha vedute le virtù di Federigo Borromeo poste in così splendida luce da Alessandro Manzoni nel suo immortale libro de' Promessi Sposi, e chi ha avuta la pazienza di leggere le numerosa filza di opere da lui lasciate o stampate o manoscritte, deve essere bene invogliato di conoscere la storia di quest'uomo singolare nel suo secolo. Così passando di Milano davanti la monumentale Biblioteca Ambrosiana, o entrando chi non l'avesse vista a visitarne i lavori di letteratura e belle arti, potrà almeno sapere, dove nacque e come visse il fondatore di tanto comodo e lustro alla capitale lombarda. Siccome la nostra penna è troppo giovine, per esperimentarci in tanto cimento, riporteremo le parole del grande storico nostro italiano, Cesare Cantù. Prima di tornare là ove oggi stanno, abitavano i cadetti Borromei in Rugabella (1), ove appunto nacque Federigo ai 18 agosto 1564; fu battezzato a S. Eufemia, ed allattato in casa di una Maria Quadrio di Valtellina. Suo padre aveva nome Giulio Cesare: sua madre Margherita Trivulzio, ambo di nobiltà antichissima, il che davvero poco conchiude al merito del nostro Federigo. Il quale come si mise a studiare, i maestri si querelavano che profitasse poco : e la colpa doveva essere dei metodi loro, non di lui. Giacchè i ragazzi d'allora, invece d'essere addirizzati cose utili alla vita ed alla società, venivano annoiati e svogliati coll'obbligarli allo studio materiale; ad impacchiucare le carte di latino e di greco prima che nè anche sapessero l'italiano; a cercar nei classici non il retto gusto e il franco pensare, ma parole e frasi, che per la diversità dei costumi e la lontananza de' tempi è impossibile ai teneri ingegni il capire; si davano loro in mano fiori e giardini rettorici, sui quali si pretendeva d'avvezzarli a supplir, colle parole e coi luoghi comuni, alla mancanza dei pensieri, al sentire, al meditare : tant'erasi dimenticato che non è vero sapere, se non quel che contribuisce al pubblico bene. Appena però entrato Federigo a studi' più liberi e convenienti., vi s'approfittò così, che apparve qual era veramente, e furono derisi i pessimi pronostici de' suoi pedanti. Erasi drizzato prima sulla via dell'armi, ma fattosi ecclesiastico si donò intero alle lettere, studiandole a Bologna, indi nel collegio Borromeo di Pavia, al quale fu il primo nominato: a Roma ebbe amici Filippo Neri, il cardinale Baronio annalista della Chiesa, il famoso teologo Bellarmino, gli storici Maffei ed Orsino. Dotto non che di latino e greco, ma d'ebraico, caldaico, siriaco, assistette all'emendazione de' Concili greco-latini stampati d'ordine di Clemente VII. Fin quando mori s. Carlo nel 1584, i Milanesi aveano chiesto che venisse ascritto Federigo nel collegio de' cardinali, ma non fu loro esaudita la domanda se non dopo tre anni, quand'egli ne contava soli ventitrè. Morto poi Gaspare Visconti arcivescovo di Milano, fu nel 1595


(1) Ruga (e chi noi sa?) vuol dire contrada: onde quel nome mostra come questa fosse una delle più belle di Milano. Ora paragonatela colle due, a cui mette capo. Oltre le stampate, nella Biblioteca Arnbrosiana conservasi una Vita di F. Borromeo, compilata da BIAGIO GUENZATI, oblato; brutta copia di RIVOLA e RIPAMONTI. Ivi dice che Giulio Cesare, padre di Federico aggiunse alla natia Pietà il lustro della gloria militare acquistato fra le stragi degli eretici in Germania. eletto a succedergli, avendo appena trent'anni. Egli con gran vivezza si rifiutò a quel peso, tanto che il cardinale Valerio di Verona gli indirizzò un trattato .Ne quispiam sibi nimium credat, per indurlo ad obbedire, come fece. Il papa (cosa a memoria d'uomini non più veduta) volle consacrarlo di sua mano: e quanto giubilo ne provassero i Milanesi è impossibile dirlo. Fra Paolo Moriggia, che di quei giorni appunto stampava la sua Nobiltà di Milano, racconta come ogni quartiere armasse trecento e fin cinquecento soldati per fare tornei e bagordare; falò in ogni canto; al Duomo due gran castelli, cui si dava assalto: e fin tre mesi dopo avutone l'avviso, duravano ancora le gavazze, ed i fanciulli squadronati ed in arnese, faceano badalucchi e fuochi, imitando la milizia (1). Quando poi entrò in Milano (fu ai 27 d'agosto) tal pompa si sfoggiò, che non parve inutile agli storici il darne prolissa descrizione, nè parrà a noi il farne un cenno a schiarimento delle costumanze (2). Per pubblico decreto adunque fu preso ordine di fare la maggior pompa che mai. Soleva l'arcivescovo entrare per porta Ticinese e fare una fermata a S. Eustorgio, per ciò che quivi presso era la fonte ove, tradizione antica, s. Barnaba battezzò primamente i Milanesi (3). Ai signori della casa Confalonieri ( il nome ne indica l'antico ufficio) era serbata in questa solennità la prima comparsa. Tre di loro,uno ecclesiastico, un dottore, un cavaliero andarono ad incontrar Federigo sino a Chiaravalle, e l'accompagnarono a Sant'Eustorgio, passando sotto una porta di trionfo, sulla quale era in alto un Padre Eterno, ai lati le arme del Papa, del Re, de' Borromei, e le statue delle Virtù e dell'Onore. Un altro arco di trionfo sorgeva presso l'osteria dei tre scanni (4), ove intorno alla croce del Carobbio (5) erasi foggiato un orto con fiori tra veri e finti e poma d'oro, e frammisti alcuni angeletti ad incensare. La terza porta era all'entrar sulla piazza del Duomo, con suvvi una statua che dovea significare l'Insubria, e poi un bel comparto o un infelice miscuglio di nettuni, di elmi, e scettri, e croci, e statue di santi.

(1) Costumavano allora i Pinoli di poca età e giudizio andare massime ne'giorni di festa per i città in quadriglia con segnale di bandera e legni facendosi capi d'una fazione o d'un'altra (Grida del 11 maggio 1592) e far a sassi e badaluccare: il che fu proibito spesse volte. (2) Vedi, oltre gli storici, gli Apparati fatti per ricevere il nuovo arcivescovo Federigo, di GIAN FRANCESCO BESOZZI. (3) San Barnaba, dice il TORRI, su quell'onda tragittava al porto della salvezza quelle anime che sdrucciatano nella Cariddi della falsità dei numi. La chiesa di San Barnaba al Fonte fu cinta di un nuovo edilizio dal cardinale Federigo, che nel posarne la prima pietra il 1623 predicò da quel pulpito che c'è ancora attiguo a Sant'Eustorgio. (4) Quell'osteria conservò l'antico stemma della porta Ticinese, che era uno scanno rosso in campo bianco; le altre porte aveano , l'orientale (ora Venezia) un leon nero, la Romana il gonfalone rosso, la Vercellina (ora Magenta) il rosso e bianco, la Nuova gli scacchi di bianco e nero, di rosso e bianco la Comasina (ora Garibaldi). Si veggono ancora queste insegne sullo stendardo di sant'Ambrogio. (5) Le Croci erano state erette nella peste di san. Carlo. Erano 19, ed a ciascuna era addetta una confraternita, che ogni venerdì, sulla bass'ora, andava da quella in processione fin al Duomo cantando. La piazza del Duomo era stata sgombrata dalle trabacche, in cui si dava mangiare e bere (1), e sui gradini era piantato il quarto arco di trionfo, ornato come gli altri di iscrizioni, le quali ( sentite questa) erano in latino, cioè in una lingua intesa da ben pochi. Guarda che gusto correva in quel tempo! L'arcivescovo cantò messa a Sant'Eustorgio: ove sull'ora del vespro venne a prenderlo un mondo di carrozze ed una numerosa cavalcata di signori del sangue più filtrato, invitati ad onorare la patria colla lor persona et cavallo. Là giunti, uno dei confalonieri recitò un'orazione, ove Dio sa quanto avea faticato per dir le cose il men naturale che potesse, e farla bella secondo il gusto d'allora, che trovando merito in tutto quel che cagionasse meraviglia, ammirava là ove noi sorridiamo. Poi il cardinale montò una chinea bianca, sotto un baldacchino argenteo, reggendo i bastoni di questo e le staffe e il freno della cavalcatura i confalonieri, ai quali poi questa toccava in proprietà. Apriva il corteo una fila di muli carichi del bagaglio del cardinale: poi il famoso stendardo di sant'Ambrogio: indi la giumenta cardinalizia bardata a rosso; seguivano cori d'angeli con rami di palme e d'ulivi, tutte le scuole della dottrina cristiana, tutti i frati di diverso colore; poi le collegiate, i monsignori, il maestro delle ceremonie, due confalonieri in abito rosso tutto gemmato, e il prevosto di Mariano a cavallo. Ed ecco lo scopo della festa, di tutti gli sguardi, di tante speranze, Federigo, di trentun anno, nella MAESTOSA SEMPLICITÀ' DELLA PORPORA, biondo e bello e di aspetto gentile, cui più aggraziava L'ABITUDINE DE' PENSIERI SOLENNI E BENEVOLI, s'avanzava benedicendo: e dietrogli sei vescovi suffraganei, il senato, i magistrati, la nobiltà. Non occorre dirvi che tutta la città era messa ad arazzi, a fiori, a fontane, e simboli ed iscrizioni. Il maggiore stivamento era però sulla piazza del Duomo, ove tanto accalcossi il popolo curioso addosso al prelato, che fu a un pelo d'andarne schiacciato, se alcuni cavalieri, sguainata la spada, non avessero respinto la marmaglia: TANTO V'ERA IN QUEI COSTUMI DI INCOMPOSTO E DI VIOLENTO CHE ANCHE NEL FAR DIMOSTRAZIONI DI BENEVOLENZA AD UN VESCOVO E NEL REGOLARLE, SI DOVESSE ANDAR PRESSO ALL'AMMAZZARE (2). In Duomo il gran cancelliere disse un'orazione a nome del re, del governatore, del senato, della città: un canonico lesse la bolla pontifizia d'istituzione: si intuonò il Te Deum, poi il bacio della pace e la benedizione, e passarono all'arcivescovado. Ivi una mano di moschettieri e di borghesi continuava le salve: nè col dì finirono di far chiasso. Narrando Federigo i casi di quel giorno, soleva confessare, sopra


(1) Le botteghe di legno ne furono poi tolte per ordine del governatore Cabrera: ma in fatto la piazza non fu sgombrata del tutto clic e entrando il maggio 1832. (2) A. Manzoni: Promessi sposi, cap. XXV. ogni altra cosa essergli andato a sangue un angioletto, che gli si fu offerto innanzi agli occhi con un caro vezzo, a spiccata voce dicendo, Ben venuto sia, monsignore illustrissimo: sì per l'ingenua grazia di quel dire, si per chiamargli a mente la gioia degli angeli, quando uno entra in paradiso. Non solo amatore, ma intelligente di belle arti, avea contribuito in Roma a fondare l'accademia pittorica. A sciagura dei tempi, era perita fra noi quella scuola che, nata col Foppa, giganteggiò con Lionardo, e produsse, a tacer altri, Cesare da Sesto, Luino e Gaudenzio Ferrari. Quando dunque i due Borromei vollero coll'arti crescere lustro al culto, dovettero ricorrere a forestieri. Poi Federigo, cercando ravvivare quest'amore fra' nostri, pose una nuova accademia di belle arti, fornendola di gessi e di quadri scelti; dove non vogliamo tacere come non credesse consister il gusto soltanto nelle scuole classiche, ma fu de' primi a cercare i quadretti fiamminghi, allora non ancora pregiati, conserviamo il suo carteggio in proposito con Giovan Breughel, il quale per la sua quadreria dipinse i quattro elementi. Se i frutti non furono pari all'intenzione, la colpa non fu di Federigo; pure il colosso di Arona ch'egli fece dal Cerano alzare per san Carlo, resta fra le belle produzioni. Ad esso Cerano (Gian Battista Crespi) affidò Federigo la direzione della sua accademia, e molte imprese; e insieme col Nebbia, col Zuccari, con altri chiamati di fuori, fe' lavorare qui il Mazzucchelli da Morazzone e quel Daniel Crespi che i forestieri non pregiano abbastanza, perchè non videro alla nostra certosa di Garignano quella sua storia di san Brunone, davanti alla quale noi vedemmo fremere e raccapricciare lord Byron. Han detto che Daniele fu l'ultimo de' pittori milanesi, e in fatto alla morte di Federigo, l'accademia stette chiusa venti anni, poi si riaperse con quella vita languida e fittizia, che può esser lodata dai giornalisti e dai committenti, ma che la posterità chiama torpore e vergogna. Come Federigo adoperò al meglio delle anime, a far buoni preti, a soccorrere l'indigenza, a ravviare in qualche bene le corrotte usanze, a favorir gli studi, ve l'ha descritto il Manzoni con quel modo che non ha eguale (1). «Peccato, che gli sia toccato il dolore di dover far bruciare anche lui, come san Carlo, multe streghe, disse il Parlaschino. «E tra le altre la famosa Caterina Medici di Brono », aggiunse don Viviano, « e Santina Lardini" Era persuasione generale che il diavolo patteggiasse coll' uomo , singolarmente con brutte vecchie, le quali acquistavano un potere più che naturale talvolta di far bene, il più spesso di recar danno. Mercé la civiltà, e l'aver osato pensare, osserva Cesare Cantù, noi

(1) C. Cantu : op. cit. ridiamo delle streghe: ma allora uno ne sentiva parlare dai primi anni come di cosa indubitata; le vedeva maledette da sinodi e papi, procestate dall'inquisizione, condannate, arse: era un prodigio se non si convinceva che ci fossero davvero. Quindi sono bene da compatire i nostri tre poeti, se anch'essi credono, come a vangelo, alla opinione comune sollevata contro disgraziate donne. « Dicono che fossero sollecitate dal diavolo in quei loro conventicoli del sabbato a calpestar la santa croce: il che, mentre in cieca frenesia tentavano, ne videro sprizzar sangue (1) ». «E quali cose », o caro Parlaschino, « non ha egli udito san Carlo dalla Mesolcina di combricole notturne, di spettri, di malie, d'armenti all'improvviso trabalzati dalle rupi, di fanciulli affascinati, di nembi addensati a ciel sereno (2)? » «Ma ci ha provveduto », disse il Boldoni, « con sapienza, mandandovi uno dei migliori periti nel diritto, il Borsato, il quale trovò il male ancor peggio che ne corresse la fama, e aperse processi, e prima quattro, poi altrettante, poi tre, indi altre di quelle maliarde furono bruciate ». «E don Domenico Quattrino prevosto di Rovereto », gridò la voce del curato di Cremeno da sull'uscio, entrando in sala, « il quale era un mezzo poeta non fu messo in un falò, perché undici testimoni l'avevano visto un sabbato menar un ballo colle streghe, avendo gli abiti della messa in dosso, e in mano il calice? E chi avrebbe creduto che un unto del santo crisma, un ministro del Signore si lasciasse andare a simili diavolerie, un mezzo poeta, come lui, che credeva dettar legge agli altri preti? » e qui gettò un'occhiata bieca sul curato di'Taceno.

« E non era Eli forse », gli avvertì senza nissuna collera don Viviano, « non era egli sommo sacerdote d'Israele, quando Dio stesso di sua mano lo ha colpito, per le iniquità de' suoi figli? »

Don Modesto, visto che quello non era un competitore col quale potesse durarla colle citazioni bibliche o evangeliche, fece come un gatto che non ha potuto far il tiro giusto al lardo, il quale ruiagola e smuccia via, colla differenza che il prete invece di voltarsi lui dalle parte della porta dond'era entrato, diede una voltata al discorso, mantenendolo però sullo stesso argomento. «Io ho visto bruciarne, e partirsene l'anima dal rogo pel viaggio dell'inferno, dalle fiamme del tempo a quelle dell'eternità ». «A David re peccatore », lo ammonì don Viviano, « è bastato dire - Signore, ho peccato! e chi sa che il pentimento non abbia toccato il cuore di quelle sciagurate ».

(1) C. Cantù: storia della Città e Diocesi di Como.

(2) Così attesta aver udito nei processi Giampietro Stoppano, in un libro delle azioni di s. Carlo ma nella Diolioteca Ambrosiana. Don Modesto fece la bocca d'uno, che in sbaglio per liquirizia mastichi assenzio, e continuò: « In un vasto campo era costruito un rogo alto tre quarti del campanile di san Michele d'Introbbio, e, una per una, le streghe, cominciando dalle più vecchie alle più giovani, furono distese e legate dal boia sopra una tavola: poi messe bocconi sulla catasta, ai lati della quale fu appiccato fuoco sì vivo, che in poco d'ora si videro le membra consunte, le ossa incenerite. Dopo che il boia le ebbe avvinte alla tavola , cascuna riconfessò i suoi peccati, e fu assolta. Don Giampietro Stoppano, come quello ch'era stato mandato apposta da san Carlo per bruciare quella cattiva gramigna strappata dal campo del buon frumento, con due frati di Lugano le confortava in morte, e le affidava del divino perdono. Io non basto a spiegare con qual intimo cordoglio, e quanto di pronto animo abbiano incontrato il castigo. Avanti condotte al supplizio, confessate e comunicate, protestavano ricever tutto dalla mapo di Quel lassù in pena de' loro traviamenti; e con sicuri indizi di contrizione sincera offrivano il corpo e l'anima a nostro Signore. Brulicava la pianura di una turba innumerevole, intenerita a lagrime, che gridava Gesù; e le stesse miserabili poste sul rogo, fra il crepitare delle fiamme si udivano replicare quel santissimo nome, e, pegno di salute, avevano al collo il santo rosario. E il fatto ha riferito subito don Giampietro Stoppano a san Carlo, perchè potesse ringraziar Dio e lodarlo per i preziosi manipoli di questa messe raccolti •. «Anche Sua Eminenza il nostro cardinale arcivescovo, disse don Viviano, « nelle sue visite ha fatto e continua a fare gran guerra ai maghi ed alle streghe". « Belle novità da contarle a me , lo interruppe bruscamente don Modesto, « contarle proprio a me, che ho avuto tre anni di parrocchia sul confine cogli Svizzeri! E ne ho trovato una folla a Claro presso di Poleggio, così sfacciata, che di pieno giorno andava in tregenda, o come dicono qui, in barilotto. E sapete dove essa folla si dava l'avviso di trovarsi la notte? Voi che la sapete lunga, sfido a indovinare. E rimasto un poco col muso volto al curato di Taceno, che non gli diè risposta, come a uno scimunito che parlasse: " Sul sagrato" , proseguì, « si radunavano, e li maghi e streghe cantavano una messa di bestemmie in onore del diavolo e contro la santa croce, su cui mettevano i piedi, in tanto che baciavano la coda di Belzebù". «E chi v'ha detto che fosse Belzebù piuttosto che Lucifero? volle dire, scherzando, il Parlaschino. «E siete un letterato voi, e non sapete che tra Belzebù e Lucifero passa una differenza come tra un re ed un rivoluzionario ? Quando gli angeli si rivoltarono contro Domeneddio per dispetto che aveva creati noi a sua immagine e somiglianza, Lucifero, allora governatore di una parte del settentrione lassù nel cielo, si mise alla testa dei ribelli fu vinto dall'arcangelo Michele e precipitato nell'abisso, che governò tranquillamente fino alla notte della nascita del Bambino Gesù, nella quale Belzebù, principe dei demoni, pervenne a detronizzarlo, e a regnare in sua vece, ciò che seguita ancora a fare «Confesso », disse, un po' celiando, il Parlaschino, « che non sapevo di questa rivoluzione accaduta nell'inferno, e, se m'avanza tempo, ne voglio scrivere una storia pei posteri". «Belzebù », notò il Boldoni, « è un nome che significa signore delle mosche » «Bisogna dire allora », aggiunse, sempre motteggiando, il Parlaschino, « che sia un ragno ben grosso ». «Il re Ocosia », citò un passo don Viviano della Sacra Scrittura, « lo consultò sopra una malattia che lo inquietava; del che fu aspra. mente rimproverato dal profeta Eliseo, che gli domandò se non vi fosse Dio in Israele per andare cosi a consultare Belzebù, dio delle mosche nel paese dei Filistei ». Un po' mortificato di vedersi sopraffatto da quei professoroni, come in suo cuore li designava per dispetto, don Modesto gridò: « Re delle mosche o dei tafani, io non cerco questo, e dico che se Lucifero è alto quarantamila piedi, Belzebù gli sta poco indietro, ed ha l'altezza d'una torre ». «Come la torre di Babele!" . esclamò il Parlaschino. «E sta seduto », gridò più forte don Modesto colla persuasione che chi più schiamazza piu ha ragione, « sta seduto, dico, sopra un trono immenso, cinta la fronte di una fascia di fuoco, rilevato il petto, il volto gonfio, gli occhi scintillanti, i sopraccigli elevati e marcati, e l'aspetto minaccioso. Ha le nari estremamente larghe, due grandi corna sulla testa: è nero come un moro, due grandi ale di pipistrello tiene attaccate alle spalle: ha due larghe zampe di anitra, una coda di leone, e lunghi peli per tutto il corpo mostruoso. Porta una sottana di baraccano nero, foderata di acciaio, e ornata esteriormente di arabeschi di porcellana. Ecco in che guisa Belzebù compariva a Claro sul sagrato della chiesa la notte del sabbato, per farsi adorare dalle streghe ». Visto che nessuno più osava contrastargli la verità del racconto, don Modesto tirò innanzi: Sua Eminenza il cardinale arcivescovo, informato del come e del quando facevano la infernale radunanza, in processione, al suono delle due campane, una notte di sabbato venne con una gran croce in spalla sul sagrato, e ve la piantò in mezzo, intimando ai demoni di non più congregarsi colà «Vade retro, Satana, cioè Belzebù », esclamò il Parlaschino. «E come agnelli, streghe, maghi e demonio ubbidirono, e non tennero piu barilotto sul sagrato, ma se la legarono al dito contro il cardinale ». «Portae inferi non prevalebunt, sentenziò col vangelo, don Viviano. Stizzito l'altro di non averlo prevenuto in quella citazione, che calzava, come un guanto, all'argomento, gettò sul confratello una bieca occhiata, e poi continuò. " Legata al dito se la tennero per cinque anni, quando tornò il cardinale in Isvizzera, e fu a fare una visita allo stesso paese. Allora giurarono tutti, maghi, streghe e diavolo, di fargliela pagare. E un giorno che viaggiava tra Prato e Faido, gli suscitarono contro un uragano così tremendo, che fu un miracolo se non lasciasse la vita in quella strada piena di sterpi, di sassi e di precipizi. Nero il cielo come un'anima in istato di peccato mortale, tuoni da far crollare la volta del cielo, e lampi che parevano lo volessero incendiare, e insieme urli di lupi, che facevano tremar l'aria (1). Il cardinale, col coraggio delle anime giuste, armato del segnale della santa croce andava innanzi per la sua strada, raccomandandosi a sant'Ambrogio protettore di Milano, e cosi fu salvo. Il dì dopo, rinnovarono la scena, e per fargli perdere la pazienza e molestargli l'anima gli portarono perfin via i piatti da sulla mensa, sul più buono della cena, dopo una giornata di gran viaggio di montagna. Ma il cardinale, ricordatosi che tutto accadeva per volontà di Dio, il quale lo metteva alla prova colle furie dell'inferno, benedisse l'aria, e tutto acquetò, come un olio (2). Ma lasciamo da banda le ubbie di quegli uomini cresciuti cogli errori del loro secolo, e torniamo piuttosto al letto dell'Arrigoni, a cui è tornato in camera il bravo col pugnale, levato dalla ferita sanguinosa di don Silvio.


(1) Una scena simile d'urli, prodotti dalla bufera,accadde a Cesare Cantà nel settembre 1829 per quegli stessi luoghi. (2) Rivola : vita di Federico Borromeo, III, 17. Costantino, la prima testa di Cesare romano, che ricevette il battesimo;...

Cap. IX. Pag. l69. CAPITOLO IX

Anima di ribaldo.

Ivi senza riposo i giorni mena, Senza sonno le notti, ivi ti duoli Non men di dubbia, che di certa pena-GIOVANNI DELLA CASA. Sonetto.

« Perdonar, vel concedo, che sia da animal da due gambe, ma dimenticare è da animal da quattro », aveva detto il padrone di casa, quasi di commiato, a don Modesto. Egli dopo aver ricevuti gli ordini pel funerale, che voleva magnifico e degno della casa, aveva creduto bene di piegare l'Arrigoni, sbuffante d'ira, a più miti pensieri. Ma costui, appena udì far motto di perdono, si corrucciò e si turbò

Tuttavia il curato, da esperto nel mestiere di buttar acqua sul fuoco, gli rappresentava i doveri del suo stato, della sua fede, della sua coscienza; non rispose. Seguiva incalzandolo sui passi falsi e malagevoli, a cui si cimentava, e su' pericoli manifesti a cui si esponeva: non gli diede retta. Gli adduceva tutti i motivi umani e divini , il metteva a tutti i riguardi e morali e civili, cercava ogni mezzo di smuoverlo dal suo fiero proponimento: tutto fu invano.

«Vadane ciò che si vuole », dichiarava, « voglio vendetta». «E egli dunque proprio vendetta, che vuole? ma questa per vita sua, ella le rompe tutte le fila, s'attraversa a tutta la trama della sua stessa fortuna. Ci va, mi creda, troppo del suo ». «Voglio vendetta », ripeteva l'altro. «Lei tira a scuoter la casa e a rovinar la famiglia a . «Voglio vendetta ». "Ah! che un dì ei non abbia a vedere co' propri occhi, ammogliandosi per sostener la cospicua casa, non abbia a veder squalida la consorte, lagrimosi i figliuoli, desolato il lor patrimonio, spente le loro speranze! Di siffatte tragedie senz' andar lontano, a Introbbio, se ne son vedute, e più di cento per tutta la Valsàssina ». «Voglio vendetta ». «Deh! almen guardi al benessere e al buon governo della sua persona. Dappoichè s'impegna a voler soddisfazione, lei non trova più cosa,che lo soddisfaccia, Nè il cibo le fa buon pro, nè il sonno; nè piacer,nè diporto le vanno più a grado; e di e notte le batton l'ore imsuiete su mille dubbi e sospetti, che non si smembri il partito, che non si stanchino le pratiche, che non tradisca il domestico, che l'emulo non prevalga. Finisca adunque, e che ben gliene venga, e dia pace, se aver ne vuole ». «Voglio vendetta ». «Non potrò io dunque trarle di bocca altre parole? Verrà poi finalmente a provocar di troppo l'ira di Dio, e morrà impenitente, e precipiterà coll'anima nell'inferno ». «A che più dirmene, curato? ad onta del cielo e della terra, voglio vendetta ». «Ma acquistar l' inferno..., ma perdere il caro paradiso..» " In questo rinunzio di metter piede, se vi ho a trovar chi m' ha assassinato il fratello" " Ah! vuol dunque ella fare la fine infelice di Saprizio? » "Voglio vendetta, ecco tutto!" " Oh! lei non deve perder l'anima come Saprizio", gridò Don Modesto , con l'aria del bottegaio che vuol persuadere l'avventore sulla bontà della sua merce. « Saprizio, messo già il collo sotto alla mannaia, per Cristo, e pregato a quell'ora dall'offensore del perdono , ributtò il supplichevole, e negando a lui la pace, a Dio la fede, a sè la corona, amò meglio di sopravviver apostata senza fede, che morir martire senza vendetta ». «Ho io forse detto, qualche volta di voler diventare un santo? » "Non santo, chè la illustre famiglia vi ha già uno in cielo nella beata Guarisca, ma generoso cristiano che perdona..." « E lo poss'io sull'onor mio di gentiluomo, senza che mi salga una vampa di rossore al viso? Avete voi dimenticato ch'io mi sia, i riguardi del grado, del sangue, del parentado?... E poi chi darebbe forza; chi mi porgerebbe coraggio a soffocare nella mia anima il giusto risentimento, che ogni uom che abbia punto di onore deve sentire davanti il cada vere d'un fratello? » " Il signore", tornò il prete all'assalto di quel cuore di macigno, « non fa egli ad uso degli uomini, i quali sono buoni di caricargli un grave peso addosso, ma poi non gli danno forza a portarlo: il Signore, a tenore del carico, somministra il vigore; e al maggior uopo accorre con maggior mano. Tiene il Signore pronte, siccome per ogni guisa di naturali, cosi per ogni fatto d'arti e mestieri, grazie, ed aiuti particolari, per forza de' quali non solo può ognuno tenerglisi in grazia, ma tanto avanzarsi nell'amicizia divina, che arrivi a grado di santità eminente ». E qui, credendo che l'altro gli s'addormentasse sull'esordio , tossi forte, e poi tirò innanzi. « Vegga, in fatti, che non v'è in terra professione di vita, la quale non sia stata buona strada di salire al cielo. Quanti grandi personaggi vi son saliti, malgrado i ritegni della terrena loro grandezza? Quanti ne ha dati il trono agli altari, quanti la corte, quanti le dignità più cospicue della Chiesa e del foro? E per dire nominativamente di alcuno, ci è pur ito da' tribunali un Gordiano, da' senati un Asterio, dalle ambascerie un Epifanio, da' governi delle città un Flaviano, dalle provincie un Gerardo? Ci son pur giunti tra' fiscali un Fulgenzio, tra' tesorieri un Nicostrato , tra' segretari un Marcellino , tra' cavalieri un Melanio? Forse non sanno i causidici del lor Teofilo, i medici del lor Gennadio, i cerusici del lor Ciro, i notai del lor Claudio? Forse mai non udirono gli architetti del lor Giuliano, del lor Frumenzio i mercatanti, del lor Andronico gli argentieri, gli orefici del lor Eligio? » « Oh! che vi salta adesso in mente », esclamò l'Arrigoni, a di rove sciarmi sul capo tutto il lunario ? » Ma il curato, come un can che corre dietro il sasso, non potè arrestarsi sul colpo, e bisognò che svaporasse tutto il sacro, zelo di convertir a Dio quell'anima di Faraone. " Lasciando i protettori più, rinomati nelle belle arti ", prosegui egli," restringiamoci alle famiglie. Che santa copia di coniugati non furono eglino Getulio e Sinforosa, Luciano e Paola, Castulo ed Irene? E tra le genti di servizio, a che alto colmo di santità non venner un san Pipino, che era maggiordomo; un san Pusicio ch'era guardarobiere; un san Caio, ch'era paggio; un san Massimo, ch'era cameriere; una santa Blandina, ch'era fantesca; un sant'Onesimo, ch'era servitore? Come sepper dividere in fra Dio e gli uomini i lor doveri ». L'Arrigoni, parendogli di star come Attilio Regolo nella botte irta di chiodi, con tutti que' santi per le orecchie diede una voltata per entro il letto. E don Modesto, coll'insistenza d'una mosca alla faccia d'un povero diavolo. ch'è stracco, e vuol riposare: " Quant'altri santi ", disse, a ch'io non annovero, o perché troppo noti per nome, o perché troppo ignobili per mestiere? Oh Dio! ché lassù si coronan, per merito cotai persone, le quali neppur si mostrano quaggiù dal pulpito con decoro. Che chiari nomi, che arti oscure! Che gran santi, che poveri artefici ! a che alto regno e da che bassa for- tuna ! In cielo tanti vi sono beati, i quali altro qui non recaronsi in mano che ago e spola, marra ed aratro. Da che tenue bottega vi si condussero un Crispino, un Omobono, un Dunstano? Da che depressi mestieri vi si alzarono un Severo, un Eugenio, un Meningo? Da che odiose esecuzioni vi si levarono (e dicasi a lustro dell'umana giustizia) un Quirino, un Basilide, un Ferreolo, ed un Vittore, ministri ignobili di catture, di carceri, e fin di morte? In fine non si dà tra cristiani stato di vita ecclesiastica o secolare, grado civile o militare, arte liberale o servile, officio d'alta o bassa famiglia, tra' quali non siano per ogni età riusciti gran santi, affin di render palese nel cristianesimo, che ogni" mestiere fa santi, sol che facciasi santamente ogni mestiere... » «Avvertitemi, quand'avete terminato la predica », gridò l'Arrigoni, facendo l'atto di tirarsi sulla testa la coltre. " Volevo dire", fu pronto a dire il prete, « che anche lei, nelle sue qualità di gentiluomo, perdonando.. » « Di questo discorreremo un'altra volta, parmi già d'avervelo fatto capire, quando verrò da voi per la Pasqua ventura a confessarmi. Adesso v'avevo fatto chiamare pel funerale, ed è quello che mi preme ». «Sancta et salubris est cogitatio pro defunctís... » belò latino il curato, a cui quel mortorio era una polpetta fuor dell'ordinario. «Almeno questa vendetta mi concederete, che tutta la Valsàssina sappia come un Arrigoni onora un fratello nel funerale ». «Questa è la miglior vendetta », disse il prete, a cui pareva già di metter le mani sopra un bel gruzzolo di scudi. « E Gesù Cristo l'ha detto in san Matteo, capo quinto, verso quarantatre: Diligite inimicos vestros ; benefacite Ms, qui oderunt vos;orale pro persequentibus et calumniantibus vos « Mi par che sia troppo di manica larga il Signore con quel fascio di perdono per una simil catasta di peccati capitali ». «La misericordia di Dio ha così larghe braccia da stringere in un amplesso vivi e morti », esclamò don Modesto, tirando l'acqua al suo « E faremo un funerale che manderà l'anima del morto in paradiso, se mai è incespicato alle soglie del purgatorio, e il mondo vedrà la magnificenza di casa Arrigoni. Ecco la vendetta, la bella, la giusta vendetta che lei vuole, e voglio anch'io! » E qui per poco non si metteva a saltare e battere le mani, come avevano fatti gli zingari, quando l'ebbero pagato nel cimitero. L'Arrigoni, che conosceva a fondo la auri sacra fames del curato di Cremano , volle tenerlo ancor per qualche quarto d' ora sulla corda, e perciò gli disse: " Sta bene pel corpo del mio povero fratello un magnifico funerale che gli mandi l'anima al paradiso in carrozza, come sta meglio che io mi vendichi, colle armi della santa madre Chiesa, per la salute dell'anima mia.." «Dall'abbondanza dell'elemosina sgorga l'abbondanza della grazia, e più sacerdoti pregano, più il Signore ascolta ed esaudisce... » Ma, interrompendolo l'altro a sua volta, sul più bello dell'entusiasmo di scarsella: «Io non intendevo già questo, chè ben capisco come senza sacerdoti non vi può essere chiesa... » «Come », notò il prete,

« senza elemosina non vi può essere grazia... »

" Moneta intesa, e va bene pel negozio dell'anima. Ma io nel vostro capo quinto e verso quarantatre di san Matteo, trovo l'ultima frase che non squadra... " «Orale pro persequentibus, et calumniantibus vos... » ripetè don Modesto. «Appunto questa: traducetemela un poco in volgare, alla portata di capirla un galantuomo ». «Oh, le pare? lei sa di latino meglio d'un canonico del duomo; però sono agli ordini sempre... » E grattatosi in capo, senza licenza del padrone di casa e de' lettori, incominciò: «Orale pro persequentibus, vuol dire: - Pregate per quelli che vi perseguitano. » «Questo può stare, perchè uno si può difendere, e ci son gli schioppi ed i pugnali... e c'è il proverbio chiaro come un sole:

Dagli amici mi guardi Iddio Che da' nemici mi guard' io.

È la seconda parte della sentenza di san Matteo, la quale non mi entra hè per diritto, nè per traverso... » «Eppure », fece osservare don Modesto, « è chiara e lampante, chè la può intendere un bam... cioè un gentiluomo, come lei », rimediò subito alla seconda parte del paragone. i Et ealumniantibus vos, vuol dire di pregare anche per quelli che calunniano... » «Per chi vi leva la fama, come farebbe un ladro il mantello, per chi vi getta contumelie sul nome, come un monello inzacchera la barba d'un cappuccino... pregar per loro? Vi par ella questa una cosa, che si possa praticare tra' popoli civili ? » «Eppure è nel santo Evangelo, e se ce l'hanno messa è segno che è una virtù teologale ». "Da lasciar praticare a chi ha l'onore in conto del fumo di tabacco, ma a me che ne ho provato i morsi, lasciate dire quanto sanguini il cuore e arrovelli l'animo". «Cerchi pure, a suo bel agio, quanto di storia sacra e profana si fu mai scritto », cominciò una specie di suo sermone sacro il curato, "e mi trovi dove, o quando vi avesse al mondo virtù si provata, che I FAMOSI UNTORI DELLA PESTE

PAGINA ILLEGGIBILE cidio, di fellonia. Che le par d'un Giovanni Grisostomo? Pure, se prestasi fede a Giovanni suo diacono, egli ha commesso un tal fallo si vergognoso, che non può udirsi, non che commettersi, senza orrore ». «Diamine! ha tirato in casa qualche Bersabea? ovvero ha fatto la nanna colle figliuole, come Loth? » Ma don Modesto non gli badò, e seguitò a narrare gli spropositi de' suoi santi. «Che conto fa lei d'un san Cirillo l'Alessandrino? Pure, se dassi orecchio a Svida suo rivale, egli ha, con barbaro eccesso di ,crudeltà, uccisa Nipazia anch'essa alessandrina. Sieno pur nomi illustrati in tutta la Chiesa greca un Basilio di Neocesarea; si crede non pertanto, che l'ambizione sollevasselo a quella sede; un Gregorio Nazianzeno; si gridò non pertanto, che l'empietà conducesselo a spalleggiar Teodoro eretico; un Cirillo di Gerosolima; si bisbigliò non pertanto, che l'avarizia ispirassegli il cambiamento de' sacri arredi da scena per il teatro. A dir di tutti ad un'ora, furono pur chiari i miracoli d'un Romoaldo, famose le estasi d'un Policarpo, incomparabil la pudicizia d'un'Adelaide; ma non poteron già eglino scansar la taccia di laido ii primo, di rapace il secondo, la terza d'incestuosa. Or vadan oggi le Corti ad assicurarmi della calunnia i più saggi ,imperatori, se un Costantino, la prima testa di Cesare romano, che ricevette il battesimo; i re più santi, se un Lodovico; le auguste più timorate, le regine più pie, le principesse più intatte, se una Cunegonda, una Edvige, una Genoveffa vennero accagionate, per impostura, de' più atroci misfatti ». « A sentir voi, caro curato, la Divina Commedia deve esser stata scritta da Madonna la Calunnia, perché nel Paradiso al canto ventinove, si legge una tirata d'orecchi al leggendario de'santi. Sapete quelle tre terzine? » Don Modesto fu com' un che tremi dal freddo, il qual desidererebbe un brodo caldo e gli s'esibiscon delle mele. «Ebbene ve le dirò io », e l'Arrigoni declamò i seguenti stupendi versi di Dante:

" Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi, Quante si fatte favole per anno In pergamo si gridan quinti e quindi; Si che le pecorelle, che non sanno, Tornan dal pasco pasciute di vento, E non le scusa non veder lor danno. Non disse Cristo al suo primo convento Andate e predicate al mondo ciancie, Ma diede lor verace fondamento "

Dopo una smorfia della bocca, don Modesto ripigliò: " Quello di Dante è stato un sogno, un brutto sogno di poeta ", e quest'ultima parola gli usci come stritolata di sotto i denti rabbiosi ;

« mentre la verità è col profeta, il quale, diceva : - Che val contro a' calunniatori addur meriti, oppor virtù, allegar innocenza ; se questa anzi facesse il primo invito a' lor occhi ad accertar nel bersaglio de' loro dardi? E re Davide lo diceva per lunga prova ».

"Lo diceva, perché gli scottava il marrone colla moglie d'Uri, che gli venne rinfacciato subito da quel seccatore di Natan, col paragone delle pecore!" Il prete, premendogli tenersi buono quel cervello balzano, inghiotti anche questa pillola amara, e seguitò a inveir contro la calunnia, che doveva averne fatto qualcuna di ben grossa contro di lui. «Che altro aspetta la calunnia, se non a solo che le virtù si dichiarino con maggior lampo, affin d'offenderle di maggior colpo? Ogni gran pregio tanto è sicuro, quanto è nascosto: come prima esca fuori a pigliar fama, vi avrà subito chi lo minacci d'infamia. Gesù medesimo infimo a che tennesi entro al ritiro della bottega di Nazaret nè Scriba, nè Fariseo fiatò contro di lui: ma quando ne venne fuori con tanto strepito a rimproverare i loro vizi, e a convincere i loro errori, allora si diè di piglio a' rasoi ed ai pettini della calunnia. Infimo a tanto che i suoi discepoli si stetter chiusi e raccolti nel cenacolo, nessuno allora ebbe che dire: ma quando di là si fecero con tanto grido ad annunziar nelle piazze di Gerusalemme la verità della fede, ed a reprimere la libertà del costume, allora si tagliarono loro di dosso i panni. Infinchè i fondatori degli ordini regolari stettersi a vita privata là ne' deserti, ognun si tacque; ma quando, usciti in capo alle loro schiere, si diedero con tanto zelo ad operare e a combattere a pro e difesa della Santa Chiesa, allora e spade e dardi e lingue tutte contr'essi. Testimonio le si solenni apologie d'un Agostino, d'un Grisostomo, d'un Basilio, d'un Nazianzeno, d'un Bonaventura, d'un Tommaso, d'un Belarmino, per i cui scritti apparisce, che non mai gli eremi e i chiostri più vivamente sentironsi sotto alle sferze della calunnia d'allora, come quando levarono più alta fama di dottrina e di santità .. " " Come accadde nel monastero di Varenna, dove trovarono delle cune.." "Calunnie, calunnie contro quelle povere suore", gridò don Modesto, che tant'odio aveva co' frati come amore per le monache. a E s'erano calunnie, perché san Carlo le ha tirate via?" «Le ha tirate via, perché.... perché, come arcivescovo, poteva farlo" . " Bella ragione, magnifica, proprio da prete !" Don Modesto l'ascoltò a capo chino, per la benedetta storia di non voler contrastare con chi aveva in mano i legaccioli della borsa, e intanto pensava alla somma che comanderebbe pel funerale. L'Arrigoni fissatigli gli occhi addosso, parve che gli avesse letto quel che di dentro pensava, e gli disse : "Lasciamo star frati e monache nella loro broda, e parliamo d'altro " «Del funerale», colse a volo don Modesto. « Quanti preti, per esempio, piacerebbe a vossignoria di avere, perchè mandi il sagrestano a farli avvisati... » «Eh, per bacco! par che non abbiate mai fatti funerali di riguardo.Sapete che anche noi sappiamo della zingara... » Toccato su quel tasto, don Modesto divenne più brutto di quel che l'avesse fatto la mamma sua, e lanciò un'occhiata che guai se fosse stata diretta a tutt'altri che a un gentiluomo della potenza degli Arrigoni. Il quale, accortosi d'averlo di soverchio punto sul vivo, tanto per mutar discorso, gli domandò : «A questo mondo, poco su poco giù, tutti si lagnano del proprio stato, e mi lagno anch'io. E voi siete contento del vostro? " "Ah! " cominciò con un sospiro grosso, che voleva dire : - Perchè sono un misero prete, e non un prepotente come te! - e subito aggiunse : « infirma est caro! E tutti vorremmo aver il mondo secondo che più ci piace, e farvi buon letto, e coricarvici dentro a pigliarvi sonni tranquilli senza puntura, nè strepito di traversia che ci destasse ». "Io però vorrei un letto nuovo il quale pigiandolo, non mi faccia sentire, qui una lisca che mi punge, li un bernoccolo che mi preme, e vi prometterei di farvi dei sonni da papa ". «Ma ce la Providenza che lo impedisce ». «Oh! che è ella diventata adesso una matrigna ? » « Anzi ella usa con noi tutti a maniera d'una madre pietosa, la quale vedendo il figliuolo inchinato per malattia ad un mortale letargo lo punge e l'inquieta di e notte, perchè non dorma; e s'egli domanda tregua : - No, risponde la madre, no, figliuolo mio; che se tu dormi, tu muori ». «Diffatti il sonno è l'ombra della morte ». "Come le fiamme del fuoco di questo mondo sono dipinte a paragone di quelle attizzate dalla collera di Dio nell'inferno ». «Torniamo alla Providenza », suggerì l'Arrigoni, che aveva una gran paura del focolare di Belzebù. «Osservi vossignoria che non v'è tra noi persona, la quale non porti in cuor qualche spina, cui divelta, pare a ciascuno, ch'egli starebbe benone ». "Le lische che pungono ed i bernoccoli che premono, e ch'io non vorrei trovar nel letto », notò, d'umor allegro, l'Arrigoni. «Quante miserie! sentiteli.- Oh, se mai Dio donassemi sanità ! dice quegli. - Oh, se il ciel mi desse talento! grida quell'altro. - Deh, avess'io prole! sospira Abramo. Deh, non avess'io fratello! piange Giacobbe. A Saulle egli è un pruno negli occhi il valore di Davide; a Davide sono uno stocco al cuore le pretensioni d'Assalonne; ad Assalanne dà impaccio il potere di Gioabbe; a Gioabbe fan ombra i meriti di Abner ; ad Abner traggono sangue i rimproveri d'Isbosetto. Qualora Sara potesse cacciar di casa la fante ; qualor Rachele disfarsi della compagna, qualor Rebecca torsi di fianco le nuore; si terrebbon elle per le piu liete donne del mondo ». «Perchè dunque Iddio ci ha creati e messi al mondo , se nissuno può vantarsi d'esservi felice ? » «Vanitas vanitatum, et omnia vanitas ! » diede il prete una giravolta al discorso, per non saper che rispondere. «E neppur voi siete felice ? » «Me ? » fece don Modesto.

« Quanti guai non toccano a un povero prete ! bisognerebbe esser nati leoni od aquile, per non aver paura degli artigli altrui ».

« Voi vi governate colle campane, che hanno una voce da farsi sentire anco dai sordi ». " Son molti e diversi gli uffizi delle campane ", e in un latino maccheronico borbottò : «En ego, campana, numquam denuncio vana ». E contando sulle dita, seguitò: «Laudo Deum verum, plebern voco, congrego clerum. Funera piango, fulgura frango, sabbato piango. Excito lentos, dissipo ventos, paco cruentos. Sanctos collaUdo, tonitrua fugo, funera claudo ». E, con voce di Gloria patri, terminò: «Vox mea, vox vitae, voco vos, ad sacra venite! » «Una voce proprio chiara quella delle campane ! » confermò, con un certo suo sorriso maligno, l'Arrigoni. E quasi subito ripigliò: «Volete ottenere una grazia speciale da Domeneddio, da sua Madre, da qualche santo? ricorrete ai preti, ascoltando la campana: dando! Volete scongiurare una tentazione maligna, un cattivo tempo? sentite la campana : dan-do ! È per un battesimo, per un matrimonio? dan-do ! Volete mandare addirittura dalla terra un' anima in paradiso? dan-do! La volete strappar dalle fiamme del purgatorio ? dando! E in vita e in morte, e in chiesa e in istrada non muta mai metro la campana, e se volete salvarvi non c'è che dan-do! » Don Modesto a quella tirata sacrilega si turò le orecchie, e borbottò una giaculatoria di quelle, alle quali il papa concede indulgenza plenaria. Siccome, in fondo alla coscienza, l'Arrigoni credeva che non vi potesse esser altro sentiero per salvarsi l'anima fuor di quello della Chiesa, cosi non tardò molto a riconciliarsi col curato, toccandogli quel bene detto tasto del funerale. Don Modesto dimenticò subito le novantanove pecorelle per accarezzar quella delle cento perduta e ricuperata; e riuscì, a furia di altri bocconi amari trangugiati pazientemente, a convenire sul prezzo del funerale. " Un funeralone", promise, « che tirerebbe a conversione anche il diavolo, se fosse stato lui a far quel colpo scellerato sul povero don Silvio ». E qui credendo accontentare il generoso benefattore, come i preti costumano chiamar quelli che snocciolano loro danaro per qualche funzione religiosa, lo aizzò con quelle ultime parole come un mastino. Allora ci vollero non meno di tutti i testi del Nuovo e del Vecchio Testamento a strappar di bocca all'Arrigoni una frase non più trista di quella, con cui egli accomiatò il prete. Il quale, andato poi a casa, si figurino i lettori se mettesse in moto il sagrestano e i figliuoli e parenti di lui ad avvertire don Paolo, don Gervaso, don Gaetano, e tutta la filza de' prevosti, curati e coadiutori, che gli erano in odore di amici. Poco stante, il Grattapancia, saputo che il padrone era solo, gli andava in stanza a recare il pugnale, levato dalla ferita del cadavere. A veder quel nudo ferro, che aveva strappata di petto al fratello l'anima gli lumeggiarono sinistramente gli occhi, e digrignò i denti , come una tigre che sia sitibonda di sangue!." "Dammelo !" ruggì, e, preso in mano il pugnale, lo esaminò sul manico e sulla lama. Per dieci minuti, che furono dieci stilettate pel bravo, gli occhi fiammeggianti d'ira del padrone corsero dal pugnale a chi gliel'aveva portato. Finalmente, colla schiuma alla bocca, quasi lo cogliesse il brutto male, mandò fuori, con urlo di lupo, queste parole : "Il sangue ! il sangue ! io non vedo il sangue!" I1 Grattapancia , pronto come uno che crede d'aver fatto bene le cose sue , e non d'aver nulla a rimproverarsi nel servizio , gli rispose: "Eh! voleva forse l'illustrissimo, ch'io fossi un villano di portargli il pugnale colla lama e il manico ingrumiti di sangue quali erano?" "E chi t'ha ordinato di lavar via il sangue, tiglio d'un cane luterano! » incominciò a dar ne' mali termini e nelle furie il padrone. "Io non sapevo che l'illustrissimo volesse insozzarsi le mani nel sangue, tanto più d'un suo fratello  » disse, tutto d'un fiato, il bravo. "Insozzare? chi t'ha insegnato, verminaccio di plebe mal battezzata, ad adoperare questa frase di gente, che maneggia il pugnale coi guanti? Sai anche tu, che il sangue macchia le mani , prima della coscienza ? Eppure il sangue è una nobil cosa, una cosa preziosa, la sede dell'anima .... » E visto che il Grattapancia guardava l'uscio, come fa uno che credendo di parlare con chi ha fior di senno in capo, s'accorge d'essersi imbattuto in un matto, gli fissò gli occhi in faccia cosi acuti, che lo tennero inchiodato al posto. «Tu hai paura che io m'imbratti le mani del sangue d'un uomo, d'un fratello... • prosegui egli ; « ma vedi i preti che tutte le mattine si scialacquano la bocca, prima di romper digiuno, col sangue di Cristo, e lo bevono a centellini, con certo fare quasi di dire: - Com'è buono! eppure è sangue, e non s' imbrattano nè la bocca, nè l'esofago, nè... la coscienza!" Lettori, se non siete addirittura liberi pensatori, qui convien che vi facciate il segno di santa croce, come stava per farlo il Grattapancia, quando il padrone gli gridò : " Che te ne pare? se mi sentisse il Papa o Lutero, scommetto che farebbero a chi porta più legna per abbruciarmi!" Il bravo, assuefatto alle stravaganze, alle bestemmie, a tutte le diavolerie d'un tal padrone, non si ricordava però d'aver mai assistito ad una scena simile di sacrileghe parole, e andava tra sè pensando: - Che diamine gli può aver detto il curato, venuto via testé da lui, per averlo messo su queste corna di satanasso? Facile a calmarsi come ad accendersi per un nonnulla, ma d'animo pravo, come chi ha la pazienza di leggere questa mia storia avrà già indovinato, l'Arrigoni guatava, adesso con far d'incantato, il Grattapancia, che stava a capo chino, quasi cavasse le inspirazioni dalla punta delle sue scarpe. «Dunque non ti sei scandolezzato? gli domandò, con aria contrita. « I miei bravi hanno messo i calli sulla coscienza ". «Illustrissimo..." «Oh! oh ! sei diventato forse permaloso? brutta cosa, bruttissima, arcibruttissima per un pendolo da forca tuo pari!" " Ma, illustrissimo... " e la voce del Grattapancia aveva del grugnito. «Eh, via! ho detto per celia, e pax tecurn, come fa l'arcivescovo, senza però lo schiaffetto. Dunque senti". "Sono agli ordini". "Vieni più appresso; diavolo! parrebbe che tu abbi paura che ti punga col pugnale ". «Eccomi: dica, illustrissimo" " Tu mi devi fare un servizio" «Magari cento: comandi". " Hai la voce d'esserti lasciata montare la mosca al naso: indovino?" Il Grattapancia fece, colla bocca, un atto d'impazienza. " Faresti male, con un padrone del mio pelo, che ti ha caro come il pugnale il suo fodero. Ti pare? " Il bravo si sentiva dalle unghie dei piedi salire una vampa d' ira fino alla cima dei capelli; ma seppe ancora frenarsi. " Il curato è stato qui dentro finora a predicarmi, che la collera è un peccato, e se tu ne hai un pizzico nel cuore io dovrò mandarti da lui, che ha una filza di santi miracolosi, capaci di far passare la idrofobia ai cani. Senti dunque sul serio. Giacche hai fatto male trenta, fammi bene trentuno : va abbasso, e portami sopra il pugnale... come lo voglio io" E così dicendo faceva l'atto di consegnargli il ferro traditore. "Come... lo..., vuole!... " ripetè, balbettando le parole il bravo, che tremava d'aver compreso. «Dunque? " disse il padrone, in atto di impazienza. «Illustrissimo", gridò il Grattapancia, come una bragia in viso, « parmi che in cinque anni che ho l'onore di servirla di non averle dato occasione mai di stimarmi fuor di quello ch'io sono... " «Che sei tu? " "Un bravo ", prosegui il Grattapancia, « ma non un carnefice..Io non temo i vivi ma rispetto i morti, illustrissimo per furore per difesa io ne scannerò dieci venti ma non taglierò un dito a un corpo, che ha l'anima al tribunal di Dio". « Oh, la vedremo, signor predicatore del di dei morti!" urlò l'Arrigoni; e, cieco d'ira, gli lanciò il pugnale, 'che guai se lo colpiva. Il Grattapancia raccattò subito il ferro dal pavimento, e cece due passi verso il letto : ma fu l'angelo custode che il tratenne, perché un pensiero di sangue già gli aveva, come un baleno, traversato la mente, e dirizzato il braccio. Si morse però un dito, e usci. Abbandonato come una belva alle sue furie, l'Arrigoni si trascinò fuori del letto, si accostò al tavolo, e messe le mani sul campanello, lo suonò da svegliare i sette dormienti. Come allo scatto d'una molla, comparve il servitore. « Domenico ", gli gridò, calmandosi alla vista di quella premura del vecchio,

« dirai in sala a quei tre nobili signori , che li aspetto a passare un'ora da me, e tu fa di servire quanto l'onor di casa richiede ".

Il vecchio corse ad ubbidire borbottando tra sè: - Quando, Signore, mi farete questa cara grazia di tirarmi di là? Domenico, incanutito sotto quel tetto, doveva aver passati dei ben brutti momenti. fu colto da rimorso Teodorico, e una sera a cena gli parve vedere nella tuta di un pesce la fisonomia della sua vittima. Cap. X. Pag. 182. CAPITOLO X

Una veglia letteraria.

Deh! fossi tu men bella, o almen più forte Onde assai più ti paventasse, o assai T'amasse men chi del tuo bello ai rai Par che si strugga, e pur ti sfida a morte.

VINCENZO FILICAIA : Sonetto all'Italia.

E'pur consolante in un secolo in cui solo era « concesso ad una classe di poter accumulare senza fine ricchezze; allora ai governatori un potere indisciplinato e più che tirannico, irragionevole e schifoso, che toglieva ogni freno all'esazione, ogni sicurezza ai possessori; allora l'autorità, non limitandosi alla pura giustizia civile e criminale, s'impacciava direttamente delle arti e del commercio; allora sicurezza nella forza; pericolo nell'innocenza; sfacciata la scostumatezza; trionfante la prepotenza; intricata l'industria; inosservata la giustizia; il volgo educato a prostrarsi silenzioso e stupido sotto l'estremità, de' suoi mali »; in un tal secolo, dico, è pur consolante quando ci imbattiamo in un breve circolo di uomini di cuore, che sentono il palpito d'amore per la loro patria, e d'odio per l'oppressore. Sigismondo Boldoni, Paolo Emilio Parlaschino, e don Viviano Gussalli, nati sotto una medesima plaga di cielo, cresciuti all'amore del campanile del proprio paesello, benedetti da Dio per buon ingegno, rappresentavano il collegio delle Muse della Valsàssina e del Lario. Mentre il primo, dalla terra d'esiglio, recava in patria un'anima di poeta, e poneva mano a dettare tutto un poema sulla Caduta dei Longobardi; il secondo dai banchi della scuola di Bellano e d'Asso, e poi dalla cattedra del Collegio Calco-Taeggi di Milano spezzava il pane, di cui parla il vangelo, il pane che nutriste la vita dei popoli; e il terzo, degno ministro della migliore delle religioni, colla dottrina cristiana ammaestrava i fanciulli al leggere ed allo scrivere, e dal pulpito insegnava come per salire alla patria celeste bisogni esser gente dabbene nella patria terrestre, e amare il prossimo, e desiderare il bene del proprio paese, e prestarsi quando il leone rampante (1) fa udire il suo allarme. L'Arrigoni, che cogli abbaiamenti della coscienza durava fatica ad aver notti tranquille, fu ben lieto, quando vide que' tre galantuomini venirlo a trovare, per passare un po' della serata con lui. « Il santo vangelo », incominciò egli a dir loro, a dice che è una delle opere della misericordia l'ammaestrare gli ignoranti, ed io che sono tale  » «Troppa umiltà! » gli rimproverò, fingendo un complimento don Viviano. «A petto di voi , che siete letterati , professori, poeti», seguitò l'Arrigoni, « io sono come una cutrettola del Piovena che voglia competere coll'aquila del Legnose. Dunque io mi starò quà, acquattato sotto le coltri come un gufo a sentire i canti dei cigni ». «Due comparazioni di fila! » esclamò il Parlaschino. « Da dove le cavate cosi felici, dal berretto di notte? » Quell'uscita spiritosa fece ridere la brigata. «Comincierò io », disse ancora il professore del Calco-Taeggi: « Attenti, e pronti a battermi le mani, se non dico uno sproposito. Alla prima sedetevi, come voleva quel buon papà Enea, quand'era per raccontare le sue disgrazie alla regina Didone, che qui ne tiene le parti don Gian Ambrogio, fuorchè invece della cuffia ha in testa il berretto da notte. Ma incipiam: "Nell'anno 1348 infieriva la peste in Firenze. I cittadini morivano in quantità, e molti fuggivano per evitare la malattia contagiosa. Tra la paurosa torma de' fuggenti miravasi un giovane letterato di volgare, oriundo di Certaldo, ma nato a Parigi: Giovanni Boccaccio. Viaggiando a 23 anni per cose di traffico sul Napoletano, la fortuna gli dirizzò i passi alla tomba del gran Virgilio, ove il suo genio s'accese alla poesia. Studiò greco, raccolse e meditò gli scrittori antichi e divenne in poco di tempo uno de primi eruditi. Adesso atterrito dall'imperversare del fatal morbo, si ritirò in una villa sulla collina fiesolana, presso al fiume Mugnone. Grossa e lieta brigata quivi in breve si radunò e, volendo far passare le melanconie delle notizie che tristissime venivano di Firenze, raccontavano ogni giorno piacevoli novelle. Tra i brindisi spumanti di generoso vino e i motti arguti della brigata, che la peste aveva cacciata in villa, passarono i giorni di lutto per Firenze.

(1) Stemma della Valsassina. Boccaccio raccolse in volgare, di cui era valente maestro, i pensieri delle novelle, ne trasse dagli autori francesi, ne inventò, ne compose altre sui casi di quei tempi ; vestì questi racconti di bellissime forme, e ne fece il libro, detto il Decamerone, rinomato per l'eloquenza e per la purezza della lingua ». « È una prolusione sui padri della lingua, che ci hai voluto regalare, non è vero? » disse il Boldoni. «Sì, e no. Io lo credo meglio un esordio, un po' strambo se vuoi, di quello che io propongo di fare per goderci la serata cicalando. Siccome il Boccaccio per ingannare la peste... » «E dalli con quel maledetto nome... » esclamò l'Arrigoni, che nell'ultimo contagio, a' tempi di san Carlo, aveva perduti quasi tutti i parenti. «Le malattie le manda il Signore », disse don Viviano; « e paura o non paura come le manda bisogna riceverle... Dunque sentiamo l'oratore », aggiunse, rivolto al Parlaschino. Il quale, ripetuto ancora l'odioso nome di peste, che fece far una brutta smorfia all'Arrigoni, terminò, dicendo: «Noi dobbiamo ingannare queste ore, raccontando qualche fatto della nostra storia d'Italia; e siccome chi ha più grido nella fiera delle lettere è don Sigismondo, tocchi a lui pel primo ». «Me hai voluto condannare: sta bene, ti comincierò da un filosofo ». « Peccato che siamo seduti », notò il Parlaschino, « altrimenti avressimo fatto un'accademia ». Il Boldoni incominciò: «Sotto Teodorico quetò un poco l'arrabattarsi e il rimescolarsi in Italia delle razze del Nord. Avendo ritrovata l'Italia tutta sconvolta e spopolata, procurò di rimettervi la vita e l'ordine. Crebbe l'esercito, creò una flotta, costrusse porti e fortezze, invitò al ritorno gli spatriati, ricettò stranieri, mandò s. Epifanio vescovo di Pavia a riscattare gli Italiani che giacevano in schiavitù fuori della patria, allettò con premi e coll'esempio i sudditi a dissodare terreni, asciugar paludi, ricostruire abitazioni, sgombrare il corso dei fiumi. Nè trascurò le lettere e le arti. Ristaurò le vie e le fabbriche di Roma: prescrisse gravi pene a chi ne guastasse i monumenti: innalzò chiese e palagi: sollevò alle prime dignità Boezio e Cassiodoro, benchè Italiani, uomini di gran dottrina: stabilì pubbliche scuole in Milano e Pavia. Anicio Manlio Torquato Severino Boezio, figlio, genero, e padre di consoli, e consolo anch'egli fu uno dei più grandi uomini che fiorissero in Italia sul nascere del VI secolo. Le circostanze, e le qualità .sue gli ottengono un luogo distinto in tre classi di uomini famosi; cioè in quella di coloro, che nello studio e ne' maneggi politici riuscirono prodi egualmente: in quella de' grandi infelici, cui l'odio de' malvagi e l'invidia. degli emuli, scaltramente bugiarda, precipitarono in estreme sciagure; in quella per ultimo di que' pochi, che non insolentiscono nella prospera, e religiosi e magnanimi poi reggono a fronte della nemica fortuna. Filosofo, musico, teologo, matematico, quanta era a que' di ampiezza dell'umano sapere, tutta oserei dire, ch'egli con franco piè misurasse. Si vuole, ch'è fosse il primo ad introdurre la filosofia scolastica nei teologici studi; impresa, la quale, ammirata per dieci secoli, or viene perdendo il valore ed il nome di benefizio. Teodorico dubitò che i vinti lo odiassero e cospirassero contro lui. Un senatore fu accusato di carteggiare coi nemici e desiderare la libertà di Roma. - L'accusa è falsa! esclamò Severino Boezio presente al fatto: ma se il desiderare la libertà romana è delitto davanti il re, io pure e tutto il Senato ne siamo rei. Il franco linguaggio del filosofo spiacque ai cortigiani, e le più scellerate accuse si versarono sopra il suo capo. Il Senato romano, servilmente ligio ai desideri del re, lo condannò. Boezio fu posto in carcere, indi per ordine del re crudelmente ucciso. Riconosciuta più tardi l'innocenza, fu colto da rimorso Teoderico, e una sera a cena gli parve veder nella testa d'un pesce la fisonomia della sua vittima. Lui morto, Amalasunta rese ancor più palese l'innocenza di Boezio, rendendo ai figli del giusto opppresso, i beni paterni già, ingoiati dal fisco ». " Perchè il Signore " , esclamò don Viviano, « non manda un rimorso a tutti i tiranni che sbrani loro il cuore ! » "Come il Barbarossa, assassino d'Asti, Chieri, Tortona... " « A me la parola, o Parlaschino; io ti conterò il fatto di Tortona ». « Federico I della casa di Svevia, fatto re di Germania nel 1152, per adempire i desideri di Guglielmo marchese di Monferrato, era disceso in Italia e mosso contro Asti e Chieri. Trovatele vuote di abitatori, la prima abbatte, le seconda incendia; poi contro Tortona. Pretesto della guerra erano le ingiurie commesse dai Tortonesi contro Pavia; cagione vera l'essere collegati a Milano. Da levante, ponente e tramontana, duramente assediati si difesero; alla vista dei propri concittadini prigionieri, dal barbaro nemico impiccati; per sessantadue giorni dalle mura i nemici respinsero; le mine fatte alla rocca Rubea, per via di contrammine resero vane; finalmente consumati i cibi, le acque, che andavano ad attingere fuori della città, con pece, zolfo ed altre immondezze dall'assediatore guastate, si arresero. Prometteva Federico lasciar Tortona intatta; avutala, comandava ai Pavesi la distruggessero. I cittadini, sotto rigido cielo, in rigida stagione andavano pietosamente tapinando. Il loro venerabile abate di Bagnolo, mediatore del trattato, si lasciava per la crudele ambascia morir di dolore ». Don Viviano che sognava sempre i bei tempi del carroccio milanese, e che aveva il Barbarossa in conto non migliore di Belzebù, disse: « A Venezia sarebbe toccato far stare a dovere l'imperatore di Germania ». «La Repubblica di San Marco », avverti il Parlaschino,

« badava ai trionfi del suo Bucintoro, e da fedele sposa del mare aveva la mente volta all'Oriente ».

« Costantinopoli le stava sull'ugola », disse don Viviano, « e, auelaces fortuna iuvat, la c'è riuscita colla famosa crociata pro domo sua!» «Io so il fatto, quale accadde veramente », colse l'occasione il Boldoni, « a Venezia ho attinte notizie precise su quel grande avvenimento, che è la miglior prova pei posteri della potenza di San Marco ». Tacque un istante, come per raccapezzare le sue idee, poi cominciò: «Avendo Innocenzo III, fino dai primi giorni del suo pontificato, scritte lettere caldissime a diversi principi per riconciliare i loro dissidi allo scopo d'una quarta crociata, s'infiammò l'entusiasmo cavalleresco della nobiltà francese. Tutto ad un tratto si dimenticarono i tornei, le giostre, le galanterie; le amicizie si strinsero, i nemici si riconciliarono e i pensieri di tutti si volsero all'Oriente. Ma si richiedevano per un passaggio numeroso ingenti mezzi di trasporto a cui fornire volevasi una gran potenza marittima. Questa era Venezia, alla quale i Francesi mandarono una deputazione. Era doge Enrico Dandolo, vecchione di 94 anni, ma che in età tanto decrepita conservava con rara felicità una piena vigoria di corpo e di spirito, e tutto il bollore di un vecchio soldato. Nella sua gioventù era stato spedito ambasciatore a Manuele Comneno imperatore di Costantinopoli per trattare di pace; ma il perfido Greco che aveva già tante colpe da espiare coi Veneziani, vi aggiunse pur questa che, contro il diritto delle genti, maltrattò in guisa l'ambasciatore veneto, da restare gravemente offeso nella vista. Enrico Dandolo si legò al dito l'offesa, e campò tanto da farne la vendetta. Eletto doge nel 1192, si era già distinto per imprese guerriere, ma un'occasione più luminosa gliela dovevano porgere i crociati francesi arrivati a Venezia per trattare il loro passaggio oltre mare. La Repubblica teneva già grandi stabilimenti commerciali in tutto l'Oriente; ciò che proponevano i Francesi tornava opportunissimo ad ampliarli. Il doge li accolse con vivacità, se ne fece il patrocinatore ; trasse al suo parere la Quaranzia e il Gran Consiglio; ma trattandosi di un impresa di tanto momento, si convocò nella chiesa di S. Marco l'assemblea generale del popolo. Goffredo di Villarduino, capo dei messi di Francia, ebbe la parola, espose l'oggetto della sua ambasciata; indi egli e i suoi compagni ginocchio e piangendo invocarono caldamente l'aiuto de' Veneziani, essi che erano i più potenti sul mare nella loro impresa di liberare il Sepolcro di Cristo. Tutti gridarono: - Approviamo ! Approviamo! Il doge salì poscia sul pergamo, e arringando a sua volta il popolo e con non minore eloquenza, ebbe di nuovo per risposta un fragoroso - Approviamo ! approviamo! - che dalla chiesa si diffuse sulla piazza e per le vie circostanti tutte gremite di popolo. Ai 4 di aprile 1201 fu perciò stipulata una convenzione e giurata sugli evangeli, in forza della quale i Veneziani si obbligavano fornire tante navi da bastare al trasporto dei cavalieri e dei fanti con armi e cavalli, e spesarli di vettovaglia per nove mesi per 85,000 marche al peso di Colonia. Ma i Veneziani, innanzi di salpare, volevano essere pagati; e i gentiluomini francesi erano ben lungi dal possedere tuto l'occorrente denaro. Allora il doge Enrico Dandolo propose un ripiego: di concedere, cioè, ai pellegrini un respiro, tanto che pagherebbero il residuo quando potrebbero; ma che in compenso presterebbero alla repubblica il loro aiuto per ricuperare Zara. Ma conoscendo che l'impresa avrebbe incontrato non pochi ostacoli, e sarebbe anche fallita, se egli non la guidava, propose e fece accettare dal comune di Venezia di associarsi all'impresa, dichiarando che egli in persona comanderebbe l'armata veneta. Lo spettacolo di un vecchio nonagenario e semicieco, che brandiva la spada e consecrava li ultimi suoi giorni alla gloria della sua patria, commosse vivamente ed eccitò nei Veneziani un maggiore entusiasmo, molto più quando il doge inginocchiato nella chiesa di S. Marco si fece mettere la croce sul cappello ducale in guisa che tutti potessero vederla. Ai 23 giugno 1203, l'armata latina gettava l'ancora nella cala di Santo Stefano, cinque o sei miglia dalla capitale, di cui ivi si scorgevano le guglie degli edifizi. Quando i Francesi poterono osservare da vicino la vasta metropoli greca colle alte sue mura, le robuste sue torri, i sontuosi suoi palazzi e le cupole grandeggianti delle magnifiche sue chiese; quando ne misurarono coll'occhio l'estensione in lungo ed in largo, e che argomentarono dai essa la sua popolazione e i suoi mezzi di difesa, rimasero sbalorditi e fremettero in pensando all'audacia della loro impresa. Il doge non gliela dissimulò; ma in un parlamento che si tenne li esortò a farsi di buon animo, ad essere prudenti, a restare uniti e a lasciarsi guidare da lui che aveva perfetta conoscenza del paese. E siccome l'armata aveva bisogno di vittovagliarsi, affinché i soldati non si sbandassero ne' contorni di Costantinopoli e fossero massacrati, condusse la flotta a Calcedonia sulla costa asiatica, facendola passare sotto le mura di Costantinopoli, ad un tratto di freccia. Vari giorni furono passati in trattative e dimostrazioni; alla fine fu risolto di attaccar Bisanzio. Furono pertanto divise le forze: l'eser- cito si formò in sette battaglie. Quei guerrieri feroci e religiosi ad un tempo si confessarono, fecero testamento, e convinti che l'impresa era pericolosissima. l'affrontarono con una fermezza, un ardore ed un coraggio che appena si potrebbero descrivere. Il 5 di luglio un po' avanti il levare del sole, allo spettacolo di una bella giornata, i cavalieri, armati di tutto punto e coi cavalli bardati, entrarono negli uscieri; gli altri salirono le navi e le galere ; ciascuna galera rimorchiava un usciere; un medesimo entusiasmo tutti li animava; la flotta da Scutari si avanzò verso Gàlata; già le trombe davano il segnale, e tanta fu l'impazienza de' cavalieri, che si gettarono nell'acqua sino alla cintura : arcieri e sergenti (linea) non vollero essere da meno: in un istante tutti si trovarono schierati sulla spiaggia ; i Greci parevano disposti ad accettare la battaglia, ma appena si videro attaccati colle lancie in resta, voltarono il tergo, e vigliaccamente fuggirono. Sbarcati i cavalli ed ordinato l'esercito, i crociati accamparono presso la torre di Gàlata, che fu attaccata e presa. Ma il porto della città era sempre abbarrato da grossa catena, che ne impediva l'entrata alle navi. Intanto cominciarono i lavori d'assedio, che durarono indefessamente otto giorni, con furia di colpi e di proiettili lanciati da una parte e dall'altra. Finalmente il 20 luglio fu aperta una breccia, e si tentò l'assalto. Si combattè con furia da ambe le parti ; di fuori si lavorava colle scale e colle macchine, di dentro coi proiettili e col fuoco greco: assalitori ed assaliti si misuravano colle spade e colle lance: sedici Francesi erano già sulle mura, ma due furono presi, e gli altri od uccisi o gettati abbasso, e l'assalto fu respinto con morti e feriti in gran numero. Il doge Enrico Dandolo, veggendo questo, fece una risoluzione che empi tutti di meraviglia. I Veneziani avevano rotta la catena del porto, ma non potevano approdare stante la furia con che i nemici li tempestavano. Il doge vecchio e cieco com'era, armato di tutto punto, sale alla prua della sua galera tenendo la bandiera di San Marco, e grida a' suoi che ad ogni costo lo portino a terra, se no li avrebbe fatti passare a filo di spada. La galera correndo, correndo a voga arrancata, eseguisce il comando, il doge pel primo salta sulla riva, e pianta gloriosamente a terra il suo vessillo. I Veneziani ne seguono l'esempio; tutte le navi approdano; Italiani, Francesi, tutti si affrettano di saltare a terra, e levando gli occhi scorgono la bandiera di San Marco che sventolava già da una torre, senza che si sapesse quale mano l'avesse inalberata; la celerità con cui furono applicate le scale e le macchine e vi montarono sopra gli assalitori, la furia con che i Veneziani si gettarono sui Greci, e il terrore e lo scompiglio di questi fu tale, che venticinque torri furono in brevissimo tempo conquistate». «Un eroe, da star a paro ai famosi dell'Iliade, quel vecchione! » esclamò l'Arrigoni. «Stirpe di prodi anche tutti i Veneziani, cui capitanava », notò il Parlaschino; « e tutti gli Italiani d'allora e dopo non mancarono mai di valore, tranne che invece d'adoperarlo contro gli stranieri l'adoperarono contro sè stessi, azzuffandosi per odio di paese a paese, di famiglia a famiglia... » «Come a Firenze i Buondelmonte», notò il Boldoni. « Parve una vera maledizione di Dio sull'Italia, che una cosa tutt'affatto privata conducesse un lutto cittadino. E vedete se questo fatto meritava la pena d'insanguinare la bella Firenze. Un nobil giovin di Firenze, chiamato Buoldelmonte de' Buondelmonti, aveva dato parola di pigliar in moglie una fanciulla di casa Amidei. Tutto era già disposto per le nozze, allorchè Buondelmonte, leggiadro e bel cavaliere, passò davanti alla casa Donati; e fu veduto da una dama che stava al balcone, ed era là per aspettarlo, lo chiamò in sua casa, ed appena il giovine fu entrato, gli disse : - E chi vuoi tu pigliarti in moglie ? Vedi, io ti serbava questa mia figliuola. Così parlando gli mostrò una bellissima fanciulla. Buondelmonte, veduta l'avvenente giovanetta, rispose : - Ben volontieri prenderei questa in consorte ; ma sono ormai legato da una solenne promessa cogli Amidei. Non isgomentata l'astuta donna, tanto pregò e tanto disse, che si fece promettere da Buondelmonte, che prenderebbe in moglie la sua figliuola, dimenticando il primo impegno. Infatti, abbandonata l'Amidei, egli sposò invece la giovane, che era della casa Donati. Quando ciò seppe il padre della fanciulla piantata dal suo promesso sposo, si sentì punto sul vivo; e giurò di vendicare la propria famiglia dallo scorno ricevuto. Raccolti però i congiunti e gli amici, narrò loro come il Buondelmonte avesse mancato di fede. Tutti decisero che lo avrebbero svergognato solennemente; e quanto ai mezzi da adoperarsi per castigarlo, chi la pensava in un modo, e chi in un altro. Ma, un certo Mosca de' Lamberti, infuriato più di tutti, si levò su, e disse: - Qui non occorre far tante questioni. Cosa fatta, capo ha; volendo con ciò significare : uccidiamolo. Al partito così posto aderirono subito gli Uberti, i quali erano vicini parenti degli Amidei; e risolsero di ammazzare Buondelmonte nel giorno stesso, in cui sarebbe per condurre a casa la sposa. Per mala sorte gli Uberti riuscirono nel loro malvagio proposito, ed assassinarono il giovine presso al Ponte Vecchio, il giorno di Pasqua dell'anno 1215. L'atroce caso divenne l'argomento dei discorsi di tutta Firenze. Appena fu ciò inteso dai Buondelmonti, piansero di dolore e d'ira: ma lasciate presto le lacrime da parte corsero a pigliar le armi. Stavano ancora indossandole, e già le case loro erano ingombre degli amici e de' parenti che si offerivano per compagni alla vendetta: la stessa cosa venne fatta dal canto degli Amidei e dagli Uberti : onde in Firenze non si vedeva altro che armi: non si udiva che uno strepito grande del chiudere le botteghe, dello sbarrare le vie, del ripararsi e farsi forte ciascuno nelle proprie abitazioni, come se i nemici battessero alle porte della città. Gli assalti furono molti, le zuffe sanguinose, e durarono più. anni. Per quelle maledette discordie si divise Firenze in due fazioni, che poi nel 1246 presero il nome di Guelfi e Ghibellini, con somma vergogna e danno della patria ». «Ma la ragione fu sempre de' Ghibellini », disse l'Arrigoni. « Tra i due litiganti », gli rispose don Viviano, a cui veniva più direttamente la botta, « chi ci perse fu la povera Italia ». « Però i Guelfi più traditori de' Ghibellini ». «Sapete il proverbio: - Adagio, Biagio! Rispondetemi a questo, Piero delle Vigne non era mica guelfo per caso? » «Ghibellinissimo ». «Allora lasciate, che vi conti certa storiella di lui. Piero delle Vigne capuano, da poverissima casa uscito, dopo aver studiato alla università di Bologna, era venuto alla corte di Federico II, a cui presto venne tanto in grazia che, come gli fa dire il divino poeta, tenne ambo le chiavi Del cor di Federico

Vuole la fama che il cancelliere abbia cospirato contro Cesare, e risolto di amministrargli il veleno. Giaceva Federico leggermente ammalato, allorché Piero si dispose all'opera di perfidia: fattosi alla camera dove era l'imperatore, lo confortò a bere certo liquore composto da un suo medico, e gli affermava che ne sarebbe tosto guarito. Federico, di tutto già consapevole, assentiva: giunto che vide il medico, si volse a Piero e gli disse : - Piero, è questa la bevanda che l'amico porge all'amico ammalato ? Poi, con aspetto feroce, ordinava al medico gli desse la tazza; questi pauroso della vita finge di sdrucciolare, cade, e la rovescia per terra: poco gli giovava il consiglio, lo sparso liquore fu verificato per veleno ond'egli n'ebbe la testa mozza. Piero poi, privato degli occhi e rinchiuso in un monastero, dà del capo nel muro, e miseramente finisce i suoi giorni ». «Ben migliore il caso successo a Ottobuono Aldobrandini », disse il Parlaschino ; « qui si vede l'integrità d'un cittadino. Oh, raccontalo tu, Buldoni, tu che hai viaggiata la gentil Toscana ". « Ottobuono Aldobrandini, cittadino di Firenze », cominciò il Boldoni, aveva vinto nel consiglio del Comune, il parere di demolire un castello conquistato sopra i Pisani. Questo era appunto quanto desideravano succedesse gli stessi nemici. Gli ambasciatori di Pisa, venuti a Firenze per accordare la pace, ignorando la deliberazione presa dal Comune, quella sera stessa andarono segretamente a ritrovare l'Aldobrandini, e gli offersero una grossa somma di denari a condizione ch'e' sostennesse in consiglio quell'opinione appunto. - Il partito è buono, suggerivano gli ambasciatori, alludendo alla povertà della famiglia Aldobrandini. - Ottimo anzi, rispose Ottobuono, per una coscienza che si può vendere. Ricusò il denaro; anzi con opposte ragioni tanto fece nella prossima seduta del consiglio che indusse il Comune di Firenze a rivedere e distruggere con altra deliberazione la già presa. Tutti stupirono di tanta incostanza, anzi l'accusarono; ma non volle mai addurre discolpa, finchè visse ». «Fu un novello Caio Fabrizio!» disse don Viviano. «Certamente », aggiunse il Parlaschino, « poichè ha rifiutate le proposte di Pirro». «Tra il torbido delle sciagurate fazioni, che con caina rabbia dilaniavano la cara patria, brillarono tuttavia esempi bellissimi di amor patrio », disse il Boldoni; « ed eccovene uno. Stavasi per venire a battaglia e in nome della patria in pericolo richiedevansi soldati dal Comune. La città risuonava d'armi e di scalpito di cavalli, l'aria rimbombava de' saluti di dolore delle sventurate madri e di pensose fidanzate che all'addio del soldato che parte, non sapevano dimenticare l'ore felici passate al colloquio d'amore. Pagano de' Pagani, uomo che la salute della patria aveva in cima a suoi pensieri, volle far qualche cosa per essa, e il figlio armò cavaliere, e con valorose parole, divorando in segreto le lacrime del suo affetto, l'avviò al campo. Cominciò la battaglia, combattuta valorosamente e sanguinosa. Cadde il giovane Pagani ai primi colpi mortalmente ferito, e la nuova dolorosa è subito recata al padre. - La natura, rispose egli al corriere, vuol che io pianga; ma non importa, egli muore da prode per la patria ». «E il fatto magnanimo del Farinata ? » gridò dal letto l'Arrigoni ; « quello non si conta, perch'era Ghibellino? » "Unicuique pars sua », gli rispose don Viviano. « Tocca a me narrarvelo: «I Guelfi erano padroni di Firenze, donde avevano scacciato i Ghibellini. Questi s'erano rifugiati in gran numero in Siena ; e fra essi di- stinguevasi per sentimenti forti e nobilissimi un Fiorentino, di nome Farinata degli Uberti. Cruccioso nella terra d'esigilo pensava sempre a Firenze e al modo di ritornarvi co' suoi partigiani. Con scaltri maneggi aizzò i vanesi contro i Guelfi di Firenze, poi ordì una trama ingegnosa, con cui ingannare i Fiorentini. E l'inganno fu, che seppe far loro accettare, ch'ei consegnerebbe ad essi una porta di Siena, purchè si recassero verso quella città coll'esercito. Senza alcun sospetto, fidando in Farinata, i Fiorentini si posero in cammino colle truppe loro nel settembre 1260; ma, quando furono sui colli di Mont'Aperti, dall'imboscata uscivano i Ghibellini addosso a Guelfi, che furono disfatti in una terribile battaglia,

Che fece l'Arbia colorata in rosso.

I Ghibellini, approfittando della vittoria, ripigliarono Firenze, e ne cacciarono tutti i Guelfi, tra i quali la famiglia di Dante. Ma quando i Ghibellini nell'insolenza della vittoria messero ad Empoli il partito

... per ciascuno di tòr via Fiorenza Colui che la difese a viso aperto,

fu, con fermezza romana, Farinata, e per lui solo Firenze fu salva. - Io non mi sono esposto, fini egli la sua arringa, ai pericoli della guerra per coprirmi d'obbrobrio, mettendo a ferro e a fuoco la mia cara Firenze. Io ho solo desiderato di toglierla dalle mani de' suoi nemici per istabilirvi una forma di governo più salda e più giusta. Questo bisogna ora; non ferro, non fuoco! » «Oh! perchè tutti i Ghibellini non gli hanno somigliato nel valore e nella grandezza d'animo ! » esclamò l'Arrigoni. « Allora forse un imperatore sarebbe riuscito a mettersi in sella e maritarsi l'Italia »: «Ci ha ben provato Federico II, e ci ha provato Manfredi, ma sono finiti male », disse don Viviano. « La corte papale, atterrita dalla fama guerriera di Manfredi, figlio e successore di Federico II, era ricorsa al rimedio fatale di invocare il soccorso dello straniero. Perciò offerse la corona di Sicilia a Carlo duca d'Angiò, che nel 1265 accettò la lauta offerta e con forte masnada venne a Roma a far omaggio al papa, poi s'avviò verso Napoli. Manfredi, re di grand'animo ed ingegno, avea disposta ogni cosa a forte resistenza. Ma le soldatesche di lui, poste a guardia della frontiera, l'abbandonarono vilmente. Si venne a furiosa battaglia presso Benevento. I due eserciti affrontaronsi. - Svevia! Svevia! - era il grido delle truppe regie napoletane. - Mongioia! Mongioia! - strepitavano le orde del duca straniero. Già l'esercito di Carlo piegava, già Manfredi si allegrava di vincere, quando le più scelte sue squadre, con scellerato tradimento, passarono al nemico. Manfredi preferì morte onorata a vivere vergognoso; e, lanciatosi nella mischia, dopo disperati colpi vi restò ucciso ». « Così terminò la dominazione della casa di Svevia, che tenne il regno di Sicilia per 77 anni » , disse il Boldoni. «Dopo la vittoria i patiboli! » notò il Parlaschino. "Veh, victis! Carlo d'Angiò sapete, ch'era della patria di Brenno",riprese a dire don Viviano. « Egli aveva sterminata la famiglia del re Manfredi. Ma viveva sempre Corradino figliuolo di Corrado IV, a cui si rivolsero in quell'occasione i Ghibellini italiani, invitandolo a lasciar la Baviera per il riconquisto de' suoi diritti. Corradino era l'ultimo di Svevia, bello, affabile, giovane di 16 anni. Accolse con entusiasmo la proposta; molti gentiluomini tedeschi lo accompagnarono per affezione a lui e per desiderio di gloria: i Ghibellini d'Italia lo soccorsero d'uomini e di denaro. Carlo d'Angiò si fece incontro a Corradino nella pianura di Tagliacozzo. Egli aveva molto minor gente, ma si affidava in uno stratagemma. Infatti aveva imboscata la più forte schiera nel fondo d'un vallone. Al primo scontro i cavalli angioini rinculano : i Ghibellini coraggiosamente incalzano la cavalleria guelfa, ma nella foga chi quà, chi là sbandasi. Allora gli Angioini si stanano furiosamente dall'agguato e li opprimono. Corradino fuggì presso un suo vassallo, ma presto il più nero tradimento lo consegnava in mano al re. Irritato l'Angioino, con barbaro decreto, condannò il giovinetto alla morte. Si rizzò il patibolo e, come a festa, volle intervenire Carlo d'Angiò al supplizio dell'ultimo discendente di Federico II. L'infelice Corradino, salito sul palco, pregò alquanto in ginocchio. Indi si levò in piedi e dolorosamente esclamò: - Oh, mia madre! Di qual dolore ti sarà cagione la notizia della mia morte! Rivolse lo sguardo al popolo; e ne vide le lagrime, ne udi i singhiozzi: e, quasi a invito di vendetta, gettò alla folla il proprio guanto. Indi porse al carnefice il capo, che una lunga e bionda capigliatura rendeva più vago ». " Vendetta da Guelfi! " esclamò l'Arrigoni. "Ma dopo venne quella di Dio", disse don Viviano; a per mano del popolo di Palermo. Un uomo della folla, stipata intorno al patibolo, raccoglieva il guanto che, presso a morire, aveva gettato Corradino e, baciatolo, lo poneva religiosamente in custodia presso al cuore: quell'uomo era Giovanni da Procida, esule napoletano. In breve i gravosi balzelli, l'albagia e il mal costume de' Francesi suscitarono in tutta Sicilia un odio immenso contro il dominio angioino. Giovanni da Procida, ebreo errante della vendetta, attizzava quell'odio e or qua, or là recandosi suscitava nemici potenti contro l'assassino dì Casa Sveva. I delitti, le oppressioni d'Angiò erano tante; ma la misura fu colma il lunedì dopo la Pasqua dell'anno 1282. Una fanciulla di Palermo, tutta giuliva e adorna, muoveva alla chiesa per isposarsi. I parenti e gli amici le facevano onorato corteggio. Un soldato francese insolente e villano osò frugarla nelle vesti. Subito si fa tumulto; l'oltraggiatore è ucciso di mano del fidanzato ; e tutto il popolo gridando: - muoia! muoia ! voltasi con improvvisa rivoluzione sopra i Francesi che sono in città, e a furore li stermina. In quel momento sonavano le campane del vespro, e furono i rintocchi d'agonia per il regno d'Angiò. La rivoluzione si estese e la monarchia fu mutata, nominandosi i Siciliani per re un principe della casa di Aragona ». «Guelfi e Guelfi sempre! » borbottò l'Arrigoni. «La ragione è chiara », notò don Viviano. « I Guelfi tenevano dal papa, che di solito era un Italiano, o per lo meno stava a Roma, ciò che vuoi dire in Italia ; mentre i Ghibellini aspettavano la grazia di Dio dalla Germania, lontana migliaia di miglia dagli occhi e dal cuore ». «Ma dove voi, Guelfi », seguitò l'altro, « mi trovate un uomo da mettermi a paragonare con Castruccio Castracani ? » «Ho fors'io detto mai », saltò su il prete, « che un perchè è ghibellino debba essere un assassino, o un vigliacco ? Dalla culla alla tomba costui è stato tal quale una patria può gloriarsi d'un suo cittadino. Nato in un villaggio, presso Lucca, essendo il padre suo in bando dalla Toscana, Castruccio lo seguì in Ancona, ove tanto approfittò dell'educazione compartitagli, che presto divenne un giovane colto ed onorato. Morto suo padre, Castruccio si diede al mestiere dell'armi, e militò in Inghilterra e in Fiandra. Preso poi dal desiderio di rivedere la patria ritornò in Italia l'anno 1313. Castruccio non potè allora venir a Lucca; perchè ivi preponderava la fazione guelfa nemicissima del suo casato, ch'era ghibellino: onde s'arrolò sotto le insegne di Uguccione della Fagiuola capitano dei Ghibellini, divenuto signore di Pisa, e con lui dopo vari, combattimenti, entrò in Lucca. Coll'onesta condotta e col coraggio, Castruccio erasi guadagnato l'animo del popolo. Uguccione divenne geloso di quel favore, e lo imprigionò: ma il popolo sdegnato trasse di carcere l'innocente, scacciò Uguccione, ed elesse Castruccio alla magistratura suprema della repubblica: ciò avvenne l'anno 1316. Castruccio seppe indi mantenersi così bene in grazia de' Lucchesi,. elle nessuno ardi d'impedirgli di farsi principe della città. Egli era ghibellino; quindi appena scese in Italia Lodovico il Bavaro imperatore di Germania, Castruccio si mosse con le sue milizie ad assediare, in compagnia dell'imperatore, la città di Pisa, ch'era guelfa. Castruccio andò poi con Lodovico a Roma; ove non cessava mai di ammirare gli archi trionfali, il Campidoglio e gli altri monumenti gloriosi della città dei Cesari. Ancor dimorava in Roma, quando ebbe avviso che Pistoia erasi ribellata. Parti subito a quella volta. Ricondusse in primo luogo la disciplina fra i propri soldati, e con questi riuscì dopo molte fatiche a vincere i ribelli, al maggior numero de' quali concedette il perdono : Riportò ancora una segnalata vittoria sui Fiorentini presso ad un paesetto nominato Altopascio; e dopo di quella, si avanzò colle sue milizie sino a poca distanza da Firenze, minacciando di occuparla. Divenuto per virtù propria signore di Lucca e Pistoia, della Riviera di Genova, della Lunigiana e di 300 castelli, governò i popoli con molta saviezza. Era giunto al colmo della sua fortuna: quando fu assalito da una malattia mortale. Accortosi d'essere all'orlo del sepolcro, chiamò a sè la moglie ed i figliuoli; e così parlò al suo Arrigo: - Io ti lascio il principato, il quale sarà stabile, se tu sarai buon principe; sarà vacillante, se tu sarai malvagio. Proteggi i tuoi fratelli; ama tua madre: e ricordati che la virtù sola conserva le famiglie e gli Stati. Restringi il tuo potere, sappi resistere all'ambizione; usa più la clemenza che la severità. Deve prima saper comandare a sè stesso chi vuol comandare agli altri. Abbi sempre in mente che rendendo felici gli altri, tu sarai felicissimo; che colla buona fama acquisterai le ricchezze, ma non mai colle ricchezze la fama. Il figliuolo cogli occhi pieni di pianto, udendo quelle commoventi ed assennate parole, più volte gli strinse la mano, e gliela baciò: più volte promise, che i ricordi paterni sarebbero la norma del viver suo. Mentre la madre e i figliuoli piangevano, Castruccio, copertosi il volto, spirò ». « Perchè non ho io la chiave del paradiso », esclamò l'Arrigoni, a da potervi far en'rare, se non c'è ancora, il degno uomo ! » « Chi vive bene muore bene », avvertì don Viviano; « e chi bene finisce la vita quaggiù meglio incomincia l'altra vita lassù ! » "Che destino fu mai quello d'Italia! " disse il Boldoni. « Non bastava che Ghibellini e Guelfi s'azzannassero come tanti mastini ; sissignori, che ci voleva anche che questi ultimi si pigliassero a coltellate , tra loro ! » «E da una vendetta privata », rispose a dire don Viviano, « saltò fuori un vespaio di guai pubblici. Avendo prima avuto Firenze divisioni assai tra Guelfi e Ghibellini, finalmente era rimasta nelle mani dei ...; dove messogli la mano dentro quella falce che serviva a triturar lo strame, glifu troncata dal braccio. Cap. X. Pag. 195. Guelfì; e, stata assai lungo spazio di tempo in questa forma, sopravvenne di nuovo un'altra maledizione di parte in tra i Guelfi medesimi i quali reggevano la Repubblica, e fu il nome delle parti, Bianchi e Neri. Nacque questa perversità prima ne' Pistoiesi, e massime nella famiglia de'Cancellieri, avendo un figlio di messer Guglielmo de' Cancellieri Neri, per nome Lore, ferito in un alterco per cagion di giuoco un figliolo di messer Bertacca de' Cancellieri Bianchi, chiamato Petieri. Perchè Guglielmo tornatosi a casa, e sentito del fatto, comandò al figlio suo che andasse a casa messer Bertacca, e gli chiedesse perdono del fallo. Il giovane ubbidì, ma invece che fosse ammessa la sua scusa, fu dall'irato Bertacca fatto prendere, e portar già nella stalla; dove messogli la mano dentro quella falce che serviva a triturar lo strame, gli fu troncata dal braccio. L'atroce fatto messe in furore il padre, che corse all'arme con tutti i suoi, e in breve tutta la città fu divisa tra l'una parte e l'altra. Per porvi rimedio fu ordinato dai Fiorentini che i capi di queste sette venissero a Firenze, acciocchè in Pistoia non facessero maggior tumulto. Questo rimedio fu tale, che non tanto di bene fece a' Pistoiesi, per levar loro i capi, quanto di male fece ai Fiorentini, per tirar a sè quella pestilenzia. Perocchè, avendo i capi in Firenze parentadi e amicizie assai, subito accesero il fuoco con maggiore incendio, per diversi favori che avevano da' parenti e dalli amici, che non era quello che lasciato aveano a Pistoia. Essendo già durata la contesa più mesi, e multiplicati gli inconvenienti non solamente par parole, ma ancora per fatti dispettosi e acerbi, cominciati tra giovani, e discesi tra gli uomini di matura età, la città stette lungamente sollevata e sospesa». «Povera Firenze, t'han conciata bene i Guelfi! » esclamò l'Arrigoni. «Dite meglio i Bianchi e i Neri », gli rispose vivamente don Viviano. « E se questi hanno malmenata Firenze, un'altra fazione non fece mica le carezze d'amore a Pisa. Verso il 1269 i Pisani erano divisi in due fazioni, chiamate l'una dei Raspanti, l'altra dei Bergolini; e Giovanni Agnello, spalleggiato dai Raspanti, si era fatto signore di Pisa. Nel tempo della sua dominazione perseguitò, bandì, quanti potè cogliere uccise fra quelli della parte avversa, nel cui numero era la famiglia dei Gambacorta, e quella appunto dovette soffrire più delle altre le crudeltà del tiranno. Quando venne in Italia l'imperatore di Germania Carlo IV, Giovanni Agnello voleva farsi nominare all'importante carica di suo vicario; e apparecchiò feste e allegrie per ricevere e piaggiare il monarca. Esso stesso l'Agnello andò a Lucca per ricevere l'imperatore, e in quella congiuntura si ruppe una coscia. Forse la mano di Dio in quella maniera lo punì dei misfatti commessi ; forse impedì per tal modo l'esecuzione de' malvagi disegni, che l'Agnello andava macchinando! Alla notizia della disgrazia di Agnello la fazione dei Bergolini rialzò la testa, armossi e sollevò il popolo pisano contro a' Raspanti, che poi vennero sconfitti e vinti. I partigiani de' Bergolini volevano allora abusar della vittoria; volevano vendicare le ingiurie e i danni patiti, uccidendo i loro nemici, abbruciandone le case. Già il popolaccio dava di piglio al ferro e al fuoco, e la città era minacciata d'esser distrutta in un attimo quand'ecco Pietro Gambacorta, uno dei primi fra i Bergolini, gettarsi intrepido fra le spade sguainate e i tizzoni degli incendiari. Egli prega, scongiura quei forsennati acciocchè desistano dall'iniquo disegno, e finisce esclamando: - O cittadini, o fratelli, deh! perdonate ai fratelli. A tutti ho perdonato io: io ho perduto, pei delitti di costoro, i più cari parenti. E come ardireste vendicarvi ora voi, che avete a dolervi assai meno di me? — Queste nobili parole del Gambacorta, rafforzate dall'esempio della sua generosità, fecero cader le armi di mano ai Pisani, i quali si contentano di abbattere il governo de' Raspanti e di affidarne le redini alla fazione dei Bergolini. Perdonare i nemici e salvare la patria è la gloria del cristiano e dell'ottimo cittadino » A suggellare la pace tra Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri, Raspanti e Bergolini, l'Arrigoni disse al Parlaschino che suonasse il campanello; e, comparso il servitore, lo mandò via con un' occhiata, che questi interpretò subito recando due bottiglie di certo famoso vino dì Bellano. Bevuto alla salute del padrone di casa, il Parlaschino temendo che gli amici uscissero con altri discorsi melanconici di guerre civili, prese egli la parola. « Nella villa di Vespignano, 14 miglia fuor di Firenze », comincio egli a dire, « correndo l'anno 1279, nacque ad un certo Bondone, povero lavoratore di campi, un bambino cui pose il nome di Giotto. Allevato costumatamente in famiglia, non toccava ancora la fine del decimo anno, che dovette pascolare un branco di pecore del padre suo. Ora, un giorno, presso al tramonto, essendosi condotto su di un poggio, vi si trattenne ad ammirare una grandiosa scena: densi nuvoloni accavallati erano sorti a velare la faccia del sole, che dardeggiava i raggi pei loro lembi, e li faceva apparire orlati di fuoco; giù fino all'Arno lontano, una folta boscaglia agitata dai venti rimescolavasi come un mare in tempesta, e tratto tratto dalle nuvole rompeva il lampo con un brontolio di tuono, che andava prolungato a morire negli echi de' colli; e quella voce del cielo, e il baleno che infiammava tutto il serpeggiamento del fiume e disegnava istantaneo ogni oggetto aggiungevano allo spettacolo un maraviglioso indescrivibile. - Oh, bello, bello! esclamava tutto rapito il sublime fanciullo, stringendosi la testa nelle mani; oh, bello, se si potesse copiare! E intanto non avvedevasi che il suo gregge, sbrancatosi intorno a lui, s'era diffuso tutto giù pel pendio e v'era pericolo di smarrir qualche pecora. Ma una grossa mano, che d'improvviso gli scrollò una spalla, venne a destarlo da quell'estasi: era suo padre, il quale, in pensiero per non vederlo ritornare ancora, con quel tempo gonfio e in ora così tarda, veniva a rintracciarlo. - Che fai, balordo ! gli gridò stizzosamente; e ti par tempo questo da restare lì colla faccia levata, come un vitello alla poppa? Guarda bel pensiero che ti dai delle bestie! e' sono laggiù tutte disperse... uh, questo scimunito vuol essere il mio mal di capo. E spingeva intanto lo sbigottito fanciullo a raccogliere il branco. Come fu ristretto insieme, Giotto lo dovette numerare sotto gli occhi del padre; e con voce piagnolosa ne andava mormorando il computo; ma, in sull'ultimo, per cautela, scorrendolo anticipatamente colla vista, si accorse che mancava una pecora e gli cadde la voce; girò di sottecchi un rapido sguardo tutto all'intorno, ma non iscoprendola, barbugliò de' suoni indistinti, pronunciando in fine bene spiccato il numero preciso de' capi del suo gregge. Bondone fu così preso nell'inganno, e avviossi a casa dietro al figlio con minor collera di prima, ma non desistendo ancora dal garrirlo e dall'accusare la fortuna d'avergli dato un simile stupido di figliuolo. Quale angosciosa notte passasse quindi il tapino pastorello immaginisi ognuno; avrebbe voluto poter ricondurre l'aurora non appena si fu coricato ; la sua povera cuocia, dove aveva sempre dormito sonni così serrati, questa volta gli pareva di spine, e, per quanto si rivoltasse sui fianchi, per quanti storzi mentali facesse onde potersi dimenticare la sua disgrazia, non gli avvenne mai di poter velar occhio; dovette in tutta quell'eterna notte assaporarsi la crudele immagine della smarrita pecora, che, invano respinta, tornava e ritornava ad affacciarglisi per infinite vie. E sorta finalmente la sospirata aurora, Giotto, che le altre mattine veniva sempre svegliato dalla voce di Bondone, in questa, per la prima volta, non sentissi rimbrottare di poltroneria. Povero Giotto; dischiude l'ovile, ne escono le pecorelle, ed egli intanto di nuovo tutt'occhi a numerarle, che, volesse la Madonna si fosse ieri ingannato! ma pur troppo ve n'è una di meno. Doveva attendere questa dolorosa realtà, eppure non seppe giungervi senza provare una nuova stretta di cuore. Spinge fuori il gregge; il cielo è tutto un lucido sereno, chè , durante la notte, s'è scaricato con un diluvio di pioggia; e la pecora smarrita ha dovuto restar sotto quel grande aquazzone! A tal pensiero il pastorello non seppe frenare una grossa lagrima. Fa ritorno all' infelice poggio, dove ieri lo ha sorpreso il padre: che splendido orizzonte,o Giotto! non è men bello il mattino dal tramonto; nell'uno v'è letizia, l'altro infondeva una agitata malinconia, cara anch'essa all'animo tuo! Ma le meraviglie della natura si spiegano invano dinanzi a quel tribolato: adesso egli non può avere altro pensiero che della sua pecora. Dal punto più elevato di quell'altura gira acutamente gli occhi giù pel declivio, fuga ogni palmo di zolle, ogni macchia di sterpi, se mai scopre un bianco tra quell' uniforme verde; tende l'orecchio ad ogni suono lontano, se mai fosse un belato; discende, e con qual animo! anche di là, mena il gregge per nuove strade, ma son tutti passi invano. Rotto finalmente dal cammino e dal cruccio, e perduta ogni speranza, si getta a sedere tutto affannoso sul terreno, figurandosi l'aspro momento che avrebbe pur dovuto manifestare al babbo la disgrazia; e in quell'angustia maledisse la sua storditaggine che lo aveva incantato là a vedere un lampo, ad udire un tuono. Allora lo assalse un profondo sconforto, si credette un povero essere imperfetto, e gli parve ragionevole fino la rabbia, la crudeltà degli altri fanciulli del vicinato che non lo volevano mai nei loro giochi, perché non sapeva esser destro e sollazzevole al par di loro, e si facevan beffe della sua faccia smorta e del suo corpo mingherlino. - S'io sapessi vivere come tutti gli altri, pensava dolorosamente fra sè, comparirei forse men brutto, e mi sopporterebbero anche così. Mio Dio, mio Dio, perché farmi tanto stordito! E piangendo dirotto, si stringeva le ginocchia colle mani intrecciate, e s'inchinava la testa in grembo. Or ecco, mentre dimorava cosi colla fronte sulle ginocchia, sentesi lambire mollemente le mani; alza la faccia è la sua pecorella, la pecorella smarrita! rabbuffato il vello, molle di fango, ma pur vispa e carezzevole. Oh gioia! non può capire in sè; la bacia, la ribacia , la mena sollecito ad una vicina fontana, dove lavarla e lisciarla ed adornarla; in poco d'ora l'ha fatta bianca più dell'altre, e se la porta festosa tra le braccia intorno al gregge, come volesse far riconoscere alle altre pecorelle la loro ricuperata amica. Quindi fe' scelta di una pietra delle meno scabrose, e, servendosi di alcune scheggie di carbone come di matita, si accosciò a disegnare la pecorella che in quel giorno prediligeva. La bestia, situata a modello dal suo pastore, stava immobile e dava a conoscere d'essere stata lungamente a tale ufficio addestrata. Chi mai aveva iniziato nel disegno quel fanciullo, in, quei tempi che nel contado s'ignorava quasi l'esistenza di quest'arte, in tempi che solo le cospicue città potevano vantare nelle chiese più ricche qualche pitturai Oh! chi mai aveva appreso a quell'ignoto pastorello un disegno così fedele, morbido, leggiadro! In quel punto un personaggio grave in abito cittadino passeggiava in quel luogo e trasse alla volta di Giotto, spianando la fronte ed affissandolo con uno sguardo, che pareva chiedesse a quell'età dell'innocenza il segreto dell'occupazione. Il pastorello non s'accorse del cittadino, inchinatosi fin sulla sua spalla, tratteneva il respiro per non farlo avvertito della sua presenza, e impallidiva e sudava a grosse gocciole per lo stupore; ma, come fu condotto a termine il disegno, scintillando negli occhi, il grave personaggio curvossi a baciare l'eletto artista, poi rivolto al cielo esclamò: - Ora posso dire anch'io: si chiudano in pace gli occhi miei, che ho veduto il promesso del Signore! La strada nella quale io mi trascinava esausto di forze, costui la compirà; sia benedetta per tutti i secoli la Provvidenza. Quest'uomo era Giovanni Cimabue. Il pastorello tremava come una foglia: egli, che non aveva forse mai parlato in sua vita con signori di città, alle carezze di quello sconosciuto, rimaneva selvatico, sbigottito; ed, arrossendo tutto, gli fissava gli occhi in volto, senza formar parola. - Tu devi abbandonar le tue pecore, gli disse il cittadino, e venirne con me a Firenze, dove in breve io ti farò pittore. Ma Giotto non sapeva articolar parole a quella novità tanto strana. alle abitudini della sua vita. - Parla, continuava lo sconosciuto: ti dorrebbe egli di venire con me? Io son pittore, sai? Allora finalmente il garzoncello osò di aprir bocca. -Ma, e le bestie, e il babbo? - Dov'è la tua casa ? - Laggiù; da qui non la si vede. - Or bene, sta già per calare la sera ; moviti colle tue pecore e conducimi dal babbo. Giotto obbediva, e tutt'e due s'avviavano. Bondone, rientrato dal suo campo e deposti gli arnesi del lavoro, s'era messo a sedere sulla porta della capanna; e, in quell'ora consacrata alla preghiera dei morti, pensava alla sua donna, ch'egli soleva trovare ogni sera affaccendata ad ammanirgli la parca cena, e che da un anno aveva perduta, senza che ancora potesse abituarsi a quella triste solitudine. In tal pensiero, alzò gli sguardi per volgerli alla chiesetta dove la donna era sepolta, quando scorse venire il figliuolo in compagnia di quel cittadino. Sorse tutto meravigliato, e andò loro incontro con occhi attoniti e la bocca semiaperta; ma 'gli si accrebbe a mille doppi lo stupore, quando Cimabue, raggiuntolo, per venire senza proemi speditameute al fatto, gli disse : - Voi dovete affidarmi questo vostro figliuolo, perché io faccia fruttare l'ingegno di cui Dio l'ha voluto fornire. Vi dorrà il separarvene, ma l'amore che gli portate deve farvi cercare il suo maggior bene. Non vi siete mai adatto che ha sortito una mirabile inclinazione alla pittura. - Questo mio figliuolo, messere ! ! Se gli avessero asserito che quel misero sparutello era un bell'angelo, gli avrebbe recato minor meraviglia che non il sentire che aveva un raro ingegno. Il povero uomo, il quale, nella sfera delle sue idee e de' suoi bisogni, non desiderava nel figlio che la materiale vigilanza e la robustezza necessaria al genere di vita cui doveva crescerlo, e che lo trovava così incapace a questa vita, così stordito e debole, s'era abituato a considerarlo come una croce mandatagli per i suoi peccati; ed ora, sentendosi dire da quel cittadino, di tanto autorevole aspetto, che era invece un portento, cadeva dalle più alte nuvole. - Come lo sapete, voi, messere? - L'ho trovato a disegnare una sua pecora - Sempre così! e intanto le bestie se ne vanno disperse Ma Cimabue, senza lasciare tempo a quelle escandescenze, insistette: - E la disegnava in modo, che io che sono dell'arte vi accerto ch'egli è nato pittore; e sareste crudele col figliolo, e colpevole verso il paese, qualora non deste retta al mio consiglio di lasciarmelo educare. Io posso dar questo giudizio, chè tutta la mia vita fu spesa per quest'arte; sono Cimabue..... - Cimabue! sciamò Bondone, facendogli gran riverenza e ritraendosi un passo. Quel nome correva già glorioso anche nel contado, dove lo ripetevano con estatica meraviglia quanti, andando al mercato di Firenze, dall'universale entusiasmo erano stati tratti alle chiese a veder anch'essi le sue pitture. All'udire chi era quel cittadino, Bondone, stupefatto, intenerito, acconsenti non senza lagrime e balbettando al desiderio del pittore, e la mattina appresso gli abbandonò il figliuolo, promettendo a sè medesimo che si sarebbe portato a vederlo ogni qual volta ne avrebbe avuta l'opportunità: e se, gli concesse il cielo di farlo per molti anni, quale dev'essere stata la meraviglia, la compiacenza di quell'anima semplice nel trovare il suo Giotto divenuto l'amico dei primi uomini di Firenze, e decantato da tutti superiore di gran lunga allo stesso maestro " . "L'ha benedetto Dante ", saltò su don Viviano, " nella seconda cantica della divina Commedia :

Credette Cimabue nella pittura. Tener lo campo, od ora ha Giotto il grido ».

" Bell'ingegno e vivace che aveano quei pittori!" seguitò il Parlaschino, per paura che tornasse in campo la storia delle fazioni. Già ben saprete tutti la storia del Crocifisso, che mandò a male una frittata". «Non vi puzza un po' d'eresia il professore?" disse, l'Arrigoni in tuono burlevele al curato. "Filippo Brunelleschi ',tirò innanzi il Parlaschino, « lavorando in- defessamente, s'era fatto cosi abile nella scultura e nell'architettura che aveva pochissimi competitori. Egli fu il solo degno di compir l'opera grandiosa architettata da Arnolfo di Lapo. Fra i piu illustri che usavano in casa Filippo Brunelleschi, notavansi Ghiberti, che lavorò le porte di bronzo al battistero di San Giovanni, opera così perfetta che il Buanarotti la disse degna di fregiare l'entrata del paradiso; Donatello, quell'egregio scultore che in' molte parti non fu vinto neppure da Michalangelo; Paolo Uccello, ed ognuno infine che avesse nome di buon operatore in qualche arte. Carissimo fra tutti a Brunelleschi era il Donatello, col quale aveva viaggiato a Roma e tenutovi dimora per istudiar l'arte in quelle magnifiche ruine. Avendo questi ultimato un crocifisso di legno per una chiesa, invitò maestro Filippo a vederlo e a dargli il suo parere prima che fosse posto sull'altare. Il Brunelleschi esaminò con diligenza l'opera, poi, piu sincero che piaggiatore, gli rispose che la figura del Redentore mancava di dignità, somigliando piuttosto al corpo di un facchino che ad un Dio fatto uomo. Così egli disse con parole dolci e moderate. Non pertanto al Donatello saltò la mosca, e rispose bruscamente: - Se il mio Cristo non ti contenta, fanne tu uno meglio. Brunelleschi, da quell'uomo prudente e modesto che era, tacque e si congedò. Coltivando i] pensiero di correggere l'amico, e ripetendo fra sè le parole acerbe - fanne tu uno meglio - si mise a lavorare egli pure un crocefisso in legno, e vi pose ogni studio per farlo bene. Finitolo, andò a cercar l'amico, e lo indusse a venir a pranzo da lui, che avrebbei o parlato dell'arte loro. Intanto gli pose fra mani un grembiale pieno di uova e d'altre vivande, che dovevano servire al loro desinare; e lo pregò che andasse avanti con quella robba, in casa sua, che egli lo seguirebbe; e, cosi dicendo, gli si mise in coda. Il Donatello obbedì; ma non appena entrò nella bottega di Filippo che gettati gli occhi sul crocefisso, restò lì così attonito per la maestria con cui era eseguito, che lasciò cascare le uova e ogni cosa per terra. Così Brunelleschi corresse, senza rimproveri, i difetti dell'amico ». "Brunelleschi", volle dire il suo parere il Boldoni, come quello che era stato a Firenze, « fu il successore di Taddeo Gaddi e d'Andrea Orgagna nel lavoro della cupola di Santa Maria del Fiore, ch'è senza armatura, e d'una eleganza e solidità senza pari all'altezza di 202 braccia ». «Quante invidie però ne' pittori! » disse il Parlaschino. a E quanti che hanno fatta trista e misteriosa fine, appunto per odio tiratosi addosso per aver superato qualche emulo, che pativa il mal dei cani, l'invidia! » " Molti dicono che ne siano morti avvelenati ", notò l'Arrigoni, con un lampo di luce sinistra negli occhi. " E cosi ha finito, nel bel del fiorire, il povero Masaccio ", riprese il Parlaschino. « In un'oscura taverna situata presso le mura di Firenze, su di una straduccia solitaria anche nelle ore più rumorose, stavano nel core di una notte seduti ad un descaccio da sei od otto uomini, le cui vesti non avrebber fatto credere di doverli incontrare in un luogo cosi umile e sospetto. Pallidi tutti e accigliati, a guisa di austeri cenobiti, parlavano sommesso ed interrotto, come sospettosi nel confidarsi i loro pensieri. Essi pensavano a Masaccio, allievo di Masolino da Panicale, che allora era valentissimo nella pittura ed era appena tornato da Roma, dove aveva lasciato buon grido delle sue opere. Masaccio era nato nel castello di San Giovanni, a breve distanza da Firenze, l'anno 1402. - Dal di che questo Satanasso ritornò a Firenze (si fosse fiaccato il collo in quella sua Roma), ecco più nessuno chiedette di noi; inutile ci è l'arte con si lunghi studi acquistata, possiamo vendere i pennelli a que' di Montelupo, che colorano le mezzine. - Per l'anima d'un Turco, se foste arditi se voleste prestarmi orecchio... - Prestarti orecchio! la sola cosa oggimai che ci rechi piacere, è l'udir parlare contro quel ribaldo. - Ma qui tratterebbesi ben più che di parole... - Fossero anche fatti si, anche fatti; io adorerei il fulmine che lo incenerisse. - Ascoltatemi, dunque. E si fece per alcuni minuti un profondo silenzio, nel qual tempo l'ultimo che avea parlato, stette immobile colla faccia coperta dalle mani; poi, quando la rialzò per continuare le sue parole, apparve bianco come un marmo, aveva la fronte bagnata di sudore, l'occhio profondo, scintillante: era l'aspetto di un omicida nei terrori della notte del suo delitto. - Ascoltate dunque! Io ho conosciuto un giovane, che, rimasto orfano, era stato affidato ad uno zio danaroso. Il buon uomo prodigava ogni cura a questo nipote, e gli era anche largo di bei fiorini; ma il giovane amico dei piaceri avrebbe esaurito una miniera. Impacciato nei debiti, senza più un usuraio che volesse affidargli una crazia, attendeva impaziente che lo zio il lasciasse padrone assoluto de' suoi scrigni; ma quel vecchio rubizzo e sempre lieto pareva ridersi della morte. Una sera sedevano insieme a cena lo zio e il nipote; questi con melate parole adulava il vecchio, gli metteva innanzi i più scelti bocconi, lo confortava a bere, ripetendo che il vino era il latte della di lui età, e intanto gli mesceva egli stesso Il buon vecchio gongolava di vedersi così careggiato, finchè, baciucchiando tutto lagrimoso per la gioia il nipote, se ne andò a dormire; ma non si svegliò piu! - Come - Il nipote gli aveva versato da bere! Quei tristi si stesero la mano, e un patto d'inferno venne tra loro fermato. Quindi a pochi giorni si udiva in Firenze la dolorosa nuova che Masaccio era morto ». « E sul suo sepolcro », notò, al solito, don Viviano, « una genti! Musa ha scritto:

Pinsi, e la mia pittura al ver fu pari: L'atteggiai, l'avvivai, le diedi il moto, te diedi affetto: insegni il Buonaroto A tutti gli altri, e da me solo impari ».

" Voi siete una miniera di versi, caro il mio curato ", esclamarono tutti quasi ad una voce. CAPITOLO XI

La giustizia d'una volta « Le leggi son, ma chi pon mano ad elle? » DANTE : Divina commedia.

Il curato di Cremeno era stato di parola quanto alla pompa del funerale: di buon mattino, subito dopo l'Ave Maria le campane del paese suonavano a morte, destando lugubremente gli echi della valle; ed una lunga fila di frati su da Lecco salivano per far onore alla bara del nobile. Anche di preti s'avviava una truppa, che mise in moto la Veneranda a preparare colazione per tanta gente, a cui la passeggiata mattutina non mancava di destar appetito. La scampanata malinconica destò l'Arrigoni, che, mandata una bestemmia al sagrestano il quale sudava colle corde in mano a fargli onore, saltò subito fuori dal letto, guarito perfettamente, anzi più sano di prima, perchè il pensiero di fare le sue vendette gli ringagliardiva il petto. Vestito, uscì a cercare del Parlaschino, col quale parlò lungamente, e dal quale si fece fare un sonetto contro i Manzoni di Barsio, che s'era fisso a volerli ad ogni costo autori dell'assassinio del suo povero fratello. Dalla penna del professore cascò sulla carta questo sonetto, che riportiamo per dare un'idea del modo di verseggiare in italiano del Parlaschino. Aveva tolto per soggetto una mala lingua, cui apostrofava co' suoi quattordici versi: La madre di costui fermava il passo A mezzogiorno in un solingo bosco vicin'a Caglio gravida, e tosco Pascea sè stessa, e'l parto afflitto, e lasso. Lumache vive, e Topi a piè d'un sasso Famelica inghiottiva, all'aer fosco Corvi, Ceraste crude, e'l Guffo losco Giva cacciando, e Rospi a capo basso.

D'Aconito mortai, d'Assenso, e Fiele, Lucertole, Ciente, e di Serpenti Empiva il ventre, e ne nutriva lui. Ond'ei si fe' malvagio, empio, e crudele, Rapace, e fler nemico delle genti, Spietato Boja della fama altrui.

Da sulla porta della sala diede una voce ai bravi, che subito salirono, ultimo il Grattapancia, cui non era ancor passata la collera pel tiro fattogli dal padrone col pugnale. « Uno di voi, che voli a Barsio, e faccia in modo che noi veda un grillo in paese », disse il signore. «Comandi illustrissimo », gridarono tre; l'altro, e i lettori avranno indovinato chi fosse, non disse nulla, e stette àd aspettare che il padrone desse l'ordine. Sulle prime gli era parso di mandare, come il più arrischiato, il Grattapancia, ma guardatolo in ciera, e vistolo annuvolato, mutò pensiero, e licenziati gli altri terme presso di sè il Succhiarape. «Senti », gli disse, « tu devi andare a Barsio senza, come dico, che anima viva ti veda... » « Eh, diavolo ! non sono mica un ago io da non vedermi la gente ». « Dico che nessun ti veda per dire nessuno s'accorga che tu ci sei andato per far quello, che tu devi fare ». - Forse una qualche coltellata da consegnare? - pensò il bravo, e disse : « Farò come lei dice ». « Sai dov'e piantata la casa dei Manzoni,.. » « Non si può sbagliare, la più bella del paese, col giardino di fianco da cui sopravanza al muro piante di frutta; e sulla porta stanno inchiodati, uno per parte, due nibbi... » "Vedi questa carta scritta? tu la devi inchiodare su quella porta..." « Eh! come vuol che faccia senza levar rumore, e far abbaiare tutta la canatteria che tengono di guardia? A. conficar chiodi ci vuole un martello... » « Non m'hai capito », disse l'Arrigoni impaziente. - Che creda forse, ch' io v'abbia da adoperar i pugni? - e aspettò la spiegazione. a Vedi questo pugnale? questo ti servirà di chiodo, senza che faccia fracasso ». Benchè gli sembrasse quella una enorme stravaganza d'andar ad affiggere un pezzo di carta con quella sorta di maniera, pure per la ragione che la ragione non si cerca ai padroni, al Succhiarape toccò di trottare a Barsio ed eseguire la commissione. Nell'andare trovò la processione che veniva pel morto, una vera babilonia di frati, che sghignazzavano, come s'andassero ad una fiera. Appena il cadavere fu fuori di casa anche l'Arrigoni uscì, accompagnato dal Mangiamoccoli e del Mezzabraca, con un' armeria indosso di coltellacci e pistole, e prese la strada che metteva a Introbbio, il borgo che faceva allora da capitale della Valsàssina. Egli andava a denunciare l'assassinio del fratello al podestà della valle, ch'era un di que' uomini che paiono messi apposta al mondo pel servizio di quelli ch'hanno qualche puntiglio a spuntare: un uomo attaccato alle gride, come una chiocciola al muro nell'autunno. Intanto che l'Arrigoni studia il discorso che deve tenere al podestà per impuntigliarlo a fare una solenne vendetta sul reo, cui egli sospettava in uno dei due Manzoni di Barsio, noi diremo qualche parola degli Statuti che reggevano la Valsàssina. C'è una sentenza che dice che i popoli hanno i governi cui si meritano; e se questa sentenza s' ha di applicare alla Valsàssina, bisogna dire ch'ella avesse un popolo saggio, perchè aveva se non saggi almeno liberi e propri gli statuti, coi quali si governava. Caduta in potere dei Visconti, la Valsàssina, per essere lontana, poco sentì il giogo di quella genia di principi, anzi fu considerato sempre per un paese separato ed autonomo, regolandosi con statuti propri. Cosi in mezzo agli sconvolgimenti, all' abuso del potere, alla rabbia delle fazioni si era venuto nulladimeno pensando a riordinare la repubblica colla formazione o correzione di statuti e leggi, le quali, sebbene in parte furono radicali, inutili, barbare o dannose, però ebbero anche del buono, e furono se non altro, seme di più plausibili posteriori disposizioni. Gli statuti civili e criminali della comunità di Valsàssina, compresi in duecento ottantaquattro capitoli, vennero approvati da Gio. Galeazzo Visconti protettore, governatore e conservatore della valle e delle pertinenze il 21 novembre del 1388, letti e pubblicati nel generai consiglio della comunità radunato nel palazzo pretorio in Introbbio per ordine del nobile Albertino De Cavalli, vicario della Valsàssina e delle pertinenze il giorno 25 del menzionato mese (1). Prima di dare un' idea degli statuti stessi fa d' uopo osservare che la Valsàssina abbracciava allora anche i monti di Varenna e di Esino (o sia la valle di Perledo), di Dervio (o sia Montagna d' Introzzo) e di

(1) Furono poi stampati col titolo: Statuta civilia et criminalia communitatis Vallissaxincur (Mediolani, ex typ. LudeVkhi Montico 1574). 1 consiglieri presenti alla lettura furono Mazzo Arrigoni di Barzio e Jacopo Cazola di Cortenova sindaci, Domenico Fasolo di Margno, Giovannolo Denti di Taceno, Antonio Tencheno di Carsago, Ambrogio Del Geppa e Pietro Del Baso di Premana, Maffiolo Rognoni d'Introbbio, Jacopo Kirmentino di Pasturo, Pietro Merlo de Zucchi, Martino de Campo di Bajedo, Alberto detto Rosso di Barcone, Ruffino de Ruffoni di Cortabbio, Orazio de Ganassoni di Barsio, Francesco di Moggio, Ambrogio de Rusconi, Ambrogio de Tarelli, Giovanni de Forno, Giovanni Buzzoni di Valtorta. Mugiasca, come rivelasi in più luoghi dei medesimi statuti (1). Comprendeva pure le valli Averara e Taleggio, e se qui non vedonsi nominate è perchè formavano parte della pieve di Valsàssina e venivano sotto questa denominazione, e appunto venner nominati i Monti surriferiti perchè non facevano parte della pieve di Valsàssina propriamente detta. Ciò rilevasi in più luoghi, e specialmente ove si dice che ciascuna persona della pieve di Valsàssina e dei Monti predetti sia obbligato a correre alle grida ed al rumore ovunque sonasse nella pieve e nei Monti stessi (e). Ma che le valli Taleggio ed Averara fosser soggette alla Valsàssina ed al suo vicario scorgesi poi apertamente al cap. V, in cui vien data facoltà al vicario di Valsàssina di porre in sua vece UI) vicario o due in Taleggio, in Averara e nei predetti Monti, essendo troppo incomodo per quegli abitanti il portarsi ad Introbbio, residenza del vicario di Valsàssina (3). Venendo agli statuti, i primi capitoli risguardano il vicario, podestà o rettore, il quale doveva durare nell'officio sei mesi. Qualche tempo dopo si stabilì durasse un biennio. Entrando al regime doveva giurare in pieno consiglio di governar senza frode, di render conto delle entrate, di conservare i diritti della comunità, di render ragione a tutti, di far osservare le misure e le stadere, ed al finire dell'officio doveva lasciare alla comunità un pavese o veronese od una targa dipinta a sue spese. Il suo salario era quindici fiorini, soldi cinque e denari quattro per ogni mese, oltre i proventi alle cause civili e nelle sentenze ed altri. Era suo obbligo di far pubblicare i nomi dei banditi, di andar ogni mese dai venditori di pane per esaminare se era di giusto peso, bello e ben cotto, e così pure dai venditori di vino, di far osservare le feste. Il vicario stesso ed i suoi delegati in Taleggio ed Averara, avevano la facoltà di nominar sei uomini, i quali dovevano andar nei paesi a pacificar le liti a spese della comunità. Colui che commetteva qualche delitto e non compariva a giustificarsi dopo quindici giorni del prefissogli, era scritto nel libro dei banditi e si teneva per confesso. Nelle pene per delitti vi erano molte distinzioni. A. modo di esempio, chi bestemmiava Dio e la Madonna era condannato in cinquanta soldi (1) Infrascripta sunt Valuta, et ordinamenta communitatis Vallissaxinae, ét Montium. Varennae, Exini, Derrij, et Mugiaschae, pag. 1.- vicarlus positus in Vallesaocina, et Montibus Varennae, Exini, DervU et Atugiaschae etc., Cap. I, ed altrove. (2) Cap CXXV. (5) Nem statuerunt et ordinaverunt quod vicarlus, seu Rector dictae Valli& et MMitium possit, et teneatur, quando cibi videbitur, povere unum vicariuni vel dues de hominibus Talegii in Talegium, et simititer twurn nel cluos de hominibus Averariae in Averariam, et etiam in Montibus praedictis, cum beneplacito et licentia praerati Illustri Domini Nostri, qui Vicarii de causis pecuniarlis eorun in Talegio, et Averara, et in Montibus, tape., et cognoscant, et etiam, cum cibi videbitur, renlovere, ti revocare, cum grave sit ipsis de Talegio, et Averara, et Montibus pro guolibet negotio coram ipso. Vicario comparere, et quod mina acta, et gesta per ipsos in civili ieulicio tantum valeant, ac si per-personam vicarii latta essent. Balbiani.-I FAMOSI UNTORI ECC. Disp. 13. ... sali in stanza a visitare il poeta, a cui aveano pagato il sonetto con una schioppettata.

Cap. XI, pag. 217. terzoli, e chi bestemmiava i santi solamente in soldi quaranta. Chi augurava a sè il vermo cane era multato in soldi cinque, e chi diceva ad altri parole ingiuriose in soldi venti. Se le ingiurie erano profferte dinanzi al vicario la pena era doppia. Peggio poi stavano i ladri, poiché chi rubava dieci soldi era multato in soldi cento, dai soldi dieci ai venti in lire quindici, dai venti soldi ai quaranta, in lire venti, dai soldi quaranta ai cento in lire venticinque, ed in ogni caso era tenuto all'ammenda del doppio valore della cosa rubata; e se non pagava entro dieci giorni era punito nella persona a giudizio del vicario, dei sindaci e del consiglio generale. Chi poi rubava dai cento soldi alle dieci lire, veniva multato in lire quaranta, e non pagando entro quindici giorni doveva perdere un occhio; dalle lire dieci alle venticinque in lire cento, e non pagando entro un mese doveva perdere la mano destra; dalle lire venticinque alle cinquanta in lire duecento, e non pagando entro il suddetto termine doveva perdere la mano destra e l'occhio destro; dalle lire cinquanta in avanti, e chi era recidivo la terza volta veniva appeso alle forche. Nelle stesse pene incorreva chi occultava e comperava cose rubate. I parenti fino al quarto grado eran tenuti a soddisfar l'importo del furto in difetto del ladro, ed in difetto dei parenti il comune. Gli accennati statuti di Taleggio ed Averara, oltre la perdita dell'occhio e della mano, prescrivevano anche quella di un piede, e per le donne invece delle citate era il taglio del naso. Similmente chi percuoteva o feriva era punito con multa di una somma in denaro secondo che facevasi o non si faceva sangue, se in faccia o in altre parti, se con spada o con altro, se di notte o di giorno, se alla presenza del vicario o no. Era proibito ogni sorta di giuoco sotto pena di lire dieci pel giuocatore e lire cinque per lo spettatore. Se il giuoco succedeva di notte era duplicata la pena, e così pure se nelle chiese o nei cimiteri. Negli statuti di Valsassina sono nominati i giuochi delle bizzozere e dei che non so in che consistessero, ma sembra che fossero di azzardo, e simili a quello della zara ricordato dallo statuto di Taleggio, che si faceva con tre dadi ed era molto risicoso (1). Vietata era pure la delazione delle armi ad eccezione di un coltello non più lungo di una spanna compreso il manico, I mercanti che escivano dai confini potevan però con licenza del vicario portar spada o coltello. Non si poteva ricevere in casa chi avesse armi. Il falsario di monete e chi prestava aiuto veniva abbruciato vivo. La stessa morte incontrava l'incendiario quando pel suo fatto tosse

« La Corte è simile alla zara Dove chi sta a vedere ha più diletto. E chi vi giuoca men quel più v' impara ». ALLEGRI, Rime. (1) morto qualcuno, ed altrimenti era punito collo sborso di una somma e nell'amputazione di una mano. Chi avesse colpa di un incendio per mala custodia era castigato in denaro. Se alcuno poi appiccava il fuoco ad una casa con rumore e moltitudine era punito col taglio della testa. Chi forzava una donna, consumando l'atto, era condannato nel taglio della testa e nella perdita di metà dei suoi beni, la quale perveniva in parti eguali al comune ed alla donna violata, restando l'altra metà a chi succederebbe ab intestato; se però non aveva consumato l'atto era multato in sole lire venticinque, e se la donna era maritata, o figlia, o sorella, o nipote in lire centocinquanta. Se la donna era consenziente ciascuno doveva pagare lire cento. Se poi la donna violentata era disonesta, dovevasi pagare solamente lire dieci. Il giudizio su ciò era riservato all'arbitrio del vicario o del consiglio. La moglie o parente violata doveva essere notificata entro otto giorni, altrimenti non si riteneva per violata. La moglie adultera, tanto separata o no dal marito, perdeva la dote. Di notte non si poteva entrare in casa altrui se non si chiamava e si aveva risposta. Era vietato far correre cavalli e muli sotto la multa di cinque soldi ; dar ricetto, aiuto ai condannati e banditi sotto la pena di pagar la condanna. Ogni comune e uomo, dietro ordine del vicario e dei sindaci od al suono delle campane, era obbligato di prendere o mettere in fuga i banditi, i ribelli del principe e della valle, e di seguire il vicario ed i sindaci, se d' uopo era, in quelle circostanze. Il delitto di omicidio era punito col taglio della testa. Chi testificava il falso o scientemente produceva falsi testimoni era punito col taglio della lingua. Gli statuti di Taleggio ed Averara facevano distinzioni anche qui, e le pene consistevano in multe di danaro ed in difetto in un bollo di ferro rovente sul viso, nel taglio della lingua e nell'esser bruciato vivo a norma dei casi. I1 notaio che avesse fatte scritture false, e chi le produceva, era punito col taglio della mano destra. Egualmente era punito il notaio che avesse arbitrariamente inscritto nel libro dei bandi o cancellatovi alcuno, ed era inoltre privato dell'officio del tabellionato e marcato di perpetua infamia, essendo il vicario entro un mese obbligato a far dipingere il ritratto col nome e cognome del notaio sulle pareti del palazzo del comune in Introbbio. Era vietato tener carceri private ad eccezione del padre pel figlio, pel nipote o pel parente stolto (parentern stultum). Era permesso al padre il percuotere il figlio, al marito la moglie disonesta, al maestro gli scolari, al fratello maggiore il minore, al padrone il bifolco, ma sempre senza crudeltà; il concubinario poteva aspramente percutere la sua concubina purchè non le facesse sangue, nè le rompesse le ossa. Il marito non poteva lasciar alla moglie più di cinquanta lire e gli alimenti. Nel caso però che fosse morto senza figli, ascendenti o collaterali fino al secondo grado poteva lasciarla erede della metà sostanza. A diciotto anni si diveniva maggiorenni, la prescrizione era di trent'anni pei privati; illimitata pei comuni e per le chiese. Le strade eran mantenute dai comuni. Veniva da esse levata la neve quando eccedeva l'altezza di un braccio e due volte all'anno venivan tagliate a filo le siepi fiancheggianti le medesime. Il vicario nell'aprile e nell'ottobre di ogni anno andava a collaudarle. Il vicario od officiali suoi non potevano fare alcuna spesa che sorpassasse soldi quaranta di terzoli senza l'assenso del consiglio. Le misure, le stadere,i panni, i drappi dovevan esser bollati con marche della comunità. Le feste da celebrare erano più di sessanta non computate le domeniche. Gli avvocati e procuratori dovevan esser nativi della Valsàssina e dei monti. Mancando gli statuti si ricorreva al diritto comune. Il clero aveva un proprio giusdicente o vicario eletto dall'arcivescovo che risiedeva a Primaluna. La valle ed i monti suddetti erano divisi in quattro squadre denominate di Cugnolo, di Mezzo, del Consiglio e dei Monti. Ciascuna eleggeva sei o almeno quattro consiglieri, i quali dovevano intervenire ogni semestre al consiglio generale, e tutte le volte che fossero chiamati dal vicario o suo notaio. Radunato il consiglio, il vicario o il consigliere che voleva proporre od opporre doveva alzarsi e star in piedi. Le deliberazioni del consiglio avevano forza di legge. Vi erano poi due canepari, che esigevano le imposte e le condanne, e due procuratori o sindaci che difendevan le ragioni della comunità. Altri capitoli finalmente risguardavano i notai, gli avvocati e gli ambasciatori. Io avrei voluto estendermi alquanto sul codice delle leggi municipali, siccome quelle che ci danno a conoscere la condizione dei tempi, e forniscono materia a molte utili considerazioni, ma per amor di brevità e per non tediare di troppo chi non cerca che i fatti, ne lascio la cura alla perspicacia dei lettori. Nulladimanco farò osservare che piena doveva essere la libertà della valle vedendosi riservati molti dei diritti spettanti alla sola sovranità, come le condanne, le confische, le multe, il bollo delle misure e delle stadere coll'impronta del comune, le taglie ed imposizioni ordinate dal consiglio od approvate ed altri giurisdizionali diritti, il cui esercizio forma un ramo delle rendite regie. Se poi da altre di quelle,forme governative la moderna filosofia rifugge, giovarono ai popoli di quel tempo, e se troppo acerbe sono le pene corporali in esse stabilite dobbiamo forse a questo rigore il candore dei costumi, onde a dritto sono lodati i Valsassinesi, e quella sicurezza pubblica che fa caro il soggiorno fra loro. Arrivato ad Introbbio, la capitale, come già dissimo, della Valsàssina, l'Arrigoni si diresse al palazzo del comune, licenziando con un gesto i due bravi, i quali si cacciarono per entro una taverna ad aspettare i nuovi ordini del padrone. Il quale, entrato nel palazzo chiese del podestà, diede ad un usciere il suo nome, e aspettò in una sala, dove solevasi tenere le solenni radunante de'consiglieri della valle. Vasta, bene areata, certi fogli, incollati sulle mura, le davano l'aspetto più d'una bottega di cartolaio, che d'aula d'una comunità; e quei fogli o erano grade delle più famose, o i ritratti in fila dei governatori, che avevan quelle firmato. L'Arrigoni, fermatosi in mezzo la sala,levò involontariamente gli occhi a contemplare quei ceffi, che pareva dicessero: « Siam noi che comandiamo! » In capo della fila , col cipiglio d'uom d'arme severo e spiacente a tutti, stava Anton de Leyva, a cui veniva di fianco un cardinale napoletano, Marino Caracciolo suo successore. Per terzo, don Alonso d'Avalo d'Aquino , marchese del Vasto, e a a fargli un po' d'epitaffio una mano aveva scritto di sotto colla penna, che, fulmini di sfoderate spade non ebbero mai ardire nel suo governo d'intorbidare il sereno d'una sospirata pace,posciachè da solchi di Milano sradicò i gigli piantando in quelli le palme e gli allori. Però l'inchiostro ingiallito mostrava chiaramente che quelle lodi non erano cascate dal sacco cortigiano del podestà , col quale stiamo per far conoscenza. Succedeva a questa perla un tale che al posto del nome aveva il titolo, non poco onorifico. di Secondo Fondatore di Milano: e doveva essere don Ferrante Gonzaga (1), che fabbricò le mura che tuttavia la cingono e ingombrano, che ai ponti levatoi sul canale naviglio ne sostituì di stabili, che demolì la chiesa di Santa Tecla per aggrandire la piazza del Duomo, che tolse il fetore e la vista deforme col coprire le chiaviche, in cui calano le immondezze della città. Belle opere vi par , lettori , e buoni anche gli appalti e così netti, che gli intraprenditori regalarongli la villa Simonetta, famosa per l'eco. Poi il ritratto del duca d'Alba (2), col titolo di pio e cattolico, cioè spopolatore del Portogallo, e boia delle Fiandre ; e dopo il guerriero coperto di sangue, un uom di santa Madre Chiesa coperto di porpora. E dopo il cardinal Madruzzo (3), don Giovanni de Figueroa (4). Solo sopra una parete, come fosse uomo che scottasse come il fuoco, appariva un tale detto Estirpator dell'eretica pro pravitd, perchè aveva avuto (1) 1547. (2) 1555. (3) 1556. (4) 1557. il pio desiderio d'impiantare in Milano, al posto dell'inquisizione romana, la spagnuola tanto spaventosa (1). Dopo questo duca di Sessa (2), veniva a destra, in altra parete tra molte gride, che facevan loro da lenzuoli funerari, don Gabriele della Queva (3), il duca d'Albuquerque (4), don Alvaro di Sande (5), e don Luigi di Requesens (6), che per un governatore di Sua Maestà, Cattolica aveva un brutto epiteto sotto al suo nome: Scomunicato. Il poveraccio aveva voluto impacciarsi d'affari ecclesiastici, che, secondo l'arcivescovo, non gli toccavano. Succedeva don Antonio di Guzman, marchese di Ayamonte (7), che sedeva a tavola come un Baldassare. Di fatti contano le cronache, che cenando un di co' figli suoi, trovavasi a caso sotto il porticato del palazzo un povero contadino. Ed ecco vede sbucare dalla dispensa quattro paggi in magnifiche livree, scoverto il capo, colle torce alla mano, che toglievansi un altro, anche lui senza cappello, e con in mano, come portasse proprio una reliquia, una coppa d'argento dorata. Con tanta cerimonia si recava da bere ai grandi di Spagna; ma l'ingenuo uomo della campagna credendo recassero il SS. Viatico, si pose in ginocchio in atto di adorazione, e si battè il petto. Ma vedi fortuna piovuta sulla testa di Sua Eccellenza, che invece di capitar male come il Baldassare della Bibbia quando fu chiamato dal suo destino a tragittarsi in cielo, ebbe in sorte che gli sei'vi di Fatinuro san Carlo (8). Venivano poi don Sancio Padilla (9), governatore del castello di Milano, e il duca di Terranova (10), sotto il cui ceffo era stato scritto Politicone, vale a dire imbroglione solenne. Sotto al contestabile di Castiglia don Ferdinando Velasco (11) era scritto Inimico del Lotto, cui esso diffatti proibì (12), poichè oltre l'incentivo che porge ai poveri e vogliosa di far fortuna, con la speranza del guadagno, di consumare quanto tengono per far danari d'arrischiare alla sorte d'esso giuoco, è cagione che diversi ciecamente cadino in sortilegi ed osservazioni superstiziose de' sogni, che illaqueano le coscienze con grave e scandalosa offesa di Dio. (1) Cosi la chiama nientemeno che un cardinale, il Pallavicino, st. del conc. di Trento, 22. 8. (2) 1558. (3) 1564. (4) 1567. (5) 1571. (6) 1572. (7) 1574. (8) Torre : Ritratto di Milano. (9) 1580. (10) 1583. (11) 1593. (12) 1676. Sotto a don Pietro Enrico de Azevedo conte di Fuentes (1) era scritto Grande amico di Marte, vale a dire cervel torbido, che non pensò ad altro che a suscitare nemici a quel suo gran nemico Enrico IV. E c'era pure la data della sua morte (1) tra le sante consolazioni del cardinale Federico. Seguivano Mendozza marchese della Hynoiosa (2), creatura del duca di Lerma , nome illustre che però ai nemici non fece mai nè caldo, nè freddo; e don Pedro da Toledo (4), famoso anche questo, austero, marziale, ma in guerra più coraggioso che abile; subito nel comandare fiacco nel far eseguire, e sotto vi era notato come egli fosse stato Congiuratore contro Venezia. Giovine d' età, ma volpe vecchia per politica, appariva il duca di Feria (5), nè mancavagli il suo titolo di gloria di suggeritore del Sacro Macello della Valtellina. Ultimo veniva il ritratto di don Gonzolo Cordova (6), felicemente regnante, come s'usava fin d'allora a dire. Quando Dio volle, e l'Arrigoni era ormai impaziente d'oltre aspettare, venne il podestà, e fu una ressa di complimenti l'un l'altro. Venuti subito sullo uopo dell'onore reciproco d'una tal visita, l'Arrigoni narrò la disgrazia toccatagli, e come era accorso a informarne la giustizia delle valle, perché procedesse ad indagini e allo arresto del colpevole. Ma quando si venne alla persona su cui pesava il sospetto della grave reità di omicidio, l'Arrigoni si agitò come un energumeno, e dalla bocca gli usci fuori il nome dei Manzoni di Barsio. Il podestà , che aveva abbastanza giudizio di voler stare in pace con tutti i più potenti della valle, aggrottò le ciglia, e strinse le labbra, coll'aria di chi prima di credere desidera avere prove più evidenti, più precise, più sicure. Ma l'Arrigonì cominciò a tessere una storia di torti ricevuti ogni anno, ogni mese, sto per dire ogni settimana, da quei prepotenti del casato Manzoni, che il podestà fu costretto a stendere un rapporto circostanziato , che inviò al pretore , perché lui, che aveva i birri a sua disposizione, vedesse se questo era il caso di praticare un arresto. « Io non ho più sicura la vita », gridava l'Arrigoni coll'aria d'uno che si raccomanda ad un più forte di lui; « se la va di questo passo io dovrò munire il mio palazzo come un castello, perché quei Guelfi hanno il sangue invelenito contro il mio nome ».

(1) 1601. (2) 1610. (3) 1612. (4) 1610. (5) 1618 (6) 1627. «Non l'oseranno! » lo rassicurò il podestà, sfogliazzando un fascicolo di gride. «E se l'osassero? » domandò l'altro. «Guai ad essi! » esclamò. «A buon conto », mutò metro di voce l'Arrigoni, « se io scrivessi al capitano di giustizia , che sapete quant'era amico del mio povero fratello... » « Informatelo che avete informato me, e che io agisco colla legge alla mano... » e quasi stracciava il foglio d'una grida, « ed ai vostri saluti unite i miei umili rispetti... » « Oh! lasciate fare a me, gli vo' scrivere dentro oggi stesso, e informarlo appuntino di tutto... » « E dirgli », raccomandava il podestà, « che noi, da nostra parte ci siamo adoperati a veder di porre le mani sul reo». Dopo altre raccomandazioni da una parte e dall'altra, quelle due diverse autorità si lasciarono; e mentre l'Arrigoni, con in coda i suoi bravi, avviavasi a Cremeno, il podestà cancellava e ricancellava, un foglio, da cui doveva scaturire la denunzia del fatto criminoso. Lasciamo quieto il podestà a sgorbiar carta a danno dei Manzoni di Barsio, che non ebbero la fortuna di piacere al suo amico Arrigoni, e seguiamo costui. Arrivato a un tiro di carabina da casa sua, vide un uomo venirgli incontro di tutta corsa, e gli parve un suo bravo. «Che è capitato? » domandò agitato, spaventato che fosse accaduto qualche nuova disgrazia. «Hanno data una schioppettata a don Paolo Emilio Parlaschino », rispose il bravo. a Cristo! e chi è stato? » « Lo sa il diavolo ». Quando furono quasi sulla porta di casa, vi trovarono il segrestano con in mano un pugnale ed una carta. «Eccellentissimo signore , disse all'Arrigoni, « nel tornare al cimitero per piantarvi la croce ho trovato piantato questo nel luogo, dov' stato sepolto don Silvio... » L'Arrigoni riconobbe tosto il pugnale ed il foglio, e indovinò subito da che mano era partito il colpo contro il Parlaschino. S'affrettò a casa, e sali in istanza a visitare il poeta, a cui avevano pagato il sonetto con una schioppettata. CAPITOLO XII

La Carestia.

« Era quello il secondo anno di scarso raccolto, ecc ». A. Manzoni: i promessi sposi.

Le frequenti carestie del secolo in cui siamo col nostro racconto, più che frutto delle intemperie erano tremendi ed inevitabili castighi della natura contro le cattive provvidenze economiche. Abbiamo già veduto di qual danno riuscissero all'agricoltura i maggioraschi ed i fedecommessi. Un'infinità inoltre di campi giaceva in mano a preti e frati e confraternite, che pensavano a cavarne quel po che bastasse loro, senza darsi briga del farli meglio fruttare. Cosi poi erano esagerati i censi, che molti, anziché pagarli, abbandonavano i campi ; onde fu fatta libertà. ai Comuni di andar al possesso dei fondi deserti. Rimedio cotesto opportuno come il suonare le campane pei temporali : giacché altra causa di scadimento erano appunto i troppi beni dei Comuni, beni cioè, che ciascuno sperpera, nissuno coltiva. I terreni ancora de' ribelli e dei banditi doveano, per uno strano consiglio, starsene sodi. Le truppe poi accantonate nella campagna, e quelle che tratto tratto vi transitavano colla disciplina che allora vigeva portavan via quel poco che rimaneva. Aggiungansi le caccie, le quali si faceano, principalmente quelle dell'astore, in grosse cavalcate, con numeroso seguito di cani e servi: e quando i signori, che nel servile orgoglio loro non curavano punto i lamenti dei poveri, spingessero tale corteo in un campo coltivato, ben potete immaginare che restava, non che alleggerita, ma risparmiata del tutto ai contadini la fatica del mietere e vendemmiare. Su quel poi che si raccoglieva quanti vincoli, grida uno storico nostro (1), quante ordinanze, quante tariffe e visite! Nè mai meglio si vide quanto danno venga e al popolo e al principato qualora il governo s'impacci negli affari economici più in là che col procurare sicurezza. Poiché quei governanti faceano come certe madri d'anni fa, che crecleano rendere dritti e sani i bambini e le fanciulle collo stringerli prima nelle fasce, poi negl'imbusti. Che se tu sei avvezzo a pregiare il legislatore che afferra delle cose quei sommi capi, che seco trascinano le minute; dà leggi solo dove quando e come lo richiede la reale e indeclinabile necessità delle cose, commette a vincolo il minor numero possibile d'azioni e di diritti, non potrai non compiangere o deridere la puerile smania di quel tempo di éstender l'impero della legge dovunque s'estende l'azione del commercio e delle arti, seguendo i deliri d'una fittizia necessità. Ivi le arti, i mestieri disgiunti un dall'altro, stabilito il prezzo de' salari e quello delle merci, proibiti certi lavori, incapacciati cert'altri : vincolata l'estrazione d'alcune derrate. Ivi, non che moltiplicare i venditori e scemarle distanze, se ne voleano pochi e collocati in certi luoghi: i mugnai non ardiscano di scaicar i muli nelle strade, nè seder sui sacchi: facciano bollare ciascun mulo: non ritengano in casa crivello o buratto (2): gli osti non comprino vino che quindici miglia lungi da Milano (3), nè se ne porti fuor di Stato senza consenso del governatore (4) : nè si venda sui canti delle vie, ma solo in piazza del duomo e in broletto (5): e i facchini e brentadori non osino, durante i contratti, nè accennare, nè far gesti, nè riemer danaro per onoranza e malosso, né avvicinarsi alle bonze per dodici braccia. Non si possa tener pesci, nè pollastri, capponi, pollini, anitre, pavari od altra pollaria domestica, sul ghiaccio: perché, sebben paia che si conservino, ad ogni modo perdono della bontà loro (8): tanto premeva alle eccellenze di quei governatori che si mangiasse saporito! Le quali pure, quanto era da loro, vietavano di fabbricare o introdurre ostie per la messa, fuorché a certe monache (9), ordinavano che i ciabattini alle scarpe fruste potessero mettere soltanto la suola ed

(1) C. CANTÙ: Sulla Storia Lombarda del secolo 1171, Ragionamenti. (2) stat. Vic., c. 94, 37,38. (3) Grida S ottobre 1604. (4) Grida 10 luglio 1610. (5) Grida 20 agosto 1621. (6) Grida 3 giugno 162. (7) Grida 10 giugno 1648. Il commercio delle Ostie, nota Cesare Canti, non era piccola cosa, giacchè solo alla Madonna di San Celso in molti giorni si dicevano cento messe, e si consumavano l'anno 90,000 particole. Oggidi se ne consumano 70,000 in quella chiesa, benché non sia parrocchia. A Sant'Eustorgio, per un confronto, se ne consumano 72,000. Vi paiono troppo futili queste notizie? il calcagno di corame nuovo, ed agli stivali la tomera e suole nuove (1); vietavano di comprare, incaparrare, pigliar in pagamento, barattare o ven- dere alcuna quantità ancor che minima di noci verdi in piante da far garioli o in derla (2), e alli postari di odoperare il palpero (3) grosso, nè darne maggior quantità ai compratori, di quella che farci bisogno per la quantità della roba che si metterà dentro e di cattar lumaghe al tempo che son discoverte. Voi se pur non siete annoiati, ridete: già siete certi che nulla o poco di ciò veniva eseguito, solito esito delle ordinazioni importune: onde lo sprezzo delle inutili e impotenti forme rendeva audaci i trasgressori a ridersi anche delle leggi importanti. Or pensate, seguita Cesare Cantù, che decreti dovessero piovere in proposito più rilevante, com'è quello del grano! Obbligati i proprietai a notificar il ricolto (stando a quelle notificazioni, non sarebbesi mai mietuto tanto da viver sei mesi): proibito il farne prezzo sinchè non fossa segato e battuto: ci andava la vita a portarne fuori Stato: ostretti i proprietari ad introdurne in città una metà, quasichè i cittadini fossero altrettanti che i foresi: empire ogni anno con puerile previdenza i granai del Broletto a spese pubbliche: il frumento comparso una volta sul mercato, non se ne potesse più partire se non venduto, il che obbligava a finte vendite: i fornai non negoziassero di grano: andasser almeno dodici miglia di là da Milano a provvederne, nè più di quindici some per volta: solo in Broletto si vendessero farine: i conduttori delle biade non andassero più di sei insieme: mille scudi di pena al fornaio che vendesse pane ad un possidente; regolamenti tutti che crescendo le angherie, intisichivano il traffico. Ai quali se aggiungete gli abusi del vendere a grosso mercato la licenza di cuocer pane e quella di farlo calante un'oncia del giusto peso: del pretender in certi paesi i governatori o i comandanti alle piazze di far soli commercio dei frumenti vi farà meraviglia che le carestie non fossero continue. Nell'ignoranza assoluta della scienza economica, non qui soltanto, ma da per tutto allora stavasi in continuo sgomento che mancasse il pane, e quelle società di commercio che oggi i governi buoni favoriscono con tanta premura come elementi poderosissimi, non solo di ricchezza, ma di moralità e d'incivilimento, allora si guardavano come congiure contro la piccola sicurtà, e i governanti erano tutt'occhi per impedire che non facessero monopolio, escludessero questa, introducessero quella merce; e la sbirraglia e la forza e i processi risparmiati ai ladroni in frustagno e in seta, versavansi addosso alla pacifica industria. (1) Grida aprile 1621. (2) Cioè da far garigli, o col mallo. Grida 30 agosto 1821. 43) La carta. Grida novembre 1622. L'uomo perseguitato, prosegue sempre lo stesso storico, è costretto a ricorrere a sotterfugi, a finzioni dove la lealtà, non vale, a guadagni illeciti ove gli onesti sono turbati; e così, come sempre, gli insensati ordini generavano l'immoralità e il delitto. Che più? lo comandavano; e per reprimere il contrabbando, che è l'inevitabile rimedio delle assurde leggi di finanza, « Sua eccellenza il Governatore promette facoltà di poter liberare un bandito per qualsivoglia causa, ancora capitale, purchè sia gratiabile, a chi prenderà e consignerà un sfrosatore (1), ovvero lo ammazzerà in fragranti, caso che si voglia difendere, cioè trovandolo a condurre grano fuori dello Stato, mentre non sia meno di stara quattro ». Se non che la legge stessa ci assicura pomposamente, che non erano osservati questi ordini: che nè le pene, nè le provvisioni servono a frenare lo sfroso (2), che i commissarii se l'intendono coi contrabbandieri: onde pene fuor di misura contro costoro: che sarà tenuto per tale chi venga colto con boricchi (3) e sacchi benché vuoti verso i confini (4). In quel caro del 1628 e 29 le cui cause e gli effetti sono cosi al vivo dipinti da Manzoni, il frumento a Milano si comprava L. 80; L 50 la segale; L. 40 il miglio ogni moggio. Quel che è strano, la legge allargò allora ai fornai la podestà del far pane, massime di mistura ; sicchè permetteva allora per ovviare la carestia, quel che per lo stesso fine aveva prima vietato. Agli ammassatori ed ai monopolisti, parole che anche oggidi fanno paura al volgo, come i morti ai fanciulli, davasi allora la colpa della scarsità: e asserisce il Somaglia, che parecchi negarono il vitto ai poveri che tormentati dalla fame morivano sopra le strade: ed io vidi molti per tal cagione in diverse parti di questa città. Milano ne raccolse ben 14,000 nel Lazzaretto e nell'ospedale della Stella: e spese 50,000 scudi a mantenerli: oltre scudi 30,000 dati ai panattieri in compenso del pane venduto a miglior mercato (5). « Affamarono a morte, narra uno storico di quel tempo, prima i poveri campagnoli, poi meglio stanti: indi il lusso e i vizi cittadini furono involti nella pena stessa: i prepotenti, già terribili un dì per oltraggioso codazzo di bravi, ora soli; mogi mogi, coll'orecchie basse, quasi chiedendo pace col volto, servi poc'anzi profumati di unguenti,

(1) Contrabbandiere. Grida del 18 gennaio 1601. (2) Il contrabbando. (3) Somarelli. (4) Vedi le gride ogni tratto. « Egli è dimostrato da tutte le storie che ie fami furono ivi sempre più frequenti, e desolarono particolarmente que' paesi, dove maggiori furono i ,regolamenti, le discipline, le pene e i legami imposti all'uscita dei grani: e a confusione del nostro orgoglio, le cure e le provvidenze prese per garantir gli Stati dalle carestie, generano il più delle volte un effetto contrario ». Menegotti, (5) SOMAGLIA Alloggiamento. ministri d'arcani uffizi, or vagavano per città tendendo la mano ad occattare per Dio. Peggio furono puniti i più innocenti, villani, artefici, fabbri e quei che già prima mendicavano. Gli esercizi delle arti, ove tanti trovarono di che vivere e bene, si chiusero poco a poco, o se rimanevano aperti davano immagine di un campo orrido e sterilito. Il popolo condannato all'ozio, languiva di fame: i cittadini, già fatti pingui a splendidi banchetti, ora tiravano i remi in barca: andavano confusi insieme e quei che imbandivano larghe mense e quei che viveano del rilievo di esse. In figura di cadaveri vagolavano ch'era una miseria il vederli : nè la morte, per stragi che facesse, li diminuiva: chè quanti più ne perivano, tanto numerosa turba accorreva, dalle campagne non solo e dai monti, ma dalle città e dalle nazioni forestiere, sperando pane a Milano; ed o giunti colà con una cera di stupore iracondo mostravano di sentire vivo il duolo di veder deluse le loro speranze, o lungo il cammino, vinta la lena dell'inedia, cadevano esanimati. Nè solo si tornò ai pascoli della primitiva selvatichezza, ma peggio che di bestie erano gli alimenti. Chi mangiava scorze di alberi; procurandosi cosi una morte anticipata: i contadini cadeano sui solchi, tante volte bagnati di lor sudore; chi fuggiva alla città dava di sè così lacrimabile spettacolo, che i cittadini per non vederli abbandonavano la patria. Madri derelitte co' fanciulli, mariti colla squallida prole e colla nuda consorte, case intere di contadini strascinavano gli affievoliti corpi; e se era loro bastata la forza di giungere in città, sdraiati sul nudo pavimento, sotto le grondaie, davano un tristo lezzo ed un' immagine di varia morte, e dì e notte lunghi ululati, tanto più amari a sentirsi, quanto che pareano un'accusa fatta a ciascuno perchè non soccorresse a tanto patire. Più mettevono pietà gli agricoltori, quei che tanto aveano sudato per far fruttare l'ingrata terra, or resi incapaci a lavorare, macilenti, gli occhi infossati, colla pelle informata alle ossa, le braccia e le gambe disseccate, erano un monumento di pubblica vergogna ». Alle scene dell'ammutinamento descritto da Manzoni, dice il Cantù, non ho da aggiungere se non che le sono cosi vere, che s'io trascrivessi il Ripamonti o il Tadini (1) non farei che ripetere lui , mutato ordine e peggiorato modo di raccontare. Era un sabbato , vigilia del san Martino, tempo in cui un nugolo di paesani traeva a Milano menando il ricolto ed i vini ai padroni: ciò che soleva gli altri anni esser una festa, quello fece peggiore il tumulto.

(1) RIPAMONTI nella storia patria, TADINI nel giornale della peste. I due suddetti ci vengono descrivendo appuntino il popolo che cominciò a far capannelli: poi il minaccioso frastuono attorno al pristino o forno delle stanze, vicino a Santa Radegonda; le difese fattene quando li padroni e ministri di quello, vedendo non essersi a loro rimedio, ricorsero anch'essi alla violenza, et saliti nelli luoghi superiori, col gettare anch'essi contra deta plebe sassi et pietre, irritarono quella in tal maniera (principalmente per essere morti duoi figliuoli con le percosse de sassi et pietre) che fatta maggior violenza , entrò rompendo le porte ; il saccheggio datovi con una gioia furente, sì che alcuni per non aver sacchi nè altro ove potessero raccogliere della farina , si ridussero a spogliarsi delli vestiti, e questi riempire, e alcune donne alzare le vesti quantunque una sola avessero ed in quelle riporla (1): poi gli arnesi bruciati in piazza del duomo, indi la calca al Cordusio contro la casa del vicario della Provvisione (2), i sassi , le scale , l'izza di quel malvissuto vecchiardo, che sciorinando corda e martello e chiodi, schiamazzava di voler appiccare il vicario sulla sua porta: e l'accorrere di Ferrer, gran cancelliere, che sosteneva le veci del Gonzalvo, governatore, occupato sotto Casale: e i parlari che faceva mezzo italiano, mezzo spagnuolo, versandosi dal cocchio ora a destra ora a manca, e promettendo l'abbondanza: quella truppa di soldati più timorosa che tremenda (3), e i vanti del popolaccio che ne' trivi e nelle bettole gridava: Viva la nostra faccia, per avere trovato modo di far cuccagna ed ottener basso mercato al vivere (4): e i monsignori del duomo che vanno a liberare quel forno (5) in Cordusio; e per allora le promesse, e poi, dopo quietate le cose piantate delle forche, e incarcerata od uccisa la plebe da quegli stessi, che coi loro insani provvedimenti l'aveano indotta alla rivolta, da quegli che l'aveano di sorrisi e di speranze confortata in uno di quei giorni di giustizia popolare IN CUI LE CAPPE SI UMILIANO DINANZI AI FARSETTI. Esso Ripamonti, avverte sempre il Cantù, trovavasi là nel forte del subbuglio, ben lontano, dic'egli , dal credere che un dì avrebbe a raccontare quel fatto: ben più lontano, diciam noi, dal figurarsi che duecento anni dipoi, dovessero le sue pagine ispirar un tale ingegno a cavare delle follie de' passati , lezioni pei presenti, e mostrare per vivo esempio che, in fatto d'economia pubblica, non si erra impunemente,

(1)TADINI, pag. 7. (2) Il vicario era Lodovico Melzo, diverso da quel del nome stesso, famoso guerriero, morto poc'anzi avanti. Il nostro Melzo si era ingegnato assai, undici anni prima. col dottore Settala, per mandar alle fiamme una imputata d'avergli stregato il padre, e l'ottenne, e allora reo fu applaudito dal popolo, che allora voleva ammazzarlo innocente. (3) Acies timuerat magie quam terruerat (4) In angustiis tabernisque jactare quod annonae vilitatem ipsa sibi fecisset (5) Minor rispetto ai preti e al Sacramento mostrarono i Palermitani quando il 20 maggio l542, sollevatisi anch'essi per la fame, mandarono a male gli uni e l'altro, coi quali erasi creduto d'acquetarli. ..gli fu incontro una folla inginocchiatagli davanti in segno di venerazione Cap. XII carestie, sommosse popolari, delitti, difficoltà nell' esiger il tributo, impoverimento della Camera, vengono ad avvertire della via fallata. Anche la Valsàssina ebbe il flagello della fame, e cosi fiero che a Cremeno molti morirono. Celebre era stata quivi la carestia del 1570 , in cui il prezzo del frumento giunse ad uno scudo d'oro per staio; cosicché la poveraglia dovette pascersi qualche volta d'erbe e di radici. Una carestia era accaduta pure nel 1590, prodotta da una fiera tempesta , ed un' altra nel 1602 causata dai rigidi freddi e dalle nevi cadute negli inverni del 1600 e 1601, che impedirono la maturanza dei grani. Le accennate carestie, benché gravi, furono però leggiere in confronto di quella funestissima del 1628, la quale descriverò colle rozze, ma sincere parole di un contemporaneo valsassinese , a preferenza di quelle di altri scrittori, poiché meglio ci faranno conoscere la condizione del nostro paese. " Haec fuerunt initia doloris, ma un niente a comparatione di quanto è seguito di quasi continue rovine fino all'anno corrente 1628 infelicissimo et d'infausta et funesta memoria non solo per li crudeli aggravi impostici dalli agenti della Camera R. per l'eguaglianze generali del 1627, nelle quali a questa misera valle hanno dato debito di circa cento quindici mila lire computato certo resto che se gli doveva avanti detto anno, ma ancora per la crudel carestia del vivere in tutto questo ducato, ma particolarmente in queste parti, qual va perseverando già molti mesi sono costando il formento lire 54 il moggio, la segale lire 48, il miglio lire 38 , et essendo queste misere genti astrette a dover trovare ogni giorno danari da pagar soldati et altre grossissime taglie imposte oltre le sudette et in particolare havendosi da pagare di presente altre lire 25 mila per le taglie del corrente, quali ora si scodono con ogni rigore , nè trovandosi più un soldo da parte alcuna , nè sollevamento alcuno, sono ridotti a tanta miseria et calamità, che è una compassione a vederli, et il loro comune cibo da alcuni mesi in quà , è solo che herbe selvatiche, di modo che si vedono per li prati a modo di greggi le povere donne in ogni loco a cogliere ogni sorta d'esse herbe et quali cotte et la maggior parte senz'altro condimento scacciano avidamente l'insopportabil fame, sicché potranno dire essere tornata l'età dell'oro che

Cibum dabant herbae salubres, Potuni quoque lubricus amnis.

Ci provvedi Iddio (1) ». Ma Iddio ancora più penoso voleva rendere il suo castigo. Quindi


(1) Memoriali di Gio. Bracco Della Torre MS. i grani salirono a prezzi ancor maggiori, quindi avresti veduto madri, fanciulli e vecchi sdraiati per le piazze e per le vie mandar di e notte lunghi e fiochi lamenti, quinti altri macilenti, con occhi infossati e braccia disseccate vagolar per le case e pei crocicchi delle strade domandando con che prolungare la vita, quindi altri trascinarsi alla pianura e alla città, ma lungo il cammino o giunti in città cader di fame estinti. Oh! perché non era lì, come a Milano, a soccorrerli la carità del cardinale Federigo Borromeo; e tutti lo ricordavano per l'ultima volta ch'era venuto nella valle, dove gli fu incontro una folla a inginocchiarglisi davanti in segno di venerazione. CAPITOLO XIII

Politica e Guerra. « Ho inteso che a Milano correvano voci d'accomodamento ». A. Manzoni: I promessi sposi, c. V.

A un flagello, come quello della carestia, ne veniva in coda un altro, quello della guerra. Vediamo adesso, colle parole d'un autore di allora, donde nascesse la gara di mettere o soqquadro la Lombardia, già messa in fondo da disgrazie piovutole dal cielo o recatele dagli uomini. Giacche per cavar dalla tavola di Milano il chiodo francese che vi s'era fitto, li mal accorti principi italiani si servirono di quella zappa spagnuola, che talmente entrò nella tavola medesima, che con qualsivoglia sorte di tenaglie giammai non è più stato possibile cavarla fuora, li potentati tutti d'Europa e più particolarmente i principi italiani, che si avvidero che i Spagnuoli dopo la servitù di Milano apertamente aspiravano all'assoluto dominio di tutta Italia, a fine di assicurarsi quel rimanente di libertà che avanza in lei, convennero tra di loro, che ogni venticinque anni, con isquisitissima diligenza da personaggi a ciò deputati fosse misurata la catena che gli Spagnuoli avevano fabbricata per la servitù italiana. In queste parole del Boccalini, dice uno storico moderno, è tracciato il sistema della politica di que' di: gran cura nella Spagna di congiunger il suo Napoli col suo Milano, stendendosi su tutt' Italia; grande nei principotti italiani d'impedirla. E poichè la Spagna non avea re guerrieri, e i signori italiani non s'erano disusati affatto dall'armi; la Francia apriva cent'occhi per non lasciar crescere l'Austria; il papa era geloso di conservare il patrimonio di san Pietro; stavano ai confini spiando i Grigioni, la Savoia, la libera Venezia, perciò l'impresa non era cosi facile. E il sucitato autore, introduce la Francia a dire alla Spagna: Voglio bene, con quella libertà che è propria della mia natura, confidentemente dirvi che l'impresa di soggiogar tutta Italia non è negozio così piano, come veggo che voi vi siete dato a credere. Poiché quand'io ebbi li medesimi capricci, essendo a me riuscito perniciosissimo, credo che poco migliore lo proverete voi: perché con mie ruine grandissime mi sono chiarita, che gl' Italiani sono una razza d'uomini che sempre stanno con l'occhio aperto per escirvi di mano... .E sono gran mercadanti della loro servitù, la qual trafficano con lant'artifizii che con essersi soli posti indosso un paro di brachesse alla savigliana, forzano voi a credere che siano divenuti buoni Spagnuoli, e noi con un gran collare di Cambray, perfetti Francesi: ma quando poi altri vogliono venir al ristretto del negozio, mostrano più denti che non hanno cinquanta mazzi di seghe. Il supremo studio pertanto di quella leale politica era "lo spuntare questi denti; ed anzi che all'aperta, con lime sorde. Di qui i maneggi della pace, di qui i motivi delle molte guerre intraprese in quell'età senza giusta cagione, condotte senza gloria, terminate senza effetto. Perocchè da principio durò settant'anni una pace, sufficente a convincere come non basti alla prosperità d'una nazione il non aver guerra: poi all'entrare del secolo XVII misero in sospetto le brighe del conte di Fuentes; e i piccoli Stati italiani, sollecitati da Enrico IV di Francia, mostrando aperto il desiderio di cacciar oltre l'Alpi i dominatori, faceano prevedere uno scuotimento. Però la morte di quel buon re accadde opportuna agli Spagnuoli, sicché non si venne a rotta aperta. Standosi però sull'avviso di coglier ogni pretesto, si chiari la guerra nel 1614 per certe pretenzioni sul Monferrato, ma fu tosto sopita: nè quella rinovata dieci anni dipoi, è gran fatto memorabile. Ben essa con grave caso rinacque, e combattevasi nei tempi, in cui noi siamo col nostro racconto. Dei Gonzaga, signori antichi di Mantova e recenti del Monferrato si estinse la discendenza con Vincenzo II morto il 26 dicembre 1627. Carlo duca di Neveres in Francia, suo più prossimo parente, accorse per succedere al ducato di Mantova: mentre suo figlio impalmava Maria Gonzaga, che gli recava in dote il Monferrato: e cosi i Nevers s'imbandirono entrambi quei ghiotti bocconi. Ne seppe male al duca di Savoia, perché non era stato dimandato del suo voto, e perché ci vantava vecchie pretenzioni: alla Spagna che aveva la febbre di possedere tutta Italia e vi avea già fatto su conto, non andava a sangue d'avere per vicino un sì aperto fautore della Francia: 1' imperatore Ferdinando pretendeva come di un feudo imperiale , dover darne l'investitura, o più veramente voleva cogliere il destro di far uno smacco alla Francia, protettrice del Nevers. Indi battaglia di penne, poi guerra d'armi; infine il Gonzalo, con proclami ove si strombazzava mosso dal ben dei popoli, dal desiderio di liberarli dalla tirannia, ed altre si fatte cose che si ripetono spesso, e non sono credute mai, andò a piantare assedio con 8000 fanti, e 2500 cavalli sotto Casale, piazza per sè stessa forte, ma molto più per la cittadella, di sito molto grande e capace, fiancheggiata da sei baluardi, cinta da larghi e profondi fossi, e la quale, per essere di tutta pianta e con tutte le regole e termini delle moderne fortificazioni lavorata, era meritamente stimata piazza reale, e per comune opinione la più forte di quante in Italia, eccettuatane Palma nel Friuli, si trovassero... (1) Alla bontà del sito aggiungasi la costanza dei Monferrini e degli Italiani rifuggiti colà: e, osserva un contemporaneo a la fortezza di »Casale è quello scoglio fatale, al quale tante volte è naufragata la fortuna della Spagna. Quante volte v' ha urtato dentro, altrettante con la singolarità de' vituperii e infortunii de' Spagnuoli l' ha resa memorabile... Le campagne di Casale, destinate da don Gonzalo per campidogli de' suoi sognati trionfi, servirono di tomba per seppelirvi la riputazione del suo nome e la gloria dell'armi spagnuole ». I Francesi assicuratisi coll'aver stretta pace coll' Inghilterra, promettendo mari e monti di bene anch'essi (2) scesero dal Monginevra in aiuto, sicchè al Cordova fu rotta l'impresa. Allora a corregger i costui errori, chè chi non vince ha sempre torto, fu mandato lo Spinola, giacchà Vienna non avrebbe mai tollerato che un principe francese acquistasse quel dominio. Ben è vero che, l'interesse religioso per cui fingeasi combattere la guerra dei Trentenni avrebbe richiesto unione fra le potenze cattoliche, ma posponevasi alla politica, e si diceva: Andiamo a mostrar agli Italiani che c'è ancora un imperatore. Sono cent'anni che Roma fu saccheggiata, ed oggi  » sarà più ricca d'allora ». Così poco la religione avea parte in una guerra, che, in suo nome, movevasi alle idee liberali, che cominciavano a metter ali a più sublimi voli. Pertanto l'imperatore inviò, alla guida di Rambaldo Collalto, quei terribili lanzichenecchi (3), che incussero una si gran paura a don Abbondio, e regalarono la peste all'Italia. L'arte della guerra subiva in quel tempo una grande rivoluzione. Gli eserciti che combattevano in Germania erano reclutati da una nuova specie di capitani di ventura, forniti dai principi di danaro per levare soldati, a men facili a cangiar padrone, perchè avendo essi pure sposato un partito religioso, non scendevano all'ultima viltà di merce-

(1) CAPRIATA, Lib. X. (2) Parlando de' Francesi il RIPAMONTI dice, che è innato in essi il desiderio di possedere Italia : che il solito loro pretesto per passar le Alpi e di venire a darci la libertà: che però non si dee aver fede alle promesse de' Francesi, gente sempre inquieta che vuol inquietare altrui. Hist. patria, p, 127. (3) Lanz-Ehecht, soldato dalla lancia: o Land.-Harelit, soldato paesano. nari. Il mondo feudale non potea valere che al più per una leva in massa, onde del soldato erasi fatto un mestier nuovo, nel quale aveano introdotto certi gradi, entrandosi prima valletti (Bube), poi scudieri (Knappe), finché si formava una lancia (Lanzkneeht). Al loro ufficiale portavano affetto e obbedienza, non all'imperatore, che nè li pagava, nè li compensava, e poiché i soldi erano scarsi, vantaggiavansi col rubare, terribili agli amici non meno che ai nemici. Spirato il termine dell' ingaggio, i lanzichenecchi per privilegio imperiale poteano mendicare; o come noi diremmo, dare frecciate (garden o flechten; al qual fine si univano in drappelli, spigolando come veterani, se alcun che avessero lasciato indietro come soldati. Un esercito di costoro scendea dunque per la Valtellina, i quali, nelle lente loro marce fatto ruba e macello d'amici e nemici , raccogliendo le maledizioni del popolo , e seminando la peste e l'odio alla loro nazione, il 18 luglio 1630 sorpresero Mantova, conciandola come Dio vel dica (1), ma pagandone anch'essi caro lo scotto , giacché gran numero vi mori di febbre. Parvero finalmente le cose ricomposte nella pace fatta a Cherasco il 1631, colla quale si assicurava Mantova al Nevers e parte del Monferrato alla Savoia: e l'Italia fu liberata dalla gente a'emanna et dalle oltre barbare nation", però amiche alla Fede Cattolica. Benché fra l'orrore della peste, tripudiò la Lombardia all' avviso della partenza di queste barbare nationi che andavano marchiando, ma con lasciare doppo loro le solite estorsioni et tirannie, et molte terre saccheggiorno come Desio, Saronno, Corbet'a, Seregno e tutta la Geradadda et provintia Cremonese (2). Ma fatto è che il Monferrato non tu mai senza guerre e mine fino al 1659. Guai tanto più gravi agl'Italiani, quanto che già aveano provato le finezze della civiltà, e posti tra fieri nemici ed amici infidi, non vedevano in tutto questo alcun raggio di speranza. Tal guerra , anziché dai re, come spesso accade , nè dal bene dei popoli, come dovrebbe, fu causata ed aggirata dai due ministri Olivarez e Richelieu, dei quali, poiché erano i veri regnanti d'allora , e poiché danno soggetto alla conversazione dei convitati di don Rodrigo, vorremo anche noi alquanto occuparci. E prima, chi volesse avere dell'Olivarez un elogio contemporaneo, ci sarebbe la Effigies Privati Christiani, quam Virgilius Malvetius ex Comite Duce expressam Philippa IV regi catholico dicat.

(1) Nè solamente contro le persone e robe degli innocenti inferiscono quei cani, ma anche contro le stesse case e muraglie. Mur. ad Ano. Alcuno stimò a 18 milioni di scudi il danno di Mantova. L'imperatore ne compianse di vero cuore la sorte. Dicesi rubata allora, fra vari capolavori d'arte, la tavola Isiaca, il più illustre monumento d'antichità egizie, e che ora si vede nel museo di Torino. (2) TADINI, pag. 135 e 136. Ma a chi regge la pazienza di legger una tirata di tutte lodi? Più tosto vi offrirò il parallelo che Ripamonti fa tra questi due ministri, onde verrete ad intendere che ne sentissero i Lombardi d'allora. « Mentre signoreggiava , cosi egli, la corte e l' animo del re di Francia il cardinale Richelieu, la corte di Spagna ebbe un'altra gran testa che i savi credettero levata ai primi onori, non tanto per umano consiglio, quanto per volontà di lassù, affinché, come la Francia per sua buona o mala ventura aveva a capo il cardinale, così la Spagna possedesse nel conte duca chi opporre alle vaste trame di quello. " Noi chiamiamo privati i confidenti del re, perché devono in certo qual modo privarsi dei sentimenti propri, per volger l'animo affatto ai reali ed alle pubbliche cure. " Or bene, questi due privati erano di antica schiatta, ma più don Guzmano Olivarez; come quegli che contava tra' suoi antenati san Domenico. Ambedue possedettero le arti, onde uom si procaccia fama: ambedue si vestirono preti. "Il Francese continuò, ebbe la porpora, e benefizi, badie, larghi tratti di provincie, sto per dire che fu un altro re di Francia. L'Olivarez non era sulle prime che conte, poi fatto duca di San Lucar, , si intitolò il conte duca. "Fanciullo, seguitò il padre ambasciadore a Roma, a Napoli, in Sicilia: fermò gli occhi di molti singolarmente per certa candidezza di animo; sicché venne famigliare al padre del regnante Filippo, morto il quale, fu posto a suo dosso l'intero carico delle cose. E notano questa differenza, che il Francese con tutto l'animo s'era proposta per meta l'altezza che raggiunse: Io Spagnuolo rimaneva contento a mezzana fortuna, nè a dismisura accumulò ricchezze a costo della maestà. "Ambi di grand'ingegno, ma d'indole diversa, mansueto l'Ispano, l'altro crudele, onde avea continuo la mira a cimare i papaveri più elevati, portare stragi nella corte e nel regno. " Quanto alla religione si credette che il Guzman nulla imprendesse mai se non previe preghiere e messe, e sovente meditasse la morte. P.o anche il Richelieu, nè indegno della sacra cappa: se non che lascia. vano qualche sospetto i sanguinari , tortuosi , ambidestri suoi accorgimenti. » Del resto capace d'ogni gran fortuna, acquistò altamente presso il re colle virtù o colle apparenze di quelle, singolarmente con una vera smania d'ingrandir la Francia e principalmente di unirle l'Italia, o fosse questo amor di patria, o ambizione, o malizia sopraffina. Anzi v' è chi susurra ambisse la corona: al che sospettare diede motivo col cacciar in fuga la regina madre (Maria de'Medici) e il fratello del re, e coll'insanguinare la reggia, novello Seiano in un dominio acquistato, per quanto è fama, colle arti stesse del Seiano antico. Era però d'amabile ingegno, lesto alle occasioni, atto a conciliarsi i principi, ed allettarli a quel che volesse: pronto all'eseguire, costante in suo proposito piú che non sogliano quelle teste volubili de' Francesi. " Nè gli fallì studio ed eloquenza; e la fortuna favori queste doti. Già assunto a parte del regno, tutto sapeva e poteva da solo: non ignorava quel che bollisse al fuoco degli altri re , ne conosceva gl'intimi ministri, i costumi, le inclinazioni delle genti, la forza ed il governo di ciascuna provincia; ed avea sugli occhi tutto il mondo, sì che o colla forza del reame o colla propria machiavellica poteva commettere negli animi ora odi, ora sospetti, ora lusinghe (1) ». Qualcuno de' miei lettori si ricorderà che Gil Blas fu a servigio del conte duca, e che lo dipinse così: "Il ministro è di uno spirito vivace, penetrante; capace di formar gran disegni: si spaccia per uomo universale perchè ha qualche tintura d'ogni sapere: vuol sentenziare di tutto; si crede gran giureconsulto, gran capitano , gran politico. E guai ch'ei seguiti un parere altrui,tanto fa caso del proprio. "L'eloquenza sua naturale lo fa spiccar ne'consigli, e scriverebbe anche bene se non affettasse di render lo stile oscuro e tirato per farlo dignitoso. » Pensa di una maniera singolare, capriccioso, chimerico. » Quanto sia al cuore, è generoso, è buon amico; lo dicono vendicativo, ma quale Spagnolo non è tale? L'accusano d'ingratitudine; ma la volontà di venir primo ministro dispensa dall'essere riconoscente (2) ». Il padre della storia italiana ci lasciò scritto , che la testa del Richelieu a più doppi superava quella dell'altro: e laddove l' Olivarez parea nato per rovinare la monarchia di Spagna: il Richelieu all'incontro sembrava dato alla monarchia francese per accrescerla sempre più di riputazione, e di Stati. Pieno di queste idee, il poco scrupoloso cardinale tuttodi tesseva imbrogli per tutte le corti, senza far caso della religione, delle parentele, e d'ogni altro vincolo dell'umana società per abbassare le due potenze austriache ed esaltar la francese (3). Nel fatto il Richelieu, pien d'odi e di vendette, despota della nazione e del re, sprezzò le forme de' giudizi, fece primo interesse non il popolo ma il re. Chi però non volesse guardare queste vie, avrebbe altamente a lodare il fine conseguito di stabilir la grandezza della Francia e la regia autorità , spegnere i moltiplici padroni , creare la marina , suscitar il commercio, le lettere, le arti. Conservò il primato fin quando mori il 4 dicembre 1692: anzi dopo morto seguitò a dominare per via delle sue creature. Al fatto nostro gioverà avvertire, che quest'onnipossente, vero re della Francia, era anch'egli menato da un cappuccino, il padre Giuseppe,

(1) Istoria patria, Lib. VI. (2) GIL BLAS, Lib. XI, cap. V. (3) MURATORI, Ammalì al 1635. dell'illustre famiglia di Tremblay, e dai Francesi chiamato l'eminenza grigia. Questi sostenne più volte il coraggio del ministro, e potè alla dieta di Germania mandare a monte le lunghe briglie di Ferdinando II per fare eleggere imperatore il proprio figlio, onde quegli esclamava: Un povero cappuccino mi ha disarmato; il perfido seppe fare starenel suo cappuccio sei berretti elettorali ». Chi se ne meravigliasse MOSTREREBBE DI NON CONOSCERE QUAL FOSSE IL POTERE DI UN CAPPUCCINO TENUTO IN CONCETTO DI SANTO (1). L'Olivarez all'incontro da non minori delitti e frodolenti consigli mal seppe trar frutto; lasciò crescere la licenza delle truppe e de' grandi, perdette il Portogallo e la Catalogna, devastò le finanze, finì di volgere in basso l'altezza della Spagna. Insomma 1'Olivarez lasciò la sua nazione ricalcata nella miseria, in cui da anni era precipitata; Richelieu sollevò la sua ad una grandezza ed unità, che sola potè render possibili i prodigi che operò allora e poi sovra le sorti dell'intera Europa (2).

(I) A. MANZONI, I Promessi Sposi, cap. VIII. (2) C. CANTU', op. Cit. CAPITOLO XIV

I Lanzichenecchi.

« L'esercito alemanno area ricevuto l'ordine definitivo di portarsi all'impresa di Mantova ». A. MANZONI, I Promessi Sposi, cap. XXVIII.

Diamo un passo indietro prima d'abbandonare quella guerra di Mantova, che tanto male, nessun bene recò all'Italia. Le.cresciute gravezze, gl'interrotti negozi, il rilassamento delle discipline utili alla quiete (1), le tolte di ogni maniera, sono effetti consueti: ma che eccedendo in quel sistema di cose, portavano l'estremo della rovina. Ce ne assicura un governatore di Milano scrivendo, come le necessita nelle quali si trova non solamente questa R. Camera, ma tutto lo Stato per la guerra difensiva necessariamente continuata più di trent'anni per una parte hanno obbligato la Maestà del Re N. S. a rimetter qua li miglioni d'altri suoi regni (2), e vender il meglio di queste sue reali rendite, e per l'altra ridotti questi suoi fedelissimi vassalli all'esterminio che portano seco gli alloggiamenti di tanti eserciti di diverse nazioni ed i continui accidenti cosi antiveduti come impensati, con alcune provincie confinanti totalmente distrutte e annichilate: compassionevoli parole, ma di cui non aspettereste certo che la conclusione fosse una novella imposta (3). (1) « tanta la frequenza delle violenze, frodi, insidie ed altri eccessi che giornalmente si commettono in diverse parti di questo Stato in pregiudizio del servigio di S. M. e della quiete de' suoi buoni e fedeli vassalli, e per di più da persone incognite e straniere che con la licenza che suole introdurre la guerra entrano liberamente in esso, ecc.» Grida 9 novembre 1641. (2) Grida 19 dicembre 1646. In un memoriale sporto dalla Congregazione di Stato milanese nel 1706, trovo un fatto non addotto da veruno statista nostro; cioè che dal 1610 al 1654, la Spagna per soccorso della povertà, mandò qui 60 milioni di pezze di Spagna da lire 8. Quanto non dice questo fatto a chl l'intenda! (3) Per gli stessi motivi El Rey, con ordine del 23 luglio 1649, dà autorità al governatore Toledo di vendere, impegnare, distrarre ogni rendita ed effetto della M. S., infeudare terre, ecc. attesa la debolezza del suo rea] patrimonio. Qui già, vedete annunziato quel che era il peggior flagello delle guerre d'allora, vo' dire l'indisciplina degli eserciti. Composti della feccia delle nazioni, animati da niun altro sentimento che dall'avarizia e dalla libidine, ricalcitranti agli ordini di non man tristi capitani, da che cominciarono a calpestare questa Italia, la recarono a strazio tale, che é colpa loro se ancora può dirsi bella. Altri narrerà i loro guasti in altri tempi e luoghi, noi stiamo alla povera Lombardia d'allora. Non avendo S. E. il governatore Leganes desiderato mai cosa che la quiete e sollevamento delli vassalli di questa Stato, che tanto lo meritano per la loro fedeltà e divotione al servizio di S. M., e mostrando l'esperienza che la principal rovina che sentono dipende dalli eccessi e rapacità d'alcuni soldati mal disciplinati , dalle cui male attioni risulta, non solamente discredito a quelli che si contengono nell' osservanza delli ordini, ma inconvenienti, danni e molti delitti ed enormi ; e che la maggior parte dei disordini procedono dal mal esempio, negligenza, toleranza, dissimulazione de' Capitani (1); pubblicò un bando severissimo. Ma inefficace, poiché egli stesso, dieci mesi dopo, ne discorre di doglianze che da tutte le parti dello Stato ogni giorno gli vengono fatte (2); e i suoi successori replicano tratto tratto la formola stessa, a provarci in che conto si dovessero tenere le milizie d'allora. Figuratevi, esclama Cesare Cantù, qual dovette essere lo spavento degli Italiani quando intesero che l'imperatore tedesco aveva determinato di mandar un grosso esercito all'impresa di Mantova! Combattevasi allora in Germania la famosa guerra di religione, condotta dai principi alemanni, che colla riforma di Lutero aveano abbracciato più liberi pensamenti politici, contro l'imperatore di Germania, capo de' cattolici e de' governi stretti. Guerra detta poi de' trent' anni, nella quale si segnalarono specialmente Gustavo Adolfo re di Svezia, che menò i suoi religionari di vittoria in vittoria, finché cadde nei campi di Lutzen; e Alberto di Waldstein boemo, generale di ventura a servigio dell'impero, il quale a capo d'un esercito che manteneva a furia di latrocini ('), represse i nemici , ruinò gli amici, e diede tant'ombra all'imperatore suo padrone, che questi giudicò prudente di farne senza. Questo eroe "rifiuto ed esecrazione del genere umano" fidato nelle stelle che gli aveano preconizzato immensa grandezza , guerreggiava allora sulle rive del Baltico;, assediando Stralsunda , che aveva giurato espugnare " quand'anche fosse incatenata al cielo , o dall'inferno circondata di mura di diamante".

(1) Grida 4 marzo 1637. (2) Grida 22 dicembre 1637. (3) Secondo lo SCHILLER. Dreizigjahriges Krieg, Waldstein col suo esercito in sette anni trasse da metà della Germania sessanta mila milioni di talleri. Ma quando l'imperatore, che, non avendo danari, il pagava di titoli e promesse, credette opportuno il momento per restaurare di qua dai monti la scaduta autorità imperiale, promise al Waldstein la marca di Treviso e il titolo di duca di Verona, egli affrettò la pace , e corse a versar su di noi poveri innocenti il nembo che da tre anni devastava i non meno innocenti abitanti della Germania. I più veterani e valenti, cioè i più ladri e crudeli di quell'esercito schiumò l'imperatore ; gli accolse a Lindò : e quando i novellisti aspettavano fosse per drizzarli addosso alla Francia, sua (come allora caritatevolmente si diceva) naturale nemica, li voltò pei Grigioni e per la Valtellina verso l'Italia. Trentasei migliaia di soldati (1) di quello stampo, preceduti dalla peggior fama, già si vedeva che porrebbero il colmo ai guai del paese, desolato dalle piccole guerre, dalla carestia, dai folli provvedimenti. Aggiungasi che, per l'immondezza, continua durava fra le truppe la peste: venivano poi da Lindò , scala generale delle merci che passavano in Italia dall'Alemagna, dove per il più dell'anno sono molte città e luoghi infetti di morbo contagioso (1). Fu dunque ogni studio dei Milanesi in impedire la marcia di quell'esercito, che in tanto spandendosi per la Valtellina, già miserabile per le note sue guerre di religione, ne faceano quello sperpero che peggiore si potesse da nemici arrabbiati aspettare. E poichè non vi trovavano più di che satollare la fame e l'avarizia, chiedevano imperiosamente pane ed oro al Milanese; e n'ebbero 10000 scudi e 100 sacchi di frumento (5). Gli ambasciatori intanto andavano compaginando protocolli di accomodamento, il che però non faceva che prolungare questo stato incerto, nè in fine schivò il gran male. Poichè l' imperatore, messo al bando il Mantovano, comandò ai soldati che, attraverso la Lombardia, corressero sopra Mantova (4). Tra i più spaventati troviamo alcuni de' personaggi del nostro racconto, tra quali Sigismondo Boldoni , che dalla sua villa sul lago di Como scriveva lettere sopra lettere ad amici. Così scriveva a Roberto cardinale Ubaldino a Venezia. " Bellano, 10 settembre, 1629." « Ben cred' io che tutti i miei impresi lavori siano per andare al malanno. Come potrebbero seder le Muse qui dove tutto intorno il paese

(1) NANI conta quei soldati per 35000; MURATORI per 2200 fanti e 3500 cavalli : che numera ogni reggimento, li somma a 7456 cavalli, 2880 fanti, al qual numero s' accosta pure il RIPAMONTE. (2) TADINI, Ragguaglio dell'origine ecc., p. 13. (3) TADINI, 16. I Valtellinesi diedero 30550 lire al solo marchese Corrada, perchè sollecitasse un po la sua andata. (4) C. CANTO: op. cit. arde d'incendio di guerra? E mentr'io ti scriveva queste cose, gli abitatori del Lario sono in faccenda a spogliar le case delle masserizie, cacciar gli armenti sulle alture e portar via ogni ben di Dio per timore dei Tedeschi che d'ora in ora s'aspettano, e che per somma nostra sventura e per castigo del Cielo, passano di qui per involger l'Italia già misera per battaglie, fame, rapine, povertà, uccisioni in guerre novelle, che ai dì nostri non forniranno. »Già mandarono a sacco Colico (1) prima terra del Milanese sul confine grigione, e senza permissione de' capi: così oprano gli amici. Altrettanto temiamo noi, dovendo tante truppe passare per campi e per paesi nostri. »Che se a ciò pensi, non solo non m'accuserai se così male scrivo, ma ti parrà anche troppa la mia sicurezza, se cento volte fra lo scrivere accorsi alla finestra, se si dice che già sono addosso, se dovunque si fermano splendono i fuochi. » Non v'è Elicona cui questa rabbia perdoni. Erami rifuggito al Lario per eccitare più dolcemente le già stanche Muse nella placida fragranza della villa, lieta di fonti, di laureti, di cascatelle, del prospetto d'un ampissimo lago che le lambisce il piè. Ma qui invece squilla la tromba: di qui si comincia la calamità 'che muterà tristamente faccia all'Italia: perchè certo da qualunque parte trabocchi la bilancia, andrà ogni cosa in precipizio. »Ma zitto che Lo strepito di Marte Viene a turbar questa segreta parte. » Certo io sento i tamburi : a buon conto ho pronta nel lago una gondola, per potere, se cominciano ad ingiuriare, sottrarmi al pericolo. Addio». Scriveva ad Antonio Quarengo a Roma. « Ballano, 10 settembre 1529. «. . . Ma ahimè! ti par egli tempo di scherzare? or che per questo paese dov'io villeggio denno passare 40000 Alemanni, a cui mal prenda, alle voci de' quali, non le Muse solo, ma fin gli uccelli annidati sugli ertissimi scogli fuggono spaventati? (1) Fin 52 anni più tardi, fu rappresentato al duca d'Ossuna « lo miserabile stato ira cui si trova la terra di Colico, che... per gli estremi danni patiti nelle guerre passate, transiti, scorrerie di eserciti nemici, devastazioni e saccheggi, é ridotta a totale esterminio... rendo rimasi in quel territorio da 40 in 50 uomini in tutto, e quelli non essendo sufficienti per lavorare i terreni, rimangono quelli per la maggior parte inculti ed abbandonati, ecc.» Prima di quel fatto il TADINI scriveva : cotica ta qual terra è la delizia del lago di COMO. Pag. 18. Balbiani. - I FAMOSI UNTORI ECC. Disp. 15. . . bevendo senza modo, e senza misura. e molto pili ciò per l'altrui case facendo,...

Cap. XV. Pag. 252. CAPITOLO XIV

»Ah! quest'angolo della terra sarà principio dell'italica sventura? Nè muterà volto un paese nato alle delizie cal versarvisi sopra questo torrente raccolto da deserti strani? Na non voglio cominciar tragedie; onde sta bene ».

Scriveva a G. B. Fisiraga a Lodi. « Bellano, 15 settembre 1629.»

Vivo ancora, Fisiraga mio, ancora scrivo mentre tutto il paese è guasto, tutte le cose saccheggiate, tutti i campi calpesti: nu;la santo, nulla sicuro. »Senza comando dello Spinola, tre reggimenti di Teleschi, due di pedoni, uno di cavalli, gettato un ponte sull'Adda, saccheggiarono di loro testa Colico. Ivi comandati di fermarsi finché si destinasse il cammino, di repente piombarono sul nostro paese. E in un batter d'occhio tutto è a sacco. »Io, sbarrate le porte, per non incontrare la sorte comune, ottenni che il segretario del principe di Brandeburg (guida egli questo reggimento) alloggiasse la notte in casa mia. Ma ci voleva altro a frenare la rabbia di que'rapacissimi! Onde essendo tornato il terzo italiano (1), che prima qui stanziava, ed evasi teste recato a Como alla rivista, impetrai che sei di loro facessero sentinella alla casa mia. » Nessuna notte passai quieta, nessun di senza batticuore. Ogni campo è devastato con rabbia ostile, ogni casa rubata, gli abitanti bastonati, nelle magioni non c'è più un segno di vasi, di travi, di tini, di imposte: tutto bruciato, tutto sporcato: un tanfo nelle vie, nelle piazze, nelle stanze, tetro e pari alla costoro bestialità (2): sperperata del tutto la vendemmia; alcune case nelle campagne bruciate, tutte le barche trattenute dal partire: io però nella notte, per la porta posteriore che volge a Cavato (avverti che il lago è gonfio e mi arriva in casa, cred'io per milestare e vendicar le ingiurie de Tedeschi) fuggii in battello con due donne, alcuni arnesi, e i versi che ora ho per la mano; e tragittato a Bellagio, ivi ai cappuccini (3) consegnai le carte suggellate, con sopra scrittovi: Se male avvenga a Sigismondo Boldoni, prego Ottavio Cattaneo a consegnar questi scritti e questo danaro di sua mano a G. B. Fisiraga, tal'è l'ultima mia volontà. » Poi di notte a gran travaglio tornai, reggendo io la barca contro il vento avverso. » Questo terzo ora partì, ed ogni cosa è piena del pianto dei miserabili. Altri verranno: di me che fia nol so: ma rimango, perché non mi mettano a fuoco la casa.

(1) Il terzo era l'unità strategica'dei Tedeschi, disposti in grossi quadrati pieni. (2) Quasi due mesi appresso, il TADINI, visitandi que' luoghi scriveva che si (vedi in originale) (3) I cappucini sedoano su quel promontorio, il più deliziosoconosca in Lombardia, senza eccettuare il Sirmione; ivi ora sorge il palazzo G. Serbelloni: anticamente era una villa di Plinio: e il PARINI vi compose molta parte del suo giorno. »Se vorrà Dio ch' io sopravviva, sarò, come fui sempre, tuo: se altrimenti la fortuna stabilirà, ti prego in nome dell'amicizia, che morto ancora tu mi voglia un po' del tuo bene, e serbi presso te le mie scritture, e ne faccia quel che parrà a uomini dotti. Addio ». Scriveva a Domenico Molino a Venezia. " Bellano, 19 settembre 1629."

"Non v' è angolo ornai in Italia dove non sia giunto il suono di nostre calamità. Pure 1' animo non è ancora cosi fuori di sè, che non possa gettar giù questa lettera comunque ella sia, fra il pianto dei miseri, le grida e le ruberie de' minacciosi, il batter de' tamburi. » T'avevo scritta appena 1' ultima mia , quando tre reggimenti di Tedeschi che doveano andar di filato in Valsàssina, senza comando dello Spinola, anzi contro sua voglia, ci arrivarono addosso: e a vedere e non vedere devastati i campi, e l'unico frutto di questi monti , la vendemmia rapita ai voti dei miseri abitanti, cui restava quest' ultima speranza dopo la lunga fame, dopo si atroci vessazioni di grandissimi eserciti , le biade tagliate, recisi gli alberi, incendiate le case e le cascine. » Nel paese stesso, ove abitano da settanta famiglie, stivossi tutto questo brulicame. »Non che cibo , a pena trovavasi posto per tanti cavalli : onde prima cinquanta cavalieri, poi una legione di pedoni fu mandata altrove. Ma una intera qui stette sei dì, e chi potrà con parole uguagliare la tlina, le battiture, i dolori?

Ben se' crudele se tu non ti duoli... E se non piangi di che pianger suoli?

»Nelle case non si lasciò un abito, non un vaso : le robe di legno bruciate, le travi e i tini della vendemmia con egual furore incendiati: e in pagamento busse, ferite, stupri. »Che di peggio farebbe il nemico in una presa città? Quest'è la scena di nostre sofferenze. Io, senza mai chiuder occhio, di nascosto trafugai al furore di costoro i lavori di tanti anni miei. »Perciocchè il Lario (forse commosso da' suoi danni) essendo ingrossato più diversamente che mai ed entratomi in casa, lo tragittai per trovar luogo sicuro: e la notte stessa, io remigante e timoniere, con infinita fatica, prima che se n' accorgessero, tornai. Così questo seno caro alle Muse, alla quiete, a dolcissimo ozio, ora è al mondo spettacolo di barbara crudeltà. » Finalmente questo terzo, guidato dal marchese di Brandeburg , vassene sui confini dei Bergamaschi: altri ne verranno peggiori, perché mai non si rasciughi il pianto. » Ma non posso più , e il rombazzo de' tamburi mi sturba dallo scrivere. Tu compiangi che la luterana rabbia si diffonda sull'Italia a porte spalancate. Addio ». Scriveva a Scipione Cobelluccio cardinale amplissimo a Roma. « Bellano, 24 settembre 1629. « A te che piangi la presente calamità d'Italia , e presagisci l'imminente, narrerò in che pericoli io fui, se pur tra il pubblico lutto può trovar ascolto il dolore privato. "Già sette legioni tra a piedi ed a cavallo erano passate, saccheggiando tutti i paesi, devastando i campi, menando via gli armenti e le greggi; quando sopra gli stanchi e disperati arrivò il reggimento Furstenberg. "Gli altri aveano occupate le case a loro distribuite: questi con impeto e violenza chiesero l'alloggio; e in men ch'io nol dica, furono rotte le porte. Io salvo , fin allora d'ogni danno fuor la paura , m' ero rinchiuso: bastante riparo fin a quel di. " Ma in un subito cento moschettieri che prima non erano potuti entrar in niuna casa, fanno impeto con leve e scuri contro la porta di dietro: stanghe e sbarre non ressero ai barbari. "Per la porta che dà sulla piazza (non so come libera da quella peste) svignò un ragazzo a chiamar in aiuto gli Italiani qui stanziati. Vennero alcuni, ma benché asserissero quello esser l'alloggio loro, non desisteva quella canaglia di arietare le porte. E già erano scassinate, ed io m' era disposto a che che volesse la fortuna, quando un colonnello italiano, avvisato da' suoi, corre al generale tedesco, si lamenta, protesta che in quella casa si conserva la bandiera sua, che si viola con questo affronto la real maestà. "Credette colui , e mandò ai furibondi che cessassero , appunto quando a grande schiamazzo e minacce mettevano a basso la porta. "Che ti pare , cardinale reverendissimo? Or che faranno in paese nemico ? "Se vivesse Platone che con tanta cura istruiva i suoi custodi, e volle tenessero della natura del cane, non si maraviglierebbe del vedere in veste di pastor lupi rapaci? - "Ma a che buone le querele? Questa rabbia non si finirà che colla morte e l'idrofobia. Perchè anche contro voi aguzzan i denti. Ma deh come siam miseri noi, che possiamo temer anche i nemici, mentre tali amici proviamo! "E ben ebb'io onde presagire qualche gran male, allorché il luogotenente del reggimento Merode entratomi in casa, avendo veduto un cespuglio di alloro verde e chiomante, e colle nere sue coccole. - O tu, mi chiese, che albero è codesto? E che frutti porta? - Veh l'uom barbaro! Neppure conosce l'alloro. "Povere Muse l Poveri versi! Qual ruina vi prepara questa genia, che non distingue tampoco l'albero vostro glorioso! "Cosi deplorai! a barbarie di colui, che per sopra più osava dire ciò in italiano, cioè in una lingua umana; e sinistramente pronosticai delle cose mie. » Pure sopporterei di buon cuore , se non ne prevedessi la ruina e il guasto di tutta Italia. » Questo io stimai di scriverti fra tanto mio privato e pubblico dolore, mentre tutta la sponda del lago di Como da Sanimolaco a Bellano , e la Valsàssina, che internasi da Bellano a Lecco, è mandata a rapina e stragi, e vanno a sacco 40 miglia d' un paese amenissimo e nato alle Muse, e questo per mano d'amici e di truppe ausiliari. Sta bene ». Tornava a scrivere a G. B. Fisiraga a Lodi. " Bellano, 24 settembre 1629."

« Ah Fisiraga mio! credeva appena di più rivederti; appena sfuggii dalle male branche di uomini micidiali. »Già contaminati della devastazione e del sangue di tutta Germania, or vogliono lacerar l'Italia, non so se dica coll'armi o coll'unghie loro. Non consenta il Cielo che la piú brutta sozzura del genere umano sovverta la sede d'ogni civiltà. Io scampato fin ad oggi, a poco stette che non soccombessi all'arrivare dei soldati di Furstenberg. »Chiuse attentamente le porte, cento moschettieri, che neppur tanti potea capirne la casa, assalirono la porta posteriore. Io l'avea ben bene sprangata, ma che sprangare contro- quei barbari assalitori? »Per la porta di frante che mette sulla piazza mandai a chiamargli Italiani: accorsero, eppure non giovarono: tanto ne è fersennata la rabbia. Sebbene protestassero esser quello il lor alloggiamento, già cadeano le porte, quando accorse un colonnello che li frenò. Cosi io dal pericolo scampai, murai le porte, e mi provvidi per l'avvenire. »E tu, dolcissimo mio, vola qui, te ne prego , a confirtar questo uomo mezzo morto per tanti terrori. Già più soldati non s'aspettano : vieni dunque, ecc. * Poi di nuovo allo stesso a Lodi. « Bellano, 26 settembre 1629.

»Tu mi scrivi dal letto: io pur dal letto , con mano tremante ti rispondo: te le fatiche di corpo, me prostrarono gli affanni dello spirito, parte perché ogni tuo bene e male Io sento anch'io, parte perché sommamente mi accuorano i presenti peicoli e la paura delle squadre tedesche. »Già ti scrissi a che gran punto fui. »Poscia venuto qui Colloredo, generale d'un altro reggimento, e postomi a discorrere con lui di storia, degli antichi costumi e confini de' Germani , di repente svenni , e per mezz'ora perdetti i sensi con gran dolore di quello. "Finalmente rinvenni. Ora mi lima una febbricciatola lenta e coperta: nè altro a mente mi corre che la memoria ed il desiderio di te. "Passarono di qui i pedoni di Merode , i cavalli del principe di Hannalt : poi i fanti del marchese di Brandeburg, che per sei di rubarono questo paesello: poi da 400 cavalieri di Montecuccoli, indi quei di Ferrari , poi la fanteria di Acerboni che qui alloggiò: indi Altringen pel ciglione del monte guidò un corpo pienissimo e fiorentissimo di 4000 pedoni. A Successero quei di Furstenberg che più d'altri ci afflissero, poi la cavalleria del principe di Sassonia, forse 800: ier l'altro l'infanteria di Colloredo, quest'ieri il corpo di Waldstein , col luogotenente invece del principe. " S'aspettano ancora due reggimenti di cavalli, tre di fanti, " Dapprima io aveva in casa una scolta d'Italiani : ora Colloredo e il luogotenente Waldstein mi diedero una guardia tedesca. "Possano far altrettanto anche i seguenti! Quasi tutte le donne corsero in casa mia, che ci pare il serraglio. " Tu, Fisiraga, mio, fa di tornar sano, caccia codesto languore, nè lasciar che ti peggiorano le mie cattive notizie: e appena rinsanichiato, vola a me: che fra due o al più tre di questa procella sarà ita, ecc. Nè meno fosca di quella del Boldoni è la pittura che, ne fa il Tadini. La strage, dic'egli (1), che fu fatta nella Vavassina non è da dirsi: non avendo mai visto soldatesca cosi indomita. Pel ponte di Lecco ruppero poi su quel giardino di Lombardia la mia Brianza, con tanta avidità ed ingordigia, che arrecorno scandalo grandissmo e biasimo, tanto più per essere alcuni macchiati d'eresia. E dove lasciamo le miserie della Ghiaradadda? ove fieramente si portarno principalmente in Caravaggio. Gli ufficiali residenti nella Brianza insegnavano loro le terre più pingui, e teneano mano ai ladronecci; del che si chiese rimedio al Gunzalo, senza però ottenerlo per essere dato esso alla retiratezza et solitudine (2). Bravo Governatore! Così i popoli scontavano i deliri dei capi, senza avere nè cosa, nè speranza buona. Fino ai 3 d'ottobre durò quel passaggio, e ogni terra ond'erano passati si lagnava insieme e compativasi le reciproche calamità: ma nell'intimo ciascuno stava nel sentimento d'aspettare moggior rovina: la Peste.

(I) Pag. 8. (2) Id., pag. 22. CAPITOLO XV

La peste.

« La peste che il tribunale di sanità avea temuto potesse entrare colle bande alemanne nel Milanese, v'era entrata davvero ». A. MANZONI : I Promessi Sposi, cap. XXXI.

Da Augusto al 1680 si contano in Europa novantasette pesti famose: onde l'intervallo medio è di diciasette anni. Dal 1060 al 1480 ne furono trentadue, cioè una ogni tredici anni. Nel secolo XIV tornò quattordici volte, cioè ad ogni settimo anno. Oh, la funesta statistica! Chiunque poi anche per poco abbia letto nelle storie sa, che la peste tanto spesso si riproduceva a Parigi, Colonia, Famagosta , Venezia, Ancona, che si può dire quasi sempre vi se ne trovasse. Frequentissime poi erano le malattie cutanee: a Milano erano stabiliti diversi ospedali per queste. Cosi al Carrobbio quello dei malsani, cioè dei lebbrosi, uno dei quali veniva lavato dall'arcivescovo il di delle Palme: in Quadronno e a San Lazzaro quello dei tignosi: in Broglio quello di Santa Iole per la rogna, dove in tempo delle purgazioni annue ce n'aven fino 500. Erano cagione dei contagi la sudiceria del corpo, favorito dal tener la lana sulla nuda pelle in luogo delle camicie di lino, e l'abitar a troppi insieme nelle camere, malgrado una legge antica di Milano che proibiva di dormire più di quattordici dentro una stanza. Nè diversa mente poteva accaddere se, come dice san Carlo, la città era numerosa di popolo, e ristretta di case. A ciò aggiungasi la caterva de' pitocchi e vagabondi, la negligenza de' governi nell'opporsi ai principi, l'ignoranza delle buone pratiche, e l'uso delle inutili e cattive. Dopo la carestia, Milano ebbe il funesto regalo della peste. Perché i lettori sappiano di che maniera ella mieteva le vittime riportiamo la descrizione che ha fatti, in aureo stile, Giovanni Boccaccio, un de' padri della nostra lingua, della pestilenza stata in Firenze a'suoi tempi, e che fu origine al famoso libro del Decamerone. « Già erano gli anni dalla fruttifera Incarnaziono del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di mille trecento quarant'otto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale per operazion de'corpi superiori, o per le nostre inique opere, da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti Orientali incominciata, quelle d'innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d'un luogo in un altro continuandosi, verso l'Occidente miserabilmente s'era ampliata. Et in quella non valendo alcuno senno, nè umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da officiali sopra ciò ordinati, e vietato lo entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, nè ancora umili supplicazioni non una volta, ma molte, ed in processioni ordinate, ed in altre guise a Dio fatte dalle divute persone, quasi nel principio della primavera dell'anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti e in miracolosa maniera a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso, era manifesto segno d'inevitabile morte, ma nascevano nel cominciamento d'essa a' maschi, ed alle femmine parimente, o nell'anguinja, o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano, come una cumunal mela, altre come uno uovo, eri alcune più, ed alcun'altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parli del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere, ed a venire; e da questo appresso s'incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere, o livide, le quali nelle braccia, e per le coscie, ed in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi, e rade, ed a cui minute, e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato, ed ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno, a cui venieno. A cura delle quali infermità nè consiglio di medico, nè virtù di medicina alcuna pareva che valesse, o facesse profitto: anzi, o che natura odi malore nol patisse, o che la ignoranza d medicanti (de'quali, oltre al numero degli scienziati, così di femmine, come d'uomini, senza avere alcuna dottrina di' medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse, da che si movesse, e per conseguente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivane anzi quasi tutti infra il terzo giorno dalla apparizione de'sovraddetti segni, chi pia tosto, e chi meno, ed i più senza alcuna febbre, o altro accidente, morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza, perciò che essa dagl'infermi di quella per lo comunicareinsieme s'avventava a'sani non altrimenti, che faccia ilfuoco alle cose secche, o unte, quando molto gli sono avvicinate. E pia avanti ancora ebbe di male, che non solamente ii parlare, e l'usare con l'infermi dava a'sani infermità, o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni, o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca, o adoperata, pareva seco quella cotale infermità nel toccator trasportare. Maravigliosa cosa è ad udire quello che io debbo dire: il che se dagli occhi di molti, e da' miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fede degno udito l'avessi. Dico, che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno ad altro, che non solamente l'uomo all'uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè, che la cosa dell'uomo infermo stato,o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell'uomo, non solamente della infermità il contaminasse, ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei (sì come poco davanti è detto) presero tra l'altre volte un di cosi fatta esperienza: che, essendo gli straccj d'un povero uomo, da tale infermità morto, girati nella via pubblica, ed avvenendosi ad essi due porci, e quegli secondo il loro costume prima mollo col grifo, e poi co' denti presigli, e scossiglisi alle guance, in piccola ora al presso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amendui sopra gli mal tirati stracej morti caddero in terra. Dalle quali cose, e da assai altre a queste simiglianti, o maggiori, nacquero diverse paure ed immaginazioni in quegli, che rimanevano vivi, e tu ti quasi ad un fine tiravano assai crudele: ciò era di schifare, e di fuggire gl'infermi, e le lor cose; e cosi facendo, si credeva ciascuno a sé medesimo salute acquistare. Ed erano alcuni, lí quali avvisarono, che il vivere moderatamente, ed il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente a resistere: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, ed in quelle case ricogliendosi, e rinchiudendosi, dove ninno infermo fosso, e da viver meglio, dilicatissimi cibi ed ottimi vini temperatissimamente usando ed ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare ad alcuno, o volere di fuori di morte, o d'infermi alcuna novella sentire, con suoni, o con quelli piaceri, che aver potevano, si dimoravano. Altri, in contraria opinion tratti, affermavano: il bere assai ed il godere, e l'andar cantando attorno, e sollazzando, ed il soddisfare d'ogni cosa allo appetito, che si potesse, e di ciò, che avveniva, ridersi, e beffarsi, essere medicina certissima a tanto male: e cosi, come il dicevano, il mettevano in opera a lor potere, il giorno, e la notte ora a quella taverna, ora a quell'altra andando, bevendo senza modo, e senza misura, e molto più ciò per l'altrui case facendo, solamente che cose vi sentis- sero, che loro venissero a grado, o in piacere. E ciò potevan fare di leggieri , perciò che ciascun (quasi non più viver dovesse) aveva , si come se, le sue cose messe in abbandono: di che le più delle case erano divenute comuni, e così l'usava lo straniere, pure che ad esse s'avvenisse, come l'avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl'infermi fuggivano a lor potere. Ed in tanta afflizione, e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine, come umane, quasi caduta, e dissoluta tutta per li ministri, ed esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini , erano tutti o morti, o infermi, o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare: per la qual cosa era a ciascuno licito, quanto a grado gli era, d'adoperare. Molti altri servavano tra questi due di sopra detti una mezzana via, non stringendosi nelle vivande, quanto i primi, nè nel bere, e nell'altre dissoluzioni allargandosi, quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano, e senza rinchiudersi andavano attorno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere, e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando, essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare: conciò fosse cosa che l'aere tutto paresse dal puzzo de' morti corpi, e delle infermità, e delle medicine compreso, e puzzolente. Alcuni erano di più crudel sentimento (come che per avventura più fosse sicuro) dicendo, niun' altra medicina essere contro alle pestilenze migliore, nè così buona, come il fuggire loro davanti: e da questo argomento mossi, non curando l'alcuna cosa, se non di sè, assai ed uomini, e donne abbandonarono la propria città, le proprie case , ed i lor luoghi, ed i lor parenti, e le lor cose , e cercarono l'altrui, o almeno il lor contado, quasi l'ira di Dio a punire la iniquità degli uomini con quella pestilenzia, non dove fossero, procedesse, ma solamente a coloro opprimere, li quali dentro alle mura della loro città si trovassero, commossa intendesse, o quasi avvisando, niuna persona in quella dover rimanere, e la sua ultima ora esser venuta. E come che questi così variamente opinanti non morissero tutti, non perciò tutti campavano: anzi infermandone di ciascuna molti, ed in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, esempio dato a coloro , che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare, che l'uno cittadino l'altro schifasse, e quasi niuno vicino avesse dell' altro cura , ed i parenti insieme rade volte , o non mai si visitassero, e di lontano, era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne' petti degli uomini, e delle donne, che l'un fratello l'altro abbandonava, ed il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e che maggior cosa è , e quasi non cre- dibile, li padri, e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare, e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de' quali era la moltitudine inestimabile, e maschi, e femmine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase, che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o l'avarizia de' serventi, li quali da grossi salari, e sconvenevoli tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti, e quelli cotanti erano uomini , e femmine di grosso ingegno , ed i più di tali servigi non usati, li quali quasi di niuna altra cosa servieno, che di porgere alcune cose dagl'infermi addomandate, o di riguardare, quando morieno; e servendo in tal servigio, sè molte volte col guadagno perdevano. E da questo essere abbandonati gl'infermi da' vicini, da' parenti, e dagli amici, ed avere scarsità di serventi, discorse un uso, quasi davanti mai non udito, che niuna, quantunque leggiadra, o bella, o gentil donna fosse, infermando, non curava d'avere a' suoi servigi uomo, qual che egli si fosse, o giovane, o altro , ed a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire, non altrimenti, che ad una femmina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse: il che in quelle, che ne guarirono, fu forse di minore onestà nel tempo, che succedette , cagione. Ed oltre a questo ne seguia la morte di molti , che per avventura, se stati fossero aitati, campati sarieno: di che tra per lo difetto degli opportuni servigi, li quali gl'infermi aver non poteano, e per la forza della pestilenza, era tanta nella città la moltitudine di quelli, che di dì, e di notte morieno, che uno stupore era ad udir dire, non che a riguardarlo. Perchè quasi di necessità cose contrarie a' primi costumi de' cittadini nacquero tra coloro, li quali rimanean vivi. Era usanza (sì come ancora oggi veggiamo usare) che le donne, parenti, e vicine nella casa del morto si ragunavano, e quivi con quelle, che più gli appartenevano , piangevano; e d'altra parte dinanzi alla casa del morto Co' suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini, ed altri cittadini assai, e secondo la qualità del morto vi veniva il chericato, ed egli sopra gli omeri de' suoi pari con funeral pompa di cera, e di canti alla chiesa, da lui prima eletta anzi la morte, n'era portato. Le quali cose, poichè a montar cominciò la ferocità, della pestilenzia, o in tutto, o in ipaggior parte quasi cessarono, ed altre nuove in loro luogo ne sopravvennero. Perciò che non solamente senza aver molte donne d'attorno morivan le genti, ma assai n'erano di quelli, che di questa vita senza testimonio trapassavano, e pochissimi erano coloro, a' quali i pietosi pianti, e l'amare lagrime de' suoi congiunti fossero concedute; anzi in luogo di quelle s'usavano per li più risa, e motti, e festeggiar compagnevole: la quale usanza le donne , in gran parte posposta la donnesca pietà ; per la salute di loro avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro, i corpi de' quali fosser più, che da un dieci, o dodici de' suoi vicini alla chiesa accompagnati , dei quali non gli orrevoli, e cari citta- dini, ma una maniera di beccamorti sopravvenuti di minuta gente che chiamar si facevan becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva, sottentravano alla bara, e quella cori frettolosi passi, non a quella chiesa, che esso aveva anzi la morte disposto , ma alla più vicina le più volte il portavano dietro a quattro o a sei cherici con poco lume, e tal fiata senza alcuno: li quali con l'aiuto de' detti becchini, senza faticarsi in troppo lungo otizio, o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata trovavano più tosto il mettevano. Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior miseria pieno: perciò che essi il più o da speranza, o da povertà ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi a migliaia per giorno infermavano; e non essendo nè serviti, nè aitati di alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione tutti morivano. Ed assai n'erano, che nella strada pubblica o di di, o di notte finivano; e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de' lor corpi corrotti, che altramenti, facevano a' vicini sentire, sè esser morti, e di questi, e degli altri, che per tutto morivano, tutto pieno. Era il più dai vicini una medesima maniera cervata, mossi non meno da tema, che la corruzione de' morti non gli offendesse, che da carità, la quale avessero a' trapassati. Essi, e per sè medesimi, e con lo aiuto di alcuni portatori, quando aver ne potevano, traevano dalle lor case li corpi de' già passati, e quegli davanti agli loro usci ponevano, dove la mattina spezialmente n'avrebbe potuti vedere senza numero, chi fosse attorno andato: e quindi fatto venir bare, e tali furono, che per difetto di quelle sopra alcuna tavola ne ponieno. Nè fu una bara sola quella, che duo, o tre ne portò insiememente, nè avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle, che la moglie e' 1 marito, gli due, o tre fratelli, o il padre o il figliuolo, o cosi fittamente ne contenieno. Ed infinite volte avvenne, che andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre, o quattro bare da' portatori portate di dietro a quella; e, dove un morto credevano avere i preti a seppellire, ne aveano sei, o otto, e tal fiata più. Nè erano perciò questi da alcuna lagrima, o lume, o compagnia onorati; anzi era la cosa, pervenuta tanto, che non altrimenti si curava degli uomini, che morivano, che ora si curerebbe di capre. Perché assai manifestamente apparve, che qúello che il natural corso delle cose non aveva potuto con piccoli, e radi danni a' savi mostrare, doversi con pazienza passare, la grandezza de'mali, eziandio i semplici tar di ciò scorti, e non curanti. Alla gran moltitudine de' corpi mostrata, che da ogni chiesa ogni di, e quasi ogni ora concorreva portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, massimamente volendo dare a ciascun luogo proprio secondo l' antico costume, si facevano per gli cimiteri delle chiese, palchi, ogni parte era piena, fosse grandissime, nelle quali a centinaia si met- tevano i sopravvegnenti. Ed in quelle stivati, come si mettono le mercatanzie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno, infimo a tanto, che della fossa al sommo si pervenia. Ed acciò che dietro ad ogni particularità le nostre passate miserie, per la città avvenute, più ricercando non vada, dico, che così inimico tempo correndo per quella, non perciò meno d'alcuna cosa risparmiò il circustante contado, nel quale (lasciando star le castella , che simili erano nella lor piccolezza alla città) per le sparte ville, e per li campi i lavoratori miseri, e poveri, e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico, o aiuto di servidore, per le vie, e per li loro colti, e per le case, di dì, e di notte indifferentemente, non come uomini, ma quasi come bestie, morieno. Per la qual cosa essi così neli loro costumi, come i cittadini, divenuti lascivi, di pinna lor cosa, o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel giorno, nel quale si vedevano esser venuti, la morte aspettassero, non d'aiutare i futuri frutti delle bestie, e delle terre, e delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli,che si trovavano presenti, si sforzavano con ogni ingegno. Perchè addivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli, ed i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li campi, dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte, ma pur segate, come meglio piaceva loro, se n'andavano: E molti quasi come razionali, poiché pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case, senza alcuno correggimento di pastore, si tornavano satolli. Che più si può dire, lasciando stare il contado, ed alla città ritornando, se non che tanta, e tal fu la crudeltà del Cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infral marzo, ed il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità, e per l'esser molti infermi mal serviti, o abbandonati ne'lor bisogni; per la paura, ch'avevano i sani, oltre a cento mila creature umane, si crede per certo, dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse anzi l'accidente mortifero non si saria estimato tanti avervene dentro avuti. O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri, per addietro di famiglie pieni, di signori, e di donne, infino al menomo fante rimaser voti ! O quante memorabili schiatte, quante amplissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galleno, Ippocrate, o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co'loro parenti, compagni, ed amici, che poi la sera vegnente appresso nell'altro mondo cenarono colli loro passati ! » Quando nel milanese scoppiò la peste nel 1630 era tutta recente la memoria di quella di san Carlo avvenuta 53 anni innanzi, e 5 anni dopo un'altra non meno micidiale. Esso santo, quasi ne prevedesse il vicino ritorno, nel concilio V provinciale e nelle costituzioni della Chiesa milanese avea trattato del come preservarsene e curarla (1): e quantunque ponesse egli maggior riguardo alle anime che ai corpi, all'indulgenze che agli argomenti umani, più che a riparar i sani, a consolar gli infetti e mandarli confortati nella speranza del perdono; pure diede alcune providenze, che sarebbero toccate al magistrato della sanità, e che poterono giovare nel rinnovarsi di quel disastro (2). Il cardinale Federigo cercandone le cause, oltre le soprannaturali, singolarmente ne accagionava la fame, nata sì dalla sterilità dei campi, si dalle violenze di que' brutali soldati stranieri. Perocchè, dic'egli, i Lombardi sono dilicati insieme e forti: la forza li rendeva indomiti fatiche e guerre, e domandatene le storie; ma poi per ogoglio, fastidio e mollezza degli ingegni, si sprezzò ed abborrì ogni disagio. I fisici Conservatori anch'essi aveano altamente gridato contro il venire di quell'esercito: erasi procurato s'imbarcasse a Colico, e così scendesse per acqua, evitando il pericolo del ladroneccio e del contagio (3), ma i Comaschi, per ischivar l'incomodo degli imbarchi, unsero con 4000 bei zecchini le mani a chi si dovea, per far voltare l'esercito dalla parte di terra. Tadini ne portò condoglianze al governatore Gonzalo: il quale


(1)Furono anche stampate a parte le sue Constitutiones et decreta de cura pestilentia, Venezia 1595. Ivi impone, che, all'avvicinare del malore, ogni vescovo faccia più volte le processioni triduane : si espongano le quarant' ore, si predichi, ogni congrogazione vada in processioni (cap.IV) Anzi vuole che, non solo sovrastando, ma infierendo la peste il vescovo ordini e faccia solenni processioni e applicazioni tante volte quante gli parrà bene (Cap. 14); ed asserisce che, sessant'anni innanzi, Milano era potuto liberarsi dal contagio in nessun'altra maniera che colle processioni. (2) Intorno alla peste di san Carlo, oltre gli storici generali e i biografi di lui, abbian, la l'era narratione del successo della peste del 1576 da GIACOMO FILIPPO DESTA, Milano, Ponzii 1576 - I fatti di Milano al contrasto della Peste del Rev. P. BUGATTO, ib.-cinque libri degli avvertimenti, Ordini, Gride et Editti fatti el osservati in Milano ne' tempi sospettosi della peste, ecc. raccolti dal Cav. ASCANIO CENTORIO. Milano, Ghisolfi 1631. Quanto alla peste del 1630 ho consultate RIPAMONTI, De Peste, Malatesta 1640. - Ragguaglio dell'origine et giornali successi della gran peste, contagiosa, venefica et malefica seguita nella città di Milano et suo Bucalo dell'anno 1629 all'anno 1632.. ecc.: per ALESSANDRO TADINI, Medico Fisico collegiato et de' conservatori della Sanità, ecc. Milano. Glasolli 1048 - La peste seguila in Milano l'anno 1630, raccontata da Don AGOSTINO LAMPUGNANI Milano, Ferrandi 1634. - Memorie-dette cose notabili successe in Stilano intorno al mal contagioso l'anno 1630, del ricorso da' signori della città a' Padri cappuccini per il governo del Lazzaretto, ecc.. ecc.„ raccolte da D. PIO LA CROCE. Milano, Maganza 1730 (é cavata evidenteménte da una cronica contemporanea di cappuccini). RIVOLA nella vita di Federico Borromeo, Garibaldi 1666. SOMAGLIA. Atteggiamento dello stato di Milano per le imposte e loro ripartimenti, ecc. Milano 1658. -SQUARCIALUPI MARCELLO, Difesa contro la peste con i rimedii pili facili., ecc., con le vere cagioni del vivere., morire, eCe. Sfilano, Bidelli. - ANGLESI BERNARDO. il compagno fedele, opera utilissima a chi desidera vivere sicuro della peste e saper la causa di tal accidente., Milano, cetti, 1630.- ARCADIO ALESSANDRO, contemplationi medicinali sopra del contagio, Tortona 1632. - FEDERICO BORROMEO, istruzioni, ordini ed avvisi dati al clero e popolo milanese con l'occasione della pestilenza del 1630: ordine da tenersi nel far l'oratione comune nella città e Diocesi di Milano la mattina, il mezzogiorno e la Sere nei tempo della presente pestilenza : inoltre un manoscritto autografo nell'Ambrosiana, De poestilentia quae mediolane, anno 1630 magnam stragem edidit. - PIETRO VERRI, Storia di Milano', ed, osservazioni sulla Tortura, Edizione del Silvestri, 1818. - MURATORI, Del governo della peste, Silvestri 1831. (3) TADINI, pag.28. .. li venivano. poi a scaricare sul carro come sacco di grano, nulla curandosi che indecentemente giù dai lati pendessero e gambe e braccia e teste. Cap. XV. Pag. però rispose non sapere che provisione pigliare nella introduzione dell'esercito imperiale atteso che così compiva al servizio ed interesse di S. M. Cesarea, et che più presto s'arrischiasse il pericolo che si temeva, che si perdesse la riputazione dell'Imperatore... e questo non, ostante, si sperava ancora la liberazione dalla divina Providenza. Parole che ricopiamo tali quali dal Tadini (1), e che bastano a mostrare la supina infingardaggine di quel mostruoso governo. Aggiungete che l'Arconati, presidente del senato, non secondava le providenze di chi aveva più sana la mente, perchè « non sapea darsi a credere che fosse per venirne tanto male»; o Io dicesse per isconsigliata ignoranza, o per vilissima compiacenza al governo, cui tornava a conto il sostenere che il male, se pur male vi era, non fosse contagioso. Il Ripamonti, ragionatore più giusto che non potrebb' attendersi in quell'età, si ride di chi voleva apporre la colpa della fame e della peste alle due comete del 1628 e 1629 (2), ed ai versetti che, come oroscopo, correvano per le bocche Mors et fames vigebit ubique e Mortales parat morbos, miranda videntur (3): e la vera causa, dic'egli, fu quell'esercito che male n'aggia, il citale se proprio non ha sparso il morbo, si vi dispose i paesani col far tanto ambasciare gli animi e patire i corpi. La Sanità però, veduto che assolutamente voleasi lasciar passare quelle truppe, ordinò molte e buone providenze contro la peste: ma ALTRETTANTA ERA LA TRASCURANZA DELL'ESEGUIRE E LA DESTREZZA NELLO ELUDERLE. Di fatto concordano tutti nel dire come la smania di trafugare qualche cencio o qualche parte de' furti dei Tedeschi, il puzzo e l'immondezza che lasciavano per le vie dove s'erano stanziati, agevolò la diffusione del malore. Appena n'ebbe sentore, la Sanità mandò il Tadini a visitare le terre infette. Il quale trovò pur troppo andar il malore acquistando: onde a sequestrare, purgare, bruciare; ma intanto la peste era arrivata in Milano. Ai primi d'ottobre (4) del 1629, sul far della notte, un soldato (5) di quelli al servizio della Spagna e che era di quartiere chi dice a Lecco e chi a Chiavenna, veniva a fermarsi alla porta d'una casa in Milano nel borgo di porta Orientale, vicino ai Cappuccini, e saliva a trovare i suoi parenti, che quivi abitavano. Portava un gran fagotto di vesti comprate, diceva lui, dai lanzichenecchi, ma piu probabilmente rubate


(1) P. 16. Ma Antonino Pio diceva: « Amo meglio conservare un cittadino che uccidere mille nemici ». (2) Nel 1429 eran comparsi quattro Soli, causa di sgomento, confutata da P. GASSENDt nell'epistola De parheliis. (3) TADINI al contrario ha come di fede che la cometa apparsa in giugno verso Settentrione e l'eclissi del sole fossero inditio manifesto del futuro castigo della peste, pag. 110. (4) Altri mette al 22 di questo mese. (5) Il primo che introdusse la peste in Milano fu un Antonio Lovato, o com'altri scrive un Pier Paolo Locato militare. a quelli che le avevano prima rapite agli abitanti dei luoghi, donde erano passati quei ladroni. Potete immaginarvi la festa che gli fecero i parenti nel rivederlo, riabbracciarlo; e si distribuirono in regalo la roba del fagotto. Stanco, si mette a letto dopo la cena; ma, la notte, si sente male, una gran sete, un gran dolor di capo, trafitte sotto un'ascella; e grida di chiamargli un prete, perchè se ha da morire, vuol morire da cristiano. A vederlo cogli occhi stralunati, e la bava alla bocca come un cane rabbioso, i parenti si spaventano, si cacciano le mani ne' capelli, non sanno che fare, e per poco nol lasciano morire così, come una bestia, se uno più coraggioso non corre subito all'ospedale a domandare una portantina da trasportarvelo. Così fu eseguito, e nel visitarlo in quella casa grande dei poveri gli si scoperse un bubbone , grosso come un pugno, sotto un'ascella. Peste bell'e buona, di quella di san Carlo, la giudicarono subito i dottori, che stavano alla sorveglianza, per ordine del tribunale della Sanita. Alla quarta giornata, quel povero soldato moriva. Appena messo sotto terra, dove si sperava col suo cadavere di seppellire la radice del contagio, fu spedita gente a segrégare ed a sequestrare in casa la famiglia del morto, la quale non poteva persuadersi che il suo parente avesse loro portato quell'infausto regalo. Intimate pene ad arbitrio di Stia Eccellenza al primo di loro che osasse uscire dalle camere, dove li avevano imprigionati per non propagar fuori il male, delle vesti e del letto in cui aveva dormito il soldato fu tatto un falò, credendo di bruciare il germe della fatal malattia. Ma ahimè ! due poveri serventi dell'ospedale che l'avevano avuto in cura, e un buon frate che l'aveva assistito caddero anch'essi ammalati in pochi giorni, tutt'e tre di peste. Il tribunale della Sanità, che fino dal principio del passaggio delle truppe alemanne per porsi all'assedio di Mantova, aveva temuto entrasse nel Milanese il contagio , si mise in allarme, e ordinò infinite cautele perchè il male non si propagasse di piú. In Milano non mancavano nemmeno allora della gente di senno, e tra queste il protofisico Lodovico Settala, il dottor Tadini e lo stesso cardinale arcivescovo Federico Borromeo, che appena si riseppero i primi casi di mal contagioso, prescrisse con lettera pastorale a' parroci, tra le altre cose, che avvisassero il loro gregge dell'importanza e dell'obbligo di coscienza di rivelare ogni accidente di malattia con bubboni, e di consegnare le robe infette e anche soltanto sospette. Ma se molti erano quelli che comandavano, pochi erano quelli che obbedivano, e il male serpeggiava intanto intorno le mura della città, senza poter per alcun tempo entrarvi. Il soldato , con que' suoi cenci strappati da dosso Dio sa a qual disgraziato preso dal contagio, aveva lasciato nel borgo di porta Orientale un seminio che non tardò a germogliare, meglio d'una gramigna in un campo di frumento. Il primo a cui s'attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un suonatore di liuto, che dall'alba al tramonto se n'andò all'altro mondo. L'affare si faceva serio, e ci mise mano ferma il tribunale, il quale ordinò che tutti i pigionali di quella casa fossero condotti al lazzaretto, dove c'era da dar ricovero a molte migliaia di persone che fossero senza tetto. Non ci volevano andare quei miseri, e ve li dovettero trascinare come bestie, che rinculano dopo aver fiutato l'odor del vicino macello. E la più parte avevano la peste indosso, poiché appena messi al lazzaretto, furono presi dalla febbre, spuntarono loro i fatali bubboni, e alcuni morirono. A dir la verità, qualcuno ne guarì, ma rimase poi scemo, istupidito. Lentamente andò serpendo il contagio tutto l'inverno e facilmente, sarebbesi potuto svellerne le radici; ma che? la plebe, persuasa che questa fosse un'altra delle tante angherie di un governo in cui non aveva fiducia, negava ostinatamente fede ai primi casi, mormorava contro la Sanità, minacciò e peggio i dottori che sostenevano contagioso il male, singolarmente il Tadini e il Settala (1); mentre applaudiva al Carcano, al Monte, al Calvo, al Chiodo (2), che si rideano delle provvidenze, dicendo, se quel male fosse contagioso, nè cosi lento progredirebbe, e tutti ne rimarrebbero presi (3). I negozianti mostravano di nulla crederne per non interrompere i traffici loro. Il governatore, essendo nato un figlio al re Filippo IV, ordinò nel novembre una di quelle allegrezze, sempre del pari sincere (4); e la plebe corse in folla a vedere in piazza del Duomo un fuoco artificiale rappresentante il monte Etna ; ed alla chiesa di San Celso ad ascoltare

(1) Lodovico Settala un de' migliori pratici di quel secolo, scolaro del Cigalini di Como. in il primo che in Pavia ottenesse di' leggere straordinariamente la pratica; come fè por in Milano, ove divenne protomedico di tutto il ducato. Libero nell'opinione e nell'esame per quanto il secolo gliel consentisse, non si fe' scrupolo di contraddire alle sentenze de' gran maestri; insegnò pratiche buone insieme ad altre riprovate. Abbiamo di lui alle stampe iin men tari i sui problemi d' Aris toti le ; sopra il trattato d'ippocrate dell'arie, acque e luoghi : sulla natura de' porri: sette libri d'avvertimenti medici: un giudizio su certe perle : la preservazione della peste: della appetenza venerea, ed altre cose tutte peripatetiche, colle più strane ragioni, che lo farebbero oggi ridicolo e beffato, quanto allora il faceano tenere ini paragone di dottrina. Scrisse pure della Ragion di Stato, libro ancor più inutile che i terapeutici. Aiutò assai i Milanesi nelle pesti del 1576 e nel 1630: mori nel 1633, o potete . vederne in San Nazaro Grande l'epitaffio, ove si dice che « vinse la morte qualvolta volle, la vinse qualvolta diede rimedii, ed anche coi libri combattè i mali e la morte (2) Anche nella peste del 1776 Girolamo Mercuriale e Girolamo Capodivacca professori di Padova, sostennero esser quella epidemia non contagiosa, onde non si posero ripari e il Veneziano fu disertato. (3) Sono le stesse ragioni colla quale il Times sosteneva che il Cholera morbus non è contagioso. (4) Veggasi « Lamentazioni che fanno Baltramm de Gasgian e Bauscion de Gongonzoeula » sopra i presenti tempi calamitosi, e raccontano altresì le allegrezze che si fanno in Milano per la nascita del presente Principe di Spagna, ecc. » Milano 1630: é in dialetto. quel portento d'eloquenza e di filosofia, Emanuele Tesauro, il quale vi recitò un suo panegirico ai meriti futuri del neonato, figlio delle grazie, candidato de' paterni regni, gemma incomparabile della maggior corona del mondo, fondamento delle speranze, speranza et voto de' popoli, humano angioletto et mortal Dio: e dopo aver magnificato il gran bene d'essere sudditi alla Spagna, congratulavasi colla casa reale perchè avesse abbattuta l'eresia della Germania, sopra cui passando la ruota dell'austriaca fortuna, ormai le ha frante le armi e tolto il fiato, e scorrendo liberamente non pure il Reno e il Danubio e l' Albi, ma il gelato mar di Dania, anzi ne' monti ungarici et bohemi per un mar di sangue rubello felicemente veleggia. Cosi passava il restante di quell'anno, senza potersi ben dire se la peste ci fosse di passaggio o di residenza, perchè i casi erano rari; e quella radezza allontanava il sospetto della verità, e confermava sempre più il popolo nella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste in Milano o nei borghi, nè ci fosse stata neppure un momento. « Peste?" diceva uno " l'ha la povera gente nelle tasche! " Dà ascolto suggeriva un altro « alle cabale del tribunale della Sanità, che ti vuol sequestrare i mobili per farti dormire per terra! « Moneta intesa gridava un terzo tra i ricchi e i dottori per spaventare il popolo e tenerlo quieto! E queste teste di legno non capivano che nessuno ci guadagnava colla peste, che il flagello bisognava tenerlo indietro coll'obbedire agli ordini, ai suggerimenti del tribunale. In quella confusione di idee di chi credeva e di chi negava, tra quello schiamazzo di gente che bestemmiava in piazza, e di gente che pregava in chiesa, collo spavento in cuore a tutti per la cometa comparsa in cielo con una gran coda, su cui stavano a cavallo tutte le disgrazie di quell'anno, la peste veniva innanzi, serpendo lentamente, ma velenosa come la lingua d'una vipera. Quasi che non bastasse l'ignoranza del popolo, gli facevano eco alla voce alcuni medici di strapazzo che si erano messi, per conto di chi sallo Iddio, a deridere gli auguri sinistri e gli avvertimenti minacciosi di quei pochi, i quali avevano conservato un po' di sale nel cervello, di quel sale messovi nel santo battesimo. E sapete che argomenti adoperavano quei dottoroni dell'acqua fresca? Dicevano che la peste era una immaginazione e che c'era tanto in Milano come l'araba fenice, e che quei bubboni non erano altro che la conseguenza delle penurie dell'anno antecedente, delle angherie della soldatesca e delle afflizioni d'animo. « Febbri, febbri maligne! gridavano che passeranno con una annata più abbondante. Guai sulle piazze, nelle botteghe, nelle case a chi buttasse là una parola del pericolo, a chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. Funesta incredulità ! poichè, come s' apri la stagione, favorito da una primavera ardente poi umidissima, indi da tre mesi di caldora senza pioggia mai, irruppe il male in tutta la sua furia. Cominciando l'aprile frequentarono viepiù i casi, prima nel borgo degli Ortolani, indi in porta Orientale, poi d'una in una fino alla Romana che ultima ne venne assalita. Allora mutate le incredule beffe in disperata certezza, sostituito lo spavento a quella calma, che in tutti i mali è un rimedio, nei contagi è anche un preservativo: assai i cittadini ed i migliori fuggivano, benchè fosse ordinato che ciascuno rimanesse al posto, a far quella carità che era da lui: il governo, affaccendato dall'urgenza del bisogno, come succede quando si lascia arrivare il tempo grosso innanzi provvedere, dava ordini tardi, inutili, sconsigliati. Non che il senno e i mezzi per riparare, appena bastavano le lacrime a pianger i casi moltiplicati. Venivano questi miserabili ricettati nel borgo della Trinità, verso Sant' Ambrogio ad nernus, fuori porta Vercellina, e in un ricovero vastissimo a San Barnaba al fonte. Rimasti spopolati alcuni quartieri della città, furono messi ad uso degli appestati. Poi non bastando, si fabbricarono ad ogni porta duecento capannette di legno divise una dall'altra per un fossatello, fra le quali n'era una più grande per cuocere cibi, un' altra per restarvi i soldati alla ronda, nel lor mezzo una croce, i cui aspetto consolasse i soffrenti: nobili signori vi soprantendevano. Quivi principalmente si poneano a tre o a quattro in ogni capanna i sospetti lo i guariti a durar le quarantene, al che servivano pure i cosi chiamati Borghetti, uno in porta Romana, uno in borgo della Trinità, uno alla Foppa di porta Comasina. Pei cadaveri poi c'erano scavate due gran fosse, una a San Rocco del lazzaretto, una al Foppone di porta Romana, oltre ventiquattro altre pur grandi, ed alcune piccole a ciascuna porta (1). I1 tribunale della Sanità però tagliava corto, e ad ogni scoperta che gli riusciva di fare ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzaretto. Da qui nasceva che gli avvisi dei casi di peste, quando pur gli pervenivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia, ch'era pecunia e corda, e la paura del lazzaretto aguzzava l'ingegno della povera gente, fissa a non credere alla peste. Molti non denunziavano gli ammalati, a rischio di morire anch'essi dello stesso male; altri corrompevano i becchini e i loro sopra- intendenti, tutta gente avida di danaro; e si giungeva fino a comperare falsi attestati dai subalterni dello stesso tribunale , deputati da esso a visitare i cadaveri. I parenti poi , gli amici , i conoscenti di quelli ch'erano morti o trascinati morenti al lazzaretto, se la prendevano coi medici, massime col Tadini, a tal segno che ormai più non potevano attraversare le

(I) Nei tempi ordinari si componevano i morti ne' cimiteri che erano per lo più avanti a ciascuna chiesa. Il Gentilino fu mutato in mpoltura nel 1529 quando si sotterrarono 22,000 appestati. piazze senza essere assaliti da ingiurie, quando non eran sassi che volavano al loro indirizzo. Più d'una volta si videro misurare i pugni al viso da certi malviventi, i quali strepitavano che quella era una manifesta impostura, una cabala ordita per far bottega sullo spavento della povera gente. Ma essi non potevan soffrire di veder venire avanti un orribile flagello, senza procurar di stornarlo, e preferirono esser bersaglio delle contumelie della gentaglia, esser creduti nemici della patria, piuttosto che starsi colle mani ciondoloni ad aspettar la strage minacciata dalla peste Vedete che capitò al Settala, vecchio presso agli ottant'anni. Un giorno in cui andava, come il solito di tutti i di, in bussola a visitare i suoi ammalati, i quali erano sempre in gran numero per la stima che avevano in Milano e fuori della sua scienza, nel metter fuori il capo canuto a salutare un amico fu visto da uno o da due di quelli, i quali non volevano che ci fosse assolutamente peste in città, e fu segnato a dito ai passanti. In un baleno, principiò a radunarglisi intorno gente, con atti e con parole da far spaventare, non un vecchio di ottant'anni, ma il più coraggioso giovane. « E lui », gridavano alcuni, « quel birbone di professore che vuole per forza che ci sia la peste ». « E della lega », aggiungevano altri, « del tribunale per mettere in spavento Milano ». « Cane non mangia cane », notava un terzo, levando la voce a dominare il mormorio della folla, « è medico. Non vedete che cipiglio e che barbaccia da Caino? ». Strappategliela pelo per pelo, suggerì un tristo, e forse si sarebbero messe le mani sul vecchio venerando. Di fatti, la folla ed il furore andavano crescendo ; ma i portantini vegliavano alla sua salute, e, vista la mala parata a forza di gomiti e di spinte divisero la calca, e poterono cosi ricoverare il padrone dentro la porta d'una casa d'amici, che, per fortuna di Dio, era vicina. « Dalli! fermalo! accoppalo! » furono i saluti del popolo, a cui era sfuggita l'occasione di malmenare quel bravo uomo, e insieme alle grida volarono i sassi, che non colpirono nessuno. Ma il castigamatti si fece sentire alla fine di marzo, quando cominciarono prima nel borgo di porta Orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, a spesseggiar le morti, con accidenti, strazi di spasimi, palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle ;insegne funeste di lividi e di bubboni schifosi. E che sorta di morti, celeri, violenti, non di rado repentine, come il colpo d'un fulmine, senza alcun indizio antecedente di malattia. Allora bisognava veder con che orecchie basse andavano attorno quei che prima negavano la peste , e si tiravano appresso al muro, per due paure, quella del contagio e l'altra più certa d'esser salutati dai popolo coi ciottoli delle strade. Più ridicola figura facevano i medici, i quali non volendo ora confessare ciò che avevano deriso, e obbligati dai colleghi, dagli amici e dagli ammalati a dare un nome alla nuova malattia, cui negavano che fosse peste, si tormentavano il cervello a cavar fuori nomi strani di febbri maligne, di febbri pestilenziali, truffando a parole di nuovo il povero popolo. Intanto alle parrocchie cominciando a suonare più agonie che ore, lo spavento dí dover finire tutti a quel modo si cacciò in mezzo la povera gente, la quale capì d'essere stata raggirata dalle prediche degli ignoranti o degli astuti. Dalla febbre si guariva, ma da questa s'andava diritto alla fossa. A chi prima persuaso che il male s'attaccava per mezzo del contatto, recava l'esempio delle mele alle quali basta una a infracidirle; tutte, si rideva in facola, chiamandolo babbuino, adesso si faceva di berretto, ascoltandone i consigli come fossero parole dette nel nome di Dio. Come la peste aveva fatto in fretta a raddrizzare il cervello di tanti increduli! I magistrati, che avevano fino allora dormito i sonni beati sugli scartafacci delle proposte del tribunale della Sanità, si destarono anche essi, e cominciarono a portare un po' più di orecchio agli avvisi, ai suggerimenti, a far eseguire gli editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale. Ma a questo mondo, senza denaro, hanno ben pari predicarlo quelli che hanno la pancia piena, non si fa nulla, e l'oro ch'esce dalla zecca, sotto la forma di monete sonanti, è il secondo sangue d'un paese. E denari ci volevano a supplire alle spese giornaliere, crescenti del lazzaretto, e di tant'altri servizi, e il tribunale della Sanità ne chiedeva ai decurioni, bersagliati anche dal governatore, il quale voleva che pensassero alla maniera di vettovagliare la città prima che, dilatandovisi il contagio, le venissero impedito le comunicazioni col contado. Miserie sopra miserie! quei poveri decurioni si trovavano al duro partito di provvedere al mezzo di mantenere una gran parte della popolazione, a cui erano mancati i lavori, e la bocca l'avevano tutti egualmente. Siccome a ciarle non si dava da mangiare a nessuno, cosi dovettero ricorrere a prestiti, ad imposte, e dei danari raccolti darne un poco ai poveri, ch'erano come nidiate di formiche sbucate dalla terra. Ma il peggio non era ancor venuto. Chi avesse visto il lazzaretto in quei giorni pieno come un uovo l'una popolazione, che, decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, si sarebbe sentito stringere il cuore da una pietà non mai sentita in sua vita. C'era da porsi le mani nei capelli a voler riuscir bene ad assicurare il, servizio e la subordinazione, conservare le sega- razioni prescritte, mantenervi insomma o, per dir meglio, stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della Sanità, chè, fin da' primi momenti del contagio, c'era stata ogni cosa in gran confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la convivenza delle persone adette n1 servizio. Una vera babele, dove c'era per massima, comanda chi può, obbedisce chi vuole, e il male intanto ingagliardiva in città, e traeva qui sempre nuovi inquilini a morirvi la più parte, tra i deliri e la fiera agonia della peste. Il governatore, con tutto il suo talento, impuntigliato a voler prendere Casale, che era un osso duro, lasciava al gran cancelliere ed al senato di cavarsela da quella miseria. Ma a tant'uopo riuscivano scarsi e inadeguati i medici, sì pei tanti che erano morti, si per quelli che si sottraevano al loro dovere. Già sul principio il vicario ed i decurioni aveano scritto al collegio de'dottori (1) perchè questi usassero carità: ma a molti non bastava il cuore, altri s'erano fatto di quella calamità un'occasione di guadagno, rifiutandosi visitare chi non pagasse uno cecchino la toccata del polso (). Si erano quindi promessi pubblicamente premi a chi venisse : ma costoro erano o ignoranti o menzogneri : ed alcuni Francesi, finti medici e laragmente stipendiati, convinti poi d'esser tutt'altro, vennero a frustate cacciati via. Anche i soldati messi di scorta al lazzaretto, ben presto morirono tutti. Ma là appunto ove fallivano gli argomenti umani sorse l'inesauribile soccorso della cristiana carità. Voi mi prevenite, o lettori, nominando i cappuccini, ai quali venne raccomandata la cura dei malati (3). Il padre Felice Casati da Milano, del convento delìa Concezione, entrò nel lazzaretto alli 30 marzo con carico di dirigente e governatore di detto Lazzaretto, con ampia autorità di comandare, ordinare, provvedere, e fare tutto quello che dalla singolare sua prudenza fossse reputato necessario, avendo havuto sotto il suo governo et comando talhora più di sedici mila anime, et governato nel detto spatio di tempo cento mila persone e più (4). Questa dittatura, STRANA COME LA CALAMITA', COME I TEMPI, non era cosa nuova, essendosi altrettanto concesso nella peste di san Carlo al cappuccino fra Paolo da Brescia, uomo, dice il Ripamonti, in parte simile al padre Felice, in parte ancora più atto all' incarico, per la se- (1) Il 5 giugno. V. TADINI, p. 104. (2) TADINI, p. 133. (3) Badino i lettori a questo passaggio del LA CROCE, p. 12. Nelli stessi giorni it P Cristoforo da Cremona, sacerdote, molto avanti giù eletto a quei servizio (del lazzaretto), tolti gli ostacoli che fin allora gliel'averano impedito, al fine entrò nei desiderato aringa,. E ben si può dire desiderato, perchè fu più volte udito dire: " Io ardo di desiderio di andar a morire per Gesù Cristo, ed un'ora mi pare mille anni,. Desiderio ch'ebbe poi felicissimo retteti° corrispondente al l0 di giugno, morendo di peste per il servizio di que'poreri, nella persona dei quali sertiVa il suo diletto Gessi. (4) Cosi una patente del tribunale di Sanità, 20 m9ggiO 1632. verità e gli aspri modi e certa fiera indole propria del suo paese. Ed ancora, siegue egli, vivono in bocca degli uomini i racconti de' satelliti di fra Paolo, i carnefici, i patiboli, le corde, e lui stesso armato, e col volto, o giudicasse o decretasse, minaccioso ognora e truce. Deh quale spettacolo faceva un frate francescano travestito da magistrato! E ben venne a lui fatto di castigare e reprimere le libidini e i furti e gli altri vizii che baldanzeggiavano fra la miseria ed il bisogno (1). Aiutante al padre Felice in questo reggimento era il padre Michele Pozzobonello da Milano, questi rigoroso, quegli dolce; questi temuto, sì che appena dicevasi, ei viene, tosto s'acquetavano i gridi, la confusione; quegli amato, sapendo mescere, come il Samaritano del Vangelo, il vino e l'olio a medicare le piaghe: ed, o fesse da giudice o da padre, induceva gli animi alla correzione; sebbene all'uopo sapesse resistere ai grandi, combinando la gravità di superiore e l'umiltà del cappuccino (2). E quando sull'inviare alla quarantena al Gentilino i risanati, parlò a questi le più fervorose parole di esortazione, di ammonimento, di speranza, poi messasi la corda al collo ed inginocchiatosi con molle lagrime, umilissimamente a tutti chiedette perdono, non solo a nome suo, ma anche a nome di tutti li compagni, se a caso non gli avessero serviti con quella prontezza, carità ed umiltà che dovevano, ed anche se da loro avessero per avventura ricevuto qualche mal esempio per fragilità, non fu chi potesse frenarsi dalle lagrime. Oh, la carità fiorita di quei padri! più cresceva la caterva dei malati, e più aumentava il numero e la carità dei cappuccini , e il divenire il loro campo di battaglia, dove furono isoprintendenti , infermieri, cucinieri , guardarobi , lavandai , tutto ciò che occorresse. Di giorno, di notte, per i portici, per le stanze, con un'asta in mano come prima autorità di quel luogo, talvolta non armato che di cilizio s'aggirava un frate sempre affaticato e sempre sollecito, e tutti invocavano, e da per tutto risuonava il nome di padre Felice, il quale animava e regolava ogni cosa, sedava i tumulti, faceva ragione alle querele, minacciava, puniva, rispondeva, confortava, asciugava e spargeva lagrime. La peste non risparmiò neppur lui, ma ne guarì, e si rimise, con nuova lena, alle cure di prima. Sette mesi durò il padre Felice nella carica di re di quel luogo di miserie, e in queste tempo si furono ricoverate non meno di cinquantaduemila persone. Nè il flagello accennava di voler cessare o almanco diminuire; anzi, dopo esser rimasto per qualche tempo solamente tra' poveri cominciò a toccar persone d'alto affare.

(1) De Peste, p. 349. E il BUGATO, p. 51, dice che fra Paolo faceva frustare uomini e donne, alle volte dar della corda non che prometterla, e data toso dell'altre penitenze destramente e piacevolmente. (2) CROCE, p. 72-76. Non c'era più ragione di dire ch'era una cabala ordita dai ricchi, capitanti dal vecchio Settala, perchè caddero infermi lui, la moglie, due figliuoli, sette persone di servizio. Allora si gridò, che il povero vecchio aveva avuto ragione di predicare in principio, che quell'era peste, che s'attaccava per via del contatto e della pratica, e cessò in quasi tutti la caparbietà di negar la fatale malattia, la quale non aveva riguardi per nissuno. Ma non ci mancava altro che il diavolo ci ficcasse la sua coda, e vedete in qual modo. Quelli che sul bel principio avevano negato che ci fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male che poteva, per via del contatto, propagarsi a fare una strage, non potendo ormai dir più di no davanti quei casi di morte di tutti i giorni, di tutte le ore, invece di piegarsi ai fatti almanaccarono nel loro cervello a cercare qualche altra causa. Per disgrazia, ce n'era una lì in pronto nelle idee del popolo miianese, e del popolo di tutto il mondo d'allora. Si misero in testa che la peste non veniva da sè, ma c'era gente congiurata a spargerla per mezzo di veleni e che i bubboni non spuntavano mica per conseguenza della malattia, ma erano invece conseguenza di operazioni diaboliche. Quei che credevano di saperla più lunga degli altri citavano un dispaccio, sottoscritto dal re di Spagna, al governatore, per avvertirlo ch'erano scappati da Madrid quattro Francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi : stesse all'erta, se mai coloro fossere capitati in Milano. Il governatore aveva comunicato il dispaccio al senato e al tribunale di Sanità i quali, non essendovi al momento peste in giro, non vi badarono nè tanto, nè poco. Però scoppiata e riconosciuta la peste, si ricordarono dell'avviso dell'anno prima, e cominciarono a mettersi in testa l'idea di gente che spargesse veleni per appestare la città. Cosa vuol dire quando l'immaginazione si riscalda in certi cervelli! ecco che alcuni credono di aver veduto, la sera del diciassette maggio persone in duomo andare ungendo un assito che serviva a dividere gli spazi assegnati ai due sessi, e, quella notte stessa, bestemmiando antro gli untori, strappano l'assito, lo trascinano fuori della chiesa con una quantità di panche, e vogliono far un falò di tutto. Un sagrestano del duomo corre ad avvertire dello scandalo il presidente della Sanità il quale viene subito a far la visita, con quattro persone dell'uffizio, i quali, non trovarono nulla, cha confermasse il sospetto d'un attentato veneficio. Ma sentendo le mormorazioni, le sorde minacce della gente, accorsa a veder che fosse quella combricola notturna alle porte del duomo, decisero di far dare una buona lavata all'assito ed alle panche. Quando la mattina quei che passavano davanti i gradini del duomo videro quel volume di roba accatastata, e seppero di che si trattava, corsero a portare attorno la nuova, naturalmente colla frangia, che si erano scoperte unte in duomo tutte le panche, le pareti, e tiri le corde delle campane. Di bocca in bocca, la notizia ingrossava, e non è da ridere che ci sia stato qualcuno ch'abbia creduto in buona fede che erano stati trovati unti di veleno ircalice e il prete che diceva la messa. Ma fu uno scherzo o cosa fu, la mattina seguente si videro in città le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che porcheria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne. Fu uno spavento più grosso del dì prima, perchè qui nessuno poteva negare quella hnbrattatura, e si fantasticava che sorta di veleno potesse essere, se di rospo o di vipera, ovvero bava pestifera dei morti al lazzaretto, come volevano i più paurosi. Intanto la città, già agitata, ne fu sottosopra; i padroni delle case, con covoni di paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti, i passeggieri si fermavano, guardavano, domandavano, inorridivano, fremevano. Le donne strepitavano ch' era un tradimento dei forestieri per invidia di Milano, e gridavano d'abbruciar quelli per i primi. Altre, colle lagrime agli occhi, narravano d'aver esperimentata, Dio sa come, quella materia, che imbrattava le muraglie e le porte, sopra il cagnolino, sopra il gatto di casa, i quali n'erano morti subito, al contrario di quanto era successo al tribunale di Sanità, dove fu trovata senza effetto. Intanto il magistrato della Sanità aveva scritto al governatore la seguente lettera:

«Ills. et Sig.re»

" Venerdì sera ora passato, circa le tre di notte , il signor Presidente nostro fu avvisato da monsignor Visconti primicerio, monsignor Mazenta arciprete e monsignor Settala penitenziere maggiore della Chiesa Metropolitana di questa città, che s'erano vedute certe persone, che andavano ungendo l'assata di essa chiesa, che divide la parte degli uomini da quella delle donne, e dubitando che ciò fosse fatto ad arte, per allargare il male contagioso in questa città, proposero al medesimo signor Presidente se voleva mandare persona perita a visitare l'assata, ma perchè si trattava di negozio tanto grave, volse l'istesso signor Presidente alle tre ore di notte con uno de' signori fisici Conservatori, con chirurgo e cancelliere del Tribunale e con Notavo Criminale trasferirsi alla detta Chiesa maggiore ed unitamente alla presidenza dell' istesso monsignor primicerio, di monsignor Mazenta monsignor Settala ed altri preti visitò con esattissima diligenza , non solo la detta assata, ma ancora le panche e vasi dove si tiene l'acqua benedetta, e solo sopra l'assata si trovarono alcuni segni con qualche untume che a mala pena si poteva conoscere di che qualità fosse; e vedendo la premura che in ciò mostravano ddi. ss.i P.", il signor Pre sidente, piuttosto per abbondare in cautela, che per bisogno, disse che bastava , che prima di aprir la Chiesa , si lavasse detta assata con le sponghe, immerse nella liscia, et aceto, ma quei signori non contenti di questa provvisione (benchè non del tutto necessaria) concepita grande paura, fecero la mattina seguente portar fuori dalla detta Chiesa, non solo quella assata, ma ancora tutte le banche , che in essa si ritrovavano; la qual risoluzione tanto maggior timore ha eccitato nelli animi degli abitanti di questa città, quanto che ieri mattina si scoprirono molte porte delle case, diversi catenazzi di esse, ed infinite parti dei muri di quasi tutta la città contaminati di grasso, parte che tirava al bianco, e parte al giallo a segno tale, che la città era commossa a spavento, e gli abitatori con paglia accesa in mano bruseggiavano tutti i luoghi onti. Il che pervenuto a notizia dell'istesso signor Presidente, per soddisfare al suo carico , e per quietare il popolo tanto turbato mandò subito in diverse parti della città l'Auditore di questo Tribunale, i giudici criminali, ed altri dottori collegiati a riconoscere le ontioni e pigliare le informationi, non solo per venire in cognitione dei delinquenti, ma ancora per accertarsi se tali ontuosità erano pestilenziali, o no , come se ne fece la prova in due cani , dai quali sin'hora non è seguito alcun mal'effetto. Furono dal popolo trattenuti molti forastieri, pensando che fossero de'colpevoli, quattro de'quali furono condotti nelle ,carceri del signor Podestà, e subito dal signor Auditore esaminati, altri esaminò il Vicario di Giustizia , altri furono esaminati da altri dottori collegiati. Duoi, per essersi ritirati sopra il sacrato, furono condotti nelle carceri dell'Arcivescovado di ordine del signor Cardinale, restando anco incarcerati. Dalli esami di molti testimoni, delli stessi detenuti, nè da altra parte , benché si siano usate esattissime diligenze , sinora non si è potuto havere alcun indicio dei delinquenti o colpevoli; e sebbene crediamo, che cotale temerità sia piuttosto proceduta da insolenza che da fine scellerato , ad ogni modo non parendoci conveniente , che questo delitto in qualsivoglia modo resti impunito, massime in tempo tanto pericoloso e sospettoso , per consolazione e quiete di questo popolo, e per cavare indizio del fatto, abbiamo oggi pubblicato una grida, con partecipazione però del signor Gran Cancelliere e del signor Vice-Presidente del Senato, con la quale si sono promessi 200 scudi da pagarsi de' danari delle condanne di questo Tribunale a chi nel termine di giorni 30 metterà in chiaro la persona o le persone, che hanno commesso, favorito, aiutato o avuto parte , ancorchè minima o scienza di cotal delitto, oltre l'impunità di uno de' colpevoli , purché non sia il principale. Ne diamo di tutto il seguito compito ragguaglio all'Eccellenza Vostra, acciò resti servita (come istantissimamente la preghiamo) non solo di approvare la detta nostra grida, ma ancora di corroborarla con altra sua, con promessa di maggior premio da pagarsi dall'erario camerale e di liberazione di due banditi di casi gravi, oltre l'impunità. al notificante, purché non sia il principale colpevole, come l'anno 1576 fece in simil caso il signor marchese d'Ayamonte allora Governatore di questo Stato con duplicate sue gride e da V. E. sperando calore a. nostri sforzi, e fomento alle nostre diligenze , nelle quali non risparmiamo le nostre vite, restaremo pregando per la sua felicità la Maestà divina. » Di Milano a 21 di Maggio 1630. » Di Vostra Eccellenza. » Devot.°" Serv." »Il Presidente e Conserve della Sanità dello Stato di Milano. » JACOM. ANT. TAGLIABÒ, Cancelliere ».

Quanti poveri forestieri, facilmente conosciuti al vestiario, dopo la faccenda del duomo furono ad un pelo di incontrar la fine di santo Stefano! Accolti ad urla quand'uscivan dagli alberghi, accompagnati da una marmaglia di ragazzi che gridavano loro « dalli! dalli! » perseguitati come cani rabbiosi, erano i più fortunati quelli che venivano arrestati e condotti alla giustizia, perchè gli altri ebbero certe salve di pugni da far loro buttare il sangue dalla gola, e molti ammalarono dallo spavento d'esser caduti in mano di quei demoni. E sapete come sentenziavano i giudici? Dopo aver interrogati, esaminati arrestati ed arrestatori , testimoni , non trovando reo nessuno, facevano da Ponzio Pilato, lasciando al tribunale di Sanità di pescarsela in quel mare di guai. Subito venne fuori mia grida del seguente tenore:

» Grida contro coloro che sono andati ungendo le porte , i catenacci ed i muri di questa città.

» Havendo alcuni temerarj scellerati avuto ardire di andare ungendo molte porte delle case, diversi catenacci di esse e gran parte dei muri di tutte le case di questa città con unzioni parte bianche e parte gialle, il che ha causato negli animi di questo popolo di Milano grandissimo terrore e spavento dubitandosi che tali untuosità sieno state fatte per accrescere la peste, che va serpendo in tante parti di questo Stato, dal che potendone seguire molti mali effetti ed inconvenienti pregiudiciali alla pubblica salute, a quali dovendo li SS. Presidenti e Conservatori della Sanità dello Stato di Milano per debito del loro carico provvedere hanno risoluto per beneficio pubblico e per quiete e consolazione degli abitanti di questa città oltre tante diligenze sin qui d'ordine loro usate per metter in chiaro i delinquenti far pubblicare la presente grida. » Con la quale promettono a ciascuna persona di qualsivoglia grado, stato e condizione si sia , che nel termine di giorni 30 prossimi a venire dopo la pubblicazione della presente metterà in chiaro la persona o le persone, che hanno commesso, favorito, ajutato o dato il mandato, o ricettato, o avuto parte, o scienza ancorchè minima in cotal delitto scudi 200 dei denari delle condanne di questo Tribunale, e se il notificante sarà uno de'complici, purchè non sia il principale, se gli promette l'impunità e parimenti guadagnerà il suddetto premio. » Ed a quest'effetto si deputano. per Giudici il signor Capitano di Giustizia, il signor Podestà di questa città ed il signor Anditor di questo Tribunale, a quali, o ad uno di essi avranno da ricorrere i propalatori di tal delitto, quali volendo saranno anche tenuti segreti. » Data in Milano 19 maggio 1630. » M. ANTONIUS MONTIUS, Traes. » JACOBUS ANT. TAGLIABOS, Cancellarius ».

Il curioso si è che mentre il tribunale s'affannava a cercare, il popolo, come accade, aveva già trovato a chi affibbiar la reità dell'un azione velenosa. Chi voleva che le unzioni fossero state una burla degli studenti di Pavia, chi dei ricchi più scapestrati della città, chi degli uffiziali annoiati all'assedio di Casale, chi di don Giovanni Padilla, il figlio del castellano di Milano; chi invece vi riscontrava una trama del re di Francia, un ritrovato del cardinale di Richelieu per spopolare la prima città della Lombardia, chi una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova ex-governatore , accompagnato fuori da Milano a torsi di cavoli ; chi ne voleva autore il conte di Collalto , Wallenstein , questo, quest'altro gentiluomo milanese, e chi infine l'opera del demonio. Intanto venivano le due feste della Pentecoste, in una della quale s'usava d'andare al cimitero di San Gregorio, fuori di porta Orientale, a dire un deprofundis ai poveri morti dell'altro contagio, ch'erano sepolti là; e ci andava, si può dir , tutta la città come ad una passeggiata dì primavera, tanto più quand'era bella giornata, ognuno in gala più che potesse. S'andava, come dico, a pregare per i morti d'un male che avevano in casa. Alle porte della città li aspettava, d'ordine del tribunale di Sanità, il più ingrato spettacolo, quello che doveva aprire gli occhi anche ai più ciechi, e far riflettere i più testardi. Quel dì era morta di peste, tra gli altri, una intera famiglia, padre, madre, figli, più di sette persone. Ebbene nell'ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze dei signori, alle cavalcate dei nobili, e alla gente a piedi, i cadaveri di quella disgraziata famiglia furono condotti, sopra un carro, al cimitero, ignudi come il giorno ch'erano nati, affinché tutti potessero vedere coi propri occhi, e toccar con mano i san Tomaso, il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo e di terrore s'alzò per tutto dove passava il carro. Chi levava gli occhi al cielo in atto di supplica; chi li fissava a terra, disperato; chi si segnava, e chi bestemmiava contro il tribunale. In meno di un'ora, dalla piazza del duomo al cimitero suonava un solo mormorio.

Balbiani. - I FAMOSI UNTORI ECC. Disp. 17. ... è una bizzarria di cavalieri grandi per incantar la noia di quell'assedio di Casale: Cap. XVI. Pag. 291. Ma anche senza questo funebre spettacolo, il contagio andava acquistando fede da sè, in mezzo al popolo, ogni giorno piu; e quella passeggiata al cimitero di San Gregorio servi non poco a propagarla. Quanti, l'indomani, di quelli che andarono a pregare pei morti, ebbero bisogno di chi pregasse per loro. Colla peste crescevano i guai e le strettezze della città: le spese enormi, le casse vuote, le rendite degli anni avvenire impegnate, le imposte correnti non pagate, per la miseria generale, prodotta da tante cause, e dal guasto militare in ispecie, mettevano in un grande imbarazzo i decurioni di Milano, i quali finalmente si risolsero a domandare al governatore , fisso sempre come un piuolo sotto le mura di Casale che non si prendeva mai, che la Camera desse denari, e fossero sospese le imposizioni. E il governatore mandava, in cambio di denaro, condoglianze, e lasciava a loro di supplire con dello zelo, avvertendo, quasi che nol sapessero, che quello era il tempo di spendere senza risparmio e d'ingegnarsi in ogni maniera. I decurioni non s'accontentano soltanto di questo; ma, visto che le quattromila messe fatte celebrare per ben due volte per allontanare la peste, non avevano approfittato a nulla, impetrarono dal cardinale Federico, che aperta 1' arca in cui riposava il corpo imbalsamato di san Carlo, fosse trasportato per la città. Nutrivano essi speranza che le spoglie mortali del santo rivedendo le piazze e le vie da lui percorse quand'era vivo, rivedendo il cielo e l'aria di Milano, ne scaccerebbero il veleno e qualunque influenza spirasse funesta ai corpi ed alle vite. Il cardinale, prima di rispondere, fece loro riflettere, che se c'erano di quest'untori, come dicevasi, la processione sarebbe stata un' occasione troppo comoda al delitto, se non ce n'era, il radunarsi di tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio. Il ragionamento era giudizioso, ma alla fine il cardinale dovette finire ad aderire alle loro domande ed a quelle della moltitudine, la quale s'era fissa di voler miracoli da san Carlo, come se fosse stato in arbitrio di lui tener indietro o far venire innanzi una peste, già seminata in Milano. Impiegarono tre giorni a preparare la processione , la quale uscì sull'alba dal duomo per non ritornarvi che un bel pezzo dopo mezzogiorno. Figuratevi la gente accorsa anche da fuori della città a mettersi in coda alla fila lunga lunga degli artigiani, delle confraternite, dei frati e dei preti, che, in mezzo a un gran chiarore di lume ed a un nuvolo d'incenso, levavano un più alto rumore di canti, mentre la cassa, col corpo del santo, s'avanzava, portata da quattro canonici, in gran pompa, i quali si cambiavano ad ogni tanto. Chi aveva avuto il bene di conoscere in vita il santo, fissava gli occhi curiosi traverso i cristalli della cassa per poter distinguere qualche vestigio dell'antica sembiante, mentre gli altri s'accontentavano a far onore al cadavere di quel glorioso arcivescovo, coll'unire la loro voce agli inni, cantati in quell'occasione. Dietro le spoglie del morto , veniva il cardinale Federigo, seguito da altri preti, poi i magistrati, poi i nobili , e , in coda, di tutti, una marmaglia di popolo misto. Milano era tutta sul passaggio della processione, che traversava piazze e vie parate a festa, con le facciate delle case decorate di quadri, iscrizioni, e sui davanzali delle finestre, in mostra, vasi, anticaglie, e per tutto lumi. Non trovando di meglio, fin sul tetto, s'erano arrampicati taluni per vedere, almeno di lontano, quella cassa, il corteggio, qualche cosa. La processione passò per tutti i quartieri della città e ad ogni carrobbio, di cui ce n'erano tanti allora in Milano, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste accaduta al suo tempo, e delle quali ce n'è rimasta in piedi qualcuna. Non s'era mai pregato tanto fervorosamente in Milano come quella giornata, nè vi era mai stato maggior gara tra la pubblica e la privata magnificenza come in quella solennità. Una festa nazionale non poteva riuscire più splendida. Ma i guai erano per l'indomani, quando la moltitudine che si era ripromessa la salvezza dalla processione, fu costretta a segnalarne le più repentine, le più imprevedute, le più disastrose conseguenze ; e mentre s'aveva da molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tale eccesso, con un salto cosi subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, e l'occasione, nella processione medesima. Il popolo invece d'imputar quell'aumento del male alla straordinaria moltiplicità dei contatti, alle condizioni dell'atmosfera, all'insolita fatica, invece di prendersela colla propria ignoranza ed imprudenza, l'attribuì alla facilità, che gli untori ci avessero trovato di eseguire in grande il loro disegno durante la processione. Si immaginò, si credette, si giurò fin d'averli veduti mescolati nella folla, infettare col loro unguento quanti più avevano potuto; e siccome non s'erano potuto rilevare sugli abiti, nè sui muri, untumi, macchie di nessuna sorta, così si ricorse ad una peggior bestialità, a quella di polveri venefiche e malefiche, che sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de' vestiti, e tanto più ai piedi, chè in gran numero, quel giorno della processione, erano andati in giro scalzi per segno di penitenza. Gli occhi sospettosi della moltitudine vedeva untori da per tutto; e quanti poveri innocenti furono maltrattati. Un povero vecchio d'oltre gli ottant'anni, entrato nella chiesa di Sant'Antonio, dopo aver pregato per un poco inginocchioni, volendo mettersi a sedere, gli venne in mente, per pulizia, di spolverare, con il lembo della veste, la panca. Due o tre donne, veduto far quell'atto innocentissimo, benché in chiesa, si mettono a gridare: " Unge le panche!" Allora tutti addosso al vecchio che non sa nulla, lo acciuffano pei capelli bianchi, lo strapazzano, lo trascinano in strada, poi al palazzo di giustizia, dove arrivò più morto che vivo. Un giorno o due dopo, tre giovanotti francesi passano davanti al duomo, si fermano a contemplare quella meraviglia del mondo, e vi si accostano per guardarlo più attentamente. Uno che li vede si ferma, fa cenno ad un secondo, questo ad un terzo, ad un quarto, ad un quinto, ad un sesto; si forma un crocchio, e tutti tengon gli occhi addosso ai nostri tre che dai cappelli, dal vestiario, dalle bisaccie apparivano chiaramente forestieri, e quel ch'era peggio, Francesi. Par loro impossibile che quella gran mole sia tutta marmo, e per accertarsi accostano tutt'e tre insieme la mano a toccare. "Hanno unto il duomo! " grida una voce. « Sono sicari francesi mandati dal cardinale Richelieu urlano gli altri, e tutti addosso a strappare i panni, i capelli, a maltrattare quei poveri diavoli, che dovettero la vita alla fortuna d'esser li presso il palazzo di giustizia, dove li trascinarono, e furono trovati innocenti, e rilasciati. Un calzolaio poi in porta Ticinese, essendo stato chiamato in fretta a prender misura del piede d'un gentiluomo, corse via dalla bottega, colle mani brutte di pece; e non parendogli decente presentarsi a quel modo in casa d'un signore, fregò le mani, per nettarle, sopra le muraglie, dove lasciò una striscia nera. Fu veduto, e bastò. Quando scese, trovò sulla porta una folla di gente furiosa, che lo voleva morto, e gli toccò scappare dalla parte del giardino della casa, se volle recar a bottega la pelle. Fortuna che non l'avevano conosciuto bene, altrimenti sarebbero stati capaci di andarlo a strappare, il di dopo, dal suo deschetto. Peggio toccò ad un garzone di mugnaio in porta Romana. Lasciato entrare in città, come quello che anche i gabellieri sapevano che non portava miseria, dopo essere stato più d'un'ora a chiacchierare da un fornaio cui serviva di farina, venutagli sete, pensò d'andare in un'osteria a berne un bicchiere. V'entra, ordina, e prima di sedersi, si leva il berretto di testa e, come soleva far sempre, si mette a batterlo sull'angolo della tavola, spargendo un nuvolo di farina di frumento in giro.

« Polvere velenosa!" grida un'avventore; sospettan tutti, e si precipitano addosso al mal capitato, il quale non sa da che parte incominciare a difendersi. L'oste accorre dalla cantina, sente, vede, e invece di mettersi a sedare il tumulto nato in casa sua, dà mano ad un bastone, che soleva tener per compagnia al banco, e mena colpi senza misericordia sul capo del garzone di mugnaio, a cui son tutti contro, fino i cani coi latrati. Malconcio, pesto , sanguinoso, ne avrebbero fatto una stiacciata quei cannibali, se non arrivava dentro il fornaio, che aveva a parlargli, e che potè acquietarli per la ragion del pane che a tanti di quei figliuoli dava a credenza. Anche una serva, in una delle case al ponte di porta Orientale, avendo levata polvere nell'esporre una coperta ad una finestra, fu presa a sassate, che fecero danno, per fortuna, solamente ai vetri.

Insomma bisognava veder dove si mettevano le mani, quando s'andava attorno, non correr troppo, né andar troppo adagio, perché c'era pericolo d'esser preso per un untore. Quella frenesia s'era propagata, come il contagio anche nelle campagne. Un viandante che fosse incontrato dai contadini, fuor della strada maestra, o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse giù per riposarsi, era subito preso in sospetto; uno sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano , di diverso dagli altri nel vestito, negli atti era tenuto in conto d'un untore. E anche qui, come in città, la prima giustizia la faceva il popolo; al grido: " dàlli all'untore! » scappato di bocca ad un ragazzo, si correva alla corda delle campane, e ton, ton, ton, campana a martello, e accorreva l'intiero paese colle forche, coi bastoni, cogli schioppi, come a un campo di battaglia. Se il disgraziato , che aveva dato sospetto, non scappava lesto come un uccello, era preso e tempestato di pietre come un rospo ; fortunato se lo menavan via a furia di popolo, in prigione, perché quella fino a un certo tempo, era un porto di salvamento. Ma torniamo alla peste, che dal dì dopo la processione andò sempre più crescendo, sicché in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata, oltre le cinquecento e più sequestrate, le quali avevano gli usci inchiodati. Chi voleva veder Milano, che allora contava duecentocinquantamila anime, doveva andarle a vedere nel lazzaretto, dove in poco tempo, la popolazione montò da duemila a dodicimila e più tardi fino a sedicimila. Proprio una moria delle più spietate; basti il dire che ne morivano di là dai cinquecento al giorno in su, fino a milleduecento,millecinquecento,e nel colmo, tremilacinquecento. Spettacolo orribile a vedersi era allora la misera Milano, flagellata dal furore del contagio. Stavano desolate le case, le famiglie estinte, chiuse le botteghe, cessati i traffichi, serrati i tribunali, abbandonate le chiese, le vie solitarie. Più non si vedevano ormai, per le strade che que'ministri funebri, che, dalle case al lazzaretto, conducevano gli infelici appestati. Stridevano mai sempre per le strade i carrettoni dei morti, tanto più orrendi alla vista quanto che i cadaveri confusamente coricativi sopra davano di loro stessi vista più spaventosa. "Uscivano dal lazzaretto" cantando i monatti, già fatti duri in cuore in quell'orribile ufficio, con piumacci e gale sulle berrette, e quasi fossero a parte del trofeo della morte, entravano così audaci nelle case infette, che più pareva volessero darvi saccheggio che recarvi aiuto. Il cigolio dei carri e le canzoni oscene, uscite di bocca di que'demoni facevano stringere il cuore ai poveri vivi. Pigliavano i monatti per il capo, per le gambe, come loro meglio comodo veniva, gli appestati cadenti sul dorso, e dalle spalle li venivano poi a scaricare sul carro come sacco di grano, nulla curandosi che indecentemente già dai lati pendessero e gambe e braccia e teste. E malamente copertagli la nudità con uno straccio di tela, se ne andavano a scaricarli al foppone, celebrando loro intanto il funerale le grida dolorose di quei della casa, che si vedevano tanto malamente trattare, sotto i loro stessi occhi, i cadaveri dei parenti e degli amici. La città pareva un deserto, e non udivasi altro suono di campane tranne il doloroso che andavano facendo le campanelle che gli apparitori portavano attaccate a una gamba, ed i cavalli de'carrettoni dei morti legate al collo per avviso di quelli che da loro venivano incontrati. Non men dolorosa era anche la vista dei poveri infetti cui non era permesso di spirar l'anima sotto il tetto della loro casa, assistiti dai loro cari. Altri venivano sopra carri e talvolta forzatamente legati, empiendo l'aria di lamentevoli strida ; altri sopra sedie portati, altri a piedi a bastoncelli appoggiati, andavano gemendo ad incontrare, prima che il medico e la medicina, la morte e la fossa. Il tribunale della Sanità a cui premeva che le cose procedessero regolarmente, aveva delegati commissari a sorvegliare i monatti e gli apparitori. Ma bisognava anche non lasciar mancare al lazzaretto i medici, i chirurghi, le medicine, il vitto, tutti infine gli attrezzi d' infermeria; e bisognava far posto a nuovi alloggi per i disgraziati avventori che sopraggiungevano ogni giorno. Colla fretta richiesta dalle circostanze, si rizzarono, nello spazio interno del lazzaretto, capanne di legno col tetto di paglia; e di piu, si piantò un nuovo lazzaretto, tutto di capanne, cinto da un semplice assito, e capace di contenere quattromila persone. Ma subito fu pieno, e si dovette por mano a rizzarne due altri, che non si poterono mai terminare, perchè pareva un destino, che diminuivano i mezzi, le persone, il coraggio, di mano in mano che il bisogno cresceva. Intanto anche l'unica gran fossa, ch'era stata scavata vicino al lazzaretto, era colma e di cadaveri n'era seminata la città, nè si trovavario braccia che volessero prestarsi. Allora al presidente della Sanità venne il buon pensiero di rivolgersi ai due bravi frati che sopraintendevano al lazzaretto; e il padre Michele si impegnò a sgombrargli, nel termine di quattro dì, la città dai cadaveri; e, nel termine di otto, di scavare fosse bastanti non solo pel momento, ma per qualunque di peggio accadesse in avvenire. Lasciato un suo compagno, il padre Cristoforo, a tener d'occhio gli ammalati, con un frate di scorta, e con persone date dal presidente, si portò nelle campagne in cerca di braccianti; e un poco offrendo danaro que' del tribunale, e un po' promettendo lui il paradiso riuscì a metterne insieme circa duecento, che impiegò a scavare tre profonde e grandissime fosse capaci di contenere Milano tutt'intiera. Fatto quel posto pei morti, spedì i monatti coi carri a raccoglierli, e, con una benedizione sola, ne mise a dormire sottoterra più migliaia. Una volta, il lazzaretto rimase senza medici; e fu soltanto dopo offerte di grosse paghe e di onorificenze, che se ne potè ottenere, ma non mai nel numero sufficiente; un altra volta, fu lì per mancare affatto il vitto, a segno di temere che ci s'avesse a morir di fame. Dove spiccò la misericordia, l'abnegazione in quei tristi momenti fu ne'preti, che ebbero più di sessanta parrochi morti di contagio, solamente in città. Il cardinale Federico, com'era da aspettarsi, dava a tutti incitamento ed esempio, e morti gli intorno quasi tutti quei che lo accostavano nell'arcivescovado, senza sentir parere di nissuno di quelli che volevano tenerlo lontano dal pericolo, scorreva la città, portando soccorsi ai poveri sequestrati nelle case, fermandosi agli usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro lamenti, a dare in cambio parole di consolazione e di coraggio. Il lazzaretto era dove si cacciava, con maggior carità, in mezzo alla pestilenza che v'infieriva. I poveri ammalati posti nelle trabacche erette nel mezzo della corte, v'erano gittati cosi negligentemente, che molti ne uccidevano, bruciando loro il cervello, i raggi infuocati del sole; e sopraggiunto una volta un rovescio di pioggia, ne annegò da due migliaia. Quanti orribili casi di appestati, toccò qui al cardinale Federico di vedere coi propri occhi. Ad una fanciulla s'era ingrossata la lingua cosi smisuratamente, che per dieci giorni le sporgeva fuori due dita dalla bocca. Una povera donna come s'avesse il folletto addosso, corse cinque giorni di su e di giù del lazzaretto, senza mai fermarsi. Uno, durato per otto giorni senza cibo, e lasciato come morto, di repente sorge, corre alla stalla degli infermieri, sale a bisdosso di un cavallaccio, e via di carriera per campi e prati, finchè caddero morti lui ed il ronzino. Chi corrose l'una e l'altra gamba, sopravviveva al tormento: chi corroso il ventre, mostrava le palpitanti viscere. Un frate credevasi il papa, e voleva che gli baciassero i piedi, e lo chiamassero Sua Santità; tal altro, gridando d'esser svaligiato dai ladri, per andarne sicuro stava sommerso nell'acqua del fosso fino alla gola. Molti moribondi correvano a precipitarsi nei pozzi e nelle cisterne per bramosia di un po' d'acqua. Ln spasimo fè ad alcuni schizzar gli occhi dal capo; chi moriva sghignazzando; chi si perigliò dalle finestre: quali correansi addosso con randelli battendosi a morte. Una delle capre che allattavano i bambini pose tanto amore all'un d'essi, che più a nessun altro volle porger le poppe; a toglierglielo , belava, rifiutava il cibo; trasaliva quando le veniva restituito. Un fanciullo seguitò a succhiare il petto della madre estinta; alcune delle povere madri pregavano i becchini perchè non ponessero addosso le sozze lor mani ai cari bambini, neppur dopo morti; ed una, perduta una fanciulletta sua di nove anni, volle collocarla ella stessa sul carro; poi fattasi alla finestra a riguardare finchè potè quel tristo funerale, diceva ai monatti: " Oggi tornate a prender anche me" A questi guai, vedevate misti esempi di dissolutezze, d'avarizia, di amore: padri, mariti, spose accompagnavano i loro cari fino sulla soglia di quel doloroso albergo, da cui era un'eccezione l'uscir vivo. Una donna, già in quarantena, volle rientrare nel lazzaretto, vestita da uomo, per ritrovare l'amante; un'altra, ancor sana, fece lo stesso, e vi lasciò le ossa. Una del lago Maggiore era venuta ad offrirsi, se le liberavano dalla galera un suo figliuolo, d'entrare a curare gli appestati con certi suoi rimedi segreti; e fu accettata subito come una provvidenza, ma con nissun frutto; anzi fu colta ella stessa dal male, e allora confessò la verità prima di morire, che cioè aveva fatto quel passo per amore di salvare il figlio. Non è poi a dire la licenza che regnava in quel luogo e in tutta la città. Essendo chiusi i tribunali, ogni furfante era sicuro di far man bassa sulla roba del prossimo. Anche le eredità non erano più curate ; tutt'al più alcuni notai, passando a cavallo, raccoglievano le ultime volontà dei moribondi, e quest'era l'unico testamento, e fortunato chi poteva far anche questo. In seguito, perché non fosse privato nissuno di questo benefizio di poter disporre del fatto suo prima di morire, fu dato permesso ai commissari del lazzaretto di stendere testamenti, coll'istessa autorità di legge dei notai; e questo fu un nuovo disordine, aggiunto agli antichi, basta un'esempio a farvi chiaro in che razze di mani erano affidate le ultime volontà d'un povero moribondo. V'era un commissario, al quale faceva gola la vigna d'un appestato, nè sapendo come altrimenti farla sua, indusse un monatto ad entrare al posto dello sgraziato appena fu morto, e fingendosi lui, con voce fioca, nominarlo erede della vigna desiderata. Entrò colui subito nel letto, e come furono presenti i testimoni, dispose di alcune robe del morto ai parenti di questo, d'altre poche al commissario, ma la vigna la lasciò a sè stesso, restando l'altro con due spanne di naso. Già questo fatto vi dà indizio qual gente fossero i monatti, arruolati la più parte nella Svizzera e ne' Grigioni, e che per un poco rimasero quasi padroni di Milano, ridotta la povera città ad un deserto. Erano spartiti in quattro squadre, l'una al Guasto di porta Comasina, l'altra all'osteria di Sant'Antonio presso le Grazie, la terza al luogo detto il Pavoncino in porta Romana, l'ultima nel Borghetto di porta Renza; e ogni di uscivano con cinquanta carri per raccogliere la ven- demmia che faceva la peste, nei palazzi dei ricchi come nelle case dei poveri. Quel rubare che costoro facevano a man salva, ne rendeva il mestiere schifoso ed orrido, invidiato da parecchi malnati che per aver agio di far ogni insano talento, poneansi le campanelle a' piedi come costumavano i monatti, con la qual invenzione usus pavanst licenza d'andare tra sani per le case altrui fingendo cercare se vi fossero infermi e morti di contagione, da che n'avvenevano obbarie e scandali notabilissimi. Altri essendo birri, parimente andavano per le case altrui, e con porre timore di condurre al Lazzaretto le persone che erano sospette di havere il male, rubavano quanti danari e robbe potevano havere (1). Tra i finti monatti e i veri successe un di baruffa; alcuni vennero presi e tre condannati alle forche. Mancando però il boia, si risparmiò all'uno la vita a patto ch'appiccasse i compagni suoi: lo fece. Un monatto vantavasi in aria di trionfo d'averne sepolti egli solo quaranta mila. Non vi sarà dunque troppo penoso a credere che costoro per continuare quella loro forsennata licenza, lasciassero cadere a bella posta cenci di appestati, e cadaveri per le strade, e ne portassero ad arte nelle case, e l'altre iniquità di che v'istruì il Manzoni. A cui basta soggiungere, che fino sui cadaveri sfogavano la libidine bestiale. Quali rimedi poi s'adoperavano contro la peste ? domanda il Cantù. In quel secolo erano tornate troppe occasioni di studiar la peste e di fantasticare rimedi nella cui scelta (udite cosa strana!) i medici non andavano d'accordo. Paracelso, quel famoso iatrochimico che tutti sapete, distingueva la peste quanto all'origine in naturale e soprannaturale, cioè venuta per influsso di pianeti, e massime di Saturno mangiator di figli; e quanto alla natura in acquosa, aerea, terrestre e focosa: la prima, che cagiona sete, si curi coll'applicazione d'animali che vivon nell'acqua, come le cicogne; l'aerea, che dà cefalea, con passere od altri volanti; la terrestre, che porta ristagni di sangue, con talpe e vipere; con manna e terendesciabin l'ignea. In generale consigliavansi a preservativo i corroboranti ai deboli, salassi ai pletorici, astringenti ai rilassati ; purgar l'aria con ossa e polvere da fucile, o miscuglio d'orpimento e zolfo, o altro che desse cattivo odore, perchè allora e adesso si stima che il cattivo odore distrugga il quid morbifico: per lo più interdetto il vino, salvo se medicato con assenzio, bettonica e simili: la teriaca e il mitridato s'ebbero per gli antidoti prediletti; poi la ciarlataneria ne inventò di stranissimi e famoso fu quel di Manardo (medico, non cialatano) composto di sangue secco d'oca, d'anitra, d'irto; più, ruta, finocchio, cumino ed altro. Rispetto alla cura, litigavano se salassar o no, quasi potesse sta-

(1) SOMAGLIA,Alleggiamento bilirsi una regola generale; e chi servivasi dell'antimonio, che il Settala nostro riprovò e il parlamento di Parigi (non infallibile) proibì ; chi le preparazioni del mercurio, del vitriolo, dell'oro; efficaci quanto gli amuleti d'arsenico, l'olio di scorpioni, e i guancialini d'erbe odorifere e antisettiche, applicati alla regione del cuore. Vi farò grazia de' moltissimi preservativi e curativi che ce ne conservarono gli storici, i quali non ad altro gioverebbero che a mostrare come la medicina andasse anche allora tentone, e con tale diversità, da vedere l'uno riprovare assolutamente quel che un altro raccomanda come specifico; uno voler salassare gli ammalati, l'altro proibirlo del tutto: uno aprir cauteri, l'altro sentenziarli dannosi; e chi andava di mezzo erano i poveri malati. I rimedi però che maggior efficacia ebbero in quella stagione non sono di quelli che fanno gli speziali. A. Casalmaggiore fu una fonte benedetta, che chi ne bevve guarì senza fallo. Parma, dopo quasi spopolata dal contagio, ne restò libera per intercessione di san Carlo. Calvenzano di Geradadda, dopo morte 877 persone, si vider comparire in piazza tre stelle; erano i santi Rocco, Fabiano e Sebastiano, che predissero la fine della moria. Il Tadini, che ci conservò questi fatti, confermati ancora dall'autorità irrefragabile d'altri contemporanei, ci dà per farmachi possenti i pani di san Nicola e una certa orazione a questo santo; come pur un'altra alla Madre Vergine, mercè la quale ne rimaner intatte non so che monache di Coitnbra (1). Forse d'altrettanta efficacia sarebbe riuscito l'avviso del gran cancelliere Ferrer; perciò non credeste ch' egli riguardasse senza far nulla un tanto guasto, egli in cui ogni autorità sua aveva trasferito il governatore, inteso alla guerra, non a queste minuzie. Ora il Ferrer aveva nella sua saviezza proposto, che si levassero i tre ultimi di del carnevale, privilegio antichissimo dei Milanesi: ma questi rifiutarono un così provvido avviso, minacciando fino di sollevarsi s'egli nel loro bene s'ostinava (2). Qui in Milano era celebre per miracoli antichi e moderni la Madonna delle Grazie, alla qua e soleva la città mantenere continuamente accesa una lampada e nei bisogni recarsi in processione. Poch'anni avanti allorchè don Ferante Gonzaga fece fabbricare le tenaglie a rinforzo del castello, avendo demolito tutti gli edifizi alti che si potessero dominare, come vedette, campanili e simili, voleva abbattere anche la doppia cupola di quella chiesa, opera insigne di Bramante.

(1) TADINI, p. 36, 133, ecc. (2) TADINI, p. 26. Ma le sentinelle del castello videro di notte gli angeli con ignude spade di fuoco proteggerla, sicché il governatore ritirò il comando. Si pia virtù ebbe 1'olio della lampada che colà ardeva innanzi alla devota effige di Nostra Donna, che racconsolava di salute qualunque se ne ungesse: ed io, dice il Somaglia, fui uno di quegli, che stando agonizzante, dopo di haver avuti tutti li santa sacramenti fino della raccomandazione dell'anima, a mezza notte dello 15 agosto venendo la gran festività dell'Assunzione, ricevei per singolarissima grazia di detta SS. Vergine la pristina sanità, saltando in un tratto dal letto libero e sano (1). Se mai vi conducete a quella chiesa, stupenda per la costruzione bramantesca e pei dipinti di Tiziano, di Gaudenzio, di Campi, di Lio- nardo, potrete osservare nella cappella d'essa Madonna una lapide che ricorda quel prodigio, e come in ringraziamento le fu donata una lampada d'argento. Nel convento a quella annesso erasi nel 1559 trasferito il Sant'Uffizio dell'Inquisizione (2), istituto a correggere l'opinione, non coll'opinione, ma colla forza e coi castighi, e separando due cose indivisibili, la fede e la carità. Quegli inquisitori aveano scongiurato il diavolo a cessare pel tal di dalle opere sue tristi, e perder ogni potere sui Milanesi. Quando la bella notte del 22 setttembre, ed erano tutti a letto, sentesi da molti, ed anche dai prigionieri del Sant'Uffizio, le campane di quella chiesa tutte ad un botto suonare alla distesa, si corre a vedere che è: non c'è nessuno e miracolo, miracolo: tanto più che fra quell'onda di suono festoso intendono una voce più che umana gridare: e "Avrò pietà madre del popol mio". Capirono di qui che la peste toccava al suo fine per grazia della Madonna, placata al suonoro rimbombo delle moltipticate preghiere dei suoi divoti (3). E da vero non ci voleano che miracoli a far dar luogo un malore, per cui rimedio si stivava la gente nelle chiese e nelle processioni, e si martirizzavano infelici innocenti. Cessato il male, i governanti (parlo de' municipali: che il governatore spaguolo era occupato nell'importante assedio di Casale ad ammazzare, non a salvar la morte ; e il re... il re stava a Madrid), i governanti, dicevo, proposero di sommettere tutta la città alla quaratena.

(1) Atleggiamento, pag. 485. E tutti i cronisti raccontano mirabilia di quell'olio. Nel Distinto ragguaglio dell'ottava maraviglia dei mondo si aggiunge che l'olio che ardeva avanti alta detta immagine bolliva, quasi invitando la B.V. con tal bollore, e suono continuo delle sue campane i popoli ad ungersi con detto olio: e che i Torinesi ne chiesero ed ottennero qualche quantità, che sanò i loro appestati incontanenti. (2) Prima era a Sant'Eustorgio. Alle Grazie rimase finché nel 1775 fu abolita l'Inquisizione. Qui sopra ho accennato il dipinto di Tiziano, che è la decantata coronazione di spina Il quadro originale fu portato in Francia al tempo di quella famosa libertà, e quando tornarono altre cose, questo rimase colà, e qui una straccia copia. (3) SOMAGLIA, ib. Che nuovo, che strano spettacolo! Chiusi tutti gli abitatori, tutte le botteghe: nessuno per nessuna cagione uscisse, o guai (1): sbarrate le porta della città; chi avesse veduto la popolosa Milano in quel solenne abbandono, quali farebbero le vie notturne! Chi però imponeva quell'assedio conveniva provvedesse ai bisogni de' rinchiusi. E qui spiccò la grandezza d'animo dei magistrati nostri che non temettero andar incontro a così ingente spesa quantunque il regio per nulla volesse contribuirvi. I beni delle congregazioni pie, le rendite della città, le largizioni dei privati, delle comunità e di quel porporato che offriva l'anima per le sue agnelle, venivano a sostentamento de' rinchiusi. Nobili e probi uomini giravano a notare le case e le bocche, sapere la salute di ciascuno, e dirigere quelli che ad ore determinate scompartivano le prime necessità. Sulle cantonate delle vie qualche pizzicaruolo stava pronto a recare a chi lo chiamasse, vino, frutte, grasce. Rompevano quel costernato silenzio le campane, chiamando sette volte il dì alla preghiera; e allora dalle croci poste sulle corsie intuonavansi inni e voti; e gli scampati a morte, affacciandosi pallidi, fievoli, magri, timorosi e speranti alle finestre, rispondeano con gran divozione. Una dieta fu ordinata pei corpi; fumi e purgazioni alle case, alle robe, agli archivi, ai magazzini. Quando finalmente sbucarono da quella prigionia, che misto di gaudio e d'amarezza, di mirallegro e di condoglianze, di sicurezza e di apprensione al trovarsi vivi, sani, ma radi radi: tante case vuote, tante botteghe chiuse, e i superstiti cosi mutati nel volto, nell'abito, nel costume da quei di prima, non osare ancora avvicinarsi per un sospetto di abitudine: chiedersi un dell'altro, e non sentire che guai e guai, morti e morti; e ogni tratto. « Il tale è andato in paradiso! il fratello, l'amico, il padre, la moglie... non li vedrete piu ! » Però tutto quello ed il seguente anno non si stette senza timore; e solo al due febbraio 1632 fu a suon di trombe bandita la liberazione della città, facendosi una solenne processione, per la quale (notate degnazione) venne a posta il governatore, congratulandosi della salvata città. Finita la peste al tempo di san Carlo, Milano aveva fatto voto di erigere la chiesa di San Sebastiano ; or terminata anche questa, si faceva voto d'andar ogni anno in perpetuo i decurioni a sentir messa solenne alla Madonna di S. Celso. Nè qui soltanto, ma per tutta Italia infierì la peste, singolarmente a Modena (2), da luglio a nobembre: a Padova il giugno e il luglio fece

(1) Andava in volta il bargello col bastone, pronto a punire i disobbedienti: sui crocicchi era pronto il solito stromento della tortura. (2) Per devozione vi si portarono due santi da Nonantola, e il concorso dei divoti in- I FAMOSI DINTORI DELLA PESTE

stragi: a Venezia durò de' mesi assai, colla morte di 60,000 persone, di 50,000 nei dominii di terra ferma. E dalle memorie che di vari paesi cercai, ho potuto raccogliere come generalmente perisse un terzo della popolazione: alcuni rimasero affatto vuoti d'abitatori: altri non sorsero più allo splendore primitivo. Vivono tuttora molte tradizioni di quel disastro (1): ogni paese addita una croce o un cimitero là dove furono sepolti i periti di quel contagio, che sono da per tutto suffragati con gran devozione. Finalmente Milano rifiatava dopo tanto disastro. Non più monatti, e ancor più brutto e più funesto, non più quell'accanimento vicendevole, quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti, pullulati, nel cervello del popolo. Mentre durava la moria, non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell'amico, dell'ospite; ma quei nomi, quei vincoli dell'umano affetto, marito e moglie, padre e figlio, fratello e sorella , eran di terrore; e fin la stessa mensa domestica, il letto nuziale si tenevano come agguati, come nascondigli d'avvelenamenti. In casa, per istrada, per tutto temevasi d'incontrare, di trovarsi al fianco un untore.

Introdusse la moria. In quella vece Ferrara e Treviso con esatta contumacia restarono illese: Faenza, ponendo un cordone al fiume, ne arrestò il procedere verso la Romagna. (1) Scontrerete ad ogni passo notato il 1630, coll'indicazione Anno Pestis" principalmente in cimiteri o sopra tabernacoli di san Carlo in atto d'amministrare il Viatico agli infermi. Per toccare de' luoghi accennati nei Promessi sposi, o in questo racconto, a Lecco serba ancora nome il lazzaretto d'allora: la Valtellina, cui prima i Lanzichinecchi appiccarono la peste, perdette Un 100,000 persone: Vergesio, in pieve di Dongo, rimase per sempre deserto. Como ne pianse 10,040, le cui ossa sono accatastate presso il Santo Cristo, con un'iscrizione che finisce: Deh quante famiglie una sola casa raccoglie! I frati di Montebarro, in faccia a Lecco, perirono fin ad uno nell'assistere i Brianzuoli. CAPITOLO XVI

i deliri della superstizione.

" Arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a spargere la peste per via di veleni contagiosi e di malie, ecc." A. MANZONI: I promessi sposi, cap. XXXI.

È credenza antica, per lo meno quanto la peste di Atene descritta da Tucidide, che la malizia umana giugnesse a tanto, di diffondere la peste ad arte. Quando la ragione sonnecchiava serva della superstizione e dell'autorità, o delirava ebbriata dal fanatismo , rinacque e si saldò una tale credenza: Martino Delrio, Wieiro ed altri trattatisti di diavolerie, assicurano, che nel marchesato di Saluzzo, fu propagata la peste cogli unti: v'è un trattato de peste manufacta; e il Tadini ci conservò memoria di molte, diffuse, come credevasi, maliziosamente. Racconta il nostro Cardano(1), che nel 1536 a Casal Monferrato circa quaranta tra uomini e donne congiurarono col boia per esacerbare la peste che cominciava a mitigarsi, e allestirono un unguento col quale ungevano i catenacci, e una polvere che spargeano sulle vesti. Molti ne morirono; poi osservatosi che dovunque una tale andava, il morbo appiccicavasi, la presero , e cosi venne a scoprirsi la trama; e confessò che, ad una vicina solennità, aveano preparato più di venti olle di quest'unguento per uccider tutti i cittadini. Altrettanto diceasi avesser fatto a Ginevra, altrettanto a Milano, ma non confessarono per quanto tormentati; onde furono dimessi. Anche nella peste del 1576 si ragionò di untori, e narrarono che (1) De Rerum varietate, I. IV, c. 80, p. 293, t. III, edizione di Lione. I FAMOSI UNTORI DELLA PESTE

un di costoro, in sul venire strozzato, confessossi reo, e palesò insieme un preservativo contro la peste, adoperato poi col nome di unto dell'impiccato. Il 12 settembre di quell'anno, il governatore Ayamonte , avendo saputo che alcune persone con poco zelo di carità, e per mettere terrore e spavento al popolo, per, eccitarlo a qualche tumulto, vanno ungendo con unti che dicono pestiferi e contagiosi le porte et i catenacci delle case e le cantonate, sotto pretesto di portar la peste, dal che risultano molti inconvenienti , e non poca alterazione tra le genti, maggiormente a quei che facilmente si persuadono a credere tali cose, per ovviare a tale insolenza, promette a chi ne denunzi gli autori 500 scudi e la liberazione di due banditi : e se era complice, l'impunità, purché non fosse il capo. Da questa grida , ripetuta poi il 19 del mese stesso , ben appare come fosse poco più che il sospetto di un'insolenza, non di sì spaventevole reità. E convien credere che non acquistasse piede, giacchè il Besta, il Giussano, il Bugato, altre memorie di contemporanei , non ne fanno pur cenno. Però l'ignoranza progrediva mercé le cure di chi vi aveva interesse, e i frutti di quella sono sempre gli stessi. Fin dal 1628 , la cattolica maestà del nostro re , con paterna premura, aveva mandato lettere al senato e al tribunale della Santità milanese, annunziando come dalla corte sua fossero fuggiti quattro Francesi (i Francesi allora faceano molta paura ai nostri padroni), scoperti di voler infettare Madrid con unti pestilenziali: stessero dunque sull'avviso se mai capitassero in questi paesi(1). Poco dipoi arriva in Milano all' osteria dei Tre-re un Gerolamo Bonincontro , vestito alla francese e civile negli atti: e siccome allora il passaggio delle truppe metteva sospetticcio di peste, così egli lascia intendere d'avere certi suoi specifici, co'quali cinque anni innanzi avea fatto del gran bene nella terribile peste di Palermo (2); e sfoggia ampie attestazioni avute da principi , come abilissimo di medicina e di matematica. Questi discorsi sono rapportati al senatore Arconato , presidente della Sanità, ciò di rapportatori neppur allora ci doveva esser carestia. Egli, combinate le lettere reali coll'essere costui Francese, conchiude, e la conclusione vien dirittissima, che colui fosse un untore, e lo fa catturare. Il Tadini e il suo auditore Visconti, incaricati d'esaminarne gli utensili, trovarongli libri d'astrologia e chiromanzia, un breviario, non

(1) TADINI, p. 111. (2) Anche quella si disse propagata da untori.

Balbiani. — I FAMOSI UNTORI ECC. Disp. 18 In quel punto un personaggio grave, in abito cittadino passeggiava in quel luogo trasse alla volta di Giotto...

Cap. X. Pag. 200. CAPITOLO XVI

so guai libri spirituali e temporali, o come si direbbe oggi, profani: una vestina ed una cintura dell'abito di san Francesco di Paola, e vasetti con argento vivo e polveri. Queste toccate e fiutate, si conobbero medicinali, onde fu come innocente rilasciato. Se non che dalle carte e dagli esami suoi era venuto in chiaro cori egli fosse un frate apostata , ricovrato alcun tempo a Ginevra , e che ora andava a Roma per impetrare perdonanza dal papa: lo perchè il padre inquisitore generale lo chiese come cosa sua, ed avutolo , il processò come Dio vel dica, e mandollo poi a Roma al modo suo (1). Fin qui dunque tale idea degli untori (come quasi tutti i mali nostri, esotica) era vaga, lontana, e ne avrebber riso, se non fosse parso un crimen lesae il dubitare di cosa asserita da un re cattolico. "Ma il sospetto (traduco o compendio il Ripamonti) acquistò piede dal trovarsi la mattina del 22 aprile 1630 untate le pareti di molte case. Tutti accorrevano a vedere; ci andai anch'io: erano macchie sparse,ineguali, come se alcuno con una spugna avesse schiccherate le muraglie. Da quell'ora , ogni dì si narrava di altre case untate, di gente infetta appena le avesse tocche: si aggiunse che si ugnessero le persone: infine, de' tanti morti, ben pochi si credevano perire senza malizia. Prima i ferri, i legni: poi le strade, l'aria stessa temevasi contaminata: che più? Si giudicavano unte perfino le messi mature" E racconta, d'accordo col Tadini e cogli altri , come sul principio di giugno trovaronsi unte le panche in duomo; le quali portate fuori e bruciate, servirono non poco a convincere la moltitudine, per cui un oggetto diventa cosi di leggieri un argomento (2). Provata allora la verità del fatto per tanti testimoni e per la visita del tribunale della Sanità, cominciossi a ragionarvi sopra. E una burla degli studenti di Pavia: è una bizzarria di cavalieri grandi per incantar la noia di quell'assedio di Casale: è il contino Aresi; è don Carlo Bossi; è il figlio del castellano Padilla per ispaventare la gente: è una perfida vendetta del governatore Cordova cacciato a torsi di cavoli: è una trama del re di Francia: è una delle solite del Richelieu, ed è uomo da farlo, che non crede più in Dio di quello facciano le mie scarpe (3): è una raffinata barbarie di quel Waldstein, il cui nome suonava terribile come la campana a martello. Alfine divenne universale opinione che quegli unti fossero fatti per ispargere la peste. Universale dico, benché tra i privati, chi per sana ragione, chi per ismania di contraddire quel che dicevano i più, vi fossero alcuni che non credeano (4). (1) Vedi RIPAMONTI, De Peste. - TADINI, p. 112. (2) Dopo d'allora nessuno più s'inginocchiava o sedeva sulle panche. (3) Cosi uno, esaminato nel processo degli untori. (4) MURATOHI dice d'aver raccolto da molti Milanesi, come alcool de'padri loro son avessero creduto alle unzioni. Noi ne adduciamo testimoni contemporanei. Il La « Tra questi ricorderò, seguita il Cantù, volontieri il mio brianzuolo Ripanti,:che chiaramente mostra non avervi fede:ma, soggiunge, dicesi,che non vi furono untori, e ché Mai s'appongono a frodi umane i giudizi di Dio ed i castighi, molti selamerebbero'empia la storia e l'autore (1)». Onde prosegue, discorrendo come « si designassero autori del disperato consiglio gran re e loro ministri, e la pubblica indignazione accagionasse quelli che forse più di altri compiangeranno la nostra sciagura. Ed era voce comúne che il demonio congiurasse tigli uomini per, spopolare il paese". »Su di che (è sempre il Ripamonti che parla) Crederli o non crederli, io riferirò i portenti che si spargevano. • »CorreVa dunque fama che il diavolo avesse in Milano tolto a pigione una casa, ove erari posto'a fabbricare e diffondere unguenti » A sentirli, vi sapeano dire che casa era' e cui: ed uno raccontava, che, trovandosi un dì in piazza' del duomo, vide una carrozza a sei bianchi cavalli é gran corteggio, e selitoVi uno' di grand'aspetto, ma burbéro quanto mai, gli "occhi infocati , irti i crini, minaccioso il fabbro. Il quale fattoglisi dappresse, si soffermò, lo fece montare e dopo vari giri e rigiri lo menò ad 'un'abitazione , che pareva il palazza di Circe. »Ivi misto l'ameno e il terribile; qui luce, là tenebre, 'altrove deserti, gabinetti; boschi , orti, 'cascate d'acqua: infine mucchi d'oro. 'Dal quali gli permise di levarne tanto che fosse pago, purché volesse spargere, dell'unto. E avendo ricusato, si trovò al luogo stesso ond'era stato. levato.. »Ma dopochè si ritenne che il diavolo vi desse mano, entrò quella stupida e micidiale negligenza, che A figlia della disperazione: poi un indagare le cause di effetti sognati, e un panico terrore: fin i più 'intimi si schivavano l'un l'altro; nè solo del vicino e dell'amico si viveva in sospetto, aia fino tra marito e moglie, tra fratelli e fratelli, tra padre e figlioli: e il letto, e la mensa geniale, e che che si ha per santo incuteva spavento

CROCE, dice che « A cosa chiarissima e più che manifesta, in modo che chi pertinace» mente la negasse uomo ragionevole non si potrebbe affermare e, p. 48. TADINI, nella dedicazione asserisce, che circa questo accidente sian stati rari li pensieri, e rimprovera quelli li quali con frivole ragioni ed esempi procurano impugnare, e ricorda la varietà degli pensieri degli uomini circa rd vene ficio accompagnato con arte diabolica,:ancorché molti speculativi esitassero. Altrove: Oggidi alcuni ritengono Che queste unzioni non fossero contagiose ne malefiche, p. 111. Alcuni speculativi non credevano da principio cosa alcuna di questi accidenti di peste venefica e malefica... benchè alcuni a lor mal costo sperimentavano poi il contrario... e per tale lo conobbero et con fessarno: se bene poco doppo passato il timore et il male, mutarno pensiero, negando il vene ficio et il maleficio, p. 138. F. il cardinale Federigo in un manoscritto: Fuere nonnulli qui fraudem veneficiumque in ficiarentur. Id facile ronfutatur . pauci fuere isti, et prudentiorum sermonibus gravissime increpabantur. (1) De Peste, 1. II. (2) Il dotto Lovichius assicura che, nel 1625, il demonio Lucifero passò l'invernata intera qui a Milano, facendovi gran vita, sotto il nome di duca di Mammone. » Chi non sa. il caso del senatore Caccia? al quale il servo (chiamavasi il Farleta) offri una mattina un fiore, ne appena queglil'annusò, ne contrasse il contagio e la morte. " A Volpedo di 'Tortona si trovarono sette untori, che furono mórti alla ruota: e attorno a quel tempo si scopersero ivi presso le macine da mulino untate, sulle cui macchie fregato del pane, e datolo Mangiare alle galline, subito morirono ed illividirono. » Una mosca che forse v'era posata su, fermatasi nell'orecchio di un tale, gli causò senz'altro la morte. » Antonio Croce e G. B. Saracco di Cittadella deposero con giuramento, che un carpentiere lor vicino ammalato, di fitta notte senti andar alcuno per camera, sebbene fosse chiusa la porta. »Mi levai (così l'infermo) a guardare, ed essi-Alzati e ci segui; v'è fuor di città un magnate che ti darà vasi da unger la vicinanza, e n'avrai in compenso salute e vigore. » Intanto mi esibivano dei bei danari, e li faceano suonar sulla tavola. »Fra ciò sentivo tentennare e scricchiolare il letto, tirarmisi la coltre e le lenzuola, ond'io stava inorridito. » Ma poiché insistevano essi, chiesi loro chi fossero. » Mi risposero:- Ottavio Sassi. »Io rifiutai, e tosto ogni cosa si dileguò: solo rimase sotto il letto un lupo che mugolava, e tre gattoni alle prode che faceano versacci, finché apparve il dì ». Anche Carlo Girolamo Somaglia (1) racconta una filza di simili casi. Due che col fiscale Giuseppe Fossati uscivano in carrozza verso Novate, smontati ad un macello, furono untati , e subito portati via dalla peste. Giovanni Curione, servitore d'esso Somaglia, mentre andava oltre pei fatti suoi, accortosi d'aver unto il mantello, lo gettò vía, scorse le macchie, additò il reo, che fu arrestato, ma non seppesi il castigo perché in prigione molti morirono prima che la Giustizia facesse la dovuta dimostrazione. Un altro giovane, che gli stava insieme in casa, per unzione mori entro ventiquattr'ore. Fa altrove raccontare al senator Laguna d'avere esaminato un untore, che confessò come un tale gli aveva dato un vaso e tre zecchini, promettendogli che tornando gli darebbe altro danaro. Colui fece la prima prova su' suoi di casa, poi sui vicini, che subito furono colti dalla peste, e morirono. Recatosi poscia in cerca dell'amico dei zecchini, più non trovò. (1) Alloggiamento dello Stato di Milano, p. 494. Non ostante seguitò ad impiastrare per una certa voluttà che vi prendeva, come de'cacciatori che, non capitando lepre s'accontentano di sparare contro un povero fringuello. Poichè, avverte un altro scrittore di quel tempo, la diabolica fattura era tale, che chi preso ne veniva con darle il primo consenso. sentiva tal gusto e diletto coll'andar urtando, che umano piacere, sia qualsivoglia, non è possibile se li agguagli "E facile, confondere anche il cardinale Federigo Borromee aveva i suoi pregiudizi, il vero col falso: e della peste fatturata se ne dissero tante, che lievemente puoi crederle e prontamente rifiutarle. "Noi, come alcune ne crediamo, cosi ad altre possiamo ricusar fede. "Certo alcuni, affine di scusarsi della negligenza se avessero contratta la peste per l'alito e pel contatto, vollero dire di averla presa per gli unti... "Si contò che uno degli untori, penetrato in un monastero, ve la portò intridendo i famiglia nè si scopri la frode se non quand'erano morti quasi tutti. Tale cose divulgate, nè tutte crediamo, né tutte giudichiamo inventate " Nel lazzaretto un untore confessò d'aver patto col diavolo, mostrò dove tenea nascosti i barattoli pieni di veleno, e tosto dopo spirò. "Una donna, confessato spontaneamente il misfatto, diede fuori per complice la figlia sua, che fu trovata coi vasi e tutto per ungere " Mentre un tale, convinto per untore menavasi al supplizio tanagliandogli le membra, additò uno degli spettatori, e lo fe prendere ai birri come complice suo. "El io posso proprio affermare d'uno, che vestito da prete, entro ne' chiostri, e gli unse. "Si sa del resto che questa non è la prima peste fatta per umana malizia: nè la cosa è impossibile ad effettuarsi, benché difficile assai: come dicesi degli alchimisti che tramutano i metalli, ma con inesplicabile fatica, lavorandovi intorno tutta la vita. " Negli untori s'aggiunga la malizia dei demoni, che sempre avversi agli uomini, spingono ed ammaestrano al misfatto cho loro procaccia messe d'anime e di corpi. "Poichè mentre i magistrati cercavano gli untori, trascuravano le cure necessarie. Questo può acquistar fede alle unzioni. "Ma d'altra parte, non si potea tanto miracolo finire con ricchezze private: nessun re o principe vi forni roba o potere: neppur mai trovossi i' capo e l'attore di questi unti. Ed è grand'argomento a non credere il vedere cessare di per sè un delitto, :che dovea durare sin all'estremo, quando fosse stato diretto ad un fine determinato. "In quest'intradue come venire a capo del vero?

(2) CROCE, "Militari violenti, lascivi, parte nostri ma i più forestieri, noiati dal rigido impero, dal tenue soldo, dalle fatiche, dalle fami durate, si disse che cominciarono a mulinar qualche termine de' loro patimenti: ed aiutante il diavolo, inventarono le unzioni, i cui elementi portarono forse dai luoghi stessi, ond'era venuta la peste. "Da alcun tempo ancora andava per Lombardia una brigata dì nomini facinorosi, vantatori di delitti, spadaccini, che senza nè guadagno, nè punto d'onore, sfidavano chiunque valesse nelle armi. " Non è novità che gli scellerati, per sottrarsi al patire, ricorrano al delitto: Catilina vel dica. "Ma che questi untori fossero i peggiori viventi che mai, appariva dal loro modo di morire, poiché sprezzando ogni soccorso delle anime, anche sotto la mano del boia, duravano a negare. "Un d'essi colto proprio in sul fatto, e condotto addirittura alla forca, visto un carro ov'erano i monatti misti ai cadaveri, strappossi a quei che lo menavano, e di un salto balzò in mezzo a quella turba pestilente, come in sicurissimo ricovero fra buboni e marcia, ove nessuno avrebbe ardito stendere la mano. Ma preso a sassi e schioppettate, fu rotto in molte parti, e sulla bara stessa carreggiato alla fossa. "Del resto tanti fatti, le condanne successe, l'atrocità dell'influenza, appena lasciano dubitare del fatto delle unzioni. Ciò però che ci deve far travedere si è il vedere come a questo delirio fossero in preda i medici, e fino il Tadini. Egli era stato dei primi a gridare contro la discesa in Lombardia dell'infausto esercito tedesco, egli che pel primo avea riconosciuto i casi di peste disseminata nel paese. Fu pur sua istanza, fin dall'11 ottobre dell'anno prima che il tribunale di Sanità avea messo quello di Provvisione sull'avviso affinché, infierendo la peste in Francia, Fiandra, in Germania, e già avanzandosi ne' Grigioni ed a Poschiavo, la tenesse lontana dal Milanese con ferro, fuoco, forca. Egli col Settala suo maestro, perseguitato dal popolaccio perché voleva che ci fosse la peste; egli che per ufficio o per zelo ne avea seguito passo passo prima le minime tracce, poi le gigantesche; egli che avea veduto le ragioni del crescere di quella nel difetto di providenze, nella caparbietà generale a non crederla, nell'ammucchiamento degli affamati al lazzaretto, nella iniquità dei monatti che ad arte lasciavano cadere luridi cenci e putrefatti cadaveri per le vie e nelle case, nel castigo di Dio perchè ormai si vedeva persa la ragione, il giudilio, la prudenza, l« carità nelle creature, egli divenne dei più caldi a sostenere, che la peste era diffusa dalla perversità degli untori. Talmente si trovava fondata, cosi egli, l'opinione del volgo e della plebe e della nobiltà, che queste ustioni non fossero solamente pestilenti, ma ancora vi concorresse l'arte diabolica per distruggere non solamente la città, ma tutto lo Stato... che ogni notte per il spatio di tre mesi si vedevano unte molte contrade della città, che era cosa di stupore e meraviglia non sapere dove si fabbricasse tanta quantità d'unguento, quale si vedeva di colore gialdetto, o croceo scuro; e in verità l'avere da ungere in una notte le centinaia e migliaia di case, bisognava fosse fabricato con arte diabolica, perché naturalmente parlando non si poteva fare che non si fosse saputo o inteso per le diligentie straordinarie, che trattandosi del beneficio publico, ciascuno non le facesse. « Ma quello che ci confermava; concorrere l'arte diabolica in queste ontioni e, che ogni notte, non solamente si trovavano rinfrescate le ontioni nelle medesime case della notte antecedente, ma accresciute di gran lunga lei subsequente... «Et ke sii la cerini, non si può negare che il podestà di Milano un giorno non facesse condurre nel tribunale della Sanità dieci furbi, di qui in circa di 12 in 14 anni, li quali confessarono a viva voce che ogni mattina erano condotti all'osteria e dopo bene mangiato e bevuto, andavano ongendo le persone che si trovavano nel Verzaro, con unguento, che gli era dato d'alcune persone che si trovavano ad un hora di notte in quelle che si dicono matte al bastione, con 40 soldi per ciascuno, ce fatta diligentia la sera medema per fargli prigione, non si ritrovarono. «Ben é vero che vicino al bastione se gli trovò un tale Giovanni-Battista, che della parentela per degni rispetti non si nomina, et condotto prigione, mentre si tormentava restò sopra la corda strangolato dal demonio, et quegli figliuoli furono frustati, di puoi banditi da tutto lo Stato..... «Né solamente resta nella città di Milano, ma si alloro; nel Ducato in molte terre et ville per causa delle quali furono presi alcuni delinquenti et condannati alla Ruota, et in particolare un laico servita ed un altro di S. Ambrosio ad Nemus, per esser caso notorio, furono presi con detto unguento, el messi alla tortura confessorno averlo riceputo da certe persone forastieri, per far morire alcuni suoi nemici, dove poco dopo furono ancor essi condannati alla morte. « In questo tempo non fu medico alcuno né persona intelligente che havesse sentimento diverso di queste ontioni pestilenti, che non fossero con arte diabolica fabbricate: mentre per le molte persone le quali morivano alla sprovvista senza segni esterni, senza commercio da loro saputo di contagio, concludevano tutti per necessità esser stati unti e non altrimenti. « S'aggiunse di più che, oltre l'unguento pestilento e venefico, fabbricovano ancora una polvere della medesima natura e qualità, la quale, sorgevano nelli vasi dell'acqua benedetta, pigliata dal popolo nelle chiese el ancora nelli luoghi della povertà, dove si troveranno camminare con li piedi ignudi, attaccandole alle mani et piedi, haveva tanta forza che incontinente, quelle misere creature s'infettavano et morivano in brevità di tempo" Dopo molti altri esempi viene a narrar di sé stesso, che vide in via di San Raffaello; un furfante a cavallo, che destramente spargeva detta polvere, ma accortosi d'esser scoperto, fuggì a rotta di collo: di due zitelle di Antonio Vailino da Caravaggio, che nel prendere l'acqua santa in chiesa dei Servi per segnarsi, vi scorsero qualche polvere galeggiante, e fra quarantore morirono (1); e d'altre due donne che, giunte alla chiesa delle Grazie, trafelanti dal cammina e dal caldo, bevettero dell'acquasanta, e poco dopo fecero una trista morte. Certo vi parrà mirabile, esclama il Cantù, come si torte conseguenze potessero tirarsi dai fatti, per adoperarli, invece di utile ammaestramento, a rincalzo delle supestizioni. Cosi l'accorrere di tanta gente alla chiesa delle Grazie era naturale che, pel contatto, accrescesse il male : ma no; doveasi dire che un untore, travestito da frate, era stato veduto, in iscambio di quell'olio miracoloso, porvi dell'unto suo (2). In quella sconsigliata processione fatta 1'11 di giugno, e nel concorso per otto giorni al Duomo a visitare san Carlo, l'adirli vedeva una ragione di crescere il male, si per la folla, essendo nel più caldo della state, sì pel commercio colle persone infette, sì pel camminare con piè scalzi e riscaldati sopra le vie sporche dalle reliquie de' frequenti cadaveri ; pure doveasi spiegare la mortalità cresciuta colle polveri venefiche. Al 25 di luglio s'appicca un incendio, corre voce che sia un'arte dei Francesi nascosi fuori per sorprendere la città: onde un dar all'armi, un terror panico, un accorrere, un affollarsi, e crescere le morti sì pel contatto, si perché ogni popolare effervescenza sviluppa e cresce le epidemie; ma anche allora si disse tutto questo essere stato una trama degli untori per agevolezzza al loro infernale proponimento (3). Dei processati, alcuni morivano fra i tormenti, gli altri duravano protestandosi innocenti fino alla morte; e questo s'avea per prova dell'esser coloro dati al diavolo (4). Povera ragione! Povera ragione, sì, a quante ridicole pratiche t'hanno trascinata, le superstizioni! La storia ci porge una lunga filza di follie umane, tenute in conto come verità di vangelo.

(1) Nella peste di Palermo del 1624, 25, 26 erasi tolta l'acquasanta dalle pile, come veicolo del contagio. Forse un giorno io racconterò quei che in Calabria, in Sicilia, e massime ;i Palermo, Catania e Siracusa avvennero miserabili e pietosi fatti nel chotera del 1837. (2) CROCE, p. 47. (a) TADINI, p. 18. (4) Sin all'ultimo pertinacemente affermarono l'esser innocenti, sopportando del rimanere quella morte con assai buona disposizione, dal che si argomenta la diabolica fattura di questo fatto. CROCE, p. 49. Io sono di parere che li capi malfattori ed autori di tanta umanità avessero anche patto col demonio, e che perciò, volendo eglino palesai' il fatto. venissero da quello soffocati, perché io ne ho visti alcuni, li quali imputati di tal scelleraggine. temendo il dovuto castigo, arrabbiati se gli crepo il ventre in due parti. SOMAGLIA ; All'atteggiamento, ecc. Vi hanno persone che gettano la catena del camino fuori di casa, per aver bel tempo; altre mettono una spada nuda sull'albero di una nave, per calmare la procella, mentre non sanno che possono attirarvi il fulmine; gli uni non mangiano mai teste di animali, per non avere mal di capo; altri toccano coi denti un dente d'impiccato, o si mettono un pezzetto di ferro tra i denti, quando si suonano le campane, il sabbato santo, per guarire dal mal dei denti; sonovi taluni che portano contro il granchio, un anello fatto mentre si canta il Passio; questi si pongono al collo nocciuole unite insieme contro lo slogamento delle membra; quelli pongono filo filato da una vergine o piombo fuso nell'acqua sopra un bambino tormentato dai vermi. Se ne veggono che scoperchiano il tetto della casa di una persona inferma quando non muore troppo facilmente, quando la sua agonia è troppo prolungata e quando si desidera la sua morte: altri finalmente cacciano le mosche quando una donna ha i dolori del parto, per tema che non si sgravi di una femmina. Certi Ebrei che credevan all'immortalità dell'anima, andavano a un fiume e vi si bagnavano recitando alcune preghiere; erano persuasi, che se l'anima del loro padre o del loro fratello era in purgatorio, questo bagno la rinfrescherebbe. In alcune città del regno di Navarra, quando la siccità durava lungo tempo, il clero e i magistrati, seguiti dal popolo, facevano portare la statua di san Pietro alla sponda di un fiume, ed ivi si cantava: san Pietro soccorrenti! san Pietro, una volta, due volte, tre volte sorcorretici! Si la statua di san Pietro non rispondeva, il popolo andava in collera e gridava: Che si getti san Pietro nel fiume (1)! I primari del clero rispondevano che non bisognava venire a quella estremità, che san Pietro era un buon patrono, e che non tarderebbe a soccorrerli. Il popolo allora domandava cauzioni; gli se ne davano e pioveva qualche volta nelle ventiquattro ore (2). Disgraziato chi calza pel primo il piè destro. Un coltello donato rompe l'amicizia. Non bisogna mettere i coltelli in croce, nè passeggiare su fuscellini di paglia incrociati. Parimente le forchette incrociate sono di sinistro presagio. Gran disgrazia ancora rompere uno specchio, rovesciare una sa-

(1) Chi non ha presenziato in Napoli una scena simile nella chiesa ove si trova il sangue di san Gennaro? Si sa che quando questo sangue bolle il volgo erede che abbia fatto il miracolo che gli si domanda. Ma quando il sangue non bolle presto, il popolo s'impazientisce e minaccia il santo e lo maltratta chiamandolo testa gialluta a cui aggiunge altri epiteti. Tutti sanno che questo sangue bollo mediante un processo chimico. Quando i Francesi invasero ai nostri giorni il regno di Napoli, il sangue non voleva bollire, ma Champlonnet fece sentire ai preti che li avrebbe resi responsabili dei disordini che la plebe superstiziosa fosse per commettere, ed allora il sangue di san Gennaro fermenti, Martin de Arlee, citato da Saint-Foia. liera, versare l'olio di una lucerna, mettere un pane sulla tavola a rovescio; un tizzo gettato fuori di luogo, Taluni immergono una scopa nell'acqua per far piovere; lo che non può succedere cne per opera del demonio. La cenere di sterco di vacca è sacra presso gli Indiani: eglino se ne pongono, ogni mattina, sulla fronte, sul petto e su ambo le spalle credono che purifichi l'anima, e i loro monaci i bramini, ne mescolano, durante il loro noviziato, in tutto ciò che mangiano. Esiste presso i Baniani, l'ordine della coda di vacca; il re dopo di averla passata al collo di colui che onora di questo contrassegno di distinzione, lo abbraccia dicendogli: Amate le vacche, amate i monaci (1). Quando una donna, ha i dolori di parto, vi si dirà in alcuni luoghi, che ella si sgraverà senza dolore quando indossi le mutande del suo marito. Per impedire che le volpi vengano a mangiare le galline di un pollaio, bisognava farvi all'intorno, un'aspersione di brodo di sanguinacci, il giorno di carnevale. Quando si lavora all'ago il giovedi e il sabbato dopo mezzogiorno, si fa soffrire Gesù Cristo e piangere la santa Vergine. Le camicie, che si fanno al venerdi, attraggono le pulci Il filo, filato il giorno di carnevale, è mangiato dai topi. Non si deve mangiar cavolo il giorno di santo Stefano, perocche egli si era nascosto nei cavoli per evitare il martirio. I lupi non possono fare male alle pecore e ai porci, se il pastore porta il nome di san Basilio scritto sopra un biglietto attaccato in cima del suo vincastro. A Madagascar, si distinguono, come si praticava a Roma, i giorni fasti e nefasti. Una donna di Madagascar crederebbe aver commesso un delitto imperdonabile, se avendo avuto la sciagura di partorire in un tempo dichiarato sinistro, avesse trascurato di fare divorare il suo figlio dalle bestie feroci, o di seppellirlo vivo, o per lo meno soffocarlo. Si può bere vino come un tino, senza temere di inebbriarsi, quando si è recitato questo verso

Iupiter his alta sonuit clemente ab Ida.

Alla battaglia d'Almanza, il primo colpo di cannone portò via lo stendardo di sant'Antonio di Padova, ed ecco tutto un esercito in rotta. Chi era dunque il vero generale di questo esercito? sant'Antonio di Padova. Il fantasma protettore, che aveva i piedi in terra e la testa nei

(1) Saint-Foix, cieli, era disparso, aggiunge Diderot, e con lui! tutta la confidenza dell'esercito. La superstizione è la madre della maggior parte dei nostri errori. E una debolezza dello spirito umano che annette alle menome cose una importanza, soprannaturale. Essa genera i terrori religiosi, fa travolgere le piccole teste, semina i nostri giorni di tormenti eterni e di vane inquietudini. La superstizione anima i demoni, gli spettri, i fantasmi; i suoi dominii sono i deserti, il silenzio e le tenebre; apparisce agli uomini, circondata da tutti i mostri immaginari nel tenebroso impero, e lor mostra, da una parte il fuoco infernale e tutti i suoi orrori, dall'altra la via del cielo, che si compra con degli amuleti, rosarii, orazioni e lé pratiche le più ridicole (1). Promette a quelli che la seguono di svelar loro gli impenetrabili segreti dell'avvenire. Genera il fatalismo, le sette, le eresie, le guerre di religione; e tutti i più gran mali che afflissero l'umanità sono frutti della sua abominevole dottrina, Dopo tutto ciò, ripetiamo anche noi col Cantù, mi chiedete forse quel che io creda del fatto delle unzioni, sparse per avvelenare la gente? Veramente, a sentirlo asserire da tanti come cosa veduta proprio da loro, parrebbe un soverchio di critica il dubitarne. Ma chi faccia ragione alla natura dell'uomo ed all'oscurità dei tempi resta condotto anche più in là del dubbio. Perocchè l'uomo, tant'è più grossolano tan'è più credulo: quant'è più passionato tant'è più pre cipitoso nei giudizi: e quando accade una meraviglia, più è grossa, più agevolmente la si crede; o ognuno, almeno per ambizione, pretende esserne stato testimonio. Che se mai vi poneste mente, i fanciullini quando si fecero alcun male son tutta finezza di apporre a qualche caso la colpa, par iscusarne sè stessi. Anche il popolo, fanciullo adulto, per non dover dire : « Io contrassi il contagio coll'avere trascurate le debite cautele » trovava comodo l'incolparne un'ineffabile malignità. Aggiungi l'istinto della curiosità , che vorrebbe 'trovar di tutto le ragioni , e adatte al modo suo di vedere : aggiungi la perpetua inclinazione del volgo a scorgere la mano dell'iniquità nelle sciagure, perché sentendo troppo duro di dar di cozzo contro. Quello che con arcana bilancia i beni e i mali scomparte , vuol pur trovare quaggiu un reo , contro cui sfogare il dispetto di patimenti che non crede di meritare. Che se a questo modo di vedere proprio di tutti i tempi (e voi


(1) Enrico III re di Francia si era aggregato a una confraternita di penitenti; ordinava processigni e le seguiva con le dimostrazioni della più austera pietà. Indossava un sacco di tela ruvida; portava un cilizio alla cintura e un grosso rosario in mano. Si recava la notte a Vincennes, e vi oltraggiava la natura mentre che i monaci i quali vi aveva installati Vagavano per esso Michelet, Historè de france, ecc. CAPITOLO XVI

LA PAGINA E' ILLEGGIBILE

n'avete in pronto eSéttipl ”Verehi' e Ime.sqy's'intreccino altre accreditate illusioni ; diffuse , radicale; e l'abitudine d'incaute credenze 'e di oSerVaZieni.traSetil'ate,',chi, inisurera:l'abisso(ove.pità-ziurigere,l'uoino'? Granieffine colnrcy=che'llantio, potere sull'opinione, agli scrittori •prinCipatitiente,, ai,u'Utie'..4ri,,,Ciiipreti, di non lasciar l'errore •neppur dovè ihriecenti?PtiercheAerrtastoride•le sue 'radici. a danno delle Utili. piante,, e i ' frutti. seno Sempre funiestissimi: E appUnto in quell'età il desiderio d'empiere-Con.gagliarde.,sensazioni il. vuoto, .abbbrrito dalla srOlontà, che réstwva,nelleifantasie.pc.,,i..falliti interessi generali, la ter- ribile`vicissitudine' s,feitúnati,eventiyila,malizia • di chi poteva, ave- riCondotto-gilltaliariCA quel puntoinrcui,.conle fanciulli, fossero guidati colrantoritk e'la credulità nonicolla ragione. .. In' orni parte, del sapere, misteri-:=filosofi, leggisti, teologanti sulla) parola del maestro: rrimaneansi:.contenti, a cause ridicole,: fenemenb. spiegato con soprannaturali miracol i o prestigi, santità, e diavoleria;:kinsaltataci punita la ragione qualvolta rivendicasse i diritti suoi. 'Basti l'accennare ,Topinione • delle streghe e. della magia. I temporali, le malattie un po' corriPlicate, la. sterilità de' campi, o delle doinle, fin quel ,nattualissimo , effetto doli' innamorarsi ..voleansi attribuire a -maligno Sguardo, a •malie. • •:Giit avete potuto ,vedere in questi ragionamenti le prove di tutto ciò': ed anche là i •folletti erano • stati, visti coi,. propri occhi : testimoni ectilarl, avevano notato 41 tale eil tale' nelle trég onde (');, i, tribunali , le persone più elevate n'erano convinte tanto i da seguitarne per • paio di'legali, orribili, non interrotte carneficine vittime oggidì compiante , non che dai generosi pochi , ma fin da quelli- che disprez- ' zane alti ,Vittinieliicadute volontarie all'antiguardo della ragione progressiva. Che se oggi riessunbe non forse qualche donnieciuola, crede vi sieno state, le stregbe,-benché il fatto sia asserito da tanti, benché tanto l'abbiano esse medesime confessato ai tribunali, non potremo anche noi credere che fossero del tutto un sogno quelle unzioni? (1) Vi ricordate di 11,étvenuto oltre i libri di stregheria rito!;, é capolavoro gAnere il coi/ipeiuti,,,, >9,,,',/,i,,,.;,02,'stampato a Milano nel 16)8. Fra le 103 belle di Papi relative v;Lnno distinte; i: quella di Innocdnio VIII nel 1484, dopo la quale tante furon le stragi, che nel solo elettorato di Treveri si condannarono per istregoni 5600 persone (V. SPREN^3EL, hedrage ZiEr GeSChichte dei mederia, 8. 13); II. quella di Leone X nel 1521, ove si dice che costoro, fra altre nefandità, ammazzano figliuoli per far loro sortilegi; 111. quella di Adriano VI, diretta nel 1523 all'Inquisitore di Corno, ove dice essersi trovate molte persone che si pigliano a signore il diavolo, e con incantazioni offendono i giumenti, i frutti, ecc.; IV. quella di Sisto V net 1585 contro la Geomanzia, Idromanzia, Aereotnanzia, Piromanzia, onomanzia, Chiromanzia, Necromanzia, contro chi fa patto colla morte, descrivendo circoli e segni, ecc.: V. quella di Gregorio IV nel 1623, ove si asserisce che dai costoro malefici, se anche non venga la Ifif te, ne seguono malattie. divorzi, sterilità, ecc. Più che tutte le leggi e le belle giovY a sperdere affatto questa razza il non credervi. Trovar una parete impiastricata, nulla di più facile massime allora. Chi lo vide lo disse: mille altri asserirono averlo veduto anche loro: il fatto, correndo per le bocche, misto allo spavento, ingrandisce: si variano le circostanze così da parere diversi i fatti - ecco tutto. Che se si volesse credere almeno la prima unzione, attribuendola a burla od altro, come poi spiegare quella continuazione ? come il numero quasi infinito di case unte ogni notte ? Ove si fabbricava tanta materia? chi ardiva diffonderla e in tal copia, dopo che vedeansi dati ai più crudeli strazi quelli che appena n'erano sospettati rei? Eppure anche queste cose sono tutte attestate con altrettanta asseveranza (1). Se poi ci fosse stato ancora chi non credesse esser quegli unti un'arte diabolica, vennero i padri del sant'Uffizio dell'Inquisizione ad annunziare al presidente Arconato, siccome il tal di appunto era stato da essi prefinito al demonio perchè cessasse ogni suo potere sovra il popolo milanese: parole, dice il Ripamonti, che sembrano togliere ogni dubbio sugli unti, essendovi interposta l'autorità apostolica, che non può nè ingannare, nè essere ingannata (2). Quand'anche fosse provato che i governanti siano sempre i più retti pensatori, non vi farebbe meraviglia il vederli entrar anch'essi a due piedi nella credenza degli unti, e così al risentimento istintivo del popolo aggiungere quello deliberato dalla legge. Fin sulle prime il senato excellentissimo non restava usare ogni diligenza benchè straordinaria per ritrovare li malfattori, acciò si potessero castigare, e per levare ancora tanto terrore che seguiva per la cittò quando fosse anco fatto per burla o per spavento del popolo (5). I diversi racconti raccolti , comentati dal popolo accrescevano io spavento, e spargevano il malumore nella città. Il senato non rimaneva mica dall'usare ogni diligenza, anche straordinaria, per ritrovare i malfattori; e il tribunale della Sanità, prometteva duecento scudi a chi, nel termine prefisso di trenta giorni, sapesse mettere in chiaro la persona o le persone che avessero commesso, favorito, aiutato, o dato il mandato, o avuto parte o scienza ancorché minime del delitto d'ungere le porte delle case, i catenacci e gran parte di muri con unzioni parte bianche e parte gialle. Aperti così gli occhi dello spavento per scoprire i rei dell'unzione, si credette finalmente d'averli trovati.

(1) TADINI, p. 118. (2) De Peste, 1. 2. (3) TAPINI, p. 113. e CAPITOLO XVII

I rei delle unzioni.

" Nessuno che sia sensato può negare non siano seguite queste unzioni di centinaia di case in Milano, per non dire le migliaia, e in tutto il ducato ". TADINI

Era la mattina del 21 giugno 1630, verso le ore quattro e mezzo,e veniva giù dal cielo una piovicciuola, quando una donniciuola, tutt'occhi e lingua, chiamata Caterina Trocazzani Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d'un cavalcavia che allora c'era sul principio di quella contrada, dalla parte che mette sul corso di porta Ticinese, quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo, vide venire un uomo con una cappa nera, e giù negli occhi un cappello nero di quelli che si usavano allora, il quale, passeggiando, s'attendeva alla muraglia (tanto naturale se pioveva), e, a luogo a luogo, tirava con le mani dietro al muro, e aveva una carta in mano, sopra cui mise la mano dritta che parea volesse scrivere, e poi levata la mano dalla carta, la fregò sopra la muraglia, e faceva certi atti attorno alle muraglie, che, disse quella mala lingua ai vicini, non le piacevano niente. " Allora ", contò in aria di gran scoperta, « mi venne in pensiero se a caso fosse un poco uno di quelli che, a giorni passati, andavano ungendo le muraglie ». Fisso un tal sospetto in quel suo cervello leggero di femmina, passò in un'altra stanza, che guardava lungo la strada, per tener ben d'occhio lo sconosciuto, che veniva innanzi pacifico, come se nulla fosse, tenendo toccate le muraglie colle mani. Quasi non fossero bastati i due occhi di questa, c'era alla finestra di una casa che guardava sulla medesima strada un'altra donnicciuola, chiamata Ottavia de' Persici Bono, la quale depose di aver veduto lo stesso uomo dalla cappa nera e il cappello sugli occhi, che si era fermato li in contrada,in fine, della muraglia del giardino di casa Crivelli, e lo aveva veduto con una carta in mano, sopra la quale mise la mano dritta, che le pareva che volesse scrivere; e poi aveva veduto che, levata la mano dalla carta, la fregò sopra la muraglia del detto giardino, dove era un po' di bianco. Fu probabilmente per pulirsi le dita macchiate d'inchiostro, giacché scriveva davvero. E quando all'andar rasente al muro, se ad una simile cosa ci fosse bisogno d'un perché, era perché, come dissimo, pioveva; ma chi faceva intendere la ragione a quella donna la quale era fissa che colui avesse pigliato appunto il tempo piovoso per unger le muraglie, perchè più persone potessero imbrattarsi i panni nell'andare in volta, volendo stare al coperto. Dopo quella fermata, il nostro disgraziato uomo tornò indietro rifece la medesima strada, arrivò alla cantonata, ed era per isparire, quando, per un'altra disgrazia, fu rintoppato da uno ch'entrava nella strada, che salutò, senza nominarlo per nome. ..Allora la Catarina, che, per tener dietro fin all'ultimo all'uomo dalla cappa nera, era tornata alla. finestra di prima colla febbre della curiosità': indosso, domandò a quel di strada chi fosse l'individuo che aveva salutato. Per fortuna di Dio! l'altro lo conosceva soltanto di vista, e noia potè risponder altro se non che era un commissario destinato dalla Sanità a girare notando i malati, e facendo levare i morti. Le donnicciuole raccontano la cosa: sí bisbiglia: guardano le moraglie: ed alto da terra circa un braccio e mezzo sono sporche di tira certo untume che pare grasso e che tira al giallo: in fretta e in furia si abbrucia con della paglia accesa, si scrosta per fino il muro: che bisbiglio pensatelo! I luoghi più imbrattati erano le muraglie dell'andito della porta della casa Tradati. Anche a Gian Giacomo Mora, che stava sulla cantonata, parve, come agli altri, che fossero stati unti i muri della sua casa, e li fece imbiancare per levar via quella porcheria. E non sapeva che pericolo, poverino, gli sovrastava: Non mancò chi trovò bello d'arricchire il racconto delle donne di nuove circostanze, e di bocca in bocca, la notizia fu recata al capitano di giustizia, Giovan Battista Visconti. Ma pur troppo, in quel tumulto di chiacchiere, non andò persa Balbiani. — I FAMOSI UNTORI ECC. Disp. 19. Introdotto subito dopo il barblere ed interrogato se è vero.... Cap. XVII. Pag. 323. d'unica circostanza vera, che l'uomo dalla cappa nera, col cappello sugli occhi era un commissario, e fattili passar tutti in lista, con questo semplice indizio, si trovò anche subito ch'era un Gugliemo Piazza, genero della comar Paola, la quale era una levatrice molto brava nei dintorni di porta Ticinese. Si disse anche dove stava di casa, cioè al Torchio dell'Olio, conviveva con suo padre; e si aggiuse che prima di far il commissario di Sanita, attendeva alla scarteggiatura del filugello. La notizia ch'erasi trovata alla Vetra dei Cittadini delle muraglie unte di mano di un commissario, di quelli che dovevano sorvegliare la canaglia degli untori, si sparse con un gran susurro, un gran fremito negli altri quartieri, e ci fu anche portata da qualcuno che s'era abbattuto a passar li nel momento del sottosopra e dello spavento. Uno di quei discorsi, Dio sa come allungato di bugie, fu riferito al Senato che ordinò, il giorno dopo, al capitano di giustizia di assumere immediatamente informazioni in proposito, e specialmente dal sagrestano della chiesa di Sant'Alessandro, il quale doveva aver fatto da trombetta all'orecchio di qualche senatore. Il capitano di giustizia, con un notaio, si recò subito dall'indicato sagrestano, ed udita com'era la cosa si recò parimenti sul luogo delle unzioni, dove ebbe un bel da fare a sentire in esame le tre o quattro donnicciuole, riscaldate di fantasia contro gli untori. Ci volevano prove che quell'untume fosse veleno, e ne fu fatto esperimento sopra i cani senza cattivo effetto, per cui parve piuttosto una insolenza che una scelleratezza; ma venne egualmente, quello stesso giorno, emanato l'ordine d'arresto contro il commissario Piazza. Il quale, ribaldo a segno di commettere il più orribile delitto nel chiaro del di , era li in piedi, tranquillo come un angelo, sulla porta della casa del presidente della Sanità: uomo d'alta statura, barba rossiccia, capelli castani, calze e brache nere di mezzalana cenciose, una camiciuola nera come il panno ; gli ombreggiavano la faccia le tese arrovesciate d'un cappellaccio. E menato su, e benchè non gli si trovassero in casa nè vasi, ne unto, e neppure il becco di un quattrino, è sottoposto a processo. Datogli, come si soleva, il giuramento di dir la verità, interrogato se conosceva di nome i deputati della parrocchia della Vetra, mentre egli abitava al Torchio dell'Olio, e se sapeva che fossero state unte le muraglie. O nol sapesse proprio, poveretto, o fosse per paura di peggio, rispose di no. A queste bugie secondo i giudici, gli è intimata la corda. « Se me la vogliono anche attaccar al collo » rispose lui « lo facciano che di queste cose non ne so niente». Fu posto alla tortura. Questo solo nome ci fa fremere, ci fa dirizzare dallo spavento i ca- pelli sul capo, ed appena crediamo che una volta la legge, la quale deve rispettare l'innocente nell'uomo non ancora giudicato reo, studiasse il peggior modo di sconnettere, con infinito spasimo, le membra, e prolungare l'angoscia e la desolazione di un uomo per cavargli la verità. Eppure così era pur troppo! Legar le mani di dietro, poi levar in alto l'accusato e scrollare la corda sinchè le ossa della spalla andassero fuor di posto: avvolgergli, alla mano, rovesciata sul braccio , una matassa di canape, e torcerla... abbrustolire, a fuoco lento, le più sensibili parti del corpo : conficcare sotto le unghie schegge di legno resinoso, poi accenderle ecco i tormenti che facevano soffrire a un povero accusato. Al Piazza dunque, degato alla tortura e levato in alto, s'intima, che si risolva di dire la verità. Risponde il disgraziato, tra gli urli e i gemiti e le invocazioni e le suppliche: "L'ho detta, signori ". Insistono. «Ah, per amor di Dio! » grida l'infelice « vossignoria mi faccia calar giù, che dirò quello che so: mi faccia dare un sorso d'acqua ». E lasciato giù, messo a sedere; interrogato di nuovo, risponde: «Io non so niente, vossignoria mi faccia dare un sorso d'acqua ». Fu di nuovo sollevato, ma non potendoglisi cavar nulla di bocca di quel che i giudici volevano, fu deposto, slegato, e ricondotto alla sua prigione. L'indomani, benchè desse conto del dove era stato la mattina del 21, fu di nuovo messo alla tortura , a quella più scellerata della legatura del canapo. Siccome poi i giudici di allora credevano che il demonio potesse esser entrato nei capelli, nelle cuciture degli abiti o nelle budella d'un uomo, cosi rasero tutti i peli del povero commissario, gli misero indosso le vesti benedette del tribunale, e l'obbligavano a ingoiarsi un purgante. Tra il supplizio, egli esclamava: «Ah, Signore, ah, san Carlo! Se lo sapessi, lo direi: ammazzatemi, ammazzatemi ! » E confessando niente, lo tornarono a trascinare in prigione. Ricominciato l'interrogatorio il giorno dopo, mentre andavasi preparando i tormenti, il misero ripeteva : «Mi ammazzino pure che sono qui: mi ammazzino che l'avrò caro, perchè la verità l'ho detta ». Messo a quella più crudele tortura che il Senato aveva prescritto per strappargli la verità, gridò di nuovo, con parole di dolor disperato e di voce supplichevole: "Ah, Dio mio ! ah, che assassinamento è questo? ah, signor fiscale !... Fatemi almeno impiccar presto... fatemi tagliar via la mano... ammaz- zatemi!... Lasciatemi almeno riposare un poco. Ah, signor presidente !... per amor di Dio, fatemi dar da bere ». E aggiungeva quasi subito: « Non so niente, la verità l'ho detta! » Dopo molte e molte risposte tali, a quella ripetuta istanza di dire la verità, gli mancò la voce, ammutolì, per quattro volte non rispose, finalmente potè dire ancora una volta, con voce fioca : " Non so niente; la verità l'ho già detta!" Si dovette finire, e ricondurlo di nuovo, non confesso, in carcere, senza mettergli a posto le ossa. Era un modo ancor più barbaro di continuargli la tortura. Alla mente di quel disgraziato cominciarono ad affacciarsi, da una parte, nuovi tormenti, quel spaventevole moto di seghe, di cavalletti, di tanaglie, di ruote , ingranate nelle sue carni, in fine l'ultimo grado dell'obbrobrio e della sventura, quella morte senza aver colpa sulla coscienza, senza aver offesso quel popolo, che accorre sempre a batter le mani all'agonia d'un povero cristiano in mano del boia; dall'altra parte la bellezza della vita che più si sente come più si è pressato a perderla. Mentre disperato pensava al modo di portar fuori la pelle da quel carcere, gli capitò tra i piedi il custode, il qua'e, d'accordo certo col tribunale, lo consigliò, se non voleva altre carezze della corda, di filar sincero colle confessioni, e di dire dove aveva tolto l'unguento. Crollò la testa, e poi rispose se gli aveva parlato da senno o da burla, perchè lui non sapeva di nessun unguento. Allora il custode, che era un tal Sebastiano Testa, visto che l'amico non si fidava di lui, diede l'incarico, naturalmente d'ordine superiore. ad una terza persona di scavare qualche cosa dal commissario. Di birbanti non v'era penuria, nemmeno allora, al mondo, massime dentro il cortile d'un tribunale, e fu trovato subito un fante certo Giovanni Bobbe, detto il bulone. Si mise attorno al povero torturato, il quale tormentava colle ossa dislogate, e lo toccò sul tasto del confessare la verità, poichè quella era l'unica strada di scappar dalle unghie del boia. Ma anche a questo non rispose altro il commissario, se non che erano tutti matti, e assassini della sua vita. Credendo che il facesse per non fidarsi di lui, il bulone ne parlò cori un detenuto, certo Melchiorre Taurello, del medesimo pelo,, il quale promise di riuscire a strappare al Piazza il nome e cognome di colui che gli aveva dato l'unguento. Cosa gli abbia fatto, quali parole gli abbia detto, il fatto sta che ha potuto levargli di bocca il nome d'un disgraziato, e subito dal bulone al custode, da questo all'auditore del tribunale la cosa venne all'orecchio di chi non aspettava di meglio per far una retata di untori. L'auditore era Gaspare Alfieri, l'amico degli Arrigoni della Valsàs- sina e che ebbe l'infamia di promettere al commissario l'impunità, mentre non poteva se dava il nome e cognome dell'individuo, che volevano ad ogni costo, che gli avesse dato l'incarico di spargere la peste in Milano, ungendo le muraglie e le porte delle case nella Vetra de' Cittadini. E coll'auditore c'era anche un notaio Balbiano, il quale doveva servir da testimonio per mandare in condanna il commissario, se si lasciava adescare dalle promesse a confessare quel che si voleva dal tribunale. Ecco in che modo hanno raggirato quel disgraziato commissario, e gli hanno cavato di bocca delle parole, che non era intenzione della sua coscienza di dire per nessun patto al mondo. Premendo all'auditore, che aveva le mani neil'impasto del processo, di battere il ferro intanto ch'era caldo, subito l'indomani della sera, in cui il Piazza si lasciò scappare le disgraziate parole di bocca, fu condotto davanti agli esaminatori. Era la quarta giornata dacché era stato arrestato, vale a dire il 26 giugno, e l'auditore gli intima: « Dica conforme a quello che stragiudizialmente confessò a me, alla presenza anche del notaio Balbiano, se sa chi è il fabbricatore degli unguenti, con i quali tante volte si sono trovate unte le porte e le mure delle case ed i catenacci di questà città ». Il commissario esclama: «A me l'unguento l'ha dato lui, il barbiere ». " Lo nomini questo barbiere ». «Crede, che abbia nome Gian Giacomo, ma la parentela non la so » « E dove sta questo barbiere di casa? » «Sta di bottega sull'angolo della Vetra dei Cittadini, e non si pue sbagliare che non ce ne sono altri ». Ecco come quello sciagurato con una bugia, non contento della sua disgrazia tirava un povero innocente, padre di famiglia, nel precipizio. Intanto l'auditore che ha fatto mettere in carta, perchè non scappino più, le parole del commissario, gli torna a domandare. « Dal barbiere ne ebbe poco o molto del detto unguento ? » a Me ne ha dato tanta quantità, come potrebbe stare in queste calamaio, che è qua sopra la tavola ». «Fate il calcolo di un tre oncie di roba ». «E' com'era quest' unguento? » voleva sapere l'auditore. Il commissario, cacciata via la Vergogna della prima bugia, seguitò a rispondere, come il tribunale gli metteva le parole in bocca. «E' giallo, duro come l'olio gelato di inverno ». «Il barbiere è suo amico? » «E' amico, signor sì, buon dì e buon anno ; è amico, signor si » . Vale a dire che lo conosceva appena di saluto, come può accadere a tutti i padroni di bottega d'un avventore che vien qualche volta a servirsi. E avanti colle interrogazioni. «Con quale occasione il barbiere gli ha dato detto unto? » «Passai di là, e lui chiamandomi mi disse: Vi ho poi da dare una certa cosa: io gli dissi cosa era, ed egli disse:E' un certo unto; ed io dissi: Sì, sì, verrò poi a torlo; e di lì a due o tre giorni, me lo diede poi. « Bisogna che mi dica il luogo, il giorno, l'ora della consegna ». « Io ero di faccia alla sua bottega », accontentò l'auditore anche in questo il commissario, « il barbiere con tre o quattro persone le quali non conosco, mà delle quali m' informerò da Matteo, il fruttarolo che vende gamberi in Carrobbio, il quale era allora con me. L'unto mi fu promesso sette od otto giorni prima del mio arresto appena suonata l'avemmaria; l'ho poi avuto un dì prima di spargerlo, prima di desinare, ed in un vasetto rotondo di vetro ». «Che cosa gli disse quando gli consegnò il detto vasetto d'unto? » «Mi disse: Pigliate questo vasetto ed ungete le muraglie qui dietro e poi venite da me che avrete un pugno di denari; ed io gli domandai chi me li avrebbe dati, ed esso mi rispose che me li avrebbe dati lui ». Che filza di bugie! Perché il barbiere non unse da sè? come arrischiò si enorme proposta in presenza di tanti ? che poteva il commissario aspettarsi da un miserabile barbiere? Ma l'esame era ben lontano dall'essere finito li. L'auditore tornò ad interrogare il Piazza. «Dopo l'offerta dei denari, cosa successe? » « Successe che pigliai il vasetto, e lo adoperai la mattina del seguente venerdì». «Il barbiere gli esternò il motivo perché facesse ungere?» «Non mi disse niente, mi immaginai che detto unto fosse velenoso e potesse nuocere ai corpi umani, poiché la mattina dopo mi diede un'acqua da bere, dicendomi che mi sarei preservato dal veleno di tanto unto. Io l'ho bevuta. Quell'acqua poteva essere un oncia e mezza o due circa, non era però torbida, e mi è parsa distillata. Il barbiere me la diede sull'uscio della sua bottega che risponde al Carrobbio, la mattina circa le otto la bevetti subito, ed era in un ampollino di vetro (fra se) se lui ne fa incetta di tali cose ». Ad analoghe interpellanze il commissario seguita ad infilzare bugie, che cioè il barbiere gli diede l'acqua, gli disse di beverla, che lo avrebbe preservato dal veleno dell'unto del vasetto, e gli avrebbe tenuto lontana la peste, principalmente col suo ufficio di andar presso ai malati e ai morti. «E del vasetto vuoto cosa ne ha fatto? » volle sapere l'auditore. «Lo buttai », rispose, « nella Vetra, dei Cittadini sotto il portico che traversa la strada, contro il muro dalla parte dell'osteria, e si ruppe in cento pezzi ». Interrogato cosa pensasse lui commissario di quell'unto e dell'acqua datagli dal barbiere, rispose che credeva che detto barbiere facesse detti unti ed acqua a mal fine, senza sapere però se fabbricati di suo capriccio o per istigazione altrui. «E li fabbricò allora soltanto il barbiere » : domandò ancora l'auditore. «Non so se altri ne fabbrichino, o ne abbiano avuto dal barbiere. Se lo sapessi l'avrei già detto, ma è certo che se ne ha dato a me ne avrà dato anche ad altri, giacché non avendo io urtato che la Vetra dei Cittadini ed essendo stata la città untata in altre località e diverse volte per necessità da altri ne deve essere stata unta ». «Precisi i luoghi dove unse ». «Cominciai ad ungere », dichiarò il commissario, « poco lontano dalla bottega del barbiere, che guarda sulla Vetra dei Cittadini andando sulla Vetra verso il ponte dei Fabbri, e poi unsi fino in vicinanza alla porta dell'osteria vicino al luogo, dove Saracco tiene i cavalli di vettura, e poi tornai indietro sotto detto portico ungendo, e poi sotto il medesimo portico buttai il vasetto come ho detto ». «Il barbiere gli ha assegnato il luogo preciso da ungere? » «Mi disse che ungessi li nella Vetra dei Cittadini, e che cominciassi dalla sua porta dove in effetto cominciai ». Che il barbiere non sia stato buono d'unger nemmeno il proprio uscio, di notte, senza arrischiar nulla? Nella mattina in cui unse », seguitarono ad esaminare il commissario », non incontrò nessuno che l'ha salutato ». «Sono stato incontrato e salutato da un sensale di legna abitante sulla piazzetta di San Lorenzo, e questo non ho potuto dirlo prima di adesso. "Perchè non ha potuto dirlo le altre volte?" "Io non lo so, nè so a che attribuire la causa se non a quell'acqua che mi ha fatto bere; perché vossignoria vede bene che, per quanti tormenti. ho avuto, non ho potuto dir niente ». Eppure quei giudici, così facili a contentarsi, non sono ancora contenti, e tornano a domandare: Perchè non ha dette queste verità prima di adesso, massime essendo stato tormentato nella maniera che fu tormentato sabato e ieri? » «Io non l'ho dette, perché non ho potuto, e se io fossi stato cento anni disopra la corda, io non avrei mai potuto dire cosa alcuna, perché non poteva parlare , poiché quando m'era dimandato qualche cosa di questo particolare, mi fuggiva dal cuore, e non poteva rispondere ». Soddistatti finalmente e satolli di mensogne chiusero l'esame, e rimandarono quel disgraziato nella sua prigione e studiare altre bugie. Io l'ho detto disgraziato ? no, non si può piú chiamarlo così; dal momento che la coscienza si lasciò spaventare dal tormento egli è un miserabile, su cui pende, non meno che sui giudici, la mano della giustizia divina, che non ha molto di comune con quell'insieme, che suole chiamarsi la giustizia umana. Subito dopo l'esame del commissario, ecco che l'auditore corre, con la sbirraglia, alla casa del barbiere, e lo trova in bottega. Un altro reo che si lascia cogliere tranquillo, che non pensa per nulla a farla a gambe, nè a nascondersi, mentre il suo complice è in carcere da quattro giorni. Resta li attonito a veder entrare i segugi del capitano di giustizia, coll'auditore, e a bocca aperta e colle ciglia inarcate sta a sentire che vogliono da lui. Subito la faccenda è spiegata, quando l'auditore ordina ai birri di metterlo in arresto con un suo figliuolo, ch'era con lui in bottega. V'erano presenti anche la moglie del barbiere e l'ultima sua figlia Teresa, che aveva appena compiti i sei anni: ma esse non furono molestate per nulla. Il barbiere aveva anche due altre figliuole una Anna d'anni quattordici, e l'altra Valeria d'anni dodici che non ebbero il dispiacere di veder arrestare il loro padre. Visto che la compagnia dei birri, ad un cenno dell'auditore, si sbrancava nella bottega e nel cortiletto a mettergli sossopra ogni cosa, a ripassar vasi, vasetti, ampolle, alberelli, barattoli, credette d'aver capito cosa volessero, ed esclamò: Oh ! Vossignoria veda ! so che è venuto per quell'unguento ; Vossignoria lo veda là; ed appunto quel vasettino l'ho apparecchiato per darlo al commissario, ma non è venuto a pigliarlo, io grazie a Dio, non ho fallato, Vossignoria veda per tutto; io non ho fallato ; può risparmiare di farmi tener legato ». Credeva quel poveretto che il suo gran delitto fosse d'aver composto e spacciato quello specifico senza licenza. Asogna sapere che allora i barbieri la facevano un po'anche da chirurghi nei casi, dove non ci voleva che un po' di pratica; e di li a mare anche un po' il medico, e un poco lo speziale, non c'era che un passo. Ma le sue scuse non son trovate buone; e gi comincia una rigorosa perquisizione nella bottega, nella corte e nella casa. Per prima cosa parve strano ai birri, e indizio di reità all'auditore l'aver scoperto in una stanzina dietro la bottega due vasi pieni di sterco umano, mentre c'è la latrina di sopra. Il barbiere risponde: « Io dormo qui dabbasso, e non vado di sopra ". Di fatti, in tempo di peste, era tanto naturale che un uomo, il quale doveva trattar con molte persone, e principalmente con ammalati, stesse per quanto era possibile, segregato dalle famiglia. Poco dopo l'auditore corre nel cortiletto, dove i birri, nel frugare, hanno scoperto un fornello con dentro murata una caldaia di rame, nella quale si è trovata una materia viscosa gialla e bianca, la quale, gettata al muro, fattane la prova si attaccava. Il barbiere, accortosi che vi facevano tanto caso di quel ranno, rispose: «L'è smoglio ». Attirano l'attenzione dell'auditore anche una ciottola con cinque parpagliole. Cinque parpagliuole! riflettete la bella somma che aveva in pronto di pagare le spese delle unzioni fatte fare al commissario... cinque parpagliuole per una famiglia di cinque persone, senza contare il garzone di bottega, che non frequentava da qualche tempo per paura della peste. Presentatagli la ricetta dall'auditore, perché spiegasse cos'era, in quella confusione la credette la ricetta dello specifico, e commise l'errore di stracciarla; ma furono subito raccolti i pezzi e conservati, quantunque lui dichiarasse di non averla lacerata per malizia. Accortosi che i birri gli capovolgevano la casa come se la sua bottega fosse un'officina di veleni, soggiunse spontaneamente che solo, per commissione del commissario, aveva fatto dell'unguento dell'impiccato per ungere i polsi onde preservarsi dal mal contagioso. E siccome aveva ciera l'auditore e la sbiraglia di non credergli, disse: «Se mai mi son venuti in casa, perché io abbia fatto questo elettuario che non si poteva fare, io non so che fare, l'ho fatto a fin di bene e per salute dei poveri, perché ne ho dato via per amor di Dio, ed un vaso l'ho fatto io, e l'altro l'ha fatto il signor Girolamo, speziale alla Palla». Ma l'auditore se l'era fitto in mente, e volere o non volere la materia trovata nel fondo della caldaia doveva esser il corpo del delitto. I birri, coi manichini legarono il povero barbiere, che si raccomandava. «Non stringete troppo, perché io non ho fallato ». Poi nell'uscir da quella casa, nella quale non doveva più metter piede, da quella casa che doveva esser distrutta fin dalle fondamenta, per innalzarsi al suo posto una colonna infame, esclamò ancora: «Io non ho fallato, e se ho fallato che sia castigato; ma da quell'elettuario in poi, io non ho fatto altro; però, se avessi fallato in qualche cosa, ne domando misericordia". Poteva parlar meglio quel disgraziato? non era tanto come dire: son nelle mani vostre, siate almeno cristiani nella scelta del castigo ! Tradotto subito avanti il capitano di giustizia, l'auditore ed il fiscale, il barbiere dichiarò d'esser figlio di Cesare Mora e d'esser nato in quella medesima casa da cui l'avevano menato via, riconobbe esatto e preciso l'inventario delle cose trovategli in bottega e nel cortile, e quanto al ranno della caldaia rispose: « Signore, io non so niente, e l'hanno fatto far le donne; che ne domandino conto a loro, che lo diranno; e sapeva tanto io che smoglio vi fosse, quanto che mi credessi d'essere oggi condotto in prigione » Ad altre interrogazioni, disse di conoscere in porta Ticinese tre commissari, di cui due di vista, ed uno di cui ignora il nome, ma che è figlio di un corriere il quale passa dalla sua bottega e fu, secondo aveva sentito dire, arrestato fin da sabbato. Esso gli doveva dare un vasetto pieno d'unguento per ungersi i polsi e preservarsi dal contagio, ma, essendo stato imprigionato, il vasetto è ancora in bottega, com'è descritto nell'interrogatorio lettogli. «In qual modo, gli domandarono, il commissario gli cercò il preservativo? » "Incontratomi al Carrobbio, tre giorni prima del sue arresto, midisse: So che avete fabbricato dell'olio, ne voglio un vasetto ». Interrogato il barbiere, descrive gli ingredienti adoperati per la confezione del suo olio, narra che la gente incolpa il genero della comare Paola d'aver fatte le unzioni intorno la sua bottega rilevate in quattro diversi punti sopra i muri e sopra le imposte della bottega. Le unzioni erano di color giallognolo, e non volle raschiarle prima che fossero viste dall'autorità. Accorse sul luogo il signor capitano di giustizia, come può dirlo di presenza, non entrò nella sua bottega, dove lui stava a lavorare. Egli l'avrebbe ben fatta visitare sul momento, se non ci avessero ficcato il naso i signori Castiglioni e Tradati, padroni delle case vicine, promettendo di assumersene essi la cura. Il commissario non ebbe con lui altre relazioni che un anno prima in cui entrò nella sua casa per farsi prestare un serviziale. E termina con una protesta al risguardo della Sanità di non aver fabbricato, che Dio lo castighi se mentisce, che un elettuario preservativo della peste. Chiamato dopo il figlio del barbiere ripetè la sciocca ciarla, seminata dalle donne per tutta porta Ticinese, del vasetto e della penna, facendo osservare però che la credeva cosa non vera, perchè il commissario, che conosceva di vista, camminava nel mezzo della strada, e quando parlava con alcuno, gli parlava da lontano. Qui era proprio il caso d'interrogare il figlio del barbiere sul ranno, che faceva tanto spavento all'auditorè, e vedere da quanto tempo si trovava nella caldaia, e come fatto, e a che uso, e allora si sarebbe chiarito meglio l'affare. Ma avevano paura di non trovarlo reo. E questa è la chiave di tutto. Ricondotto in carcere il figlio, interrogarono su quel particolare la madre, la povera moglie del barbiere, la quale subito dichiara di non conoscere Guglielmo Piazza che di nome, come genero della comare Paola; di non aver fatto il bucato che da otto giorni; di adoperare per farlo cenere, sapone, il secchione e la caldaia trovata nella corte, e di esser solita a riporre del ranno per certi usi di chirurgia; che per questo gliene avevan trovato in casa; ma che quello non era stato adoperato, non essendocene stato bisogno. Fu licenziata, e il dì dopo praticata la perizia del ranno, per mezzo di due lavandaie e di tre medici. La prima, che forse non s'intendeva di ranno dichiarò che non era puro, ma v'era dentro delle furfanterie, e che con il smoglio guasto si facevano degli eccellenti veleni. Così pure sentenziò la compagna, argomentando principalmente dall'untuosità di quella feccia ; come se dovesse esser puro il fondo d'una caldaia, dove si saranno lavati dei lini sporchi dalle piaghe e dai cerotti, massime dopo vari giorni d'estate. Ci voleva un chimico a decidere l' imbroglio, se cioè quell'avanzo, in fondo alla caldaia, era o non era ranno; e si scelse un certo Achille Carcano, il quale cominciò a trovare che l'elettuario, fabbricato dal barbiere, era schietto; ma quanto al ranno disse d'esser poco pratico. Ma i giudici, che sognavano veleno da per tutto, volevano che sentenziasse ad ogni modo. Allora il dottore dichiarò : « Per rispetto all'untuosità che si vede in quest'acqua, può esser causata da qualche panno ontuoso lavato in essa; ma perchè in fondo di quell'acqua vi ho visto ed osservato la qualità della residenza che vi è, e la quantità in rispetto alla poca acqua, dico e concludo, al mio giudizio, non poter essere in alcun modo smoglio ». Non poteva l'acqua essere svaporata? La tortura, a cui fu sottoposto il povero barbiere, doveva fare il resto. Volendo i giudici ad ogni costo che egli avesse sparso il veleno colle sue unzioni, indignato esclamò: «Signor no, no, no in eterno ! far io queste cose? » E vero che queste parole tanto le può dire un galantuomo come un birbone, ma c'è un modo di dire che è diverso nei colpevoli dagli innocenti. Gli fu replicato : " Che cosa dirà', quando dal commissario Piazza gli sarà questa verità sostenuta in faccia? » Il barbiere, franco, gli rispose: «Quando mi dirà questo in faccia, dirò ch'è un infame, e che non può dire questo, perché non ha mai parlato con me di tal cosa, e guard inni Dio ! » Si fa venire il commissario,e, alla presenza del barbiere, gli si domanda, tutto di seguito, se è vero questo e questo; tutto ciò che ha deposto. Il Piazza, continuando nel suo sistema di bugie risponde : « Signor sì, che è vero ». «Oh Dio, ,misericordia! » esclama il barbiere , « non si proverà mai questo ». «Io sono a questi termini per avervi sostenuto », grida il commissario. «Non sarà mai, non proverete mai d'essere venuto a casa mia », ribatte il barbiere. «Non fossi mai stato in casa vostra; che sono a questi termini per voi ». «Non si proverà mai che siate venuto a casa mia ». Dopo di ciò furono rimandati, ognuno nel suo carcere. Il giorno dopo il confronto, il commissario chiese d'essere sentito. Aveva in pronto altre menzogne da regalare ai giudici , in danno del povero- barbiere. «Il barbiere, diss'egli, ha detto che io non sono mai stato a casa sua; perciò Vossignoria esamini Baldassar Litta, che sta nella casa dell'anziano, nella contrada di San Bernardino , e Stefano Buzzio , che fa il tintore, e sta nel portone per contro Sant'Agostino, presso Sant'Ambrogio, i quali sono informati che io sono stato nella casa e nella bottega del barbiere ». Baldassare Litta, interrogato se ha mai visto il Piazza in casa del Mora, risponde: « Signor, no ». Stefano Puzzi, interrogato se sa che tra il Piazza e il barbiere vi passi alcuna amicizia, risponde: «Può esser che siano amici, e che si salutassero; ma questo non lo saprei mai dire a vossignoria » Interrogato di nuovo se sa che il detto Piazza sia mai stato in casa o bottega del barbiere, risponde : «Non lo saprei mai dire a Vossignoria ". Vollero poi sentire un altro testimonio, per verificare una circostanza asserita dal Piazza nella sua deposizione cioè che un certo Matteo Volpi s'era trovato presente, quando il barbiere gli aveva detto: Ho poi da darvi un so che. Questo Volpi interrogato su di ciò, non solo risponde di non ne saper nulla, ma, redarguito, aggiunge risolutamente: « Io giurerò, che non ho mai visto che si siano parlati insieme ». Il giorno seguente, 30 di giugno , fu sottomesso il barbiere a un nuovo esame : a Che dica per qual causa lui costituito, nell'altro suo esame, mentre fu confrontato con Guglielmo Piazza commissario della Sanità , ha negato appena aver cognizione di lui, dicendo che mai fu in casa sua , cosa però che in contrario gli fu sostenuta in faccia; e pure, nel primo suo esame mostra d'avere piena sua cognizione, cosa che ancor depongono altri nel processo formato; il che ancora si conosce per vero dalla prontezza sua in offrirgli , ed apparecchiargli il vaso di preservativo , deposto nel suo precedente esame? » Risponde: «E ben vero che il commissario passa di lì spesso dalla mia bottega ; ma non ha pratica di casa mia, nè di me ». «Dica la verità per quale causa mentre si praticava la visita della sua casa lacerò la scrittura riconosciuta poi per sua , essendo verosimile che l'abbia fatto per qualche scopo », «Mi fu data dal signor auditore , io la stracciai per non averne più bisogno ». «Non doveva stracciare detta scrittura a lui confidata dal signor auditore, ma doveva conservarla nello stato in cui gli fu data e non lacerarla in faccia alla giustizia. Ciò non deve aver fatto senza mistero, e però dica a che fine ciò fece ». «Io credei che me l'avesse data come scrittura inconcludente ». «Il signor auditore gli disse, che dovesse dire che cosa era detta ricetta ». «Vossignoria me lo disse, ma poi si voltò in altra parte della bottega. La scrittura fu fatta dal signor Monti, chirurgo, e poi segretamente feci vedere il decotto al signor Matteo, il quale vi aggiunse non so che cosa, ed era per il signor Mauro notaio». «Si risolva a dire la verità, a che fine abbia lacerata la detta scrittura, e per quale causa abbia negato di aver pratica e conoscenza col commissario ». «Ho già detta la causa della lacerazione della scrittura, e non è vero che il commissario abbia avuto pratica in casa mia ». Minacciato dei tormenti, il barbiere risponde: "Già. ho detto quello che passò intorno alla scrittura, ed il commissario dice un'infamia, perché io non gli ho detto niente ». «Per adesso non si vuole altro da lui se non che dica, perché abbia lacerata la scrittura e perché neghi che il commissario sia entrato nella sua bottega, mostrando quasi di non averne conoscenza». «Ho visto il commissario passare innanzi ed indietro parecchie volte; ma non ho di lui altra conoscenza ». Allora il barbiere fu messo alla tortura. Prima però s'inginocchiò, e disse, in atto di preghiera: «Gesù e Maria, siatemi in compagnia! » Il barbiere non aveva la robustezza di corpo del commissario. Per qualche tempo però, il dolore non gli tirò fuori altro che grida compassionevoli, e proteste d'aver detto la verità. «Oh Dio mio!... non ho cognizione di colui, nè ho mai avuto pratica con lui, e per questo non posso dire... e per questo dice la bugia che abbia praticato in casa, nè che sia mai stato nella mia bottega... Son morto! misericordia, mio Signore ! misericordia!... Ho stracciato la scrittura , credendo fosse la ricetta del mio elettuario... perchè volevo il guadagno io solamente ». "Questa non è causa sufficiente », gli dissero : Supplicò d'esser lasciato giù, che direbbe la verità. «La verità è che il commissario non ha pratica alcuna con me ». Fu ricominciato, accresciuto il tormento : alle spietate istanze degli esaminatori, rispondeva sempre : «Vossignoria veda quello che vuole che dica, ed io lo dirò». Finalmente, costretto dallo spasimo a mentire, disse come i giudici volevano fin da principio: «Ho dato al commissario un vasetto pieno di sterco, onde imbrattasse le muraglie ». Vedendo che la tortura produceva l'effetto desiderato, invece di lasciarlo giù, come lui aveva supplicato, gli intimarono che cominciasse a dire. E lui disse : «Era sterco umano e materia che esce dalla bocca dei morti sopra i carri. Il commissario me ne ha dato un vasetto, che ne poteva contenere una libbra, e che io ho messo nella caldaia. Esso me lo ha dato dieci giorno sono, e prima che io glielo consegnassi discorremmo solo sul corso di porta Ticinese. Egli mi disse di fargli tale composizione,e che avremmo entrambi guadagnato, lui per la malattia di molte persone, io per la vendita del mio elettuario. Di questo negozio io non ne ho trattato con altri, nè so che il Piazza abbia unto altra località che quella della Vetra. Il Piazza possedeva, per preservarsi dalla peste ungendosi i polsi, l'unguento dell'impiccato. Lui mi disse: « Vorrei che facessimo qualche cosa per lavorare entrambi. Io gli domandai la materia, egli me la portò, non so come l'abbia avuta; ma lui lo saprà bene ». « Altri sono implicati in ciò?» " Lo saranno i suoi compagni, padre e figlio Migliavacca , ed il Baruello genero del Bertone, i quali, essendo compagni del commissario, avranno fra loro fatto questo». «Dov'era la materia ? » "Nel fornello di casa mia: la componeva di mia testa e di notte,onde alcuno non lo sapesse. Mettevo lo sterco per nascondere la materia puzzolente... Mettevo lo sterco nella caldaia, lo stemperavo col ranno, poi lo cavavo in una scodella ed incorporato il tutto ne empiva il vaso,e gettavo via il rimanente nella Vetra ». « Quanti vasi, quante volte, ed a qual epoca ha dato al commissario di detta composizione? «Gliene ho data cinque o sei volte, dopo la sua nomina a commissario. Egli non mi ha fornita la materia che una volta sola ». «Tale cosa è fatta di commissione di alcuno? » «No, signore; ne discorrevamo fra noi, e nessuno era presente quando io gli consegnai i vasi. Non ho mai visto per la oscurità il colore della materia, portatami dal commissario ». Interrogato se sa che altri abbiano perpetrato simili atti, il barbiere risponde: «Non lo so, non l'ho udito dire nemmeno da lui ». Di nuovo sollevato sulla tortura per convalidare al modo che vo leva la legge d'allora la sua deposizione, e tutte le interrogazioni fattegli, gridava : «Tutto quello che ho detto è vero, e non ho aggravato alcuno indebitamente ». E persistendo e parendo che soffrisse molto, fu deposto, slegato e ricondotto in carcere. Da quando il ranno e lo sterco sono diventati un veleno da dar la morte? la bava' sì, ma come mai raccogliere clandestinamente tanta, bava per una libbra? Come raccoglierla senza contrarre la peste? Come riporla nella caldaia, senza che la moglie, i teneri incauti figli non si appestassero? Come conservarla dopole solenni procedure, e lasciarvi un simil corpo di delitto?. Come sperar guadagno vendendo relettuario: mancavano forse ammalati in quel tempo che ne morivano fin 3500 al giorno? Non avrebbe il barbiere fatto meglio il proprio interesse, fabbricando e vendendo l'unguento preservativo, anziché, il pestifero? La confessione strappata dalla tortura non valeva, se non era in seguito ratificata e confermata senza tortura, anzi senza;la vista della tortura, onde almeno sembrasse spontanea e degna di fede. Perciò il barbiere fu nel giorno seguente chiamato ad un nuovo interrogatorio. Appena entrato nella sala esclamò: «Quell'unguento che ho detto non l'ho mica fatto, e quello che ho detto l'ho detto per i tormenti». Minacciatagli la tortura, soggiunse: «Perché Vossignoria mi ha fatto mettere questo vestito che pare mi voglia ancora fare dare dei tormenti? » Rispostogli: non essere stato vestito così pér la tortura, ma perché a sua camicia recava nausea e che per necessità gli si darebbero i tormenti ove non dicesse la verità, replicò: « Quello che ho detto ieri non è vero, l'ho detto per i tormenti ». Poi soggiunse:


Balbiani.- I FAMOSI UNTORI ECC. Disp.20 Allora si manda ad arrestare anche il Lucini.. Cap.XVIII Pag.331 «Vossignoria mi lasci dire un poco un'Ave Maria, poi farò quello che Dio mi ispira », e, piegate le ginocchia, si pose innanzi alla immagine del Crocifisso, e pregò per lo spazio d'un miserere. Si alzò, e, previo giuramento, interrogato disse: «In coscienza mia non è vero niente ». Condotto al luogo del tormento e sottoposto alla tortura colla legatura del canape disse: - « Vossignoria non mi dia più tormenti, che la verità l'ho detta e la voglio mantenere ». Ricondotto, attesa tale promessa, al luogo dell'esame, rinnovato il giuramento di dire la verità. esclamò: «Ho già detta la verità ». E condotto, per la seconda volta, al luogo del tormento ed eccitato a risolversi a dire perché si ritira dalla confessione già fatta ed ora nega, ora afferma: però dica la verità, altrimenti si farà tormentare. Allora disse: «E vero quello che confessai ieri, dopo deposto dai tormenti e senza che vossignoria me lo faccia leggere lo rettifico ». Si aveva avuto la malizia di far vestire al barbiere gli abiti che forniva il tribunale nel caso d'applicazione della tortura, e ciò per tenerlo in ispavento come accadde. Lettagli la deposizione il barbiere dichiarò che nulla aveva da aggiungere o da diminuire. Ad altre domande egli risponde che il commissario pel primo lo eccitò a fare quanto ha confessato, che la prima volta in cui praticò con lui ha dato il vaso della materia per ungere ì catenacci e le muraglie, onde ammalandosi molte persone, entrambi guadagnassero. Parendo agli esaminatori inverosimile che tutt'e due si determinassero ad ungere per un interesse di così poca importanza, il barbiere risponde: «Lo saprà questo dal commissario che fu l'inventore, io ho fatto soltanto adesso tale unguento, ma anziché da me non fu adoperato che dal commissario. Per fabbricarlo io adoperavo in eguale quantità della materia datami dal commissario, dello sterco umano e del ranno senza altro ingrediente o bollitura ». « Ciò lo costituisce reo di avere procurata la morte del popolo ed è incorso nelle relative pene comminate dalle leggi ». « Io non mi intendeva che la gente dovesse morire, ma solamente che, per le unzioni alle muraglie, s'ammalasse. Il commissario era povero, meschino, mal vestito ed andava a prendere gli uccelli, ma io non sono andato in casa sua. E vero però che dopo la sua nomina a commissario possedeva molti danari, ma ne ignorava la quantità; so che diceva di guadagnare molto ». Cosi passava il mese di giugno ed al primo luglio veniva inter- rogato il Piazza per quale motivo non abbia deposto di avere fornito al barbiere la bava degli appestati onde fabbricare l'unguento per ungere le muraglie; a cui risponde di non avergli dato niente. Osservatogli dopo qualche centestazione sul numero delle volte in cui avrebbe avuto l'unto dal barbiere, che per non avere detta la verità intiera, come aveva promesso, esso non può, nè deve godere della impunità promessagli come gli fu protestato nel caso che fosse trovata diminuita la sua confessione e ritrovato non dire lui tutto quanto era passato fra lui e detto barbiere, per cui essendo risultato dal processo e dalla sua presente confessione di avere ommesso di dire il delitto da lui principalmente commesso dando la materia dei morti appestati al barbiere per fare l'unto, esso conforme alla protesta che gli fu fatta non può, nè deve ora godere della impunità, e perciò si fa reo non solo di avere unte le muraglie, onde fare morire la gente come ha confessato, ma anche di aver dato al barbiere la materia uscita dalla bocca degli appestati morti per fare l'unto ed è incorso perciò nelle pene delle leggi. Il commissario evidentemente per non perdere la impunità, unica sua àncora di salute in quel gran mare di guai, ammette che il barbiere cercasse di portargli la materia ed esso gliela portasse, onde confezionare l'unto. « Tale materia, conchiuse, mi fu fornita da un monatto di cui non so il nome, una sol volta di notte, alle colonne di San Lorenzo, dietro suo promessa non ancora mantenuta di lauta mercede. Io mi messi intanto e ricercato dal detto barbiere, il quale mi ricercò a fare questo con promessa di darmi una quantità di denaro, sebbene non lo specificasse, dicendomi che aveva una persona grande che gli aveva promesso una gran quantità di denaro per fare tale cosa, e sebbene fosse ricercato da me a dirmi chi era questa persona grande, non me lo volle dire, ma solamente mi disse di attendere a lavorare ed untare le muraglie e le porte, che mi avrebbe dato una gran quantità di danari. In ciò io non ebbi aiuto da persona grande ». Ricondotto in carcere fu subito dopo menato in sala e sottoposto a nuovo interrogatorio in cui diede i connotati del monatto, il quale gli aveva fornito la bava dei morti, e ripetè che il barbiere gli disse di fare quanto aveva confessato dietro istanza di persona grande. Il giorno seguente, interrogato il barbiere senza tortura, se esso fosse stato il primo a cercare la materia al commissario e se gli avesse promessa una quantità di danari. Il barbiere esclamò: « Signor no, e dove vuole vossignoria che pigli io questa quantità di danari? » Interrogato sull'ultimo interrogatorio del commissario in genere e più specialmente sulla persona grande dal medesimo nominata, il barbiere rispose : « Vossignoria non vuole già se non la verità e la verità io l'ho detta, quando sono stato tormentato ed ho detto anche d'avvantaggio ». Senza la paura della tortura avrebbe fatta una nuova ritrattazione. Ad ogni modo l'anima gli rifuggiva da ogni ingiusta incolpazione. Il giorno 8 luglio, il senato ordinava all'auditore del tribunale, ch'era sempre l'Alfieri, di ricevere , senza notaio, la deposizione del commissario, scrivendola di propria mano e facendogliela sottoscrivere o segnare ove non sapesse scrivere. Introdotto dunque dall'auditore conferma, senza il solito giuramento, le dichiarazioni a lui fatte prima stragiudizialmente : poi narra cosi: «Pregato dal barbiere a dargli la bava che cola dalla bocca dei morti io gliene domandai l'uso, ed il barbiere mi rispose che voleva fabbricare l'unto per ungere i catenacci e le porte della città ed uccidere le persone. Pregato tre o quattro giorni ed istigato dal diavolo bo dato la bava al barbiere, il quale mi promise di darmi una grande quantità di danaro che mai più sarei stato un povero uomo ». «E questa persona grande? » volevano sapere i giudici. « Questo tale che doveva dare il danaro era proprio un capo grosso, e dopo lo spazio di 4 o 5 giorni mi disse che questo capo grosso era un tale Padiglia, il cui nome non mi ricordo benché me lo dicesse: so bene e mi ricordo precisamente che disse essere figliuolo del signor Castellano del castello di Milano. Io non so perché detto capo grosso facesse far detti unti; se non che il barbiere mi disse che li faceva fare per fare morire la gente. Bisogna che il barbiere avesse ricevuto danari del capo grosso o da altri lui , perché non si sarebbe messo a simile imohesa senza quattrini, ma io, per verità non posso dire che n'abbia avuti, perché non lo so ». Interrogato, se il barbiere gli disse quale poteva nascerne e quale fine movesse il figlio del Castellano a far morire la gente, egli assicurò, che il barbiere gli disse soltanto che il figliuolo del Castellano gliene aveva dato la commissione. Aggiunse poi di non sapere chi li legasse in amicizia, a meno che non fosse stato il Baruello rifugiatosi sulla piazza del Castello in luogo di salute, nell'osteria dei Brugnoni. Introdotto subito dopo il barbiere, ed interrogato se è vero che per indurre il commissario a far quanto ha deposto gli promettesse gran quantità di denaro, dicendogli inoltre che vi era una persona grande, la quale lo somministrava, risponde: «Mai si proverà questo in eterno ». Gli s'intima di nominare la persona grande. « Se io la sapessi, la direi in coscienza mia , nè il commissario potrà mai dir questo con verità ». Eccoli di nuovo l'uno in faccia all'altro, il barbiere ed il commissario. Si comincia dal far giurare l'ultimo , che conferma la propria deposizione. «E voi volete dir questo? » dice il barbiere. «Sì che lo voglio dire , è la verità e sono a questo cattivo fine Iter voi, e sapete bene che mi diceste questo sopra l'uscio della vostra bottega». «Pazienza, per colpa vostra morirò ». Rimandato in carcere il commissario, ed eccitato il barbiere a dire la verità, colla minaccia anche della tortura, si ostina ad assicurare di averla già detta e di non saper nulla. Trascinato al luogo del tormento, prestato il giuramento e di nuovo interrogato su ciò che il commissario aveva deposto in sua presenza, rispose: «Ho già detta la verità ». Vestito subito degli abiti del tribunale e messo alla tortura colla tremenda legatura del canape, il barbiere gridò: «Signor si, che è vero quanto mi fu sostenuto in faccia dal commissario; e confermo tutto quello ch'egli mi ha detto: lasciatemi giù » Calato replicò : «Tutto quello che ha detto il commissario in faccia mia è la verità ». Quel poveretto non sapeva resistere alla tortura. Chiesto poi nella stessa guisa sul conto del figlio del Castellano, confessò: «Questo mi dava tutti i danari che volevo, e se diceva due doppie me le dava, se quattro quattro; e c'era un banchiere che sborsava i denari ». «Chi è quello che sborsava i denari? » « Io non lo posso dire, l'ho qui stretto nella gola e non lo possa dire; n' ho il nome fermato in gola, e non lo posso dire ». «Si risolva a dire il nome di costui o si farà legare ». «Quel suo, quel suo compagno». «Lo dica o si farà legare ». Sottoposto alla tortura disse: «E un banchiere genovese al quale è morta la moglie di peste fuori di porta Ticinese, e di grazia vossignoria mi faccia slegare che dirò tutto». Sciolto, messo'a sedere e dopo essere stato dubbioso disse: «E Giulio Sanguinetti, l'ho pur detto. Lo Spagnuolo ed anche il figlio del Castellano ci dissero di andare da lui a prendere tutti i danari che volevamo. Io però, essendo stato subito imprigionato, non ne ho ricevuto ». " Dovevano andare con scrittura o senza? " «Dissero che il banchiere ci avrebbe dato danari a nostro piacimento, asseverando soltanto di essere di quelli del figlio del signor Castellano. Io non so se alcuno sia andato dal banchiere, benché dicessi al commissario di andarvi, ed esso mi abbia mostrato due volte dalle quattro alle sei doppie di Spagna ». «Non è verosimile che il banchiere sborsasse danari dietro semplice richiesta, spieghi quindi il concreto ». «Bastava fare la richiesta, come ho detto e sottoscrivere il nostro nome: bisognava che il banchiere fosse informato del fatto ». "Lo conosce, è andato alla sua casa? » «No; bisognerebbe avere lo Spagnuolo grande; esso saprebbe ogni cosa ». «Lo nomini ». «Esso si chiama Don Pietro di Saragozza. Parecchi Spagnuoli hanno trattato di questa materia, uno ha parlato con me, altri con altri ». «Alcuno dei suoi di casa sapeva di questo guadagno? » «No, signore, non lo sanno ». «Sa che altri abbiano ricevuto da lui o da altri denaro od unto? » «Da me nessuno. Fra me ed il commissario furono scambiate le poche parole già accennate. Quando venne alla mia bottega a prendere i vasi erano con lui gli arruotini ed il Baruello, i quali potevano udire quante cose mi diceva; io però non ho mai trattato con loro ». «E inverosimile , avuto riguardo alla quantità, delle unzioni e quindi degli untori, che esso non li conosca almeno in parte ». «Essi possono nominare me, perchè barbiere; ma io non li conosco ». «Ha visto esso il figlio del signor Castellano a trattare con alcuno sul corso di porta Ticinese? » « No, signore, perché egli veniva di soppiatto ed io mi studiava di nascondermi. Al momento del mio arresto, io non aveva parlato con don Pietro di Saragozza da circa dieci giorni ». « Sa egli dove sia stato fabbricato il vaso di unto, che dice essergli stato mandato dal figlio del Castellano ? » «Credo sia stato fabbricato in Castello. Ci mancava il tempo di parlare di molte cose. Nè il figlio del signor Castellano, nè don Pietro mi palesarono mai lo scopo e l'utile di queste cose ». «Quante volte ancor dopo ha visto il figlio del signor Castellano? » «Soltanto le due volte ». «I danari del Sanguinetti dove dovevano essere sborsati d'ordine del figlio del Castellano o d'altri? » « Io non so altro se non che don Pietro mi disse di andare dal Sanguinetti a prendere denari a mio piacimento, e che io non vi andai ». Rimesso alla tortura per costituire un giudizio contro i nominati, ratificò il barbiere la propria deposizione, protestando di avere detta la verità, di non avere aggravato alcuno indebitamente e implorando per amor di Dio la cessazione dei tormenti. Il giorno dopo, ch'era il 12 luglio, dichiarò che il figlio del Castellano era più alto di lui, nè grasso, nè magro, ed assicurò di non averlo potuto ben raffigurare , parlandogli avviluppato tutto nella cappa. Gli pareva bel giovane, ma non ne ricordava il colore degli occhi. «Precisi il tempo », gli dissero, « in cui don Pietro di Saragozza l'invitò a parlare al figlio del Castellano, e quello in cui parlò collo stesso e n'ebbe i denari ». «Ciò fu un mese e mezzo prima del mio arresto, e la pratica, per quanto mi ricordo, durò cinque settimane" Interpellato di nuovo sul nome, protesta di ignorare il nome del figlio del Castellano, e suggerisce agli esaminatori di domandarlo al commissario, il quale, per quanto crede, deve avere scritto il nome dei signori. «Il trattato », gli chiesero, " fu che lui adoperasse l'unto datogli dal figlio del Castellano o che lo fabbricasse?" «Prima ebbi il vasetto, poi dissi a Don Pietro ch'io ne aveva composto allo stesso effetto, e don Pietro venne due o tre volte ad intendere quello che faceva ». «Dove ha imparato tale composizione?" «Udii nella bottega e fra gli altri dal signor Giovanni Battista Negri che all'uopo serviva la materia che vien fuori dalla bocca dei morti, e mi industriai ad aggiungervi, di mia testa, ranno e sterco «Da dove nasceva la difficoltà, nel nominare il banchiere Sanguinetti?" «Non me ne ricordavo più, e poi, a dir la verità, sentivo a gonfiarmi la gola come se ci avessi giù un qualche intoppo «Quante volte il commissario gli ha fatto vedere denari? i «Salvo errore tre o quattro volte, quattro, cinque o sei doppie per volta ». « Sa od immagina la causa che spinse il figliuolo del Castellano? «Io non la so, ma la saprà il commissario, essendo egli molto informato di tutto ». ll povero barbiere era assai più onesto, ma assai più debole del commissario, e non sapeva resistere all'applicazione della tortura col cui mezzo qualsiasi confessione, qualsiasi incolpazione gli era o gli sarebbe stata strappata. Per evitarla esso doveva confermare le deposizioni del commissario, e non potendole conoscere che per mezzo delle interrogazioni che gli dirigevano, dava risposte equivoche o più volontieri si riferiva a quelle date o che avrebbe potuto dare lo stesso commissario. Siccome tuttavia anche in questo non era molta la potenza d'invenzione, il barbiere, colla paura in corpo della tortura, era costretto contro ogni sua volontà a farne mostra. Il commissario, interrogato in seguito, disse che dodici giorni prima dell'uso dell'unto, quando il barbiere gli chiese la spama dei morti, gli narrò che esso agiva dietro impulso di una persona grande la quale non avrebbe lasciato mancare i danari. Manifestatogli dopo due o tre giorni il nome, il barbiere gli disse che era il Padilla, il figlio del Castellano, capitano di cavalleria. Esso allora diede la spuma al barbiere, n'ebbe dopo due giorni l'unto con cui unse a San Simone, alla piazza dei Resti, a Santa Marta, e trovatosi con lui al dopo pranzo secondo l'accordo, il barbiere fece chiamare alla porta del castello uno Spagnuolo di statura più alta della sua, con barba nera ed un vestito color zenzovino e gli parlò trovandosi lui commissario alla lontananza di una ventina di passi. Licenziatosi dallo Spagnuolo, il barbiere gli disse di seguirlo dal Turcone cui lo Spagnuolo aveva impartito l'ordine di pagarli; entrò dal Turcone e dopo mezz'ora gli diede, a suo dire, trenta ducatoni, che invece erano venticinque e due doppie. Fra lui ed il barbiere non fu fatta alcuna scrittura, e lui non ebbe altri denari che quelli già accennati. Il Turcone è di nome Gerolamo, piuttosto piccolo, grasso ed affetto dalla gotta. Rispose di ignorare se il barbiere abbia fatto dare denari agli arruotini ed al Baruello, i quali erano sempre con lui e dovevano ungere e ricevere denari, giacché, poveri come Giobbe quali erano, vive vano allegramente all'osteria. Disse di aver veduto il Baruello all'osteria dei Sei Ladri con una calza piena di zecchini e di ducatoni a giuocare cogli arruotini e col Bertoncino, i quali erano sempre insieme giorno e notte. Così il commissario, anziché identificare il banchiere in Giulio Sanguinetti come lo aveva identificato il barbiere, accusava altri sia perché conoscenza del Gerolomo Turcone e di suo fratello Tommaso, sperava meglio di rendere verosimile l'accusa, certo del resto che colla tortura sarebbe stata assecondato e confermato dal barbiere. Difatti il barbiere, al primo interrogatorio rispose: «Sì, o signore, conosco l'esistenza di un banchiere Turcone, ma non ne conosco l'abitazione, non essendovi mai andato » ; poi dopo avervi pensato alquanto, soggiunse: «Vi sono andato una volta a prendere quattro doppie, o meglio tre o quattro volte. » Interrogato se ebbe denari dal Turcone e se lui gli rilasciassa qualche ricapito rispose: «Il già, nominato don Pietro mi disse di andare a casa del Turcone, e che dicendogli di essere uno di quelli del Castellano mi avrebbe dato denaro a piacimento, facendomi sottoscrivere, col mio nome, la ricevuta ». Il barbiere descrive quindi il Turcone come uomo della stessa statura della sua, grasso, vecchiotto, con barba quadra e baffi lunghi. Lo sborso dei denari era fatto da un sacchetto. " Ebbi danari dal Turcone", disse, « circa quattro volte; la prima, venticinque ducatoni e quattro doppie per me, e venticinque ducatoni e due doppie consegnate alla porta al commissario ; la seconda, cinquanta ducatoni con alcune doppie; la terza e la quarta volta ricevetti cinquanta ducatoni, ducento in tutto. Andai sempre alla casa del Turcone in compagnia del commissario, il quale mi aspettava alla porta, e pren- deva da me circa la metà del denaro per distribuirlo ai suoi compagni, ai quali io pure ne distribuiva benchè non mi seguissero dal banchiere.I suoi compagui erano il Baruello, gli arruotini, il Fusaro vicino alla mia bottega, il Pedrino noleggiatore di cavalli , tutti compresi, otto o dieci circa, i quali trattarono delle unzioni con lui e con me. Io promisi e diedi denaro a tutti i suaccennati, ogni qualvolta avendomi detto di aver unto, udii che Milano era stato unto. Sessanta scudi ebbe il Baruello, altrettanto gli arruotini ». Cosi la paura della tortura gli strappava di bocca l'accusa contro altri infelici. Si chiama subito dopo il commissario che ammise di avere toccato denari in maggiore quantità di quella confessata, anche cioè per due volte dal Lucini abitante di fronte al Turcone, due o tre giorni dopo averli toccati da questo. « Il Lucini » , dice egli, « è tutta cosa del Turcone, ed essendo andato dal commesso di costui per ottenere denaro, il commesso mi disse di andare dal Lucini. Io domandai se il Turcone fosse in casa, per aver denaro d'ordine del barbiere di porta Ticinese e lo scrivano rispondendomi che non era in casa, mi indirizzò di andare dal Lucini, che aveva l'incarico di pagarmi. Corso da lui e dettogli quello che voleva cacciò le mani in tasca e mi diede, la prima volta, due doppie e quattro o sei ducatoni, la seconda, trenta o quaranta, compresi gli altri. Io non gli rilasciai ricevuta, e non so se il Lucini facesse annotazione. Un'altra volta, andai per prendere denari sul corso di porta Nuova di contro all'Annunciata insieme col barbiere, che alla mia presenza parlò con un giovine forestiero, al quale chiese denaro per ordine di don Pietro di Saragozza , poi andò con lui in casa. Portati fuori, dove io era rimasto, i denari, mì diede otto o dieci doppie di oro. Non so se il barbiere recasse con se o firmasse alcuna scrittura. Andai altre due volte col barbiere alla casa del Turcone, ma non ricordo i denari ricevuti. Di questi ne ho fatto parte agli arruotini ed al Baruello, i quali nelle loro botteghe dicevano di avere fatto le unzioni Il forbesaro (1) vecchio mi disse, che il Baruello faceva incetta di materia per la città, ma non aprì bocca sulla persona che a ciò lo istigava; poi che l'aveva avuta dal barbiere e che era stata adoperata anche da sua moglie in porta Ticinese e nelle chiese ". Allora si manda subito ad arrestare anche il Lucini, e vien posto a confronto col commissario. Giura da cristiano onorato di non avergli mai dato nè doppie, nè

(1) Arruotino di forbici per tagliare l'oro filato. L'esserci una professione a parte per quell'industria secondaria, fa vedere come fiorisse ancora la principale. altri denari, e che soltanto infame poteva asserirlo. Ma non lo si lascia per questo in libertà, anzi si spedisce a Cassano Montorfano ad arrestare un altro, Gerolamo Turcone. Un terzo disgraziato Giovan Battista Sanguinetti , avendo sentito che erano stati i fanti a cercarlo a casa sua, si presentò spontaneamente, e andò così a cacciarsi in gola al lupo cogli altri. Si comincia ad interrogare pel primo il Lucini , che dichiara che bisogna credere proprio che il commissario sia un diavolo o che burli la giustizia. Minacciatagli la corda, esclama: « Vossignoria faccia quello che il Nostro Signore le ispira ». Sottoposto alla tortura colla legatura del canape, continuò a dire che il commissario era un birbone. Null'altro essendo emerso, benché rimanesse molto tempo ai tormenti fu deposto e rimandato in carcere. Toccò la volta al povero Gerolamo Turcone d'essere sottoposto alla tortura colla legatura del canape, ma pel giudizio del perito soltanto al braccio destro dove vi era una fontanella quasi stoppata, e non al sinistro veramente debilitato. Ma l'applicazione della tortura non diede alcun risultato. Il processo era ormai terminato, ed il 18 giugno era stato ordinato che al barbiere e al commissario fosse pubblicata copia del processo, la quale fu difatti pubblicata il giorno 21 col termine di due giòrni per fare le loro difese; il barbiere elesse per difensore un certo Galeazzo Dozzo, e disse che il commissario, prima di trattare con lui, possedeva ducatoni e doppie di Spagna, e vantavasi di voler andare a cavallo, e prendere casa fuori di porta Renza per non star più insieme colla moglie. In Milano intanto il sospetto ed il terrore dei mortiferi unguenti, aumentavano a mille doppi il giorno 25 di luglio, avendo alcuni malviventi , per darsi al saccheggio , appiccato l'incendio in diversi punti della città, a porta Tosa, al Cordusio e al Carrobio. La popolazione atterrita credette che i Francesi fossero alle porte della città e che vi avessero spedito i loro emissari per ispargere, coll'incendio, gli unguenti malefici. I nobili accorsero alle mura per difenderle, e vi rimasero per vari giorni e per varie notti nella intenzione di respingerne l'assalto I cittadini tutti fino a quel giorno illesi dal contagio, vi diedero nuovo fomite, agglomerandosi spettatori intorno all'incendio, ma perdo rando nell'antica cecità ne incolparono i Francesi e gli untori loro emissari. Sicchè il furore contro di questi, dopo il giorno 25 luglio era al parossismo. Il 27 il Senato profferiva contro il barbiere ed il commissario la definitiva sua sentenza, che era così concepita, con queste precise. parole: « Riferito in Senato dal Magnifico Senatore Monti, presidente dell'uffizio di Sanità, il processo istrutto contro Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, che con pestifero unguento unsero la Città , e udito esso magnifico Presidente, e raccolti i voti di tutti i Senatori , venno nella determinazione che i predetti Mora e Piazza, intimata ad essi la morte, vengano tormentati colla corda ad arbitrio d'esso magnifico Presidente, intorno agli altri punti e ai complici; e che avuti per ripetuti e confrontati, sopra un carro sieno condotti al solito luogo del supplizio, e per via morsi con tenaglie infocate nei luoghi dove peccarono; ad entrambi si tagli la destra davanti la barbieria del Mora, e spezzate le ossa secondo il costume, e la ruota si levi in alto e si intreccino vivi in quella, e dopo sei ore sieno strozzati, e subito i loro cadaveri sieno bruciati, e le ceneri gettate nel fiume e la casa del Mora si distrugga, e al posto suo s'alzi una colonna che si chiami infame con iscrizione del fatto, e a nessuno più in perpetuo sia concesso i ifabbricarla. »Ai creditori particolari si soddisfaccia coi beni dei condannati, se ne avranno, se no del pubblico; i beni del Mora e del Piazza si confischino. "Nel condurli al paibolo si tenghi questa forma." "Precedano due trombetti che annunzino al popolo la causa della condanna e del supplizio. »Siavi bastante scorta , chè non avvenga tumulto nel popolo,e perciò si chiudano le case dei sospetti; e si proclami che ciascuno stia in casa, e si guardi. »Il luogo dove avrassi a far la giustizia cingasi di steccati di legno, i quali affinché non possano essere infetti con quell'inguento pestifero , custodiscansi da uomini a ciò; e a quel luogo facciasi un coperchio , acciocchè i frati possano con minore incomodo assistere ai condannati, e di tutto diasi avviso al Vicario di giustizia».

"OTTAVIANO PERLASCA Sottoscrisse e sigillò, ecc. "

Tanto il commissario come il barbiere erano ormai belli e spacciati, e non rimaneva più loro altro che raccomandar l'anima a Dio, che almeno, dopo tanto patire in questo mondo, usasse loro misericordia nell'altro. Fu posto prima in chiesa il commissario nel luogo di san Stefano per farlo morire, e messo in altro luogo appartato il barbiere. Il commissario strepitava e diceva che moriva al torto, e che era stato assassinato sotto processo, e che per ciò gli volevano far perdere l'anima; ed i padri cappuccini partirono senza averlo potuto disporre a confessarsi, nè a far atto di contrizione. Il barbiere, mentre era in confortatorio per isgravio dell' anima sua, sopra un foglio di carta protestò della sua innocenza come medesimamente suìio stesso foglio protestò anche il commissario, il giorno dopo. "In nomine Jesu il 31 luglio 1630 ". CAPITOLO XVII

« Io Giovan Giacomo Mora, barbiere, mi protesto che essendo condannato a morte e perchè io non voglio e protesto di non partirmi da questo mondo con carico della mia coscienza; e perciò colla presente scrittura e protesta mi dichiaro e dico sopra la mia coscienza: che tutti quelli, i quali sono stati nel processo incolpati da me , processo fabbricato contro di me per causa degli unti pestilenziali, li ho incolpati al torto; e per questo in quanto a me; e questo lo protesto avanti i Padri Cappuccini ed altri assistenti alla cura dell'anima mia ». La sentenza del Senato fu scrupolosamente eseguita in tutte le sue atrocità il 2 agosto. Atterrata la casa del barbiere vi fu eretta una Colonna , colla se guente iscrizione che traduciamo dal latino in italiano : QUI DOVE È QUESTA AREA VUOI'A SORGEVA ALTRE VOLTE . LA BOTTEGA DA BARBIERE DI GIOVANNI GIACOMO MORA CHE FATTO CON GUGLIELMO PIAZZA COMISSARIO DELLA SANITÀ PUBBLICA E CON ALTRI CONCERTO MENTRE ATROCE PESTE INFIERISSE CON MORTIFERI UNGUENTI QUA E LÀ SPARSI MOLTI A CRUDEL MORTE SPINSE QUESTI DUE PERTANTO NEMICI DELLA PATRIA GIUDICATI SU DI ALTO CARRO PRIMA CON ROVENTI TANAGLIE MATORIATI E RECISA LA DESTRA MANO CHE COLLA RUOTA SI SPEZZASSERO ED INTRECCIATI ALLA RUOTA DOPO SEI ORE Si STROZZASSERO QUINDI SI ABBRUCIASSERO ED ACCIOCCHÈ DI UOMINI TANTO SCELLERATI NULLA RIMANESSE COFISCATI I BENI LE CENERI SI GETTASSERO NEL FIUME IL SENATO SENTENZIÒ DELLA QUAL COSA ONDE ETERNA MEMORIA RIMANGA CHE QUESTA CASA. OFFICINA DEL MISFATTO FOSSE RASA AL SUOLO E MAI IN AVVENIRE NON FOSSE RIFABBRICATA ED ERETTA UNA COLONNA CHE SI CHIAMASSE INFAME LO STESSO CONFESSO PRESCRISSE LUNGI DI QUI LUNGI DUNQUE BUONI CITTADINI ONDE LO SGRAZIATO INFAME SUOLO NON VI CONTAMINI. MDCXXX ALLE CALENDE D'AGOSTO

Il presidente della Pubblica Sanita MARCO ANTONIO MONTI. Il presidente dell'eccellente Senato GIOVANNI BATTISTA TROTTI. Il regio Capitano della Giustizia GIOVANNI VISCONTI VENOSTA. Medesimamente si produce cogli altri untori, accusati dal commissario e dal barbiere, e tra queste nuove vittime del delirio di quei sciagurati tempi noi troviamo alcuni personaggi del nostro racconto. Questi erano del Valsàssina. Giovanni Ambrogio Arrigoni di Cremeno, nominato deputato della Sanità durante la peste aveva accusati e fatti condurre nelle carceri della sua casa ;Francesco Manzoni detto il Bonazzo, abitante al ponte di Cremeno, Maria Elisabetta sua figlia, Francesco Bagarone , Bernardo Boccaretto, Gio. Battista Poncietto , Simone Manzoni detto il Gambarello e Caterina Rozzona amica del Bonazzo. Nei processi instituiti dall'Arrigoni la figlia del Bonazzo, il Boccaretto, fanciullo di quindici anni, e la Rozzona deposero e confermarono con leggieri tormenti che Giacomo Maria Manzoni aveva dato l'unguento al Bonazzo per unger ie porte di Cremeno ed in ispecie quella di esso Arrigoni e di suo fratello Antonio Francesco, il quale era infatti morto di peste; che certo Manzoni figlio di Pompeo e congiunto di sangue col suddetto, una sera del giugno del 1630 aveva ricevuto dal Bonazzo l'unguento stesso, e si eran visti insieme in casa del Bonazzo medesimo e di Simone Manzoni con Clara Bossi moglie di Simone ed Anna Zanelli sua cognata e colle mani avevan unta la catena del fuoco, poi si eran fatti portare al diabolico gioco del barilotto, ove calpestata la santa croce, negaron Gesù Cristo e si eran dati a balli e lascivie ; che finalmente il Gambarello e Gio. De Divizj di Pasturo , Lorenzo e Giocomo fratelli de Lodj e Gio. Suano eran partecipi della sacrilega trama. Condotti perciò a Milano e sottoposti i miseri a nuovi esami e crudeli torture, e confessi in quel modo che si adoperò col Mora e col Piazza e che tutti sanno, furono condannati a morte Francesco Manzoni, detto il Bonazzo, Caterina Rozzona e il Bagarone. Più felice l'ultimo che forse di dolore mori nelle carceri prima del supplizio. Gli altri due il dì sette di settembre posti sopra un carro furono attorno per le piazze e le contrade condotti ad infamia perpetua, di quando in quando attanagliati con ferri roventi, poi recise furon loro le destre, infrante le ossa, intrecciati ad una ruota, innalzati per più ore in quella penosa agonia, infin scannati, bruciati, disperse le ceneri nel fiume. Infelici, ambidue sino all'ultimo respiro giuravano al popolo incredulo la propria innocenza! Non guari dopo il tribunale di Milano venne in cognizione che tutto questo processo era stato un' infame impostura ed un esecrando macchinamento del delegato della Sanità per ingannare il tribunale e far perder la vita ai summenzionati Giacomo Maria e Giacomo Manzoni chè nemici di lui. Aveva l'Arrigoni , con minaccie e promesse indotto la figlia del Bonazzo, il Boccaretto e la Rozzona, la prima anche con promessa di sposarla, a fare le deposizioni superiormente accennate. Contro l'Arrigoni s'institui adunque una procedura, fu messo nelle carceri, ma ne evase il 2 maggio del 1631. INDICE

CAPITOLO I. Chi la fa l'aspetti Pag. 3 » II. Il Miserere di due bravi  » 19 » III. Una le paga tutte  » 37 » IV. Il poeta medico del lago  » 53 » V. Orgogliosi e pitocchi  » 69 » VI. Blasone e Chierica  » 85 , » VII. Il pellegrinaggio in Italia_d'un esule  » 109 » VIII. Uomini rari in qualunque tempo  » 139 » IX. Anima di ribaldo » 163 » X. Una veglia letteraria  » 179 » XI. La giustizia d'una volta.  » 205 » XII. La Carestia  » 219 » XIII. Politica e Guerra !  » 229 » XIV. I Lanzichenecchi  » 237 » XV. La peste  » 249 » XVI. I deliri della superstizione  » 387 • XVII. I rei delle unzioni  » 303 •


(vedi pagina originale) Balbiani. - I FAMOSI UNTOSI ECC.