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LA CARITA’ NELLA NUOVA MILANO

NEL cuore della triste invernata del 49, dopo elle Milano aveva sofferto ogni sorta di oltraggi, non risparmiando neppure il debole sesso, si vide ad un tratto alla pubblica udienza che teneva il principe di Schwarzemberg, governatore militare, farvi atto di presenza una gentil donna abbrunata che teneva fra mano un breve foglio. Il principe parve sorpreso, si accostò alla signora e levatosi il sigaro di bocca le disse, con piglio soldatesco, che cosa cercasse. - Chiedo, ella rispose francamente, che non mi sia impedito di far del bene. - Per chi :? riprese il principe. - Per mille e mille poveri parvoli che muoiono alla ventura. Il principe prese il foglio, e letto, lo restituì, colla sua firma, dicendole : - Faccia pure. Si trattava di far ritornare al seno materno migliaia di figliuoletti, che nel numero di seimila venivano esposti ogni anno alla Ruota del Brefotrofio. S'istituivano per la prima volta in Milano i Ricoveri pei bambini lattanti. Chi li fondava era quell' egregia Laura Solera Mantegazza, che a buon diritto fu chiamata la vera madre del popolo. Mercè questa pietosa istituzione si potè ridurre l'esposizione al brefotrofio ai soli figli di connubii illegittimi e dodicimila bambini trovarono invece l'assistenza materna nei cinque ricoveri ora aperti. A questa istituzione si aggiunse l'altra dell'assistenza del baliatico, e tutte le madri del nostro popolo ora possono allattare esse o far allattare da altre madri la loro prole. Ma pur troppo da lungo tempo si era trapiantata in Milano quella tristissima tabe del rachitismo. Nelle memorie lasciate da Montaigne, dal De-Brosse ed anche dallo stesso Goldoni si proclamava Milano come la città, degli sciancati e dei gobbi. Un giovane medico livornese passando da Torino aveva trovato che ivi si era pensato a raccogliere e confortare i bambini rachitici. Egli fece un pubblico appello alla cittadinanza milanese per incoraggiarla a rimediare a questo grave strazio delle nuove generazioni. Il suo fervido appello fu accolto con entusiasmo, e da dieci anni si aperse per cura del suo fondatore Gaetano Pini il nuovo Istituto dei Rachitici che ora prese il suo nome. Esso può dirsi una vera policlinica ortopedica con un' eletta schiera di giovani medici ora esemplarmente diretti dall'egregio dottor Pietro Panzeri.

Allo strazio della rachitide si associa pur troppo quell' altra grave infermitìò della scrofola, che affligge tanta parte della nostra popolazione. Il dottor Barellai aveva pel primo pensato a curare questa piaga nella sua Toscana aprendovi i bagni marini. Giunto a Milano ne fece l'annunzio al ceto medico ed ai nostri più cospicui cittadini. Bastò l'annunzio per dar tosto opera a questa nuova istituzione, a cui presiede meritamente il dottor Castoldi sino dalla sua prima fondazione. Mancava a Milano uno speciale ospizio per la cura medica dei poveri bambini, e l'Ordine Gerosolimitano lo faceva tosto aprire sotto l'illuminata direzione del dottor Guaita, che può dirsi il medico nato per curare l'infanzia. Intanto la cittadinanza milanese conforta ogni anno con gratissimi doni tutti gli altri bambini infermi nel grande Speciale e nell'attiguo Brefotrofio. Faceva duopo pensare ai mille e mille bambini sani che appartengono alle classi addette al lavoro, onde formare nuova generazione forte, intelligente, operosa e cordiale. Riguardo al magistero educativo l'istituzione milanese pure rispettando i metodi altrove introdotti, accolse nei ventisette Asili Infantili aperti nella città e nel Suburbio i metodi della scuola sperimentale che Giandomenico Romagnosi aveva saputo instaurare e che costituisce una gloria tutta italiana. Con questo metodo si addestrano i fanciulletti ad esplorare colle loro forze esordienti il vero, il bello, ed il buono per accertarlo ed operarlo. Si educarono già con siffatti processi più di ottantamila figli del nostro popolo. Questa benefica istituzione si volle in parte applicare anche alla puerizia. Per questi adolescenti, agli ammaestramenti che sono propri dello scuole primarie, si innestarono alcuni lavori manuali, per iniziare i fanciulli del popolo all'operosità che deve essere la compagna indispensabile della loro vita. Questa operosità faceva parte soltanto di chi è educato nei due orfanotrofi e nelle scuole professionali ed in quella degli artigianelli. Ora si vuole estenderla anche alle altre scuole popolari e se ne tentò la prova nell'istituzione della Scuola e Famiglia, stata iniziata dalla egregia maestra Rosa Cavalli-Porro, ove si tengono occupati gli allievi delle scuole elementari anche durante l'autunnale soggiorno campestre a cui attendono alla così detta cura climatica.

Il magistero educativo non aveva potuto applicarsi a due numerose classi di infelicissimi. Ad una di queste era negato ogni conforto di voci umane, ed all'altra era stato spento per sempre ogni spiraglio alla luce del dì. Un distinto filantropo milanese, il conte Paolo Taverna, aveva trovato vagare per le campagne come selvaggi più centinaia di poveri sordo-muti. Perché fossero accolti nel civile consorzio bisognava educarli. Si rivolse allora ad un giovane prete che stava per recarsi alle missioni d'Australia per diffondervi la luce del Vangelo e lo invitò a voler piuttosto dar vita a quell'altro presagio evangelico che prometteva avrebbero in un dato tempo parlato i sordo-muti. Il giovane missionario era l' abate Giulio Tarra. Egli visitò dapprima ciò che era stato tentato per quest' opera di redenzione in Italia ed altrove, e poi si accinse all' opera di dar l'eloquio ai sordo-muti. Egli trovò che nelle omnigene movenze del viso umano vi stavano già scritte le evoluzioni della parola. Soltanto bisognava leggerla imitandola e vi riuscii Aiutato da prodi compagni si ottenne dopo pazienti studi il nobile intento. Più tardi si fece aprire in Milano un primo congresso internazionale degli educatori dei sordo muti di tutte le più colte nazioni del mondo. V'intervenne a nome della Francia l'illustre filosofo Franck. Egli assistette agli esercizii, strenuamente riusciti, e non esitò a dichiarare che doveva abbandonarsi il processo auto-mimico dell'abate De L'Epèe, e mandò tosto quaranta docenti francesi ad apprendere il nuovo metodo che tramuta gli istituti dei sordo-muti in iscuole pei sordi parlanti. Milano ebbe così la gloria di veder ridonata la parola a che ne mancava. Questa gloria rifulse sulla modesta esistenza dell'abate Tarra, che pur troppo, lo abbiamo fra il generale compianto perduto in giovane età in questo stesso anno. Milano che ricorda con monumenti i suoi figli più illustri, non vorrà dimenticare il redentore della parola. I poveri ciechi erano anch’essi considerati come il rifiuto della società. Quelli che erano in età adulta stavano limosinando alla porta delle chiese ed i fanciulli venivano consegnati ai depositi di mendicità. Ad uno di questi Ricoveri presiedeva il benemerito direttore Barozzi. Mosso a compassione per quei poveretti pensò di riabilitarli educandoli. Li conduceva ogni mattina ad un vicino asilo d' infanzia, e faceva assistere i suoi piccoli protetti agli esercizii di memoria nel campo oggettivo e morale, nei brevi canti corali, e nei più facili lavori infantili. Colla scorta di quel metodo sperimentale, il Barozzi educò un po' alla volta i suoi allievi all'arte della parola, del canto, del suono e del lavoro tattile. Quel nascente istituto crebbe tosto nella pubblica simpatia e potè in breve tempo, mercè l'esercizio della lettura a caratteri in rilievo e della musica istrumentale e vocale, essere salutalo in Italia come un istituto modello. Succeduto al Barozzi il Raineri ed ora l'abate Vitali, seppe questi portare ad un grado perfettivo ogni parte del magistero educativo a tal che i suoi allievi più provetti vanno come docenti ad ammaestrare i loro compagni di sventura in altri istituti e come musicanti trovano nuovi mezzi di sostentamento. Un illustre filantropo inglese fece andare a Londra gli allievi di Milano per proporli ad esempio. L'ammaestramento tattile venne ora condotto a tal punto di perfezione, che si potè a canto all'istituto, aggiungervi uno speciale laboratorio in cui i ciechi, fatti adulti, possono guadagnarsi il vitto con utili e geniali opere di mano. A questi nuovi istituti ora si associa l'opera benefica di chi professa l'arte medica. Si apersero due istituti per curare sino dall’ infanzia la sordità, onde prevenire ed alleviare la mutolezza. Citiamo fra questi, quello generosamente fondato dal dottor Olivieri, a cui diede il titolo di Spofocomio. Ad un altro benefico intento, il dottor Rosmini fondava l' Istituto Oftalmico, ove si curano tutte le infermità che affliggono l'organo della vista. Per chi prende a cuore l'Istituto di Maternità, si trova ora a canto due nuove istituzioni promosse esse pure dai medici. Una di esse si occupa di assistere gratuitamente tutte le madri povere nello stato di gravidanza e durante il puerperio. Un'altra attende alla scelta illuminata delle nutrici sane per giovare all'istituzione del baliatico e prevenire quegli sconci che per difetto di medica sorveglianza fanno ritornare alle madri i bambini resi rachitici da inesperte nutrici campagnuole.

Ma vi ha dippiù. Per una città grande e popolosa come è Milano, occorreva l' istituzione di una Guardia sanitaria che ad ogni ora del giorno e della notte potesse, a modo di squadra volante, apprestare i sussidi medici e chirurgici per ogni istantaneo infortunio. A ciò provvidero spontaneamente due comitati medici che apersero nei quartieri centrali della città due stazioni sanitarie a cui si fa richiamo per qualunque urgente bisogno. La loro opera provvidamente benefica fu vivamente accolta dalla nostra cittadinanza, dove in causa dei numerosi opifici sussidiati da macchine, e della febbrile operosità edilizia accadono ad ogni ora gravi disgrazie. Per alleviarne le conseguenze si pensò dal filantropo Ponti, di porgere un primo assegno cospicuo per fondare un'istituzione che viene in soccorso agli infortuni del lavoro. A questa istituzione si associarono i capi fabbrica poi loro operai ed anche gli operai stessi. Nè ciò bastava. ll popolo che lavora è pur troppo esposto a mille strazi e malanni. Nella sua inscienza, o si trascura o si cura con pratiche superstiziose o ciarlatanesche. Bisognava trovar modo di fargli apprezzare i benefici della scienza, e vi riuscì. Un'eletta schiera di giovani medici, apriva in un quartiere centrale una Poliambulanza ove ad ogni ora del giorno s'impartiscono consulti gratuiti in ogni ramo speciale dell'arte medica e chirurgica. Questa istituzione trovò tal favore che incoraggiò altri medici ad aprire una simile ambulanza in altro quartiere della città. Queste felici disposizioni valsero a dar vita alla fondazione della Società Italiana d'Igiene, che per iniziativa dei dottori Corradi e Pini pose in Milano la sua centrale dimora. Con pubbliche conferenze, colla stampa e con speciali istituzioni essa riuscì a render popolare l'igiene. D'accordo col Municipio studiò i mezzi di migliorare l' ambiente della vita cittadina, che ha urgente bisogno di miglior aria ed acqua. Per quest'ultima si fecero studi per introdurre nuova acqua potabile, e da che fu negata dagli abitanti dei monti che vogliono essi soli usufruirla, si pensò ad attingerla, con mezzi artificiali, dal sottosuolo. Per l'ambiente respirabile si applaudì al rinnovamento edilizio della città, che allarga le sue vie. Si fecero restaurare gli abituri più immondi, e si resero più igienici i locali addetti alla pubblica assistenza ed all'istruzione. S'introdusse una maggior pulizia nei locali ove si noleggia un notturno giaciglio e si aperse per i girovaghi un ampio asilo notturno. S'incoraggiò l'istituzione della Società di Cremazione la quale aperse in Milano il suo primo tempio crematorio, a dispetto dei retrivi che tuttora rimpiangono i tempi in cui, per opera della Santa Inquisizione Inquisizione, si ardeva anche in Milano la gente viva. Coll'incenerimento dei cadaveri si purifica l’aura pestilifera dei cimiteri. Si volle provvedere al miglioramento del vitto coll'istituzione delle cucine economiche, ove il popolo operaio trova un sano nutrimento ad un minimo prezzo e si offre l'alimento gratuito ai più poveri, pei quale dà pel primo l'esempio il duca Visconti di Modrone che ne elargisce nell'inverno più migliaia di razioni gratuite. Dall'opera del soccorso fraterno si distribuisce ai più poveri brodo, carne, vino e pane ai vecchi infermi ed ai convalescenti. Cogli avanzi della cucina dei privati e degli alberghi si offre dalle piccole suore, il vitto a centinaia di disgraziati. Persino dalla vendita della carta straccia si trovò il modo di fornire libri adatti a chi è in carcere, ed a chi frequenta le scuole. La Società cosidetta dei Piccoli contributi offre sussidi d'ogni genere a chi non può essere soccorso dalle altre opere pie istituite in Milano. Ma ciò che più premeva alla Società Igienica era il miglioramento nella parte più usuale dell' alimentazione del popolo, che è quella del pane e del latte. Riguardo a quest' ultimo promosse un' associazione di proprietarii di cascine che possiedono ottime mandrie per somministrare due volte al giorno alla cittadinanza latte sano. Questa istituzione, vigilata dalla stessa società igienica, piacque tanto cha un solerte campagnolo introdusse testè nella sede de' pubblici giardini una piccola mandria, che fornisce più volte al giorno ottimo latte alle persone gracili ed ai piccoli fanciulli. Riguardo al pane la società igienica concorse a promuovere due anni or sono una prima esposizione nazionale di tutto quanto si riferisce all'arte del panificio. In quelle stupende gallerie si ammiravano le splendide applicazioni delle arti meccaniche, le quali agevolano la prima riduzione dei grani in farine. Accanto ai prodotti più squisiti dell'opera del panettiere e del ciambellaio scorgevasi la mesta raccolta dei poveri pani, che nelle varie regioni d'Italia servono alla pessima alimentazione del popolo. In quella collezione trionfava almeno la migliorata fabbricazione del pane operata dalle nuove società dei forni cooperativi, stati istituiti nel contado dal benemerito Anelli. La Società igienica pose ivi in mostra la serie dolorosa degli strazii che pel misero alimento producono i fenomeni micidiali della pellagra. Per alleviare le stragi di questa immonda lebbra, che infesta le popolazioni campagnole, il prefetto Basile fece dar opera a nuove ed accurate esplorazioni e promosse una pubblica sottoscrizione che valse a raccogliere fondi abbastanza cospicui per aprire uno speciale ospizio per gli infelici colti da siffatta infermità. L' ospizio ora sorge ad Inzago e gli fu dato il titolo di Pelagrosario, nome poco simpatico e noi facciamo voti perchè nella città in cui vive il principe dei glottologi, Graziadio Ascoli, si trovi una parola che meglio risponda alla scienza ed ai moti più cari del cuore.

Le istituzioni sin qui descritte sorsero in Milano nell'ultimo trentennio e si aggiunsero alle tante altre che esistevano ed esistono rinnovate e che fecero dire all'illustre Lambruschini che Milano era la madre provvida del bene. Queste opero pie servono di preferenza ad alleviare le miserie della vita materiale. Restava a provvedere alle miserie morali. Su questo campo è bene dichiararlo, la carità attuale tuttora impotente a rispondere all'arduo suo compito. La carità deve ormai procedere per vie del tutto nuove e ciò in seguito a l'atti del pari nuovi. Appena l'Italia si trovò libera ed una sentissi da milioni di uomini ripetere quel grido già audace di Laura Mantegazza quando in tempi durissimi ebbe a dire, in faccia a chi imperava, che nessuno doveva impedirle di far del bene. Quand'ecco ch in mezzo a questo santo fremito di fratellanza, si videro ad un tratto sbucare qua e là per le varie regioni italiche orde forsennate di selvaggi che alle prime aure di libertà mandarono ben altre grida. Noi vogliamo, essi dissero, dar libero sfogo ai nostri malvagi istinti, che la sola forza brutale aveva attutito. E quel grido seppero tradurlo in opere insane a tutt'oltranza. Non ha mancato nè manca chi veglia alla pubblica sicurezza e chi amministra la giustizia di dar opera all' ufficio di reprimere gli atti di quei brutali, e si volle che lo stesso popolo raccolto alle Assisi ne conoscesse tutta la pravità. Questa gravissima anomalia sociale fermò l' attenzione del distinto antropologo Lombroso, che volle studiare siffatta piaga sino nelle sue più intime viscere. Egli trovò, dopo ripetuti sperimenti, che fra le fasi che in vari tempi ebbe a subire l' evoluzione biologica della schiatta umana ne rimase una parte primitiva che, come ne dànno ad esempio le Pelli Rosse d'America, è perpetuamente restia ad ogni invito di civiltà. Per porre un radicale rimedio a questa piaga occorrono istituzioni affatto speciali che escono dal campo della carità. Si vagliarono questi rimedi nell' ultimo Congresso internazionale di antropologia, che testè si tenne a Parigi e noi facciamo voti che venga presto divulgato il frutto degli studi stati all' uopo intrapresi. Intanto si potrà in parte provvedervi coll'applicazione del nuovo Codice penale italiano, che in quest'anno comincia appunto ad aver vita. E’ questo il miglior portato della sapienza giuridica degli Italiani, che è stato riconosciuto dagli stessi stranieri. Di fianco ad una scala razionale di pene sorgeranno le istituzioni repressive, le quali saranno informate ai metodi affatto propri del sistema penitenziario che invece di corrompere, come accadeva colle vecchie carceri, mira a correggere. Presso le carceri penitenziarie sorgeranno anche i manicomi criminali, che devono portare nel campo inflittivo i benefici della scienza e dell'arte psichiatrica. La carità deve limitarsi per ora a trovar modo di redimere se può col magistero educativo la gioventù prematuramente scorretta. Per le giovani traviate o nel pericolo di traviare soccorrono speciali ospizii affidati alla pietà delle suore. Con miglior frutto della vita ritirata negli ospizi ha l' egregia Felicita Morandi pensato di sostituirvi la fondazione di una pensione benefica. Ivi le giovani oneste possono attendere liberamente a giornaliero lavoro e col frutto di questo provvedere ai propri bisogni ed avere una provvida assistenza che ad esse guarentisca la santità del costume. Per i giovanetti già iniziati al mal fare vennero ampliati e migliorati nelle discipline i tre Reformatori, di cui due sono a Milano ed uno è posto nel contado per addestrare gli allievi ai lavori agricoli. A questi istituti ora si aggiunse una casa pei figli derelitti raccolti dalla Società di protezione pei fanciulli ed un altro ospizio, fondato per lo stesso scopo, che è intitolato ai Figli della Provvidenza. Ma più che ogni altro istituto d' indole correttiva andrà a recare un' azione ben più efficace la scuola officina stata testè fondata dal Garaventa a Genova e che accoglie anche i nostri giovinetti più pregiudicati di Milano. Il loro ospizio è in una nave ancorata in Porto e con opportune istruzioni si allevano i giovani alla vita del marinaio nella quale riescono esemplarmente, come ne fanno già la prova gli inglesi i quali vengono ogni anno a prendere dall'isola della Maddalena i nostri monelli più scapigliati, e li tramutano in ottimi mozzi di vascello che onorano la stessa brittanica marineria. La carità meramente soccorritrice deve ora cedere il campo agli istituti di previdenza che sono il più nobile portato della nuova civiltà. Sotto il fascino del libero regime il popolo che lavora sente più che mai altamente il proprio valor sociale. Ricorrendo all' antico proverbio, che dice: "Chi s' aiuta Iddio l' aiuta „ il popolo intende di potere colla propria previdenza bastare possibilmente a sè stesso. Attivò su grande scala le associazioni di Mutuo Soccorso pei casi di malattia, di infortuni e di vecchiaia. Fondò sodalizii di protezione mutua per il lavoro ed aperse a sue spese speciali istituti d'istruzione. Depose i frutti del proprio lavoro alle Casse di Risparmio, alle Banche popolari e da queste ottenne anche prestiti a titolo d' onore. Ora sta attivando dappertutto Società cooperative di lavoro, di produzione e di consumo. Noi lasciamo ad altri il compito d' illustrare queste nuove istituzioni che rendono al popolo tutta la sua dignità. Ci basta soltanto di esprimere la nostra ferma fede che è quella di prevedere un avvenire più consolato e più prospero. Noi siamo lieti di poter ripetere il voto già espresso da quel grande pensatore che fu Gian Domenico Romagnosi, il quale desiderava si raggiungesse l'apice della civiltà mediante il massimo pareggiamento dei valori sociali combinati coll' inviolato esercizio della comune libertà. A questa specie di aforismo del maestro aderisce pienamente il superstite suo allievo.

GIUSEPPE SACCHI. Moltrasio, 23 agosto 1889 nel dì genetliaco dei miei 85 anni. MONUMENTO A LEONARDO DA VINCI MILANO NUOVA

Dal taccuino d’un originale,

Sunt bona, sunt mala, sunt mediocra plura Del buono, del gramo, del mediocre assai.

NELLO strappare dal mio taccuino queste paginette di impressioni e pensieri avuti rivedendo la mia antica città natale, per affidarle all'amicizia del Compilatore della Strenna dei Rachitici, è bene si sappia come io medesimo gli dicessi, di non volerne assumere veruna responsabilità, perchè altro è sentire una cosa, altro è strombazzarla ai quattro venti; molto più quando scrivendoli, ultima idea era stata quella che dovessero andar sotto gli occhi di altri. La maggioranza non sarà certo, negli apprezzamenti, con me; ma nella mia vita mi sono a più d'un caso avvisto che il più spesso ha ragione la minoranza. Anche questo è forse un paradosso superbioso; ma andate a convincere del contrario un vecchio che da tanti anni è diventato provinciale, malgrado che sia nato all'ombra della guglia del Duomo. Ho soppresso le date giornaliere dalle mie impressioni: ma l' anno è quello di grazia — stile del mio pievano — 1889.

… Voglio proprio andarmene alla mia cara Milano, al me car Milanin. Parole testuali e stereotipe con cui anche i miei nonni solevano appellare la loro città. A dir il vero, da che gli operai degli stabilimenti cotonieri e serici di questo villaggio han cominciato a mangiaro il pane bianco e a sostituire nei giorni di festa il panno al frustagno, dicono di star peggio e giù parlan di scioperi, come se le due lire italiane che ricevono per la loro giornata, valesser meno degli ottanta contesimi di lira milanese di anni fa. — Questione di progresso! Io degli scioperi di villaggio ho più paura che degli scioperi di città, (1) qui a contenerli nei limiti legali bastano la presenza dell'Autorità e pochi agenti della pubblica forza, là vi vogliono battaglioni. Lo sanno i poveri soldati costretti a mal dormire o in umide chiese o su pe' solai, mal coperti e su paglia non sempre rinnovata.

Eccomi a Milano. Che bazza con questi carrozzoni dei trams! Il primo piacere che mi sono procurato fu quello di correre con essi in su e in giù per la città. Dieci centesimi la corsa! Ma che generosità questa della Società degli Omnibus! A miei tempi ci volevano due svanziche per distaccare un fiacre alto come un primo piano, cui stavano attaccate due slombate rozze; adesso, per giunta, si è tirati da belli e poderosi cavalli. Che progresso! Però ad essere giusti, il più spesso c'è da accomodarsi come sardine nel barile, o rimanere magari in piedi, come m'è accaduto il giorno d'Ognissanti, in cui ho contati i miei compagni di viaggio: eravamo in 39! ma non importa, è ancora inverno e stare un po' pigiati, po' po' non guasta. Più comodo è pei borsireu, che han tutto l'agio di alleggerirvi del portafoglio o del portamonete, come mi accadde di sentire una povera signora lamentarsene proprio nel carrozzone in cui stavo, piangendo anche il suo bell’abito tagliato presso la tasca, dove aveva posto il suo gruzzoletto. Sono andato poscia nel pomeriggio al Corso, mi son fermato parecchio ad aspettare gli equipaggi delle ricche famiglie antiche, ma fu opera sprecata. I througs han reso inutili gli equipaggi. E’ tutto risparmio ! Che importa se Milano perderà del suo lustro, Milano cammina col secolo, e questo è il secolo del tornaconto.

(1) Aveva ragione il nostro amico, e ragione da vendere! Informino gli scioperi avvenuti in questo 1889 nel Comasco e nel Milanese. Il Compilatore. M' hanno detto che i Corpi Santi non esistono più, ch' essi ormai sono tutti riuniti alla città e che a questa si gira tutt' all' intorno in tram. Facciamo questo giro. Ho pagato 60 centesimi e ho compiuto anche questo giro. Fu una vera meraviglia la mia. L'antica circonvallazione non è più riconoscibile. Ai lunghi e monotoni filari di decrepiti pioppi sono succedute case, case e poi case. Porta Genova non esisteva; porta Volta, idem; porta Ticinese, porta Vercellina, cioè porta Magenta, e porta Tenaglia sono diventate altrettante nuove città. Ma le case nuove o in costruzione in città e nei sobborghi sono tante e tante che convien dire che Milano da 150,000 abitanti, come segnavano le statistiche officiali de' miei tempi, siasi aumentata così da rasentare i quattrocentomila. (1)

Ma forse convien dire si aspetti anche il milione, perchè in ogni via sorgono costruzioni giganti, l'area della vecchia Piazza Castello si va coprendo di caseggiati a quattro e cinque piani, intanto che nel centro stesso della città su di una buona metà delle case ho letto l'appigionasi. Ho chiesto nel fare il famoso giro intorno alla città, a chi aspettasse un grandioso fabbricato e mi fu detto: ad un tale che è fallito; e quest'altro? Ad uno che è fuggito in America. Altro che mal della pietra!

Cercherà ad ogni modo un appartamento per me. Quella benedetta guglia del Duomo per chi vi è nato all'ombra è così seducente, affascinante, che è come i Napoletani che esclamano: vedi Napoli e poi mori; noi Milanesi diciamo a un dipresso lo stesso: Milan e peu pu! Alla ricerca adunque!

(1) Al 31 dicembre 1888 erano 385,000 gli abitanti. Il Compilatore.

E’ una settimana che giro. Sia che alla campagna sono uso a camere grandi, sia che i miei concittadini si sono ridotti mingherlini, ho veduto nei nuovi fabbricati camere così piccine da non potervi collocare la quarta parte del mio mobilio, e camere da letto, che per posarvi il letto si dovrebbe metterlo a traverso d' un uscio, senza contare le camere oscure affatto. - E per questo, come si fa - C'è il condotto del gaz. - E il prezzo ? - Onestissimo : duecento lire per vano. Si è inventato anche questa parola. perchè si ha vergogna a chiamarle stanze o camere. Ho finito a rinunziare alle case nuove; ho appigionato un appartamento in una casa vecchia e in una via vergine ancora degli amori dei nostri odierni architetti.

Ah! il mio Duomo! esclamai ponendo piede nella piazza di esso e sprigionando dal petto un sospirone. Un cicerone vedendomi innanzi alla grande cattedrale in estasi e udendo la mia esclamazione, accostatomi, mi informò che tra breve sarebbesi rinnovata la facciata. Ho provato una stretta al cuore ... Nondimeno mi si è mostrato il disegno del progetto premiato dell'architetto Brentano ... Meno male!

Sono stanco. Andiamo alla Scala. Un po’ di musica mi ricreerà. Azrael! opera del m.° Franchetti. E’ un italiano, dissi fra me, ed udirò della musica del mio paese. Non sarà né Rossini, nè Bellini, nè Donizetti, ma non sarà nemmeno quel Wagner, né altro tedesco della scuola, come si dice dell'avvenire. Lo hanno questo Franchetti proclamato i giornali ricco a milioni; ma questo non guasta ; anche Meyerbeer lo era e lasciò delle magnifiche opere. Dunque andiamo.

Sulla piazza del teatro vidi il monumento a Leonardo, co' suoi quattro discepoli all'ingiro. Mi venne sulle labbra un sorriso. Ricordavo la descrizione del mio vecchio amico dei Cento Anni e della Giovinezza di Giulio Cesare. Un litro in quattro! Manco male che ora si pensa a dare una facciata a palazzo Marino : vi hanno pensato un po’ tardi, ma meglio tardi che mai.

Mi presento allo sportello del bollettinaro, metto là un biglietto da L. 5 e mi si rilascia quello d’ingresso. Sto aspettando mi si dia il resto, perchè l'ultima volta ch'ero stato a Milano, avevo pagato L. 3; ma, ci doveva essere un progresso anche in questo; un altro spettatore che acquistava alla sua volta un biglietto mi fece accorto che io non avevo altro da aspettare.

Entro pettoruto e cerco la faccia del Gallarati, il bollettinaro amico di Rovani e del buon vino. E’ certo morto, mormorai non vedendolo, e gli pregai pace nell' intimo del mio pensiero, ricordando i suoi improvvisi: Si sente Per ogni boschetto Un frecc malarbetto Che C.... lo sa.

Passo l'atrio rimodernato, veggo le statue dei sommi maestri italiani che ho personalmente conosciuti: Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi: ma Mercadante perchè non ha la sua statua? In passato lo si nominava coi tre primi, come alle scuole si nominavano insieme Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso. Anche a Donizetti sarebbesi usata l' eguale ingiustizia senza quel cuore d'artista di Francesco Lucca, editore musicale, che si caò di tasca i denari per pagare la statua a quel grande, le cui partizioni dureranno assai più di quel Maestro, cui il Municipio decretò vivente, quella straordinaria testimonianza d'onore.

Andiamoci a sedere. Pagando cinque lire il biglietto, mi attiendevo d'aver diritto ad una poltroncina elastica; la sospiravo! Ma che? Entro nella gran platea, ma mi veggo precluso l'andar innanzi. Tutta era occupata MILANO NUOVA STRENNA DEL PIO ISTITUTO DEIRACHITICI DI MILANO ANNO x. MILANO TIPOGRAFIA BERNARDONI DI C. REBESCHINI & C. 1890 AUTORI: P.C. - CLETTO ARRIGHI - CARLO BARAVALLE POLICARPO CAMPAGNINI - PIER AMBROGIO CURTI - AUGUSTO FERRARI AMERIGO GARZONI TULLIO MASSARANI - GIUSEPPE SACCHI - C. TURI. AL LETTORE.

ERA egli tempo di finirla colla Milano Vecchia? Non oseremo rispondere affermativamente, se consideriamo che dalla passata generazione abbiamo ancora ad apprendere, massimamente a questi chiari di luna in cui mal sappiamo nascondere la fioca simpatia della politica che ci lega ad un' alleanza, con chi siamo stati tanto contenti di mettere alla porta di casa nostra. Però non volendo essere tassati d' essere troppo

I lodatori del buon tempo antico,

quest' anno abbiamo lasciato dormire la Vecchia, per trattare della Nuova Milano, in quest' ultimi anni, che ebbe pure le sue glorie, e i suoi meriti e, confessiamolo, anche qualche torto, come avverrà al buon lettore di vedere, scorrendo le capestrerie scritte in questo volume stesso da un Originale, un po' per altro pessimista. Si voleva accennare a tutti i progressi avvenuti fra noi in questi anni, toccare di studi, di industrie e via via di tutta la vita milanese nel suo poliedro; ma senza escluderne affatto il concetto, si avvisò all' indole di questo volume e si convenne di non riuscire troppo severi ed accigliati, lasciando il compito primitivo a riviste e libri di più concreta materia. Milano Nuova viene presentata adunque dall'Istituto de’ Rachitici per Istrenna dell'imminente anno 1890, che auguriamo al nostro Pubblico lieto e felice, come confidiamo che pur adesso le verrà fatta onesta e generosa accoglienza, come onesta e generosa venne fatta negli anni addietro alla Milano Vecchia. Ai benemeriti collaboratori letterarii ed artistici nostri manda i più vivi e sinceri ringraziamenti IL COMPILATORE. INDICE

La Carità nella Nuova Milano. di Giuseppe sACCHI (con Ritratti intercalati) Pag. 1 Milano Nuova (dal taccuino d'un originale), di C. Turi (con Incisioni) Pag. 7 La Fobellina, di Carlo Baravalle Pag. 15 A .Jacopo Cabianca, di P. A. Curti Id. La Panera di S. Giorgio, di P. A.Curti Pag. 17 Le feste dI Maggio. I Il Corso dei Fiori, di C. Turi (con Incisioni) Pag. 23 II. Le Corse a S. Siro, di C. Turi (con Incisioni) Pag. 27 III. Un ritorno dalle Corse, di Tullo Massarani. Pag. 31 IV. Il Teatro alla Scala, di C. Turi (con Incisione) Pag. 35 Meneghino d'altri tempi e Meneghino dell'oggi, di Policarpo Campagnani (con Incisione intercalata) Pag. 37 Storia del Teatro Milanese (auto-pseudo-apologia), di Cletto Arrighi Pag. 39 L'inaugurazione della statua di Gaetano Donizetti nell'atrio del Teatro alla Scala, la sera del 10I marzo 1874, del Compilatore (con Ritratto e Incisione) Pag. 57 Ode, di P. A. Curti Pag. 59 Extra muros. di Amerigo Garzoni Pag. 61 Paolo Ferrari, di P. A. C. (con Ritratto) Pag. 65 Del mio volto, della mia figura, non sono padrone io solo? (Dialogo sceneggiato), di Augusto Ferrari Pag. 67 Il giubileo artistico del mastro Giuseppe Verdi. Del 16 novembre 1889, di A. C. Pag. 79 CAMPIDOGLIO SUL CORSO LORETO NEL 1886. da poltrone e sedie, ma tutte chiuse. E le vecchie panche? Scomparse. Non c'è che un piccolissimo spazio per gli amatori dello star in piedi. Cerco a un portiere se si poteva passare alle poltrone e mi risponde di sì, pagando altre lire quaranta. Preferii rimanere amatore dello star in piedi.

Comincia l'opera. Il primo atto è più ballo che opera; veggo diavoli e angeli, poi la prima donna bianco-vestita con le ali lunghissime e mi fa ridere; poi una musica indiavolata che mi fa piangere. Esco a respirare e sento un inglese che se la piglia coll' Impresa, perchè dice esser venuto in teatro per sentire a cantare, nella capitale dell' arte lirica, e non per vedere a ballare e pretende la restituzione del suo danaro. Forse l' isolano non aveva tutti i torti.

Riandando le impressioni avute alla Scala, paco favoroveli all' arte, mi piacque in ricambio la sostituzione della luce elettrica al gaz; ma trovai che ne soffriva il palco scenico, che appare alquanto oscuro e ne soffrono gli spettatori, perché la sali non è più tanto riscaldata da permettere l'ammirazione delle olimpiche spalle delle abitatrici del primo e del secondo girone del paradiso milanese.

(Qui vi sono diverse pagine strane di confronti sul caro de’ prezzi, su confronti col passato; rimpianti e censure che qualificano l’autore per un pessimista e un incontentabile. Le salto a piè pari, perché non mi si accusi di invadere il campo di un sensale di borsa).

Oggi vi sarà il corso delle maschere; Giovedì grasso! Infatti mi dirigo alla piazza del Duomo e mi metto in coda ad una folla di gente che muove verso Porta Renza, ribattezzata Porta Venezia, perchè oggi si dà di frego ai nomi antichi e si ribattezza tutto, come un certo compare veneto che bazzicava in passato al caffè dell' Europa di buona memoria, che per buscarsi i regali dell' anime pie, ebbe lo stomaco di farsi battezzare quattordici volte. Speculazione non cattiva per chi ha dimestichezza col cellulare. A veder tutta questa ressa di popolo, si direbbe che si avessero a vedere carri storici od umoristici, cavalcate, getto di coriandoli e di dolciumi da carrozze e balconi, maschere a piedi, allegria dappertutto. Suonano le due pomeridiane, vengono le tre; ma carri, carrozze, bande musicali, maschere, coriandoli, dolciumi, brillano per la loro assenza. E la medesima cosa fu nel sabato grasso. All'allegria è successa la musoneria. O carnevalone ambrosiano dove sei andato? Eppure il Carnevalone, mi ricordo aver letto ne' giornali, come i miei cari concittadini l'abbiano persino reso istruttivo per il popolo che non ha mezzi da viaggiare. A Porta Genova, rammento che fu detto essersi rappresentata la città di Genova e panorami d'altre città, e sull'esempio di essa, anche fuori di Porta Orientale si fece altrettanto avendo raffigurato perfino il Campidoglio. Ecco che dunque il carnevaIone ha raggiunto il massimo de' vantaggi che ottener si possano in una qualunque impresa, di mescere cioè al divertimento l'utilità, giusta il concetto del poeta venosino, che non ho mai dimenticato da che alla scuola l' ho dovuto scrivere per pensum una trentina di volte Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci.

Domenica di quaresima! Speravo rivedere il famoso e proverbiale corso d’ una volta di quando si vedevano tiri a quattro, equipaggi alla Dumont, carrozze nuove fiammanti uscite appena dallo stabilimento del Sala, livree sontuose di Prandoni, pariglie di cavalli fringants e di puro sangue, toalette, ecc. ecc. Se non v’eran più ne il marchese Soncino, ne il Re de’ bastoni, nè altre notabilità, vi saranno, pensavo, successori non meno ricchi e appassionati di cavalli. Ohimè! I successori erano la Società Anonima degli Omnibus, i broughams più o meno decenti, le demi-fortunes.

(Altre lacune di impressioni poco interessanti e spicchiamo al taccuino pagine estive.)

I signori che non vollero più il carnevalone, a dispetto di S. Ambrogio, che lo ha regalato ai Milanesi, riducendo di quattro giorni la squallida quaresima, hanno fatto una magnifica trovata. Le feste di maggio. Corse di cavalli a San Siro; corso di fiori; spettacoli alla Scala. Fui alle prime. Sant' Ambrogio ci ha giuocato. Pioggia a catinelle la prima e la terza giornata. Molti ci han pigliato egualmente gusto; io poco, assai poco davvero. Corso di fiori. Fiori imbalonati ne vidi, ma getto? niente getto. Cioè spiegamoci: ci fu getto di denari per le migliaia di lire mandate a Genova, in Toscana a racimolar rose; ma per un corso?... Ricordai il virgiliano: rari nantes in gurgite vasto. Veglione con maschere alla Scala. A un'ora dopo la mezzanotte erano chiusi i battenti: i fratelli Corti impresari, bollettinari, macchinisti, avevano ceduto il posto ai pipistrelli che ho veduti al lume della luce elettrica appicciccati al velario della platea. Tutti erano andati a dormire, compreso l'unico mascherotto che era comparso e che era poi fuggito per la vergogna del trovarsi solo e fuggito così furiosamente, che l'indomani corse voce che s'era suicidato. Un buon ambrosiano sorridendo raccoglieva in questa sintesi il giudizio di queste feste di maggio: Zucch e melon alla sua stagion.

Sono salito in tram e ho fatto il giro di circonvallazione. E' un' altra città che è venuta sorgendo tutt' all' intorno della vecchia. Case grandiose, stabilimenti industriali, villini, architetture lodevoli, mediocri moltissime, altre di gusto discutibile e di comodità all'interno più discutibili ancora.

Ho fatto una sosta in via Giuseppe Giusti... Ma perchè via Giuseppe Giusti? E’ stato un egregio poeta toscano, che ha dato a grattarsi la pera a quel buon granduca che asciugava tasche e maremme, è vero, verissimo: ma perchè allora non s' è dato il nome di Dante, di Petrarca, d' Ariosto e di Tasso a qualche via? Quest' ultimo poi era anche lombardo, di Bergamo.

Ho assistito in questa via al tiro a segno. Erano monelli che armati di fionda scagliavano sassi contro i vetri d'una casa nuova. Era una gioia il vederli felici que' poverini, quando avevano mirato giusto e sentivano cadere le larghe lastre in frantumi.

Ci pigliai anch’ io tanto gusto a quelle esercitazioni del tiro a segno che prolungai la fermata. Scena più consolante mi si offerse, che gli onorevoli Crispi e Bertolè-Viale ne avrebbero tratto i più lieti augurii. In terreno da vendere, con un mirabile accordo, vidi una mano di garzoni muratori armarsi di sassi da una parte, e dall' altra vidi, oste schierata in campo, una schiera di garzoni fabbri ferrai e altri giovinetti operai e scambiarsi sassate fra i due campi che era un portento. I sassi entravano anche nelle case, ma si sa le son conseguenze della guerra. Chi ha diritto allora di lagnarsi? Chiesi cosa volevan dire queste fazioni, e mi fu risposto che l'una parte rappresentava i nostri bersaglieri a Dogali e l’ altra i soldati di Ras Alula. O che brava gioventù! Così si fa, così si deve fare, così si incarna il concetto della nazione armata. Non meravigliai più l'aver letto sui giornali che era stato rotto il gran termometro ai giardini pubblici, rovesciate le banchine, involate oche ed anitrini negli stagni. Si sa è il diritto di conquista. Seppi poi che queste leggiadre avvisaglie si facevano anche sul corso Sempione colle nuove case che vi sorgono. Questa si chiama la vera libertà. Se poi qualche mal capitato tocca alcuna sassata nel capo o nel petto, non si sgomenti; non per nulla vi sono gli ospedali.

Il grandioso palazzo dei Fratelli Bocconi nella località che una volta si soleva designare agli scalini del Duomo e che ora sarebbe il principio del Corso Vittorio Emanuele s'e inaugurato il 21 dello scorso ottobre... Io non fui tra i duemila fortunati invitati alla grande solennità; ma i giornalisti che ricordavano le dolcezze fruite in quella sera, ne scrissero meraviglie; e io le credo, perché i fratelli Bocconi le sanno fare. Il martedì mattina fui ammesso ad ammirare l'intera costruzione e le macchine interne e i motori e l' ascensore e gli addobbi, lo sfarzo di tutto. Tutti vollero dire la loro. Ma l' arditezza del concetto, lo studio difficilissimo dei particolari, la potenza dell’ esecuzione e la bellezza del porticato fanno del Palazzo Bocconi un fabbricato, uno stabilimento che onora Milano e il nome dell' architetto Giachi.

Elezioni amministrative. Se per le elezioni commerciali hanno tappezzato i muri di mezza città e si è fatto uno scalpore ne' giornali, ne' circoli, ne' caffè ; per quelle amministrative, per la nuova legge, s'è già incominciata l'agitazione. Amante del quieto vivere, torno al mio paese, dove forse I' arruffo non sarà sì grande.

Per copia conforme C. TURI LA FOBELLINA. (1) QUANDO parli per Suez mi disse il bel garzone Con sguardo e con parola d'intensa passione “Non ti scorar. Sovente da quel remoto lido Ti scriverò. Tra un anno forse faremo il nido.” E son tre anni ormai che indarno un rigo aspetto! Forse ferito, forse morente il mio diletto! Laggiù la terra e il cielo son tutto uno spavento, Piove la morte il sole, soffia la morte il vento.

Quando arriva la posta la sera e la mattina 

Mi pianto in sulla via che fa la procaccina, la guardo negli occhi : Ei mi rispondon " Nulla " “Forse, chi sa, domani ! coraggio o mia fanciulla” Mi guarda il buon pievano, mi guarda il sagrestano E mi dicon " Coraggio, mar Rosso è si lontano ! „ E quando in sul tramonto dalle natie montagne Tornan guidando il gregge le mie buone compagne Con mesta cantilena cantando avemaria, Vedendomi piangente sul canto della via, Cessar la pia canzone. Par che mi voglian dire Con quel silenzio onesto " Laggiù, si va a morire “. C. BARAVALLE.

(1) Di Fobello, amenissimo villaggio di Val Ma stellone, in Prov. Di Novara.


A JACOPO CABIANCA.(1)

Che gli accompagnava i Sonetti per le Nozze Rossi-Bozzotti con mestissima lettera in cui lamentava la sua quasi cecità, consolata però dalle cure amorose della moglie e delle sue figlie.

JACOPO, è notte ! Un pensier di me donno Te quasi cieco avanti a me figura E tal mi punge un' amorosa cura, Che lontan fugge da mie luci il sonno.

E l'ombra del britanno e pio Miltonno Brancicar di mia stanza entro le mura Scorgo e mi dice : eguale è mia sventura, Anche quest' occhi miei veder non ponno

Ma penso allora che al Britanno cieco Il Paradiso Perduto le amanti Muse ispirar, e mi rallegro meco

Perchè tu invece di tua donna i santi Contorti e delle figlie ognora hai teco E il paradiso conquistato canti. P. A. CURTI.

(1) Fu egregio autore d' un patriottico romanzo Giovanni Dottesio, e valoroso poeta delle Ore tristi e Ore liete, d'un poema Torquato Tasso e d' un dramma in versi Gaspara Stampa. Morì in questi ultimi anni in Vicenza sua città natale. LA PANERA DI SAN GIORGIO ... e chi sedea A libar latte. FOSCOLO, I Sepolcri.

I. E’ IL giorno 24 aprile sacro a San Giorgio, santo guerriero che i pittori rappresentano a cavallo e tutto catafratto. Dite a un vero milanese (poichè de' quattrocento mila abitanti della città, poco più d'un terzo appena è veramente milanese) che non esca in tal giorno dalla città in cerca di qualche cascinale dove siavi mandra a domandarvi la pànera, com' egli chiama la crema o fior di latte, o che non potendo procacciarsi questo divertimento fra i campi, non vada a riempir la sua ciotola di latte al venditorio, e voi gli imporrete cosa impossibile. come sarebbe vietargli al Natale il suo panettone e al capo d'anno la sua focaccia. Egli ama così la sua pànera, che Foscolo non esitò a chiamare Milano la Paneropoli, la città cioè della pànera; lo che non tolse per altro che lo sdegnoso poeta l'amasse alla sua volta assai, come a un dipresso la ricercano e gustano quasi tutti i viaggiatori forestieri che visitano la metropoli lombarda. E’ il 24 di aprile, il giorno sacro a S. Giorgio, è la solennità dedicata alla pànera, la glorificazione di questa fresca, dolce, gustosa e impareggiabile bevanda, che si ottiene migliore principalmente alla bassa del Milanese, nel Lodigiano e nel Pavese. Tutti i lattivendoli della città, come giorno devoto al loro patrono, inghirlandano l'esterno delle loro botteghe di frondi di pioppo e di platano, perocchè questo non sia soltanto il loro santo patrono, ma in questo giorno eziandio essi stipulano i contratti cogli affittaiuoli per la fornitura annuale del latte. Il minuto popolo si sparpaglia per le campagne suburbane a mangiar la sua crema con pane giallo, seduto beatamente sui rivellini d' un ruscello, sull'erba nascente d' una marcita, o su d' un trespolo intorno al desco zoppicante dei contadini, usando dei tersi cucchiai d'ottone o di stagno, perchè a questa festa campestre del latte si tengono estranee le classi agiate. Ai facoltosi tuttavia l' affittaiuolo reca alla città i secchielli o le damigiane colme del candido-rosato liquore, che quasi burro già fatto, a stento e a groppi viene versato e di cui essi guastano il naturale e squisito sapore mescolandovi zucchero e droghe. E come poi bene spesso il piovoso aprile viene a turbare il vagheggiato divertimento campestre, il popolino, pur di non mancare all'antica tradizione, si accontenta anche del latte troppo cristiano del lattivendolo e allora la bazza di questo è divisa dai fornai, che preparano pani di tutte le dimensioni di farina gialla, leggiermente zuccherati. Quanto allo scrittore di queste pagine, ognuno il riconoscerebbe milanese puro sangue alla divozione con cui centellina e gusta la panera, questa ambrosia del terrestre paradiso — unica ghiottornia della sua vita ; — abbenchè un cotale che volle parodiando, profanare la Divina Commedia (1) e che mai non lo conobbe per davvero, volendo caritatevolmente, purchessia, assegnare ai cultori delle nostre lettere una bolgia, lo abbia proprio ascritto a quella dei divoratori, coi quali proprio non fu mai a mazzo. Vedi il giudizio uman come spesso erra ! Dell'origine di questa festa della pànera, forse più d'uno avrà vaghezza di ottener notizia. E d'appagarlo mi sono appunto proposto di fare adesso, sulla fede d'una narrazione fattamane non so da chi, nei miei giorni giovanetti e che più tardi posi a raffronto cogli avvenimenti della storia scritta.

II. Durando fino a tutt'oggi la graziosa consuetudine di festeggiarsi dal popolo nostro nel modo summentovato il giorno di S. Giorgio, la narrazione che imprendo a fare, o piuttosto a ripetere, non può dirsi estranea alla Milano nuova; e sarà dunque ancora di tutta attualità.

(1) Il nome di questo poeta rima con citrullo. Era nell'anno di nostra salute, come scrivevano gli antichi nostri cronisti, mille trecento quarantadue e Milano si reggeva sotto il dominio di Giovanni e Luchino Visconti, eletti a succedere ad Azzone pur della loro famiglia. Giovanni per altro aveva lasciato subito al fratello Luchino tutta la cura del temporale governo, il quale, come s'esprime il Corio, finchè visse lo amministrò con grandissima umanità e prudenza.(1) L'Italia era tutta quanta funestata da fazioni e guerre fra i suoi principi, e come disse efficacemente l' Allighieri; Di que' che un muro e una fossa serra. Milano, se veniva cercata di alleanze e i suoi principi erano in riverenza ed estimazione: nell'interno, quantunque già prosciolta dall'interdetto pronunziato dal pontefice Giovanni contro i Visconti nei tempi addietro; non era tuttavia andata immune da pericoli nella propria sicurezza e tranquillità. Una congiura era stata contro Luchino ordita da Francesco Pusterla, il quale in Milano abbondava più d'ogn'altro cittadino in ricchezza, riputazione e nome, di consentimento con altri non meno possenti signori; ma, sfatata ogni arte di costoro, Luchino ne aveva presa la più allegra vendetta. Ricomposte così le cose, nuove turbazioni avvennero se non proprio dentro la città, certo però ne' suoi pressi, per opera d'una masnada di malviventi e ladroni, che s'era denominata Compagnia di S. Giorgio, la quale de' suoi malefici infestava le vicinanze di Milano; tal che non fosse più lecito a cittadino d'uscir dalle mura, senza che venisse assalito e derubato, di molti omicidi altresì sapendosi da que’ tristi perpetrati. Capitanavali un Vione Squilletti, pessimo e crudele uomo e in pari tempo d'un estremo ardimento e coraggio e del quale si narravano rapine e sevizie, onde tutti fossero compresi di sgomento, e i contadini stessi che dovevano recare civaie e provvisioni alla città, vi venivano a frotte, soli non mai, per non essere taglieggiati e uccisi, abbenchè più volte fossero stati visitati nelle loro case da que' briganti e avessero veduto ben anco talvolta incendiati i loro tuguri ne' campi, e poste a soqquadro le loro abitazioni, massimamente se avessero voluto oppor loro resistenza o contro essi esercitare spionaggio.

(1) Storia di Milano. Lib. III, Cap. III.

La era insomma una vera desolazione intorno a Milano, e Luchino Visconti, cui venivano portate le notizie di quelle nefande gesta, pensò di porvi una buona volta riparo; a ciò tanto più pressato da che nel mese di maggio di quell'anno 1342, a pochi giorni cioè di distanza, si attendesse nella nostra città l'arrivo di papa Benedetto da Avignone e si facessero inoltre diggiù grandi preparativi per le imminenti nozze della figliuola sua Caterina con Francesco figlio di Bertoldo d' Este, che teneva il reggimento di Ferrara.

III.

Era appunto il mattino del 24 aprile 1342, quando Luchino Visconti in persona si recava nel suo castello di Porta Giovia, allora forte arnese di guerra, di cui quello che esiste adesso in Milano non è che un povero avanzo, una squallida immagine. Fatto a suon di tromba convocar tutti i soldati ch'eranvi a presidio, tenne loro una breve concione del tenore approssimativamente che segue: "Soldati. Tutti i buoni cittadini della nostra Milano hanno ogni dì a levar alti lamenti per le ribalderie di quegli assassini e ladroni onde si compone la Compagnia di S. Giorgio. Il suo capitano Vione Squilletti ha colmo il calice dell'ira divina. Io principe non posso e non debbo tollerare ciò ed ho risoluto di muovere oggi stesso alla distruzione di questa infame masnada e giuro a Dio che coll'aiuto suo e vostro non voglio che il sole d'oggi tramonti senza che tale distruzione sia interamente compiuta. Dove in ciò riusciamo, vi prometto sulla fede di Luchino, la doppia paga. „ Questa perorazione più che il resto fu di mirabile effetto, perchè fu un grido generale: - Viva Luchino! Morte alla Compagnia di S. Giorgio! E una buona mano di cavalieri bardavano i loro corsieri in un attimo e in un attimo furono in sella, e parecchie centinaia di barbute impugnarono a un tempo medesimo l'armi. Luchino ordinò che i primi per vie oblique si portassero sopra Vigevano, e formassero come una catena per impedire che la banda di S. Giorgio si sperdesse; poi i fanti con alla testa Luchino medesimo, traversata la città, uscirono da Porta Ticinese e si diressero verso Vigentino stesso, dove sapevano trovarsi il nucleo di quei masnadieri. Nè in codesti accorgimenti andò errato il Visconti ch'era buon condottiero, come ne aveva dato prove luminose in diversi scontri, e principalmente nella famosa giornata di Parabiago. La Compagnia di S. Giorgio che stava accampata sotto tuguri di paglia dentro una selva contorniata all' ingiro da fossatelli che irrigavano le circostanti campagne, allorchè fu accorta, a mezzo delle sue scolte, che schiere di militi numerose avanzavano e svolgendosi al cenno de' loro capi si distendevano lungo tutta la parte della selva che riguarda la città, si raccolse in un punto e dietro l'ordine di Vione Squilletti, che aveva alla sua volta i suoi guerreschi artifici, vennero incendiati contemporaneamente i tuguri disseminati per la selva confidando che il fuoco di quei pagliai, umidi come dissi per le pioggie dell'aprile, producendo grosse colonne di fumo, egli avrebbe potuto attraversare l'avanzamento della milizia cittadina e dar agio alla sua banda di uscire inosservata per l'opposta parte della selva. Ma la sorte aveva finalmente abbandonato l'audace capo e la sua masnada, perocchè il vento spingeva avanti il fumo ed avvolgeva invece i fuggiaschi, i quali per tal modo venivano veduti dai militi cittadini, che più animosi allora si cacciarono dentro la selva inseguendoli alle spalle. E lo Squilletti a incalzare i suoi, ad affrettare i passi; ma quale non fu la sua sorpresa e l' ira, quando all' uscire dal bosco, presso alle case di Vigentino si vide sbucare furiosa ad investirlo la cavalleria. S'accorse allora che la era finita per lui, che l'attacco doveva essere decisivo e volendo almeno far pagar cara agli avversarii la sua vita, comandò prontamente di volgere la fronte e non accettare l'impari zuffa coi cavalieri; meglio essendo combattere corpo a corpo colle barbute pedestri del Visconti. Conobbe in quel punto quanto improvvido fosse stato l'ordine da lui dato dell' incendio dei tugurii per il fumo che veniva loro incontro, e dava negli occhi; pur nondimeno avanzò contro i militi, che alla loro volta in numero d'assai maggiore erano entrati nel bosco e allora incominciò una lotta, accanita, disperata, feroce. Durò forse un'ora il combattimento, nè ci volle chi meno, perchè gli alberi favorivano spesso ed erano schermo agli assaliti ; ma fu imposto fine allo stesso, quando il capo della banda, Vione Squilletti, cadde mortalmente ferito dallo stesso Luchino. Egli era stato incalzato e spinto fuor della selva dove avendo trovato che parte dei cavalieri, posto piede a terra erano giunti loro alle spalle, vedendosi irreparabilmente perduto, lasciando cader le braccia, nè più usando della spada, lasciò che il suo nemico il trafiggesse. L'urlo della vittoria sorse allora da mille bocche e ne rimasero così sgominati que' masnadieri, che ancor pugnavano, che imitando il loro capo, più non opposero resistenza; onde o vennero massacrati e furono la più parte, o fatti i pochi superstiti prigioni, la fazione terminò prima di quanto s'era sperato, e la formidabile Compagnia di S. Giorgio che aveva sparso il terrore tutt'all' intorno di Milano rimaneva così interamente distrutta nel giorno stesso del santo che le aveva dato il nome.

IV.

Quegli che uscendo dalla Porta Ticinese corre il sobborgo di S. Gottardo, sul finir dello stesso a manca trova una via che pare metta ai campi e il guida al luogo detto il Gentilino, nel quale nel 1524 venne eretto un cimitero, quello stesso che tuttavia esiste, sebbene chiuso ora alle inumazioni. Vi ebbero allora la loro fossa ben tremila persone del solo quartiere di Porta Ticinese, morte di peste. Lasciando addietro il funereo recinto e tirando diritti per la stessa strada che si vien restringendo, piegando a destra, eccoci apparire campagne ubertosissime, frastagliate da ogni parte da acque derivate dalla Vettabbia e da parecchie roggie alimentate da fontanili e di tanta larghezza e profondità da prestarsi ai molti giovani, che nel pomeriggio estivo traggono dalla città per cercare nel nuoto refrigerio e passatempo. E convien dire che anche il pericolo abbia le sue attrattive, se precisamente al luogo eletto i gorghi, dove il fossato è vorticoso, convengono i maggiori nuotatori, dei quali taluno meno esperto paga spesso affogando il suo tributo. Quivi sono anche viottoli alberati che danno ombra e frescura e sono passeggiati tal fiata da amorose coppie, o da qualche studioso che, fuggendo dal cittadino rumore, viene a cercare la solitudine e il luogo più adatto alle sue letture. Più in là è il paesello di Vigentino. Quante volte, fanciullo, vi venni io pure insieme alla camerata del collegio Calchi Taeggi, dove appresi i primi rudimenti delle lettere ed io e i miei compagni eravamo lasciati dal prefetto correre dietro gli alati scarafaggi, le libellule e le farfalle variopinte, finchè, ansanti e trasudati venivamo richiamati per ritornare al collegio! E in questo luogo appunto veniva morente portato a braccia dai militi del Visconti il terribile Vione Sifuilletti e qui appena giunto spirava l'anima rea. Suonata allora la tromba a raccolta, mentre le schiere si venivano riordinando, per ricondursi ai cittadini alloggiamenti. il capo trombetta, ottenuta licenza da Luchino, cacciò gli sproni nei fianchi del suo cavallo e via traversati i campi come una freccia per alla volta di Porta Vigentina entrava per essa in città, correndo le contrade, annunziava a tutti il felice esito della spedizione, la morte del famigerato bandito, la distruzione della Compagnia di S. Giorgio. Fu tanta a tal nuova la letizia di tutti che per incanto balconi e finestre si ornarono di tappeti e arazzi, le campane delle chiese suonarono alla distesa, i cittadini si versarono nelle vie narrandosi l'un l'altro il lietissimo evento che ridonava la sicurezza alla città e dettosi da taluno che si dovesse uscire incontro a' vittoriosi militi, parve ottimo partito a tutti, e colonne infatti di borghesi a sfilare verso Vigentino, dove le milizie erano ancora accampate. I contadini, più contenti di tutti, correvano tra le file de' soldati e dei cittadini offerendo latte e crema ai capi e accolta da costoro l'offerta sedevansi a gruppi sui prati a gustarli, tinche le ombre della sera cadendo, e milizie e contadini. adornandosi di ramoscelli verdeggianti, cantando patrie e giulive canzoni, fecero ritorno alla città, che li accolse festante tra i viva e i battimani.

V.

Nè quella giornata soltanto celebrò il fausto avvenimento. Pur negli anni susseguenti, nel dì stesso 24 aprile, il popolo usci di città a commemorarlo, e si diffuse per le cascine prossime alla città a chiedere la crema agli affittaiuoli, ed entrò talmente la festa del S. Giorgio e della pànera nelle consuetudini sue, che essa dura, come ho detto, tuttavia, sebbene. più alcuno non sia che si domandi il perchè di essa, o si ripeta il fatto del 24 aprile 1342. Nè fra tanti che vanno pel nuoto nei dintorni o a giuocar alle palle e mangiare i gamberi all'osteria di Morivione, non discosta appunto da Vigentino, v'è forse mai chi chieda perchè al casale siasi imposto il nome di Morivione e attribuisce per avventura alla facezia dell'oste l'iscrizione che si legge ancora sull'osteria: Qui morì Vione. V' han di coloro che approfittando, dell' ignoranza dell'epoca, in cui venne l'ondata la chiesa, che ora si va ampiamente ristaurando, dall'arcivescovo nostro .Anatalone, vissuto nei primi secoli dell'era volgare, lungo l'attual corso di Porta Ticinese, al luogo detto in Palazzo, vorrebbero che il nome del santo cui prima era intitolata, fosse in quest'anno sostituito da quello di S. Giorgio; ma se prestar si deve fede al Lattuada, che avrebbe nella lettura d'un istromento del secolo XIII trovata già tale chiesa designata come di S. Giorgio, è dato di poter negare che la sostituzione suddetta potesse essere stata fatta a commemorazione del glorioso fatto elle ancor ricorda la Pànera. di S. Giorgio.

P. A. CURTI. CORSO DEI FIORI - BALCONE DEL COMITATO. LE FESTE DI MAGGIO.

I. Il Corso dei Fiori.

Poiché, si disse, lo storico carnevalone è sepolto, devesi pur pensare a sostituirlo in stagione più conveniente e in più dicevole modo. Si facciano feste a maggio, nel bel mese della primavera, dei dolci zeffiri, dei leggiadri fiori, dei teneri amori, e ... diciamo noi, delle importune pioggie. La pensata fu de' commercianti. Ebbero essi ragione ? I buoni ambrosiani crollavano la testa e rimpiangevano l'abbandonato carnevalone e se non auguravano che mal capitassero le nuove immaginate baldorie, certo non le presagivano troppo allegre. Che si farà per queste feste? Il programma fu presto escogitato. Corso di fiori. Corse di cavalli a S. Siro. Teatro alla Scala. E fu un agitarsi del Comitato all'uopo costituito un affannarsi per la sottoscrizione de' necessarii fondi e se ne parlò dai giornali, se ne chiacchierò ne' clubs, ne' caffè, nelle conversazioni e la stampa pur delle altre città si fece eco delle maraviglie che si sarebbero vedute. E venne il maggio. Gli antichi celebravano solennemente il maggio: a Firenze si solennizzava la festa dli calendimaggio; altrove si facevano le maggiolate; i poeti le cantavano su tutti i toni ; era proprio il rinnovamento della natura, come fin dai tempi di Roma repubblicana veniva questo inneggiato dal Pervigilium Veneris, che ci è rimasto nel suo latino e che un nostro amico ha pubblicato tradotto nell' idioma nostro. Ma vi furono, come alcuni buoni ambrosiani a disapprovare queste feste, anche i tristi che le disapprovavano per insensati progetti d'anarchia e corsero voci di minaccie per guastare codeste feste e prima di tutto a mandar a male il Corso de' Fiori. Queste voci che pretendevano sarebbesi attentato agli equipaggi de' signori, trattennero molti dal mostrarsi e fu però causa che il getto de' fiori dai cocchi riuscisse scarso e il corso propriamente detto, diciamolo francamente, risultò meschino e, per dirlo nel linguaggio dei salons, fu uno spettacolo manquè. E’ però giustizia ricordare le due elegantissime cavalcate, l'una detta della Rosa, l'altra dei Dragoni azzurri, rimarchevole questa per l'esattezza del costume storico, per l' effetto, pur veduta da lungi e pel marziale contegno de' cavalieri, tutti ufficiali di cavalleria. Ma in compenso della povertà dei cocchi e dei pochi fiori gettati da essi, molti i balconi addobbati nelle più pittoresche foggie, inghirlandati di fiori, in guisa da sembrare altrettanti giardini pensili, o bizzarre scene da teatro. Senza pretendere di tener conto di tutti, mi piace di non lasciare senza particolare menzione il balcone di casa Rossi-Bozzotti sul corso Venezia, che raffigurava un ampio ombrello rosso, da cui uscivano vaghi aggruppamenti di fiori e uno svolazzo di farfalle, che accomandate a quasi invisibili fili folleggiavano, dibattendo le loro alette intorno a quei fiori. Il classico colonnato del palazzo del Marchese Rocca-Saporiti, rivestito di edera e di ghirlande di fiori presentava un semplice ed elegante aspetto. Così il balcone del palazzo Bocconi, quello del Giurì e della Compagnia Equitable, qui diretta dal signor Della Beffa che l'arricchì di fiori, ma anche di eleganti signore; quello dello signora Riccardi adornato riccamente da enormi viole, da cesti di fiori e da trofei. Di questi porgiamo i disegni; ma con essi non intendiamo dimenticare, sul Corso Vittorio Emanuele, i ricchi addobbi degli alberghi di Francia, d'Europa, di Roma, le cui facciate erano ricoperte di fiori e di verde con vaghissimo effetto. Nè dimenticar si vogliono gli addobbi di casa Tarsis sull'angolo di via S. Paolo, il terrazzino di casa Capranica, il balcone del Gilardini all'angolo di via Pattari, l'ornamentazione del palazzo Dal Pozzo, il balcone del Rituali. quello della casa Rossa sul corso Venezia, quello della casa Marzio, deve ai fiori veri si aggruppavano gli artificiali, e quelli altri di via Manzoni e di santa Margherita, ecc. ecc, a descrivere i quali tutti dovremmo spendere più pagine e i nostri lettori non ce ne sarebbero certamente grati. Ma dopo tutto, crediamo noi questo genere di feste essere più proprie ed adatte la dove i fiori abbondano, come potrebbe essere a Genova, a Firenze, a Napoli e insomma dove la Flora non ha troppo bisogno di serre per la mitezza del clima. Da noi, nel maggio, si può dire d'essere appena usciti dal verno e per darsi il piacere di corsi di fiori, è d'uopo spogliare i non molli nostri giardini e quelli delle ville, o in difetto ricorrere a quelli di Toscana o della Riviera ligure e spendere di molto denaro, come è avvenuto questa volta, senza che poi siasi potuto dire che il corso dei fiori sia splendidamente riuscito. E come allora maravigliarsi se adesso si cerchi di galvanizzare ancora il vecchio carnevalone? Al getto dei fiori succederà di nuovo quello de' coriandoli e dei dolciumi e il popolo nostro vi troverà, ne siamo sicuri, maggior gusto e l'interesse cittadino vi guadagnerà, perchè la volontà di invadere un po' la lunga e allampanata quaresima attirerà a Milano tanti e tanti signori dalla provincia oltre che l'una festa chiama l'altra e i commercianti vorrebbero imporsi e costituirsi in legislatori di novità, raccolgono poi disgustose delusioni. Alle costumanze e consuetudini antiche mal si rinunzia, coloro che spaccieranno e gli operai lavoreranno e quando corre il denaro, la musoneria è bandita. C. TURI IPPODROMO DI SAN SIRO. II. Le Corse di S. Siro.

La mania delle corse dei cavalli ha passato le Alpi ed ha invaso anche gli animi degli Italiani. Corse si fanno a Torino, a Firenze, a Parma, a Brescia, a Roma, a Napoli e in altre minori città ed è una gara a chi le prepara più interessanti. Perfino ai campi militari, gli ufficiali di cavalleria fanno alla loro volta le corse ippiche non prive di interesse. Perchè non doveva accendersi tale mania anche in Milano, che a dir vero precede ogni altra città d'Italia in tutte le innovazioni del progresso e della mode? E anche nello Sport (è di prammatica conservare i nomi delle cose che ci giungono dall'estero e la mania suddetta partita dall'Inghilterra dove essa ha più ragione che altrove d'averla suscitata, per le sue superbe razze cavalline), anche nello Sport, Milano ha preceduto ogni altra città d'Italia. Sono molt’anni che corse di cavalli si fecero dai nostri signori a Senago, a Varese e nella nostra piazza d'armi, finchè costituitasi una importante e facoltosa società, acquistiò un terreno proprio fuori la Porta Magenta, nella località detta di S. Siro, e vi costruì un dicevole ippodromo, dove d' ora innanzi, senza cercare altre parti, eseguirà le sue annuali corse. Che più? Non una sola società si è venuta istituendo, ma altri signori, a rallegrare i loro ozii autunnali, ne fondarono un'altra, detta dell' Eupili, perchè il suo turf stabilì nella ridente vallata del Piano d'Erba, nel luogo detto la Malpensata. Ma non è di questo che vogliamo ora intrattenerci, ma sì delle corse di cavalli che ebbero per tre giorni a farsi nello scorso mese di maggio e che costituirono la migliore attrattiva delle strombazzate feste di quel mese, e la parte del programma che chiamò d'ogni parte i forestieri nella nostra città. Il gran premio di lire cinquantamila, detto il premio del Commercio pel concorso a formarlo dei nostri commercianti, era tale ghiottornia da stimolare l'appetito degli amatori dello Sport. Tre furono le giornate delle Corse di S. Siro ; ma il tempo non volle sorridere agli sportman; la prima giornata fu piovosa, la seconda fu nuvolosa, ma passò senza inconvenienti; la terza, che era quella della great attraction, la giornata cioè del gran premio del Commercio, la pioggia, incominciata la mattina, si rovesciò torrenziale al momento della corsa più interessante. Era in tutte e tre le giornate uno spettacolo divertente ed imponente il vedere la folla che pigliava d'assalto trams, omnibus, e broughams, per recarsi fuori Porta Magenta a S. Siro; ora pittoresco e teatrale il passaggio dei landò, dei breechs, degli equipaggi che portavano leggiadre ed eleganti signore e cavalieri che traevano là; più belli gli equipaggi che recavano aggruppati uffiziali di cavalleria nello loro splendide assise e che tutti si precipitavano a quell'unica località. Nè la pioggia dell'ultima giornata rattenne le delicate signore dal presenziare le corse. Difese da mantelli di caoutchou, protette da ombrelli, sfidarono il cattivo tempo e l'ippodromo gremito di spettatori, apparve sempre infiorato delle belle ed eleganti signore dell'aristocrazia del sangue e del denaro. (1) Dovremo noi descrivere l'aspetto delle tribune, le pratiche del pèsage e del totalizzatore, l'affacendarsi dei bochmachers, i costumi dei fantini, l'esito delle varie corse, le scommesse, i plausi, le emozioni degli spettatori, le delusioni dei scommettenti, le contentezze dei vincitori? No. La Strenna, siam certi, correrà fra le mani di quel mondo che se sa divertirsi, sa anche a suo tempo concorrere a scopi di beneficenza; epperò la più parte de' lettori e delle graziose nostre lettrici troverebbe le descrizioni nostre sbiadite e inferiori alle impressioni ricevute allora: d'altronde noi tenendo conto delle corse di S. Siro, abbiamo soltanto inteso di far menzione delle nuove abitudini invalse nella nostra Milano in quest'ultimo trentennio, come è l'intendimento di questa strenna. Epperò, a semplice ricordo, suppliscano a noi le illustrazioni che qui intercaliamo.

(1) Né meglio fortunate furono le corse a S. Siro dell' ottobre scorso: tutte le due giornate piovose e per giunta fredde o neppur consolate dalla presenza di molte signore. Il Compilatore. AMULIO Non va per altro taciuto, come la vittoria del gran premio toccasse al cavallo Amulio del piemontese signor Bertone. Forse pochi avrebbero scommesso per esso, perchè al paragone degli altri cavalli rivali non porgeva quelle garanzie che si deducono dalla sveltezza ed eleganza delle forme, dalla finezza della razza e da tutti quelli altri pregi che vengono rilevati dagli intelligenti e dai frequentatori dei turfs: solo avrebbe ispirato fiducia a chi più addentro avesse considerata la natura della pista, o stadio, ed alla struttura, al rilievo de' muscoli e de' garretti di Amulio. La pioggia aveva resa cattiva la pista, le zampe dei corridori sprofondavano: doveva vincere per conseguenza l'animale che presentava vigoria maggiore nei garetti e nei muscoli e allora Amulio aveva il vantaggio su tutti. E a lui, si può dire per la differenza di qualche palmo appena, fu decretata la palma. Al suo fortunato possessore toccarono le lire cinquantamila. Chi può dire i battimani, le grida entusiastiche plaudenti ad Amulio, le strette di mano al suo proprietario, le gratulazioni all'accorto fantino? Rinunciamo a narrare tutto questo trionfo. Se si fosse stati ancora ai tempi di Claudio imperatore, ad Amulio sarebbe stata somministrata l'avena dorata e fors’anco, come il cavallo di quel pazzo imperatore, sarebbe stato Amulio creato senatore.

C. TURI. III. Un ritorno dalle Corse.

E’ UN bel giorno d maggio. A schiere, a torme Milano opìma per le vie si versa: Ride fiorita delle più festive Giocondezze di foggie e di colori La femminea progenie; il bruno stuolo tutt' occhi è a proseguirla: intreccio Solito e grato al birichino Amore, Di speranze, di vezzi e di promesse. Come da cento parti il formicajo Brulica, bolle, s' affolla, s' addensa Tutto a una mèta, e tal da cento parti Anche il popolo fa. Nel dar di volta, Secondo cenna il Fante urban, d' alcuna Smarrita carrozzella, che le vie Fallò concesse all' importuna rota, Nel vario susurrar, nel curioso Balenar di leggiadre testoline Su per loggie e fenestre, assai palese E’ d' ambìto spettacolo giocondo Il prossimo apparir. Lo spiano è questo Che del Castello ornai fin su' vivagni La febbre acuta del murar contende: Ma più il contende oggi la folla; e in doppio Ordine fitto, qual di mille e mille Teste viventi gigantesca biscia, Si dilunga per l' alto, insin che all' ultimo Orizzonte dispaja. In mezzo, un fiume Stormeggiante di cocchi e di cavalli, Una ressa discende, un barbaglio, Qual d' olimpica polvere tra il nembo Grecia non vide. Non è cocchio, è torre, E’ mausoleo, piramide, pagode, Questo che, vuota la profonda pancia, Per diverso e bizzarro ordine estolle Capaci gradi in su la vetta. Un saldo Patrizio auriga da sovrano seggio, Alto eretto lo storico profilo, Ben quattro allena con la man gagliarda Sbuffanti destrieri, che la gara Ancora invidiar sembrano e il campo Rimembrar scalpitando, ove dianzi Più fortunati eroi corser la palme. Plaude al valore la bellezza, e allato Del forte Automedonte una gentile Se medesma produce. In doppio verso, D' ippico senno pagine viventi, I

cavalier' s'impancano. Infelici

Quei che alt' olimpia Dea volgon lo terga! Il servo almen, che sul postremo siede Infimo scanno, nel cornar si sfoga Dentro all' immane tuba una straniera Venatoria fanfara, che il monello Col pronto genio musical scimmieggia. E passan carri, e passano cavalli, Quanto il duce magnanimi. O squisita Del muliebre ingegno inclita prova! Alquanto timidetta ecco quest' una Si dice, o finge, dei vaganti in cielo Per anglico tenor nembi propizii; E però la mirifica e fiammante Rincrespettata mantellina indossa, Che a poche in dono Amazzoni britanne L' eginetica Venere trasmise. Quest' altra inneggia a primavera; è il bianco Vestitin tutto sbuffi, è il cappellino Di mughetti e di malve un velo, un soffio. Del termometro a senno or tu le adegua, Galileo padre, e tu Sartorio: io smetto. Anche l' audace vi confido, accesa Forse da' raggi del vicino Marte, Che in fulgor di molteplice peonia Rutila espansa; e la solinga e mesta, La quale, ancor che sudino dii sotto Al geniale molleggiar dell’ anche D' esotico fantino i suoi morelli Fremebonda pariglia, nelle piume Che a struzzo o a pinguin Cafro divelse II cor gelido affonda. Avventurate Pur le due dive, se le altere e dotte Curve del cocchio abbacinanti, e il fine Sugli argentei fanali aureo cesello E l'armi avite o la recente cifra Una azzoppata e bolsa non infanghi Venal cavalla, trascinante, ahi lassa! Invidie a paro e guidaleschi. E’ tuo Questo gaudio, Cleone. O perché dunque, Perchè non ridi alla perpetua umana Innocente commedia, e stai sul bieco, Aggrottando il cipiglio? E non ti basta Che, dove intoppa nelle ferree guide Del tranvai popolano, e la rotante Mole quadrata gli torreggia innanzi Repubblica del caso, il tiro a quattro Serri il fren, scorti il passo, e mogio mogio S'allisti? Alcuno giovenil diporto Più laudabil conosci e meno indegno D' almo petto viril? Tornò all' efebo Sempre caro il cavallo; ed o traesse Là di Platea sui ben pugnati campi Lo spartan giovinetto a dar la vita Per l' altrice del mondo ellenia stirpe, O .Julo nostro le trinacrie arene De' magnanimi ludi a far sonanti Ch' Alba trasmise alla materna Roma, Piacque ai vati ed ai forti. E non t’esulta Allegrezza nel cor, quando dall' alto Un armato manipoli, superbo Della maschia divisa e delle sciable Bene al Sol rilucenti, allegro incita Gli allegri palafreni? E non ricordi Quanto amor, quanto sangue, e quanto lungo Pianto di madri a noi scaldò la terra, Perchè sorgesse benedetta al Sole Questa dei dritti suoi libera scolta ? Fin la giumenta che sottesso al greve Baroccio anela, se al corsier daccanto Viene a passar, sgranchisce il piè randagio, Annitrendo un saluto. E noi da meno Saremmo? Noi, d' atroci astii sentina? No, no, per Dio. Migliore è il popol nostro D' alcun suo losco banditor. Non vedi Giocondo in atto il fabbro ancor succinto Dell' ircìno grembiul, grommata assisa E a nessuna seconda, il suo maschiotto A cavalcion recarsi in su le spalle, E d'abbronzato nerboroso polso Schermo facendo a la belloccia moglie, Del piccino blandir l' alte esultanze, Triplice gaudio a un picciol regno? Stanne Sulla mia fede: allor elle ad umil desco Assisi questa sera, il fantolino Di cavalloni cianciugliando, al trito Vecchio balocco suo darà di piglio, E tutte a modo emulerà le veci Del cocchier, del signore e del valletto, Oh, non di cocchi e servi arida invidia. Si fia gioja a costor di sodi baci Su due turgide gote esercitati. Deh non avvenga che un serpigno Iddio Entri il placido tetto! E se novella Di sciagurate cittadine parti Mesta vi giunga, mesto evòchi augurio Di giustizia e di pace. E a vol soccorra Caldo un impeto allora a quel simile D'un altro di, ch' empiean cavalli e carri Si com' oggi. le vie; ferrea di donne Opra ai balconi e di donzelle; e novo Sui desolati Liguri trabocco Di vesti e lini e capoletti e coltri Il reo patrizio e il reprobo borghese Col sacro a gara popolar tributo Rovesciavan pietosi. Oh, tutti in uno E ognun per tutti ! E’ questo è questo il verbo Che santo a figli ed a' nepoti chieggo Di coloro che a marzo Italia han desta. Se furîar discordi strida, o d' imo - Pera l' augurio! - o d' alto udissi mai, Non è non é questa l' Italia; un' altra, Direi piangendo, io ne conobbi : quella Per che il braccio, la fede, il senno, il sangue Dettero insiem tanti gagliardi. Andiamo A cercarla, fratelli, in Camposanto.

TULLIO MASSARANI TEATRO ALLA SCALA - INGRESSO AL LOGGIONE ALLA PRIMA DELL'OTELLO. IV. Il Teatro alla Scala.

LA terza attrattiva vagheggiata dal Comitato delle Feste dli maggio era il Teatro alla Scala. I fratelli Corti impresari infeudati dal passato Municipio, si disposero a che lo spettacolo che assumeyano anche per questa straordinaria occasione non contemplata nel contratto del triennale appalto di dare, rispondesse alla aspettazione. L'opera scelta a darsi, tanto per trovare qualche novità, era la Gioconda del compianto maestro Ponchielli ; I' allestimento di essa era quale sanno fare codesti esperti impresari, che hanno saputo imporsi al nostro Municipio, che con essi largheggia di concessioni anche troppe, sicchè fanno spesso a fidanza col pubblico. Essi, ad una col Comitato. immaginato avevano che le feste di maggio avrebbero chiamato fra noi miriadi di forestieri da ogni parte del bel paese e d' oltralpe e che però sarebbe stata bazza per gli accorti appaltatori, perchè venendo a Milano, chi non vorrebbe, fors'anco per una volta, vedere il primo teatro d'Italia ? Costoro adunque avevano sognato la ripetizione della folla che si pigiava agli ingressi nella famosa prima dell'Otello di Verdi. quando, avanti l’ incominciamento dello spettacolo, poltrone e sedie chiuse erano state a prezzi triplicati vendute, quando la platea per il pubblico che non può procurarsi il lusso di tanta spesa era quasi tutta sparita; quando i palchi gremiti di belle signore soffocate dalle teste de' loro giovani visitatori, che per quella sera non la badavano troppo pel sottile nell'etichetta, e il loggione rigurgitava di spettatori, non tutti volgari, e già si saranno soffregate le mani e benedetto l'inventore delle Feste di maggio e dell'analogo Comitato. Ma noi più positivi. ricordavamo che les fruits de la terre doivent venir en leur saison, come lessi nel Prè Catelan di Capendu, e noi Milanesi abbiamo pure un proverbio che equivale alla medesima sentenza del romanziere francese e che risparmiamo di ripetere, perche può essere dalle amabili lettrici veduta nelle pagine staccate dal taccuino d'un originale, che si trascrissero per questa Strenna. Si aggiunsero altre ragioni. La prima si è che coloro che si appassionavano per lo Sport, non potevano curarsi di spettacolo d'opera rivista più volte in tanti modi con migliori artisti alla Scala e con buoni del pari anche al Dal Verme. La seconda, che proprio in quei giorni erano aperti i battenti di altri teatri cittadini, del Dal Verme, del Manzoni, dei Filodrammatici e pur tutti questi per l'opera e che fecero alla loro volta i più magri affari. La terza, che era la stagione dei bachi e che molti signori emigravano alle loro ville per curare interessi maggiori. Neppure l'annunzio d'un veglione con maschere, con bande in platea e bande in ridotto, non valse a chiamar gente in teatro e gli accorti impresari vi rimisero la spesa. Laonde lo spettacolo alla Scala fu altra completa delusione pel Comitato e più ancora per i signori fratelli Corti, sul labbro dei quali spirarono le benedizioni suddette. La natura, disse l’ illustre fisico Torricelli, aborre il vuoto: noi crediamo che i fratelli Corti abbiano di tutto cuore suggellata la verità di questo postulato. Essi, come il Comitato, come il pubblico avevano conchiuso: Risorge il Carnevalone! E alla risurrezione del Carnevalone si pensa: Noi l'auguriamo splendido, allegro, pazzo come quello di parecchi anni addietro, a onore e gloria di S. Ambrogio che ce lo ha regalato e a confusione di chi vuole arrogarsi la facoltà di mutare le antiche abitudini della nostra popolazione. Se poi i signori dello Sport vorranno ritentare, come pare, le Feste di maggio ben vengano anche queste, tanto per non sbugiardare John Bull, che ha gratificato l' Italia di Nazione Carnevale. C. TURI. MENEGHINO D’ALTRI TEMPI E MENEGHINO DELL’OGGI.

A NOI, che varcammo ormai il mezzo secolo, quante dolci rimembranze ha suscitato in cuore la pubblicazione del Milano Vecchia ! Quante care memorie prendevano forma davanti alla nostra mente nello scorrere quelle pagine! Ci sembrava di essere ritornati ai bei giorni della gioventù e, Dio ce lo perdoni, quasi si arrivava a dimenticare il progresso della nostra Milano, tanto fra quelle strenne ci si trovava a nostro bell'agio. El noster Milanin! Se oggi ti hanno onorata dell'epiteto di capitale morale, eri pur bella anche ai nostri tempi! La valanga del progresso ha ingrandita la cerchia della tua famiglia, le aspirazioni dei tuoi figli, ha sviluppate le industrie, abbellito il tuo nido e il buon Meneghino che ha fiutato, nella sua maliziosa bonarietà, il vento alla casacca, ha sostituito l'abito nero di lusso moderno, cambiò il suo tradizionale tricorno col cappello a cilindro, calzando anche lucidi guanti di pelle. Tempora mutantur... Eppure noi lo vediamo ancora il nostro Meneghin regalatoci dallo “splendor di Milano, il savio Maggi „ nell'ultimo decennio del 1600, da quell' illustre milanese, cui si deve uno dei primi fortunati tentativi di liberare il teatro dalle scurrili commedie a soggetto. Chi era propriamente Meneghino di cui si parla tanto senza che, in generale, lo si conosca abbastanza bene? Meneghino era un personaggio simbolico, il prototipo del plebeo milanese, stato messo in iscena quando da molto tempo faceva le spese il Baltramm de Gaggian, il quale era una antica maschera che rappresentava il nostro campagnuolo semplicione. Meneghino era un artigiano, un operaio preferibilmente ciabattino o legnaiuolo, professione codesta che gli procurò forse il suo cognome di Peccenna, come quello che denotava colui che tratta el peccerett, quella specie di sega quadrilunga raccomandata , in tutta la sua lunghezza ad un manichetto di legno, oggi ancora chiamata a Milano can tale vocabolo nel nostro vernacolo. Meneghino si acconciava, la festa e nelle straordinarie occasioni, come servitore posticcio in casa di qualcuno che avesse più ambizione che mezzi per comparir signore. Ciò spiega anche parche quel popolano si chiamasse Meneghino, nome che è una contrazione di Domenichino, cioè servo per la Domenica. In quel giorno ricoperto della sua brava livrea, col fianco armato da tanto di spadino, colla parrucca., col codino e col tricorno, egli accompagnava la padrona al passeggio, seguendola sul marciapiede del Corso per sostenerle al bisogno la coda dell'abito, o standole al fianco nelle strade remote e deserte per divertirla coi pettegolezzi della bassa gente e per ascoltare compiacentemente quelli dell'alta società così bene anatomizzata nei Cento Anni dalla potente penna di G. Rovani. Una graziosa satira scritta in latino da certo frate Guido Ferraci, dice che questa intimità suscitava qualche volta la gelosia del padrone, intanto che faceva di Meneghino un intermediario fra i vari ceti della popolazione cittadina. Dalla sua invidiata posizione Meneghino sapeva trarre buon frutto satirizzando sui tempi e sui costumi con una caustica bonomia tutta sua speciale. E qui compare un altro personaggio. Dei fronzoli e dei condoli (birlinghitt) smessi dalla sua dama e regalati a lui, Meneghino approfittava per ornarne la propria consorte Francesca, la quale ebbe così essa pure il suo cognome di Cecca di birlinghitt. Una ben diversa leggenda narra il Defendente Sacchi a proposito della Sciora Cecca: ma di tali Cecche ce ne furono parecchie in Milano … e de Cecch ghe n' è ancamò al dì d'incoeu! Ma Meneghino non s'acconciò a rimanere nella cerchia ristretta del Pecenna e, a seconda lo traeva il bisogno di deridere pregiudizii, di satirizzare, dimenticava il cognome primiero per assumerne altri, quasi dirai di circostanza. E rovistando incontriamo lo stesso personaggio sempre col cognome mutato. Allorché nel 1760 ferveva la disputa col padre Branda, in risposta al Balestrieri e a Carl'Andrea Ottolino, incontriamo Meneghin Gambus a la Badia, che si getta nella lotta in favore del padre Branda, e qui anche la Cecca di Birlinghitt diventa Sposa Luganega miee de Gambus. Alla stessa epoca compare Meneghin Boltriga del Borg di goss che inneggia al merito impareggiabile di Meneghin Tandoeuggia. (Milano, per Giuseppe Mazzucchelli, 1760). Più avanti nel 1768 sorge Meneghin Foresetta, non perdendosi però il caratteristico personaggio che bastava anche da solo, senza cognome alcuno, che lo qualificasse specialmente, come nell'almanacco: Meneghino critico che si pubblicò per ben quindici anni e cioè dal 1773 fino all’anno 1789, e nel Meneghin sott ai Franzes (Milano 1799 per Antonio Guerrini), Meneghin storech leped, critech e moral de l'intarada di Franzes seguida el dì 14 mag 1796 al dì de la soa partenza seguida el april 1799, ecc. (Milano, 1799) e Meneghin a Ia Senavra, i tre canti di Girolamo Birago. Avvicendando così cognomi vari seguiva ognora le vicende dei tempi e, con vena inesauribile di giocondità, scagliava i suoi strali allo cattivo istituzioni, ai vizii del tempo e delle classi sociali. Il vecchio Meneghino non è a vero dire una maschera dell'antico teatro italiano, giacchè esso comparisce soltanto in qualche commedia del Maggi di duecento anni fa e in pochissime altre: quello che si produce modernamente sulle scene differisce alquanto dal primo, che non si prestava a qualunque parte. Il nuovo Meneghino insomma si può dire una creazione del nostro secolo, portata all'ultima perfezione dal merito artistico del celebre Moncalvo. Ed oggi? Il Buon Meneghino, memore ancora del suo valore cittadino, allo spirare delle prime aure di libertà, gettò la casacca e il tricorno per indossare la divisa da soldato e, facendosi accompagnare dalla sua briosa e satirica musica, fece il dover suo nelle lotte per la liberazione d'Italia. Ma, a noi vecchi, duole doverlo dire, alla compiuta unità italiana Meneghino lasciò il cappotto e il fucile, senza riprendere la sua casacca. Pensò forse alla sua città e, approfittando della libertà, dello facili comunicazioni, orgoglioso della guglia del suo duomo, diede impulso alle industrie, ed intelligente, attivo volle seguire il movimento italiano e rendersi utile figlio della patria comune. Qualche frizzo mordace elle scatta dal popolo ricorda oggi il Meneghino; ma fra la folla non si sa più rintracciarlo …Come cento altri, ha forse fatto il suo tempo? Risorgerà ? Ombre di Porta, di Raiberti, di Ventura, noi Meneghini di un tempo viviamo intanto della cara vostra memoria! POLICARPO CAMPAGNANI. STORIA DEL TEATRO MILANESE (AUTO - PSEUDO – APOLOGIA)

Milano, 15 settembre 1889.

Caro Avv. P. A. Curti. TU mi invitasti a dettare per la Strenna dei Rachitici la storia del teatro, che io ebbi la mala sorte di fondare nel 1870 e che mi fu causa di tante amarezze e di tanti disinganni. Dopo avere tentennato qualche poco te l'ho promessa, a patto che i lettori sapessero bene, che l'invito mi veniva da te ; come pure che qua e là, in due stampati, avevo già corrisposto ad altri inviti consimili, schizzando a larghi tratti la cronaca di quella mia istituzione, la quale oggi, rovinata letterariamente e moralmente, è però rigogliosa rispetto a quattrini e fa ricco il Ferravilla, che merita di diventarlo, pel suo straordinario valore comico e di imitazione del ridicolo vero. L'idea di dover ripetere dei l'atti già pubblicati altrove, mi trattenne sulle prime dal risponderti un si. Ma, pensando poi, che se tu mi avevi suggerito questo argomento, era segno che per esso c' era ancora posto nella curiosità del pubblico, e che la modestia mi doveva suggerire di credere, che non molti avessero letto altrove i miei aborti, mi decisi di mettermi al lavoro, il quale questa volta sarebbe riuscito pressoché completo, avendomi tu concesso una trentina di pagine. Ora ti so dire che la vuoi essere una burletta ! Avrai tu il coraggio di stamparla tale e quale? Ho deciso di trattare me stesso come il più grande imbecille di questa terra, senza però rinunciare alla difesa di fatto, in tutto ciò che fu detto di assurdo e di falso sull' opera mia. Le opinioni variano, ma i fatti sono fatti e dovrò ripeterli. Finora mi sono destreggiato assai male. Tartassato da censure maccheroniche, da ignoranze piramidali, da pregiudizii idioti, da calunnie schifose, me la pigliai a un tanto la calata. A che scopo guastarmi il fegato? Bisognava che parlassi di me stesso, e io so quanto sia pericolosa e uggiosa agli altri la difesa di sé stesso. La magnanima indignazione, che si schiude sempre nell' animo dei lettori italiani contro il disgraziato che tenta di farsi valere, è così pregna di compatimento, che m'ha sempre spaventato. Non se ne salvò del tutto neppure Felice Cavallotti (Carlo Emanuele!) che è tutto dire! Nondimeno, volere o non volere, se dovrò scrivere la storia del Teatro Milanese, bisognerà pure, che di quando in quando io parli anche di questo povero pulcin bagnato, che lo ha creato e messo al mondo! Ma ho pensato di essere senza pietà verso di me; ho pensato di parlare di Cletto Arrighi come del più accanito nemico, che io mi abbia al mondo. E se poi mi troverò offeso, manderò a me stesso i miei padrini. Questa relazione sane proprio l'ultima definitiva da parte mia, quantunque la mia istituzione sia sempre viva e fiorente. Chi volesse ripigliarla al punto in cui la lascierò, non dovrebbe più scrivere la storia del teatro milanese, ma la storia del teatro Ferravilla, ossia la cronaca delle traduzioni dal francese di Giraud e Soci.

Tuo CLETTO ARRIGHI.

I. Le anime fiere ed indomite, che, volgendosi indietro a riguardare gli anni trascorsi nell'agiatezza e nella fortuna, li vedono cosparsi di rose, di allori, e di biglietti di banca, mi giudicheranno forse un vigliacco. Se confesserò che rimembrando oggi quel periodo della mia vita, pur così pieno di speranze, di illusioni e di amore dell'arte, provo, non dirò uno strazio orrendo - per non abusare d'una frase troppo romantica - ma un dispiacere intenso. Che io abbia avuto delle idee troppo in grande, che sia stato un fior di sventato... ciò è fuor di dubbio! Ma non arrivo pienamente a persuadermi che della mia rovina io sia stato il principale autore. E lo si vedrà chiarissimo più innanzi. Oh se potessi persuadermi d'avere io tutta la colpa! C'è una grande voluttà anche nel riconoscersi autore della propria rovina. lo so che tutti i miei concittadini - tranne quelli elle sono al lutto delle cose mie - credono che io sia stato la sola e stolida causa del mio danno. Li ho uditi spesso darmi dell'asino, per non aver saputo approfittare della mia fortuna. E d'altronde non saprei dar loro ogni torto. Da miei diciott' anni fino ad ieri, infatti, io non ho messo in opera nella mia vita che ogni mezzo possibile e imaginabile ... per riuscire a un bel nulla. Giudicatene. A diciott'ani - era il 48 - fui nominato dal Governo provvisorio sottotenente nel reggimento Dragoni Lombardi. Se averi continuato nella carriera dell'armi, a quest'ora, lo giuro, sarei per lo meno …capitano in aspettativa e pensionato. Fui preso dalla nostalgia e dopo la battaglio di Novara diedi le dimissioni, mentre il mio colonnello Porqueddu già mi presentava la promozione a luogotenente, e mi pregava di restare con lui. A .Milano avrei dovuto passar ingegnere. Mio padre aveva uno studio, che gli rendeva una ventina di mille lire annue, e la vigna già piantata e rigogliosa avrebbe dati tutti i suoi frutti a me, primogenito, a cui sarebbe toccata dopo la morte del mio povero vecchio. Non ci pensai. La matematica mi faceva orrore. Quando mio padre mi conduceva seco in campagna a contar le gabbe e mi suggeriva di scrivere uno, uno, uno - io che pensava all'arte e alla letteratura, non metteva le virgole tra l'una e l'altra cifra, e rientrati poi, mio padre non sapeva più se quei paletti da me notati senza punti di divisione volessero dire uno, uno, uno, oppure undici, centoundici, magari undici mila e cento undici. Dunque, dato un calcio alla professione d'ingegnere, studiai legge e mi posi a scrivere dei romanzi. Gli Ultimi Coriandoli, poi la Scapigliatura, le Memorie di un Ex-repubblicano, quelle di un Soldato Lombardo, la Giornata di Tagliacozzo, la Confessa della Guastalla e via dicendo. Tali porcherie non so davvero nè come nè perchè siano piaciute. l' Opinione, poi Eugenio Camerini, e Filippo Filippi, e Rovani, e Solera, e Cesare Cantù (1) mi fecero intorno ad essi una reclame così immeritata, che io domando ancora d'onde mai sia venuta loro quella strana indulgenza per quelle mie scocciature? Tant' è! Se non fossi una gran bestia, avrei dovuto approfittarne n' è vero? Quando capita la fortuna di avere una reclame così autorevole, quantunque così evidentemente parziale, si dovrebbe pensare al poi. Nient' affatto! Mi buttai al giornalismo e fondai la Cronaca Grigia. E qui, siccome mi comincia a girare un occhio di dover parlare in prima persona de' fatti miei, così cedo la parola al signor E. CIerici, il quale nel Regno della Carta Sporca ebbe a descrivere appunto questo mio difetto di volere provarmi in tutto, lasciando precisamente indietro ciò che, colla persistenza, mi avrebbe dato fama e quattrini. “ Egli aveva cominciata la sua carriera letteraria fondando l' Uomo di Pietra, che lo fece conoscere come giornalista; ma quando volle essere romanziere, di lui giornalista e polemista, più nessuno fiatò. Diventò il romanziere in voga. Poteva restarci. No. Si diede alla drammatica e creò il teatro milanese. I critici trovarono che le migliori produzioni di quel teatro gli appartenevano e scordarono il resto e si guardavano bene di parlare de' suoi romanzi nuovi. Una feroce congiura del silenzio si fece intorno a lui. De' suoi romanzi posteriori a quei primi, come il Diavolo Rosso, i Quattro Amori di Claudia, la Mano nera, Nana a Milano, la Canaglia Felice, nessuno fiatò. Il Secolo stette dieci anni in collera con lui, dopo il duello che egli ebbe con Moneta Teodoro, e non Io nominò più come se fosso morto. La grande moltitudine che non legge altro che il Secolo, credeva che Cletto Arrighi si fosse dato esclusivamente alla drammatica milanese. “ Anche gli altri giornali, che pur sono emuli del Secolo , aiutarono questo nell' opera generosa del silenzio intorno a Cletto Arrigli, non accorgendosi sempre se non degli eterni Ultimi Coriandoli, come se egli non avesse scritto che quelli! Io, quando gli toccai di questo argomento, e gli domandai perchè si fosso rassegnato con tanta filosofia sotto quella

(1) Il nome di Cesare Cantù è troppo in alto, perchè io possa lasciar credere aver egli scritto qualche articolo di lode in mio favore. No. Ma egli ebbe la bontà di citare il mio none accanto a quello di Foscolo nella sua Cronistoria. Vol. 2, ciò che mi mise subito in un bellissimo posto. terribile noncuranza in cui fu lasciato per tanti anni, ebbi in risposta : - Perché ho fede nel tempo.” “ E oggi infatti il nome di Cletto Airrighi sta per risuonare nuovamente nell'acre italiano. Fra poco casa Sonzogno gli stamperà il suo nuovo romanzo intitolato: Gli Estremi Aneliti (1) in cui descrive Roma fra il 1867 e il 1870 e forse Dumolard incaricherà delle Sublimi Certezze colle quali Cletto Arrighi s' è arrischiato nel campo altamente filosofico razionalista.” Il signor E. Clerici, che, come si vede, è un altro buon uomo indulgente a torto con me, poteva dire anche, giacchè era in vena, come fra poco l' editore Battezzati pubblicherà di Cletto Airrighi un romanzo, che sarà il primo d'una nuovissima Biblioteca Africana, intitolato il Fascino di Dogali, che egli scrisse in collaborazione con un giovane arabo conosciuto da lui a Genova l’anno scorso. Il signor E. Clerici poi, per ciò che riguarda il mio far di tatto per non riuscir mai a metter insieme quattro soldi, ha dimenticato un punto importante, che mi permetto di richiamare io stesso a' miei lettori. Prima di fondar il teatro milanese, io ebbi la malinconia di voler essere deputato al Parlamento, e trovai della gente che, contro ogni mio merito, mi esaudì. Sembra impossibile. Pure è un fatto! Nel 1867 fui eletto rappresentante dl' un collegio dell’Emilia e legiferai per circa due anni. Ora ognuno vede, che se avessi fatto anch’ io come certi colleghi della stoffa di B., di F., di S., di C., avrei potuto mettere da parte il gruzzolo anch’ io. Invece un bel giorno - furbacchione esimio! - nauseato dal tripotage che vedevo intorno a me, troncai dispettosamente il mio avvenire politico e, date le dimissioni, tornai a Milano, dove mi venne l’ idea barbina di fondar il teatro milanese.

Vedete combinazioni! Pochi conoscono queste quattro o cinque circostanze di fatto, nelle

(1) Fu già stampato ed è già esaurito.

quali la mia colpa di non aver saputo acciuffar la fortuna è flagrante ed imperdonabile. E lutti invece mi fanno carico di non aver saputo conservarmi il teatro milanese, il quale assolutamente mi sfuggì di mano non par colpa mia ! Ma non precipitiamo; andiamo in ordino cronologico. La spiegazione di questo fatto verrà poi a suo tempo.

II.

L'idea di fondare un teatro, nel quale fossero recitate delle commedie, delle farse - e anche dei drammi - in quella parlata schietta, spontanea, reale, in cui si esprimono i Milanesi quando discorrono fra loro, e non già in quella lingua illustra e tanto cara a noi Italiani, ma che alla. commedia e alla farsa è disadatta, giacche essa non è parlata in quel modo in nessuna parte d'Italia - venne a me ed a Camillo Cima, nel 1867. Dico non parlata in quel modo, giacchè, poco o molto, in ciascuna delle città d'Italia anche di Toscana esiste un dialetto, il quale è sempre usato precisamente nelle circostanze della vita, che si prestano alla commedia ed alla farsa. Pinzo nella Frusta di Picozzi ed io nella Cronaca Grigia, fummo i primi a metter fuori l'idea. “ Nella repubblica dell'arte - scrivevo nel mio giornale del 21 aprile I86 - è sorta una nuova questione, quella del teatro milanese. Io ho veduto poche questioni appassionar tanto lo persone in pro ed in contro come codesta. Nell' ufficio del mio giornale, se non sono corsi dei garontoli a quest' ora, è un miracolo. Il partito avversario a tale tentativo è furibondo. Esso non ci risparmia sarcasmi e insolenza. Il Teatro Italiano le si dichiara apertamente avverso e dissuade i drammaturghi milanesi dal mettersi par questa via ; l'agitazione cresce nella cerchia delle mura meneghine e minaccia di farsi poco meno grave di quella famosa che avvampò una quarantina d'anni or sono fra i classici ed i romantici! „ Così è ! Mentre a Torino già il Toselli trionfava ed era festeggiato, ammirato, sussidiato da Vittorio Emanuale, da Cavour e da tutti i suoi concittadini concittadini, a Milano i miei compatriotti e i critici milanesi e non milanesi si alzarono come furibondi contro di me e cercarono di stroncare fin dal principio l'opera iniziata. Per conto mio mi trattarono da matto. Perchè, se non lo sapete, agli occhi di molti Milanesi e tanto più — dopo che il Secolo, mi ha battezzato nel 1872 per tale — io passo per matto glorioso. A me naturalmente pareva che l'idea dei teatro in dialetto — la quale del resto non era neppur nuova, giacchè ripeto, già il Toseili l'aveva attuata a Torino e già da molti anni fioriva a Napoli mi pareva, dico, non fosse poi così balzana da meritare una avversione tanto accanita e un epiteto a me. così poro da senno. Giudicatene: Se Carlo Porta - pensava io - collo scrivere in milanese potè diventar immortale e farsi leggere e gustare perfino da stranieri, è segno che questo dialetto ha in sè tanta potenza di espressione e tanta vigoria ed efficacia, da riuscire eccellente, quando lo si presenti, in bocca di personaggi, sulla scena. Per accorgersi infatti di questa potenza, basta pensare alla maschera di Meneghino. Quantunque essa fosse un assurdo, come tutte le maschere, pure riusciva sempre immensamente accetta e gradita al pubblico, il quale non avrebbe voluto vedere che lui, non rideva che per lui, non s'occupava che di lui, come accade oggidi della maschera Ferravilla. E, da matto, pensavo pure: Il piemontese, che fa così gran fortuna a Torino, non può vantare i precedenti illustri del dialetto milanese. Chi non sa che a Torino si parlò sempre francese da una certa parte di quel popolo, mentre la letteratura del linguaggio milanese ha le sue origini chiarissime fin dal secolo decimoterzo, quando fra Bonvicino da Ripa si esprimeva, con quel suo rozzo, ma efficace dialetto, e questo contava di poi un Lomazzo. un Burigozzo, un Maggi, un Birago, un Tanzi, un Balestrieri, un Rossi, un Porta, un Ventura, un Grossi, un Raiberti, fra i suoi illustratori? Il dialetto piemontese non ebbe l' onore d'essere dichiarato parlare giulivo da Benvenuto Cellini, né chiamato lingua da Alessandro Manzoni. E, sempre da matto, continuavo: Oggi in Italia è sorta e si fa viva la questione del verismo. Perché non lo si dovrà applicare anche al teatro? Finora la drammatica italiana ha vissuto di romanticismo e di classicismo. I personaggi furono sempre dei tipi; tant'è vero che si sono perfino creati i ruoli e che fino a ieri si scrissero delle tragedie in versi. Milano è una grande città, che, per quanto si faccia, non perderà mai le proprie caratteristiche, la propria fisonomia, la propria maniera di esprimersi, di ridere, di sentire, di rivelarsi. Sarà una grande applicazione di verismo anche quella di presentare dei personaggi, che parlino in modo naturale e non più nè in verso, nè con certe frasi italiane contorte e gonfie e certo parole difficili, che, in realtà non stanno in bocca che dei pedanti e della gente noiosa. Come è facile capire, questi ragionamenti della mia testa malata erano evidentemente, di un uomo che aveva perduto il ben dello intelletto! Tant’ è vero, che c'è della gente, la quale crede di ragionare con grande acume e che oggidì ripete con molta convinzione questa stolidità: “Sodio, Giraud, la Giovanelli e la Comelli devono pregare il cielo che Ferravilla non si ritiri dal teatro; perchè una volta che egli non ci fosse più, addio teatro milanese. Sarebbe morto, stecchito”. La ingenuità colla quale taluni, sbroffoni ed altri bonarii e sorridenti, mi vengono a dire sul muso questa loro convinzione, come potete immaginarvi, mi solletica enormemente l'amor proprio. E sorridendo anch’ io sono capace di rispondere : Eh già! Essi non penano, che il venir a dire a me che se il Ferravilla non ci fosse, anche l'opera mia non ci sarebbe più, è il più sanguinoso insulto che mi si possa fare. Sarebbe come se un industriale, dopo avere montato un opificio in modo di farlo necessariamente prosperare, malgrado le opposizioni degli avversarti e dei concorrenti, dopo avere disposte le cose in modo che la speculazione riescisse fiorentissima, e dopo aver allevato sotto di sè un operaio o un economo pieno di ingegno, si sentisse a dire che il suo opificio dovrà rovinare se quell'operaio morisse. Certo che se il Ferravilla cessasse dal recitare bisognerebbe mutare di pianta l' indirizzo odierno, e ritornare alla mia istituzione, la quale fioriva già per elementi intrinseci o veramente artistici, ancorchè il Ferravilla non si fosse ancora rivelato. Certo che, per qualche tempo, tutti coloro che ammirano con tanta ragione questo artista straordinario deplorerebbero quella mancanza e forse diserterebbero il teatro milanese. Ma da questo fatto a dire che la commedia milanese sarebbe morta e sepolta se il Ferravilla mancasse, ci corre un bel tratto. Io sostengo invece che la vera commedia milanese oggi è morta precisamente, non dirò per colpa, ma per causa del Ferravilla, e che essa non potrà risorgere. come la intendevo io, se non col suo ritiro dal teatro. Essa potrà risorgere in modo da compensare lautamente la mancanza del grande attore, il quale colla propria valentia ha saputo far senza della vera arte, per incarnare nella propria personalità tutti gli effetti di gloria e di cassetta, e per mettere in ombra parecchi attori, della sua stessa compagnia. che a sentire certuni valgono più di lui perchè sono più versatili, più completi, più bravi. Infatti non è che la personalità del Ferravilla, che oggidì supplisce alla vergognosa deficienza del repertorio. Tutte le più applaudite produzioni dove egli entra — tranne qualche eccezione -- se fossero tentate da un capocomico italiano tirerebbero sul palco scenico i torsi di cavoli. Imaginatevi il Novelli. che volesse tentare EI .Maester Pastizza o La Class di Asen o El Duell del sur Panera, che ire desterebbe nel pubblico del Manzoni. Ferravilla non ha bisogno di commedie artistiche fatte bene, logiche, interessanti, divertenti, ben pensate e bene scritte. Qualunque più grama stolidità in cui egli entri, con quella sua mobilità di fisonomia, quella sua totale assenza di personalità propria, que' suoi cappelli, que' suoi paltoncini, que' suoi silenzi eloquenti, que' suoi gesti impagabili, fa furore. Oggi non c' è più. — lo ripeto — teatro milanese. C' è un teatro Ferravilla. Quando lui si ritirerà, rifaremo il teatro milanese, appunto in forza di tutti quegli elementi di successo, di vitalità e di durata di cui ho discorso più sopra.

Il primo a darci addosso fu un certo signor Zuccoli, il quale in un giornale che ora è morto, intitolato il Teatro Italiano, ci fulminò nè più nè meno di un Giove Capitolino. Gonfiandosi lo gote e montando sul trespolo, ci scaraventò nientemeno che questo periodo abracadabrante : “ Il pretendere di elevare la rapsodia municipale alla dignità della vera commedia è un'idea illusoria ed erronea. “ In verità appena lette queste parole noi ci siamo guardati l'un l'altro per scoprire se fra noi ci fosse mai un temerario, il quale osasse di elevare la rapsodia municipale alla dignità della vera commedia. Nessuno ci aveva. mai pensato ! Ah se avessimo potuto agguantare lo scellerato, che osava tentar di elevare la rapsodia municipale, chi sa che cosa accadeva! Ma non è qui tutto: si cominciò a dire dai Zuccoliani, che da noi, colla istituzione del teatro milanese si voleva recare offesa all' unità della lingua italiana. Io avevo un bel gridare, che la necessità di conservare o di ottenere sempre più pura e bella una lingua unica, la riconoscevo come chiunque, la riverivo, la esaltavo, la veneravo; ma che, siccome tale necessità riguardava la lingua scritta e non la parlata, così mi credevo incolpevole. Infatti, mentre è desiderabile che tutti gli autori italiani scrivano le loro opere in modo da essere ben capiti e gustati da Susa a Marsala, sarebbe sogno di puerilità e di grettezza il pretendere che tutti gli Italiani, poveri e ricchi, colti e idioti, dai monti dove nasce la Dora fin giù alle spiaggie che prospettano l'Africa, dovessero parlare una lingua unica, stereotipa, insufficiente e soprattutto impossibile, come quella che mancherebbe degli strumenti adatti a esprimere, non solo gli oggetti diversi in ciascuna regione, ma i sentimenti, le impressioni, le idee, i ridicoli, le inezie differentissime da regione a regione in così lunga distesa di penisola. Tanto varrebbe a distruggere anche le foggie diverse del vestire e delle acconciature così pittoresche in Italia, obbligando tutte le donne e tutti gli uomini ad acconciarsi e ad abbigliarsi in un unico modo, per amore di quella strana idea di unità! Sia dunque unica e uniforme la lingua dei libri, delle accademie, delle scuole, delle conferenze, della burocrazia, dell' esercito, della religione ma si permetta alle genti delle diverse città italiane, nelle riunioni geniali, nelle partite di piacere, nei ritrovi, nei clubs, nei caffè e sopratutto nelle pareti domestiche, di esprimersi parlando in quel modo naturale, spontaneo, vario. pittoresco, che corrisponde ai bisogni e agli ambienti diversi di ciascuna città. Ora, che il teatro fu accettato e che dal lato del far quattrini va a gonfie vele, tutte queste considerazioni sembreranno superflue. Ma io scrivo la storia del passato, e prego i lettori di portarsi a quel tempo in cui queste considerazioni erano di gran peso e mi facevano pigliare del matto, nemico dell'unità italiana, dal signor Zuccoli da tutti i suoi amici annuenti, che cercavano di schiacciare il teatro milanese prima ancora che fosse nato.

Dopo il signor Zuccoli sorse a combattermi e a dir corna della mia idea, l' illustre Eugenio Camerini, quello stesso, che aveva dimostrato di non possedere ombra di buon gusto, nè di senso critico, parlando troppo bene de' miei romanzi. Il Camerini ebbe un giorno il tuppè di scrivere : “ Il dialetto è la contraffazione del parlare.” Leggendo questa frase dettata da una così autorevole persona, io naturalmente spalancai gli occhi e chinai il capo. E anche oggi io mi prostro riverente dinanzi alla memoria di quel colto, simpatico e santo uomo, qual'era Eugenio Camerini; ma confesso che quella sua frase non mi è ancora andata giù! Da un vecchio critico e così esperto, il sentire che il linguaggio, che veramente e realmente si parla da tutto un popolo nei momenti di espansione, di intimità, di celia, di godimento, di passione, è chiamato una contraffazione del parlare mi turbava la sinderesi. Come chiamerà allora il Camerini un certo parlar toscano, che sta sulla bocca di certi cari bambocci milanesi, i quali dalla bambinaia di Prato o di Pistoia hanno ricevuto l'ordine di non parlare il dialetto? Un giorno mi accadde di udire queste frasi da un piccolo marchesino di mia conoscenza: — Il pan meglino è andato tutto in freguglie, e l'offella si è spetacchiata. Secondo il Camerini quel bamboccio avrebbe parlato contraffatto se avesse detto: EI pan mejn l’è andaa tutt in freguj e l’offella la s’è spetasciada! “ Tuttavia - continuava il Camerini - dove il dialetto è vivo gli si può concedere qualche cosa …” Oh stelle! Ma dov' è mai nel mondo intero che un dialetto può non essere vivo ? E’ possibile immaginare un dialetto non vivo? Sono le lingue sole, che hanno la beatitudine di poter morire ! Il Camerini, accasato a Milano, ma non milanese, solito ad esprimersi in italiano anche colla portinaia, che spesso non lo avrà capito, s'era tanto scordato che anche a casa sua ci doveva essere un dialetto vivo e parlato, che mise fuori quella seconda idea, non meno.... eletta della prima ! E più innanzi, sempre da maestro nell' argomento, egli confuse le cose al punto da chiamare, parlar comune la lingua italiana. Con tutto il suo ingegno il Camerini non era arrivato a capire, che quando la lingua italiana merita di essere chiamata parlare comune fra gente colta, è segno, che essa si eleva tanto nelle sfere della scienza o dell' arte o della filosofia ed è talmente fuori dell' ambiente domestico e comune della vita vissuta, da non prestarsi menomente alla commedia ed alla farsa. Queste che vivono di scene intime, popolari, domestiche, non c' entrano per nulla con quel parlare comune di cui si sarà servito il Camerini, quando discorreva di filosofia, di critica, di letteratura co' suoi amici. Oh, scrivete un po' una commedia con questi elementi del parlar comune!

Il terzo demolitore, pieno di talento, del teatro in formazione fu Yorick figlio di Yorick, nella Nazione di Firenze. L' YoricK con quella serietà, quella ponderatezza e quella imparzialità onde rifulge la critica in Italia, dopo essere andato una sera di luglio, non giù al mio teatro milanese sul Corso, una ad una vera contraffazione di esso, nel giardino pubblico, dove era stata eretta una baracca, col titolo di Teatro d'Estate, e dove si recitavano delle produzioni barocche dinanzi a della gente che fumava, ciarlava, beveva dei chopes di birra e faceva all'amore, uscì in questo garbato ed equo giudizio: “ Ho da piangere una disillusione, da lamentare un disinganno oggi che mi fu dato assistere in Milano alla rappresentazione del teatro milanese e bere sto per dire, sul luogo il vino di quest'anno. “ Ohimè! li teatro vernacolo milanese ha questo carattere speciale e riconoscibile alla prima, ch' ei non è milanese niente affatto! “ Se l' Yorick avesse scritto questo periodo oggidì, che la direzione è venuta in mano del grande Ferravilla, nessuno gli saprebbe dar torto, giacchè ormai tutti riconoscono che il teatro milanese fu miseramente sciupato dall'attore, che vi sostituì la propria irresistibile e stupenda personalità. Ma allora ? Allora il Teatro milanese era tutto quel che c' è di più originale e di più caratteristico che si potesse dare al mondo. L' Yorick scriveva quelle righe nel luglio del 1873. Ebbene in quell' anno e mezzo, in compagnia non era ancora venuto il Giraud colla sua fabbrica di riduzioni dal francese, che piacciono tanto al Ferravilla. Ma I'Yorick, che non sapeva nulla di nulla, continuò su questo tono: “ Le opere originali si contano sulle dita. “ Ahimè! l'Yorick avrebbe dovuto avere più dita di una scolopendre — dato che le scolopendre avessero cinque dita per ogni piede — per contare tutte le opere originali, che io avevo giù fatto recitare dal 1870 al luglio 1873. “ La Teresa di Cletto Arrighi — continua l' Yorick imperterrito — la Malmaridada di Duroni, la Donzella del Cima, la Mader Madregna, del Tronconi e altre poche hanno vanto di non essere copiate e ridotte da lavori stranieri.” Dal 1870 al 73 furono da me poste in scena 122 commedie originali, originalissime, nelle quali non c'era l'ombra di francese! Ma qui viene il buono. “ Se la favola però è nuova, - continua l' Yorick - se l'argomento è tutto nostro, se l'artificio scenico non è preso a prestito dalla Francia, quei drammi e quelle commedie appartengono pur sempre alla scuola francese, seguono lo andazzo, serbano la fisonomia, ripetono l'origine comune dei drammi e delle commedie di oltralpe. “ Cosa vuol dire mai l'essere fiorentino, non capir un accidente delle cose nostre, e pur voler fare il saccente e il critico arguto! Povero Yorick ! E pensare che io l'avevo sempre tenuto per un uomo di spirito! L' Yorick è di quella razza di critici, i quali credono che anche El milanes in mar sia stato tradotto dal francese! (1) Oh dolce Yorick! Ma siamo forse Zulù o Patagoni noi Milanesi per dissomigliare dai Francesi nel modo che pretendereste voi coi vostri periodi sgangherati? C' è forse a Milano una vita così diametralmente opposta, così spiccatamente diversa da quella che si conduce a Parigi, da poter continuamente ritrarne con perfetta evidenza dei tipi assolutamente diversi da quelli della vita francese? Di questi tipi speciali, spiccati, evidenti, originali, nei caratteri, nelle idee, nelle usanze ce ne sono parecchi, caro Yorick, nel repertorio dei primi anni. Figuratevi se gli scrittori milanesi avevano bisogno che veniste voi Fiorentino ad avvisarneli ! Tant' è vero che in quel!' anno e mezzo di vita erano già stati presentati al pubblico e messi in scena: El pompier o Coo d'or — che non è menomamente — le Pompier de Paris. El pret scapusc e El ceregh gainatt — diversi dal tipo dei preti francesi. El Cappellon, che non è davvero il Sergent de Ville. La Sartina e la Madamin assolutamente diverse dalle grisettes di Parigi. El strascee, i angiolitt che portava via i mortitt — El locch — El barabba — Quell che vend i inguri — El spazzacamin —

(1) M'è toccato di leggere anche questa! Un giornale artistico, nel quale si deplorava che il Ferravilla esimio artista ma pessimo direttore avesse assassinata la commedia milanese appigliandosi alle barocche traduzioni dal francese fatte in casa, stampò queste parole che mi fecero nascere il desiderio di vedere fra poco dedicata qualche via o qualche piazza di Milano all' argutissimo critico che aveva fatto la scoperta. “ Ci vuol altro — scriveva quel genio — ci vuol altro signor Ferravilla, che ripetere continuamente le traduzioni di farsette francesi, quali sono la Statua del sur Incioda, EI duell del sur Panera, El sur Pedrin ai bagn, e El Milanes in Mar.” Confessiamolo ! Una commedia che porta per titolo On Milanes in mar, e che è tacciata di traduzione dal francese è qualche cosa che dimostra fino a qual punto di elevatezza e di perspicacia possa giungere lo spirito critico del nostro paese. El pelaa — La guardia de finanza -- L'usurari di sciori — L' usurari di poveritt — El fittattavol della Bassa — El Brianzoeu — El Bosin — El venditor de cotti con sale e erba bonna — El bulo de Porta Cines -- La sabetta della lobbia — La filandera — La donna di pagn de color— La verzeratta — I grappatt — I reduci — I veterani — I veggitt de Loeugg Pii — El brugnon — El locandee a des ghei — El brumista — El venditor de giornai — La giugadôra al lott — I facchin patentaa — I lattee — El torototela — I fanagottoni — Ona Marion del 1815— I noster artista — I gerent responsabil — On sindech balord — I Bonstomegh -- I noster scoeul de ball — On mercaa de Saronn — La mamma di gatt, ecc. Ebbene? Non c' è uno solo di questi tipi del repertorio milanese a cui possa corrispondere neppur da lontano un personaggio, non dirò di Francia, ma neanche di nessun altra città d' Italia. Essi hanno tutti una caratteristica così propria e speciale, che il sentir il povero Yorick a dire tutt' al contrario, è una cosa che dimostra quanto egli sia talvolta dolce di sale.

Ma parecchi altri appunti meno gravi e da gente meno povera di ingegno si facevano al mio teatro: — Come mai — mi si diceva — potrete voi continuare nell’ opera vostra e formarvi un degno repertorio, se il campo che vi si spiega dinanzi è tanto ristretto? Dove troverete voi, in una città che conta a stento trecento mila abitanti, la stoffa per continuare a ispirarvi in cose nuove? Dopo dieci o dodici bozzetti casalinghi, dopo dieci o dodici quadretti di genere, gli autori si accorgeranno che non si può più andare avanti. perché non c' è più nulla di nuovo da presentare al pubblico. Quando avrete esaurite le risorse del color locale, tanto nei personaggi come nei modi di dire efficaci del vostro dialetto, dovrete smettere oppure ripetervi. Quando i vostri Cappellon, Pompier, Sabett della lobbia, Barabba, Madaminn ed altre simili macchiette speciali a Milano, avranno fatta la loro comparsa gradita e nuova, ma limitata, come potrete voi ripresentarli ancora, dato pure che per essi trovaste delle situazioni nuove? Ed io rispondevo : — E il teatro italiano dunque, che non lati neppure queste macchiette? E il teatro italiano, che vive esclusivamente di duchesse, di marchese e di baronesse apocrife coi loro ristrettivi mariti ed amanti, qualche artista e qualche banchiere più apocrifi ancora delle donne? E del resto elle razza d'un pregiudizio meschino è quello di credere che la commedia milanese non possa e non debba essere che la riproduzione fotografica del mondo piccino e della vita casalinga del basso popolo? Questo errore nacque dalla commedia piemontese, la quale infatti si restrinse alle miserie degli stracci, perchè male si presta a dipingere la classe alta della società. Ma il dialetto milanese, come il napoletano, come il veneziano, ha una pieghevolezza ed una espressione così grande, che quando si sappia usarlo a dovere fa buona figura anche in bocca della gente ammodo. Come pure è pregiudizio di mente piccina il credere che col dialetto milanese non si possano scrivere che commedie da nulla e farsetto da ridere. Certo che il pubblico ama più di ridere che di piangere! Ma non si dica che il dialetto non possa far piangere. E un buon direttore, il quale saprà dare risalto e varietà al suo spettacolo, o colla forza del contrasto aumentare i valori rispettivi del patetico o dell 'allegro, non mancherà di mescere nei quattro o cinque atti della serata qualche produzione toccante il cuore. — Ma è impossibile! — sclamavano gli oppositori, — col meneghino non si può che far ridere. — Chi lo dice? Voi dimenticate dunque che il Grossi ha scritto la Fuggitiva? Forse che nel cuore dei Milanesi non bollono affetti, passioni, desideri, uragani che essi esprimono nel loro dialetto? Forse che un Milanese quando disperato va a buttarsi giù dal Duomo lo fa in lingua italiana ? Forse che le stesse scene, le stesse peripezie, le stesso passioni che dànno vita alla drammatica italiana — anzi del mondo intero — non accadono anche a Milano in dialetto milanese? Milano, ritenuta, a ragione o a torto, la capitale morale d'Italia, è un grande centro di vita europea. Vuol dire che in essa, non soltanto sono probabili e verosimili tutti i fatti e tutte le scene cheaccadono in ogni grande città del mondo incivilito: dall'adulterio all'assassinio, dalla maledizione paterna al suicidio, ma vi sono necessarie. Se queste scene saranno presentate al pubblico nel linguaggio vero e reale, che i personaggi personaggi milanesi usano appunto per esprimersi in quelle circostanze solenni della loro vita, egli è certo che avranno una forza maggiore di verità, che non presentate nell'ibrida e accademica lingua, che pur troppo sono obbligati di adoperare, senza loro colpa, la maggior parte dei drammaturghi italiani, che disprezzano il dialetto. - Io sono pronto a scommettere — saltò su un altro contradditore — che se tu tenterai il dramma in meneghino farai un gran fiasco. - Ed io accetto la scommessa - risposi. Chi avesse perduto avrebbe pagato una cena per dodici, da dieci franchi a testa, escluso ben inteso ogni vino di Francia. - Il giudizio però sarà fatto dopo la terza recita — soggiunsi — giacche si sa che la prima sera farò fiasco in ogni modo. L'amico mi diede la sua parola d'onore che non avrebbe mandato in teatro i soliti rifischioni pagati, per far cadere il prossimo dramma da piangere e che io non avrei comunicato a nessuno il titolo di esso. Mi misi al lavoro e pensai di scrivere un drammino in un atto solo. Così nessuno sarebbe andato a pensare che con esso io tentavo di vincere la scommessa delle lagrime. Capivo bene che sarebbe stato mille volte più difficile il mio assunto, ma non disperai. Dopo venti giorni presentavo a miei comici: On di de Natal , che quantunque sia anch’ esso una vera porcheria come tutte Ie cose mie, pure ebbe fin dalla prima sera — caso strano! — un esito di emozione e di lagrime, al quale non voglio io stesso dare un aggettivo qualificativo. Mi ricordo soltanto che un giornale ebbe a scrivere che On di de Natal obbligava la gente ad entrar in platea coll'ombrello spiegato, per salvarsi daii fiumi di pianto che cadevano dai palchi e dalla galleria. Al pranzo della scommessa presi la sbornia. La sola sbornia di mia vita! Avevo vinto un altra battaglia!

Ora torniamo ai principj. Il 17 settembre 1869 - quando io avevo già dato le mie dimissioni da deputato (1) — moriva il mio povero zio consigliere Bernardino Righetti e mi lasciava una ottantina di mille lire. La mia idea, covata da tre anni, poteva dunque tradursi in fatto. Pagati i debiti trovai che mi restavano trentacinque mila franchi, e senza perdere tempo mi posi all’ opera. E’ da sapersi che in quel frattempo qualche cosa si era giù fatto per avviare l'intrapresa. Fin dal maggio dianzi, con Camillo Cima, con Pietro Tanzi e con Salagé, ci eravamo riusciti a radunare una decina di dilettanti, i quali avevano recitato al Teatro Fiando — ora Gerolamo — una commediola in fre atti ed una farsa, con una naturalezza, una evidenza, una verità tali da mandar via il pubblico entusiasmato. La commedia: On zio scior, di Cima, era bellissima; la farsa: Miee che secca, marì che pecca, roba mia, era, naturalmente, una vera abbominazione, che piacque al pubblico solo per merito degli attori.

In possesso adunque delle mie trentacinque mila lire mi diedi intorno per cercare un locale in cui potessi costruire palco scenico, platea e palchi; mandai fuori un programma, chiamando a raccolta i giovani artisti volonterosi di arrolarsi sotto la mia bandiera e pubblicai un progetto di Statuto per una società in partecipazione con azioni di lire 250, allo scopo di raccogliere un altra ventina di mille lire indispensabili alla intrapresa. Lo Statuto esprimeva la speranza di avere almeno ottanta azioni sottoscritte allo scopo: 1° Di costruire un piccolo teatro; 2° Di provvedere al corredo scenico e alla guardaroba; 3° Di creare un repertorio, retribuendo gli autori;

(1) Ci tengo a constatare questo fatto, perchè il Secolo, quand' era in collera con me, mi fece carico anche di esso, accusandomi di aver date le dimissioni non perchè; fossi nausealo dal tripotage della regía, ma perchè lo zio mi aveva lasciato mezzo milione o poco meno. 4° Di creare la Compagnia Stabile stipendiata, pagandola anche nei cinque mesi, che sarebbero occorsi per istruirla, affiatarla e metterla in grado di presentarsi degnamente al pubblico ; 5° E finalmente di spendere il necessario per la dovuta reclame. Come si vede se mi fossero venute su le sperate ottanta firme avrei aggiunto alle mie, un'altra ventina di mille lire: e colle 55 mila, ghera minga tant de sfoià verz! (1) ma si poteva far bene. Invece di ottanta azioni non me ne furono firmate che sedici. Sedici, numero esprimente la gran fortuna, che allietò sempre le mia vita dal giorno che apersi gli occhi alla luce. Ed ecco ad eterna memoria i nomi dei benemeriti cittadini sotto-scrittori. Comm. Giulio Belinzaghi sindaco, Battezzati editore, Bonzanini cav. Alessandro, Bertolotti ing. Pietro. Cajo ing. Carlo, Chiusi cav. Carlo, Galli Carlo. Guerrini Leopoldo, .Jungh Maurizio, Levi Luigi, Moscatelli Pietro, Mussi Giuseppe, Noseda Giovanni, Riglietti ing. Enrico, Ruspini nob. Folchino, Tacchi Pietro. Questi signori avrebbero dovute fra tutti mettere nella società quattromila lire. Ma siccome il versamento delle azioni si doveva fare in più rate, così non incassai che duemila e quattrocento lire in tutto e per tutto; giacchè io ebbi lo stupido orgoglio di lasciar credere che l'impresa andasse a gonfie vele e che non avessi bisogno di altri versamenti per tirar innanzi. E fu allora che cominciai a bazzicare coi prestatori di denaro, i quali mi dimostrarono una fiducia oltre ogni mio merito e furono — lo dichiaro apertamente — con me onestissimi.

Nei giorni che precedettero l' apertura del teatro al pubblico io, come potete bene immaginarvi, non avevo proprio nulla da fare. Hanno dunque perfettamente ragione anche coloro che mi incolpano di non avere atteso alla mia amministrazione, e di essermi lasciato mangiare attraverso il fatto mio.

(1) Trattandosi di dialetto la frase non è fuor di luogo. Vuoi dire: di scialarla.

Diamine! Infine io non dovevo far altro che: attendere alla costruzione del teatro, provvedere alla formazione del repertorio, scrivere io stesso qualche abbominevole commedia, accogliere gli autori che venivano a portarmi i loro capolavori, leggerli tutti, attendere all' esame e all'istruzione dei giovani di ambo i sessi, che dovevano formare la Compagnia Stabile, passar cinque o sei ore al giorno in prove con quelli che mi si mostrarono abili, abbozzare i contratti accessorii per la formazione del corredo scenico, dell' abbigliamento e del parrucchiere, come pure pensare al servizio del caffè, della guardaroba, al personale, ecc. Come vedete il mio torto di non aver badato ai libri di chi amministrava è imperdonabile, non avendo proprio null' altro da fare !

I primi dilettanti che mi si presentarono chiedendomi di essere provati come attori furono Sbodio, Milanesi, Pisani, Volontè, Ferravilla, Crespi, Malgara e fra le donne : le due Giovanelli, la Trezzini, la Vaghi e la Pisani. “ Ripassando, oggi, colla memore fantasia la cronaca di quella mia fabbrica di ilarità e di buon umore, provo un senso di terribile malinconia. Questa cronaca, cova ne' suoi segreti dei drammi funerei dei dolori strazianti. Vedo ancora piangere e morire di tisi la pallida Prada poi la Felicita Giovanelli — da non confondersi colla Giuseppina — e vedo a dir così suicidarsi per amore del signor Aldo Noseda, l'appassionata Balzaretti ; vedo scomparire la geniale Trezzini, che era moglie di Vespasiano Bignami — la portinara cantante del Barchett de Boffalora — e vedo la gentile Sassella, che ritiratasi invano dalle scene fu colta poco dopo dallo stesso destino che perseguitò per tanti anni le prime donne del mio teatro, e vedo poi la lvon, colpita da una stolida calunnia, arrestata, processata, poi libera, ma piangente la perdita della propria madre, che moriva di schianto.”

Gli autori sulle prime non furono che Cima, Duroni, Tanzi, la contessa Viani Visconti. Tronconi e Salagè. Cima aveva già provato il suo Zio scior e mi consegnava i copioni del Pret scapusc e del Barchett de Vaver; Duroni mi dava I Foeugh artificiai ; la Viani Visconti El Lott e la Cassa de risparmi ; Tronconi la Mader madregna; Salagé Trii cocumer e on peveron. Avvenne che un giorno — era di settembre — avendo avuto dissapori con Camillo Cima, egli ritirasse i suoi copioni del Barchett de Vaver e del Pret scapusc, ed io impuntigliato a non dargliela vinta gli gridassi dietro : — Non importa ; in sostituzione de' tuoi capolavori io scriverò : El Barchett de Boffalora e On pret che sent de vess omm. Tornato a casa infatti buttai giù di fretta l' intreccio del Barchett de Boffalora, che mi fu ispirato dalla Cagnotte, e con febbrile ansietà, in cinque giorni, riuscii a terminarlo e lo portai in teatro a miei comici per provarlo. A coloro che, tanto per farmi piacere, seguitano a dire che El Barchett de Boffalora è la traduzione smaccata dalla Cagnotte, io darei volontieri ragione se si trattasse di un appreziazione a me contraria e non di un fatto positivo. Santo Dio ! Come si fa poi a stravolgere anche i fatti ? Finchè ripeterete che io sono un matto, vi potrò batter le mani, per la vostra opinione; ma quando dite che il Barchett è una traduzione tal quale della Cagnotte voi non dimostrate altro se non che di avere una intelligenza al di sotto di quella della melolonta vulgaris, (vacchetta), oppure di non conoscere l'una o l'altra delle due produzioni e magari di non conoscerle tutte e due. Quando annunciai El Barchett fui io il primo ad aggiungere tra parentesi : (ispirato dalla Cagnotte). Ma fra la mia commedia e la commedia francese c' è una tale e così sostanziale differenza, che a vedere i critici non accorgersene, c' è da farne la burletta sul serio. Il Filippi — il solo che non avessi in quei giorni avverso, — scrisse nella Perseveranza del giorno 28 novembre 1870 — 9 giorni dopo l'inaugurazione — queste righe: " Il teatro si aperse col Barchett de Boffalora di Cletto Arrighi che a mio parere è un ammirabile bozzetto dei costumi lombardi della campagna. E’ tratto della Cagnotte, ma la riduzione, o a meglio dire la trasformazione, è così ben fatta da escirne un lavoro nuovo di getto, pieno di osservazioni, di vis comica, di spirito e di effetti esileranti. Nel primo atto la famiglia Spinazzi e il Piccaluga sono tipi, quali non si vedono che nelle grosse borgate di Lombardia. E sullo scherzo nuovo si aggira tutta la graziosissima commedia piena di amenità locali e di frizzi, non escluso un ma lei mi sgonfia e il non ghe ne impodono del sur Piccaluga, ecc., ecc. “ (1) Adulatore, piallone esimio quel povero Filippi ! E sì che da me non prese mai un soldo!

Comunque sia, debbo dire che alle prove anche i miei comici, forse per farmi il solletico, mi diedero tali e tante speranze di ottenere un successo immediato, schietto, sonoro, che io non pensai neppure a mettere in pronto altre commedie pel caso che El Barchett dovesse fare il fiasco, che fece. Mi ricorderò sempre di Sbodio e della Giovanelli che non rifinivano di farmi le loro congratulazioni, per avere saputo metter insieme così di fretta un lavoro, che secondo loro superava El Barchett de Vaver del Cima.

Finalmente il giorno 19 novembre si fece la inaugurazione, e finito lo spettacolo io mi trovai con trentacinque palmi di naso. Quand' io ripenso ciò che provai andando a letto, la notte del 19 novembre, allorchè, dopo tanta fatica, tante lusinghe e tanti denari spesi, dovetti accorgermi che i miei concittadini non volevano saperne dell'opera mia, giacchè tra le altre cose s'erano guardati bene dal venir in teatro in folla... E risentii suonar negli orecchi i dolci sibili di cui mi avevano beato quei pochi che vi erano capitati. E li udii, quando uscivano, sclamare: Quel Cletto, lui vuoi far tutto, vuol tendere a tutto, e non è buono a nulla …

(1) Perseveranza — Appendice del 28 novembre. Sento ancora rizzarmisi i capelli in capo e un sudor freddo scorrermi qui lungo la spina dorsale. Nondimeno finii coll'addormentarmi e quella notte sognai che il signor Zuccoli, Yorick e Camerini, colla tuba in capo e nel resto nudi come le tre Grazie del Canova, mi erano venuti dinanzi a farmi una smorfia colla mano spiegata a ventaglio e colla punta del dito pollice posato sulla punta del naso. La mattina mi levai con un' idea di feroce ribellione. Un' idea che non sarebbe certo venuta a nessuno capocomico dell’ orbe terraqueo, compreso Ferravilla: quella di forzare il pubblico ad accettare, a capire, a gustare, ad applaudire il mio Barchett de Boffalora. E ordinai la replica. Dal libro della mia amministrazione rilevo, che se la prima sera avevo fatto poche lire di introito, la seconda, la terza e la quarta ne feci ancora meno : e avevo 380 franchi di spesa serale ! E i fischi continuavano alla più bella che era un piacere del gobbo! I miei concittadini mi ripetevano su tutti i tuoni il nemo propheta in patria. Nè io poteva gettar la colpa del mio insuccesso sui comici, come fanno quasi sempre gli autori. Essi recitavano bene, secondo me, perchè facevano tutto quello che loro avevo insegnato. Dovetti dunque persuadermi d' essere una gran bestia anche come istruttore drammatico. Proviamo — mi disse il Milanesi, che faceva la parte del sur Piccaluga — proviamo a recitar falso, a mettere in opera i soliti mezzucci d'effetto. Il pubblico non è avvezzo alla nostra naturalezza. Diventiamo assurdi e vedrà che piaceremo. No — risposi — piuttosto chiudo il teatro. Se non che i comici, i quali erano discretamente mortificati di sentirsi fischiare tutte le sere, cominciarono davvero a strafare e a rappresentarmi El Barchett scelleratamente. E fu allora, quando cioè io autore avrei preso a revolverate i miei attori, che El Barchett trionfò. Il pubblico ci aveva messo sei sere a capirlo. E da quel giorno a tutt'oggi fu rappresentato due mila e trecento ottantadue volte e produsse soltanto a me - in sei anni dal 1870 al 1876 - la cifra di cinquecentosettantanove mila franchi di introiti lordi. La sorte toccata al Barchett, doveva rinnovarsi ad ogni produzione nuova, tanto che diventò perfino tradizione, che al Milanese i fiaschi più clamorosi delle prime rappresentazioni fossero precisamente quelli destinati a mutarsi nei successi più duraturi. Così che mentre in tutti gli altri teatri le piene si facevano con spettacoli nuovi, al Milanese accadeva tutto il rovescio. Non piacquero la prima sera nè la Donzella de ca Bellona, del Cima, pur tanto bella, nè la Malmaridada e la pesc imbattuda del Duroni, ne i Trebuleri del sur Spêlla del Parravicini, con una musichetta saporitissima, nè On pret che sent de vess omm, nè la Sura Palmira sposa, nè On Milanes in mar, ecc., ecc.

Il fatto è che le cose della mia amministrazione nel primo anno erano andate alla peggio. Vedendo, che tranne el Barchett nessun' altra commedia aveva la potenza di chiamar gente — i miei libri parlano — ebbi la malinconia di montare uno spettacolo di musica classica. Diedi Giannina e Bernardone di Cimarosa. Spesi un monte di quattrini e mi ebbi una fiera lavata di capo dal Filippi nella Perseveranza. (1) Il primo anno (1870-71) ebbi un deficit di ventimila lire. I Milanesi non volevano saperne di venire in folla nel teatro del loro dialetto, e per attirarli io spendevo troppo nella messa in scena e nella réclame. C' è nella Perseveranza di quei giorni un articolo del Filippi, sul modo con cui si presentavano al pubblico le camere, le cucine, le botteghe, le piazze, nel mio teatro, che dimostra sempre più come quel povero amico fosse verso di me parziale e piaggiatore. Parlando del Nodar e Perucchee, scrive : " La bottega del parrucchiere elegantissima, con scaffali, oggetti di profumeria e tutto l'occorrente pel servizio degli avventori è una maraviglia.” E il Torelli Viollier nel Corriere: " In questa, come nelle altre commedie date al Milanese, è ammirabile l'accuratezza della messa in scena. Nel Nodar e Perucchee essa

(1) 6 marzo 1871. è spinta fino allo scrupolo. Alla bottega da parrucchiere nel primo atto non manca proprio nulla. Specchi, pettini, profumerie, treccie false, ferri da arricciare, spazzole piane, spazzole rotonde, c' è tutto ! Basterebbe trasportare la roba che c' e sul palcoscenico in una bottega qualunque per avere bella e allestita una vera bottega di coiffeur. La camera da letto del terzo atto non è meno minuziosamente corredata. Il signor Filippo Carcano non è più diligente nel riprodurre il vero ne' suoi quadri di quello che il Righetti nel riprodurlo sulla scena. Se Balzac fosse stato impresario non avrebbe fatto di più. “ Naturalmente per ottenere questi risultati ci volevano dui molti quattrini. E tutti, a gara, me ne prestavano, perchè le trentasette mila lire dell' impianto erano già sfumate.

Ora dirò di qualche innovazione da me introdotta. A differenza delle Compagnie italiane nelle quali sono designati a ciascun attore i così detti ruoli ed il rango, io volli che gli attori della Compagnia milanese non avessero nè ruoli, ne ranghi. A me pareva strano che un artista non dovesse far altro tutta la vita che belare dichiarazioni d'amore, perchè lo si chiama primo o secondo amoroso, mentre un altro non avesse a far altro che dire sciocchezze, tentando di far ridere il pubblico, perchè lo si chiama brillante. Nella vita non vi sono uomini che facciano soltanto e continuamente all'amore o che non facciano altro che brillare. Io volevo che gli attori del mio teatro fossero uomini, non recitanti. Il fatto è che con tale mezzo, malgrado il repertorio sulle prime ristretto, io potei vincere con discreta infamia la più terribile, la più insormontabile difficoltà, CHE mai si sia presentata a Compagnia drammatica italiana, quella cioè di stare nientemeno che otto mesi di fila a Milano nello stesso teatro. Questo fatto parve un miracolo anche ai più valenti e provetti capocomici. — Come! — sclamavano essi — noi che crediamo di avere le sommità dell' arte drammatica, stipendiate con ventine di migliaia di lire; noi che abbiamo un repertorio immenso, non possiamo reggere più di quaranta giorni, o tutt'al più due mesi, nella stessa città e, finita la breve stagione, ci tocca, a grandissima spesa, di viaggiare per altri lidi, mentre tu osi di tenere la tua Compagnia dal settembre al giugno? Com'è questa storia? Insegnami un po', te ne prego, il segreto d' un tale miracolo, che sarebbe per noi un risparmio di molte migliaia di lire sprecate in trasporti di robe e in perditempo. Una parte del segreto sta in una cosa semplicissima. Ed è che i comici del teatro in dialetto parlano una lingua parlata, mentre i comici italiani recitano nella lingua scritta. Ci sono però due riforme da me introdotte fin dal principio, che aiutano il miracolo. La prima riguarda ancora appunto quella a cui accennai più sopra dell' abolizione dei ruoli. Gli artisti del teatro milanese trasformandosi continuamente, tanto nella figura come nei caratteri, possono assumere una infinità di ruoli diversi e talvolta importantissimi, che nella drammatica italiana non troverebbero posto o sarebbero dati ai così detti generici o parti secondarie. Da quella varietà di tipi, di caratteri e di parti, che gli artisti del Milanese assumono, ne scaturì fuori una conseguenza rara e cioè che a volta a volta ciascuno — anche dei più umili — può dire di essere riuscito sommo in qualche parte. Non dico del Ferravilla, che dopo aver fatto con plauso il giovinetto reduce dal collegio e innamorato della Ida nei Trii C e Trii D, esaltò il pubblico nella parte di vecchio acciaccoso e rimbambito, a cui il medico ordina di cantare tanto per distrarsi, in un' altra mia commedia Dal tecc a la cantina (dalla quale poi il Ferravilla tolse la sua Scena a soggetto con uno slancio che gli fa grande onore). Non parlo del Giraud, che dalle parti nobilissime del Nodar e Perucchee e dalla Mei manera de lassà la Morosa, scendeva a quelle volgarissime del Carlambroeus de Montesell e della Caritaa pelosa. Non parlo di Sbodio, che fa il generico briccone nel Sur Zampetti del Sabet Grass, l'amoroso nel Brus democratich, il caratterista squisito nel Foeura de post, e il caratterista serio nel padre della Sciora di Cameli, e come nessuno li saprebbe far meglio. Non parlo della Ivon che recitò la Sciora di Cameli — traduzione della Dame aux Camelias — in modo da far strabiliare, e si prestò a far da comparsa nella Class di Asen. Non parlo dell' inarrivabile (1) Giovanelli, di cui fu detto che era stata creata apposta dalla Provvidenza perché io potessi farla riuscire una grande artista. Ma tutti i minori? Il Gandini per esempio nel Milanes in mar e nel Camerer del Barchett era sublime. Il povero Marchesi non era nulla, nullissimo. Eppure nella sua parte di barbiere nel Barchett, quando si presentava zoppicante a domandare : l'è chi che voeuren fass desfà la barba? — e poi quando legge il cartello appiccicato sulle spalle del sur Piccaluga, non era egli forse tale che migliore e più vero di così sarebbe stato impossibile imaginarlo? Tant' è vero che tutti quelli venuti dopo di lui e istruiti da Ferravilla mi parvero abbominevoli. E il Dassi? Chi è che avrebbe oggidì il coraggio di fare il bidello della Class di Asen, dopo che il tipo fu creato dal Dassi? Io ho udito Ferravilla confessare che non saprebbe farlo così bene. E la Comelli non è forse nelle sue parti una grande attrice? Quando la Duse venne a Milano a rappresentare Francillon, io scrissi per la Comelli: Gran Ciallon. Chi non ha veduto la Comelli parodiar la Duse, non può sapere fino a che punto possa arrivar nel Teatro milanese lo spirito di imitazione. Naturalmente il Ferravilla, vedendo il successo, abolì subito il mio Gran Ciallon dal suo repertorio, e non lo dà neppure quando, venendo la Duse a Milano, e recitando Francillon la mia parodia riuscirebbe tanto opportuna, e sarebbe come si dice una chiamata di circostanza. La seconda riforma fu l'abolizione dell'abbonato, che non permette le repliche.

Nei primi tre anni — vale a dire in circa 460 recite date a Milano — erano state rappresentate 146 produzioni nuove, e s'erano fatti innanzi cinquantadue autori fra cui tre signore. Diciannove furono scartati ipso facto. Gli altri trentatre ebbero la soddisfazione di vedere rappresentati

(1) Epiteto usato spesso dal Filippi parlando di questa attrice.

i loro parti più e più volte e sono : Battoni, Bonzanini, Carati, Cima, Conti, Dassi, Dossena, Duroni, Ferravilla, due Fontana, Giarelli, Malvezzi, Milanesi, Mendel, Monteggia, Parravicini, Praga, Pozzoli, Romussi, Salagé, Sbodio, Speri, due Tanzi, Telamoni, Tronconi, Viganò, Villani, e le tre signore: contessa Viani Visconti, Berettini e Trezzini, che con me formano i trentatre. Le produzioni più fortunate in quei tre anni dopo El Barchett de Boffalora, furono El Togn Facchin, (Bonzanini), I Foeugh artificiai (Duroni), La Donzella (Cima), EL Barchett de Vaver (Cima), L'Arcobaleno in d'on Cumò (Duroni), Trii Cocumer e un Peveron (Salagé), Vun che va l'alter che ven (Ferravilla), Ah maledetta! (Monteggia), I deslipp del sur Bartolomee (Duroni), On Agent teatral (?), El Signor di Poveritt (Mendel), La malmaridada e la pesc imbattuda (Duroni), I tribuleri del sur Spêlla (Parravicini), Francesca da ridere (?), La Pina Madamin (Fontana), Parer e occasion (Battoni), La festa de San Luguzzon (Cima), La Mamma di gatt (Sbodio), El sciopero di Madaminn (Duroni), On Farfallin (Edoardo Sonzogno), On spos sequestraa (Dassi), In vagon de segond post (Monteggia), e le mie: I Trii C e i Trii D del bon gener. — El Cappell d'on Cappellon — Carlambroeus — La gent de servizi — El casto Giuseppe — El Granduca di Gerolstein — On Milanes in mar — On sord e na sorda — On Minister in erba — El Bersaglier gentil — Teresa — On dì de Natal — La mei manera de lassà la Morosa — On Pret che sent de vess omm — La sura Palmira sposa — On matrimoni per procura — Nodar e Perucchee — On Sabet Grass — Dal tecc a la cantina — Miee che secca Marì che pecca — El Milanes in l'isola — Tre riviste, ecc., ecc.

Terminata la stagione del 1873 e abbisognando il teatro di altre modificazioni specialmente nel soffitto io mi accinsi a nuove spese, le quali dovevano scemare quelle che nei tre anni avevo dovuto sostenere per gli stillicidi dalla tettoia a vetri. Nella costruzione della volta col lucernario come sta ora spesi altre quindici mila lire. La stagione del 1873-74 fu piuttosto felice. Entrarono nella compagnia compagnia il Giraud più provetto e la Emma Ivon, nuovissima alle scene, ma sfolgorante di bellezza e di ingegno. Morta la Prada, morta la Balzaretti, che dal 1870 al 73 avevano sostenute le parti di prima donna, il loro posto era stato preso dalla Rica Oldani, che oggidì lasciata l'arte dirige un fiorente atelier di modista in Torino. Intanto si faceva innanzi il Ferravilla. Su di lui pochi mesi fa io ho stampato un libro, che andò a ruba, nel quale dicevo quello ch' egli merita si dica di lui per quello straordinario intuito artistico di cui è dotato, e mi permettevo di censurarlo come direttore della Compagnia. Questo valse perchè egli facesse oggi ciò che Paolo Valera pronosticò : abolì dal suo repertorio le mie produzioni. Chi volesse sapere di lui adunque non ha che da andar in biblioteca, se non vuol comperar il mio volume, oppure dal mio editore Carlo Aliprandi, che ne tiene ancora qualche copia della seconda edizione.(1) Il 1874 segnò sotto la mia direzione l'apogeo della riuscita. La compagnia bene istruita, omogenea, affiatatissima, compatta, giacchè io era riuscito a ciò a cui pare che i capocomici italiani sieno inetti — vale a dire a tener insieme i miei attori — mi avrebbe dato un utile grosso se io avessi saputo frenare la smania di spendere troppo in quel piccolo teatro, che poteva render poco. L'amministrazione, che era passata nelle mani di Gigio Perelli, inappuntabile. Ma la réclame, la messa in scena, la guardaroba e sopratutto gli interessi passivi mi assorbivano ogni guadagno. Per il debutto della Emma Ivon, le feci fare due abiti dalla Beltemacchi, che mi costarono mille e cinquecento lire. Per quanto allora il biglietto d'ingresso fosse pari a quello del Teatro Manzoni io non riuscii a fare mai di più di mille franchi nelle sere di piena.

Nel 1876 scadeva il contratto co' miei comici. In quell' anno le cose erano andate alla peggio. Un complesso di circostanze avverse m'avevano

(1) Ferravilla per Cletto Arrighi, con illustrazioni di Vespasiano Bignami.

messo in San Quintino. I creditori del teatro mi assediavano. Per rinnovare i contratti, i miei comici vantavano pretese esagerate, perché io non potessi accettarle e così avere un buon pretesto per distaccarsi da me. Era naturale che ormai, messi sulla buona via, essi desiderassero di fare da sé. Io non li rimprovero punto. Ciascuno deve fare il proprio interesse. La gratitudine è una parola vaga ed incerta; le palanche invece hanno un suono fermo e certissimo. Un vecchio comico da Stadera, che aveva un gruzzolo da parte, un certo Telamoni, subodorò l'affare, si accostò a' miei comici, li circuì e li persuase a passare sotto la sua bandiera. Non gli pareva vero di conquistare per nulla una compagnia istruita, affiatatissima, vestita, sfruttando l' opera mia, e godendo sulle mie fatiche i frutti futuri. Il Ferravilla in quel tempo s'era già rivelato per quel grandissimo attore, che riuscì di poi; c'era la Giovanelli — che par tagliata a posta per le donne del volgo — e con loro c' erano la Ivon, la quale, come dissi, nella Signora delle Camelie si era mostrata così grande da far scrivere al Filippi che ella aveva superata la Marini e da ispirare a Paolino Valera un tale entusiasmo che, a me, seduto vicino a lui nelle poltrone, a me, che sapevo essere lui venuto in teatro per fischiarla, parve perfino esagerato. Il che convenitene, è tutto dire! Paolo Valera, che allora mi confessò ingenuamente d' esser entrato con intenzioni ostili, mi chiese che lo presentassi alla Ivon. Tutti furono presenti agli sdilinquimenti del povero Paolino " che non avrebbe mai creduto ch' ella fosse così grande attrice ”.

Fra le innumerevoli incongruenze accadute nel mio teatro debbo notare anche questa. Chi sapesse spiegarmela sarebbe bravo davvero! La Ivon recita la Sciora di Camelie come la Duse e la Sarah Bernard. E’ acclamata dal pubblico, dalla stampa, perfino da suoi più accaniti nemici. La seconda sera mi fa far un pienone, come ne avevo veduti pochi. Rinnova gli entusiasmi della prima sera. Dopo la recita mi dice di non volerne più sapere. Perché ? perché Armando non le va. Armando era Giraud, il quale sia per l'età, sia pel suo carattere scettico e brillante, non era certamente tagliato a far l'amorosetto; ed era lui il primo a convenirne. Eppure non aveva guastato. Tant' è vero che il dramma aveva prodotto un trionfo. Sarebbe stato il Giraud in caso, nel suo pieno diritto di rifiutarsi a fare l' Armando. E infatti io proposi alla Ivon di sostituire al Giraud il Cima. Non ne volle sapere. E la Sciora di Cameli fu messa da parte e non la si rifece mai più. Ma pazienza ! Se la Ivon dopo aver avuto quel po' di soddisfazione, dopo avere acquistato la certezza di poter essere grande nel dramma, avesse voluto mettere da parte la Sciora di Cameli, perché non c' era l' Armando che le andasse, io non avrei avuto nulla a ridire. Ma quello che sbalordisce è che la Ivon non cercò mai più di creare una parte seria, una parte come quella di Margherita. E vero che anche a lei toccò la sventura, che l' ha stroncata di pianta !

Qui è venuto il destro di dimostrare a coloro, i quali dicono che io ho tutta la colpa d' essermi lasciato sfuggire di mano il teatro milanese, di raccontare in breve il perché ed il come senza mia colpa ciò sia accaduto. E’ da sapersi dunque, che io avevo speso nella formazione del repertorio una diecina di mille lire. La Compagnia, che mi aveva abbandonato non avrebbe potuto rappresentare nessuna delle commedie di mia proprietà se non dipendendo da me, giacché la legge permetteva bensì di rappresentare i lavori stampati, anche senza il permesso del proprietario ma non già quelli manoscritti. Di produzioni milanesi non ce n' erano allora di stampate. Ora avvenne, che in quel frattempo il Parlamento facesse un' altra legge, nella quale era abolita la distinzione fra stampato e manoscritto e dava al proprietario il diritto di veto su tutte. Allora, siccome il Barbini editore, mi chiedeva il repertorio milanese da stampare, io fidando nella salvaguardia della legge, glielo diedi. Non appena le commedie del mio repertorio furono stampate, uscì una nuova legge, che distruggeva la salvaguardia e dava ai capocomici il diritto di recitare come volessero le produzioni a stampa, ed io fui bello e fritto. E siccome per ritirare i diritti d' autore avrei dovuto spendere di più di quello che le commedie mi avrebbero fruttato, così dovetti rassegnarmi.

La mia compagnia dunque mi lasciò e a me restò il solo teatro col repertorio e la guardaroba divenuta inutile. Pazienza ! Cedetti ogni cosa ai creditori e sperai, coi proventi dell'affitto, di ammortizzare i debiti, che gravavano appunto sul teatro. Infatti nei primi due anni, dacché la Compagnia m' ebbe abbandonato, distribuii in acconti ai creditori una dozzina di mille lire e non tenni per me che cinque miserabili franchi nei giorni di recita. Il signor Azimonti, amministratore, può far fede di ciò. Il contratto d'affitto col padrone di casa andava fino al 1890. Avevo dunque dodici anni dinanzi a me. Il subaffitto del teatro alle Compagnie mi rendeva circa sei mila lire nette. In dodici anni ne avrei pagate settantadue mila di debiti, e sarei uscito con discreta infamia dal pelago burrascoso. Come facevo i conti senza l'oste! L'oste, nel mio caso, fu il teatro Ring di Vienna, che una bella sera, andò a fuoco e fiamme, producendo, colla mia rovina, l' immane disastro che tutti ricorderanno. La prefettura mi fece chiudere il teatro. Si trattava, per poterlo riaprire, di dover spendere una quindicina di mille lire, onde fosse addattato alle nuove e giustissime esigenze della sicurezza pubblica. Io non avevo il denaro per fare queste operazioni, e nessuno me lo prestò. Mossi causa al padron di casa, il quale avendomi affittato un teatro, e non una sala chiusa per forza maggiore, sarebbe stato in obbligo di ridurre l'ente affittatomi in istato di essere riaperto. L' avvocato Facheris, mi lasciò perdere la causa, ed io mi trovai spossessato anche del teatro, nel quale avevo profuso un centinaio di mille lire. E con questo vi striscio la riverenza e vi auguro buone feste.

Milano, 22 ottobre 1889. FRANCESCO LUCCA. L' INAUGURAZIONE DELLA STATUA DI GAETANO DONIZETTI nell'atrio del Teatro alla Scala la sera del 10 marzo 1874.

IL signor Francesco Lucca, del quale qui contro porgiamo il fedele ritratto,(1) che fu per avventura il più intelligente editore musicale che col signor Giovanni Ricordi tenne, si può quasi dire, il monopolio delle partizioni delle opere del teatro lirico italiano; il signor Francesco Lucca, che provò coll'alto proprio la verità di quell’ assioma che volere è potere, porhè da umili condizioni di fortuna, colla propria attività ed ingegno, alla maggior probità congiunti, seppe elevarsi a ricchezza e alla generale estimazione, generoso sempre coi giovani maestri e cogli artisti, fu anche uomo di assai mite animo e virtuoso e mostrò coll'esempio suo come non sia sempre vero il giudizio che recò l'alemanno Nordau, quando affermò essere la gratitudine non altro che la speranza di futuri favori. Perrocchè quando egli concepì l'idea di dare alla statua di Rossini, che era stata eretta nell'atrio del Teatro alla Scada, una compagna in quella dell'immortale autore di Anna Bolena, di Lucia, di Lucrezia Borgia, di Poliuto, della Favorita e dell' Elisir, per non dir d' altri molti capolavori musicali, Gaetano Donizetti era giù morto, nè da lui quindi era possibile sperare l' acquisto d' altri spartiti, o la concessione d' alcun favore. E il gentile pensiero volle Francesco Lucca incarnare, allogandone l'esecuzione al valoroso cognato suo, lo scultore Giovanni Strozza, l'egregio autore dell' Ismaele e della colossale statua dell' Aronne, che può essere ammirata ancora nel cortile del nostro Arcivescovato.

(1) Francesco Lucca nacque in Cremona nel 1802; apprese dapprima in Milano l' arte dell' incisore nello stabilimento di Gio. Ricordi; quindi viaggiò all' estero e di ritorno in Milano ricco d' utili cognizioni, fondò quello stabilimento musicale, ch' egli fe' prosperare così da riuscire, come scrisse Filippo Filippi nella Perseveranza, uno de' più importanti d' Europa. Protesse efficacemente gli ingegni, soccorse quanti potè e si tenne sempre modesto e però fu amato da tutti e quando la sua preziosa vita si spense, ciò che avvenne nel 20 novembre 1872, fu generale il compianto in Milano ; i giornali cittadini e d'Italia ne ricordarono le virtù ed i meriti e i suoi funerali furono onorati da imponente corteo, in cui si videro addolorati i più riputati maestri ed artisti che si trovavano fra noi.

Ma la morte colse il generoso signor Lucca prima che l'opera scultoria fosse ultimata; e la sua degna vedova, la signora Giovannina Strazza, erede della di lui fortuna, come de' di lui nobili sentimenti, interprete della volontà del compianto marito e fedele esecutrice di essa, consegnava poscia al Municipio della nostra città la bella statua di Donizetti uscita dallo scalpello del suo illustre fratello e il Municipio ne inaugurava la collocazione nell'atrio del suo maggiore teatro nella sera del 10 marzo 1874, mentre sulle scene di esso rappresentavasi la Lucia di Lammermoor, l'appassionata e applauditissima opera dell'immortale maestro. Mentre le altre statue degli altri sommi maestri di musica italiani, che pur erano sorte, o sorsero di poi, furono elevate a spesa del Municipio nostro, perchè questo non ebbe almeno la giustizia di scolpire, nel basamento, a memoria di pubblica benemerenza, che l'opera era stata a spesa dell' unico signor Lucca? Fregiamo queste pagine del disegno della bella statua di questo grande maestro. Per quella solenne occasione, dell' inaugurazione di essa, la signora Giovannina Strazza pregava l'amico avv. Pier Ambrogio Curti, perchè si compiacesse unire a quella festa dell' arte la voce delle muse, memore, per avventura, che Gioia non è compiuta Quando la voce delle muse è muta ; e quel nostro amico non le seppe ricusare di compiacerla e il dì stesso le consegnava i richiesti versi, che ben si può dire, come anche il lettore potrà accorgersene di leggieri, essere stati dettati all' improvviso. E la Strenna de' Rachitici, adesso fra le memorie della Milano Nuova, crede abbiasi a tener conto di questo tratto di generosità che sommamente onora i signori coniugi Lucca, il cui nome è oramai assicurato alla storia dell'Arte Musicale per tante altre benemerenze, pubblicando il canto che ricorda appunto la collocazione del monumento al grande Maestro nel nostro Teatro alla Scala. IL COMPILATORE. GAETANO DONIZETTI. ODE. TEMPO di stolta ignavia E di codardi amori! Per lo stranier crescevano Solo d' Italia i fiori; Dalle segrete ai popoli Se un grido mai sorgea, Mostrando egli la martire, " Essa non è che un nome „ rispondea.

Pur risuonò di gloria Allor quel nome altero Per L' Eüterpe italica Nel gemino emisfero: Fra i plausi e fra le lagrime, Al suo divino accento, Ognun diceva: ha Italia Ancor scettro e regal paludamento.

Non più dei tristi secoli Or la vergogna dura, Sgombra è dal suolo ausonio La barbara sozzura: nostro affine il tritico De' nostri campi e il vino, Nostri de' fior’ l'effluvio la beltà dell'italo giardino.

L'alato inno sprigionasi Di libertà dal coro, Nè più matrigna Italia, Nega a' suoi grandi onore E tu, gentile Spirito, Dai generosi affetti, Potesti il voto solvere All'immortale amico, a DONIZETTI.

E poi che a lui di stringerti In un eterno amplesso Il fato inesorabile T' ha prima d'or concesso, Scendi su Pale agli angeli Dalle celesti sfere, Vedi siccome compiasi Or dalla pia consorte il tuo volere.

E a lui dirai: che memore Sempre l'Italia fia Delle divine mélodi Di Poliuto e Lucia; Fin che la mente a Italia Rifulgerà serena, Darà il miglior suo plauso A Borgia, a Favorita ed a Bolena.

Dirai: che invano il tempio Delle celesti Muse Alle straniere illecebre Invan tra noi si schiuse : Quel che si vuoi dagli Itali Ben altro é l'idioma, Che Dio ci diè l'angelica Arte del canto, come nostra è Roma;

Che sulla sacra soglia Or del canoro loco, Quasi tremendi arcangeli Colla spada di fuoco, Stan venerate immagini La sua e di Rossini, Che le superbie attutano Di chi avversa i lor numeri divini. P. A. CURTI. EXTRA MUROS.

RITTA sulla soglia della porta Susanna guardava davanti a nella via fangosa che si perdeva fra le casupole meschine del borgo, stelleggiata d'immondizie - vero ricettacolo dove fermentava il rifiuto di tutta la popolaglia del rione. Il cielo quasi dappertutto d'un bigio di funerale, allungava qua e là dei lembi di nuvole d' un colore piùcupo, e nelle mostre dei salumai lunghe fila di salsicciotti agganciati all'alto dello stipite, ondeggiavano al vento autunnale. Saliva da quella suburra alle nari un sentore acre di roba fradicia che inacutiva quando la brezza ingolfandosi nelle cavità delle botteghe ne usciva satura di molecole grasse : e su tutto incombeva la nebbia grigiastra, smòrta della città commerciante. Susanna guardava davanti a sè senza vedere, con le nari dilatate, aspirando il sudiciume - dati i capelli al vento come la criniera di una cavalla selvaggia - e dagli occhioni fissi con insistenza usciva un desiderio acuto di voluttà ad istanti intraviste, sognate la notte quando il sangue irrompente dalle arterie le negava il sonno : il seno opulento serrato nel logoro corpetto si sollevava a sbalzi - prepotente - intollerante della verginità - e dei rossori subitanei le imporporavano le guancie. Nella via dei bambini giuocando mostravano le loro nudità di impubere e un garzone di macellaio dalla spalle quadre, pipava sulla soglia della bottega colle maniche rimboccate fino al gomito sulle braccia muscolose e lo sparato della camiciola aperto - sul petto bianco. Lo sguardo della ragazza frisando sfuggevole le coscie nude dei bambini andava ad arrestarsi con compiacenza sulle nudità del giovanotto, seguendone i contorni robusti: - ella era scossa da un fremito nervoso d'isterica, chiudendo di quando in quando le palpebre sugli occhi stravolti colle movenze sornione di rara gatta in amore. Intanto in capo alla strada, dalla parte della campagna, veniva di trotto un cavaliere : Susanna girò la testa con un movimento brusco che svelava la nuca candida sotto la matassa dei capelli arruffati e allungò il collo - curiosa. - Il cavaliere alto, forte, colla fisonomia caratteristica dei servitori di nobile casa, alla vista della ragazza aveva messo al passo il suo cavallo e si ergeva impettito sulla sella, con delle arie da Don Giovanni, traendo sbuffi di fumo dallo sigaro pel quale forse non aveva speso i danari dal tabaccaio. Passò vicino alla giovane e chinandosi sulla testa del corsiero, colla mano guantata le sfiorò il viso sguaiatamente - poi diede di sproni. Susanna trasalì, e stette un pezzo a guardare il cavaliere che s'allontanava caracollando - macchia più scura sull' uniformità grigia del paesaggio - verso la città chiassosa, che si disegnava in lontananza in una nebbia opaca e dove - pensava - la vita scorreva brillante fra le orgie del senso e – tante - donne erano corteggiate, ricche, felici … E lei …

Quando Susanna con un gran fagotto di biancheria sudicia giunse al lavatoio, il luogo era già popolato. L'acqua della ròggia scorreva pigra sul fondo verdastro, e le donne accosciate nei loro stalli di legno, battevano i panni a grandi colpi di braccia : Susanna occupò il suo posto e si diè' a lavare con una specie di rabbia nervosa, arricciando il nasino nauseata nello svolgere i pannilani sporchi, imbrattati di macchie d' ogni natura. La maggior parte delle lavatrici erano madri di famiglia che avevano fretta di finire - alcune si erano tirate dietro i piccini che guazzavano nel fango - e ciarlavano poco ; solo qualche giovanotta barattava una parola con Susanna, facendo da portavoce colle mani, per soverchiare il frastuono dei colpi sonori dei battitoi. Erano discorsi frivoli che la ragazza ascoltava noncurante, col pensiero altrove ; china sulla ròggia si specchiava nell' acqua furtivamente, mirando con orgoglio la carne soda che le maniche tirate in su lasciavano scoperta. - Con quest'aria frizzante l’è un gusto maneggiare l'acqua fresca, - die' fuori a brontolare una donnona grassa che sudava sugna dal faccione rubicondo e mostrava sconciamente la pappagorgia avvizzita sotto il corpetto sbottonato. Susanna pensava che l'acqua fredda screpolava la pelle delle mani e che i ricchi portano guanti in ogni stagione - come il cavaliere che l'aveva accarezzata nel passare. Sarebbe tornato?!

Tutte le mattine Susanna l'aspettò nascosta nel vano dell'uscio … Era un domestico di famiglia signorile del quale aveva la fisonomia tipica, le labbra sottili accuratamente monde di peli e due fedine che gli listavano il muso di faina. Passava a cavallo, facendo scalpitare la sua bestia le cui zampe ferrate sull'acciottolato levavano a rumore tutto il quartiere ; - e ben presto il vicinato cominciò a mormorare sulla condotta di Susanna, e i buli del sobborgo specialmente, che puzzavano di cicca un miglio distante, e cui la bellezza provocante della ragazza irritava il sangue, avendo invano avanzato le loro proposte, si vendicavano di lei coi loro frizzi triviali. Ma ella alzava le spalle sfrontata, e tutta la sua persona si abbandonava al soffio della passione ; e il farabutto che trovava il terreno più facile di quel che non avesse sospettato, aveva degli atteggiamenti da gran signore, sfidando con spavalderia le occhiate invidiose e fumava sigarette mostrando di onorare, colla degnazione della sua presenza, il rione. - A Susanna parlava un linguaggio sdolcinato - da formolario amoroso - affascinandola colla descrizione del lusso della città ; e lei ascoltava col seno anelante, pendendo dalle labbra di lui, con un pensiero unico che le martellava nel cranio; poi quando se n'era partito restava come trasognata; in casa non lavorava più, chè la fatica le riusciva penosa, insopportabile, e lasciava far tutto alla mamma che non s'accorgeva di niente, nemmeno delle ciarle della gente; - e non poteva star ferma nel suo stambugio, saturo d'umidità e di miseria, ma usciva e stava delle ore a guardare verso la città che appariva la sera ravvolta in un chiarore rossastro d'incendio, insensibile al freddo, alla bruma, alla notte …

Quando una mattina le lavandaie recatesi al lavatoio, trovarono nell'acqua aggricciato un cadaverino abortito, la voce pubblica designò Susanna come la colpevole. Ma questa era sparita, e la mamma di lei che scopriva la cosa quando il male era fatto, si cacciava le mani nei capelli, vociando a squarciagola che la famiglia era disonorata e che ella non avrebbe sopravvissuto all' onta fatta al nome del suo povero ômo - e alla sera due guardie in perlustrazione la raccolsero di mezzo alla via sconciamente ubriaca. Susanna mutati abiti e nome furoreggia ora fra i giovanotti alla moda ; mentre qualcuno che prima di loro l' ha - conosciuta - sogghigna a fior di labbra. AMERIGO GARZONI. PAOLO FERRARI. PAOLO FERRARI.

PAOLO FERRARI, che dop Goldoni e Nota, raccolse il loro retaggio e tenne a' dì nostri il campo nella letteratura drammatica, ha diritto di prendere il suo posto d'onore nella Milano Nuova, e però trovi la commemorazione in questo volume; perchè se è vero che fu nativo di Modena, avendo colà spirato le prime aure di vita nel 5 aprile I822, puossi dire tuttavia che Milano fosse la città di sua elezione, quivi avendo composto la più parte di sue commedie, quivi ottenuti i suoi migliori trionfi e quivi finalmente dimorato per lungo tempo, chiamato perfino a rappresentarla nel Comunale Consiglio e professato dalla cattedra dell'Accademia Scientifico-Letteraria e qui cessato di vivere. Non presumiamo ridirne i particolari della operosa vita, perché troppo recente il lutto della nostra città per la di lui morte, che parve a tutti così inopinata, e troppo noti d'altronde per quanto ne scrissero in quella dolorosa occasione i fogli cittadini non solo, ma i giornali tutti d'Italia. D'altronde Leone Fortis, nelle sue Conversazioni della domenica e nel volume che pubblicò, con amore fraterno e critica intelligente, ne scrisse ampiamente e però vi rimandiamo i lettori nostri che amassero di più partitamente conoscerli: molto più che noi scriviamo questa commemorazione coll' aiuto della sola memoria come suppergiù farebbe un pittore o scultore chiamato a eseguire a memoria un ritratto, senza tampoco l'aiuto d'una fotografia. Come Ovidio, che ancor giovinetto tutto quanto facevasi a dire era verso, come egli stesso ne lasciò ricordato: Et quod tentebam dicere versus erat;

Paolo Ferrari fin da fanciullo aveva sentite le smanie di scrivere commedie, e come aveva fatto Goldoni, gittò pandette e codici, allo studio dei quali aveva atteso alla Università della sua città natale, dove nel 1845 ottenne anche la laurea nelle legali discipline. Le prime sue armi in teatro furono a Massa, dove suo padre era stato nominato governatore, con una picciola commedia nel dialetto di quella città, cui impose il titolo di Bartolomeo calzolaio, che poi rimaneggiò nella lingua e ridiede alle scene, mutandone il titolo, cioè chiamandola Il Testamento dello zio Venanzio. Quando le nostre Cinque Giornate iniziarono nel 1848 la rivoluzione, che riuscì più tardi alla indipendenza del nostro paese, Paolo Ferrari già tolto in sospetto pel suo patriottismo, che aveva traspirato da un suo giovanile romanzo, rifugiossi a Vignola e là scrisse Una festa da ballo in provincia ; poi Un'anima debole e quindi Un’anima forte, spiccandone al detto suo romanzo e il soggetto e i generosi sentimenti. Ma l' Italia non aveva fin allora intraveduto in lui il grande commediografo che si manifestò di poi. Fu nel Goldoni e le sue sedici commedie nuove, che Paolo Ferrari affermò il suo grande valore. L'Italia non aveva fino a tal tempo, colpa precipua delle passate condizioni politiche, quella propria vita sociale che potesse fornirti al commediografo i soggetti non solo, ma un carattere nazionale, e il pubblico doveva appagarsi di quanto gli veniva dal teatro straniero; tanto così che capocomici e attori facessero smorfie e opponessero rifiuti a qualunque lavoro che venisse loro presentato, il quale fosse uscito da penna italiana. Questa commedia medesima del Ferraci subiva dapprincipio la stessa sorte, in guisa che è appena se Filippo Berti l'accogliesse per le minuscole scene della scuola di declamazione in via Laura a Firenze, perchè Gustavo Modena perfino, il sommo attore ancora insuperato e Alamanno Morelli e altri intelligenti e rinomati artisti e capocomici non ne avean voluto sapere, anche di fronte a gratuita offerta. Prima che un'opera di ingegno italiano venisse accolta, era forza passare per umiliazioni, delusioni e sagrifici d'ogni maniera. Verdi, il celebrato autore di Nabucco, Rigoletto e Traviata, respinto dal milanese Conservatorio di musica come inetto a riuscire musicista, dovette all'insistenza di autorevoli protettori se potè far accogliere alla Scala il suo Nabucco. Altri esempi potrebbero essere citati, se dal resto non le fossero cose già pur troppo note. Dalle private scene di via Laura, dove da quel pubblico il Goldoni era stato calorosamente applaudito, passò a scene maggiori, e i teatri tutti della penisola videro questa commedia rappresentata con sempre crescente successo. Al vecchio Teatro Re, Milano pure applaudì alla bellissimi commedia nella quaresima del 1853 e gli fu aggiudicato il primato dei commediografi italiani viventi. La sua fama si confermò col Parini e la Satira, che datosi la prima volta nel settembre 1856 al teatro Alfieri di Torino, aveva conseguito l'onore delle più sincere congratulazioni di Cavour, di Rattazzi e di Mamiani; datasi nella nostra città alle stesse scene del Re, se meritò al suo autore dalla polizia dell'Austria lo sfratto, ebbe in ricambio dall'eletto pubblico di quel teatro le più aperte dimostrazioni d'entusiastico aggradimento. Paolo Ferrari con queste due commedie mostrò che non intendeva camminare nell'arringo che s'era proposto sulle orme altrui, accennava ad una propria scuola e in essa proseguì il suo cammino glorioso, chiusosi col dramma storico Fulvio Testi più volte rappresentatosi fra noi sulle scene dei Filodrammatici fra i plausi. Non ci siamo proposti di entrare in critiche dissertazioni su questa scuola del Ferrari e sopra ogni singola commedia di lui : nostro compito era quello unicamente di menzionare quasi per sommi capi i fasti della vita di questo illustre ingegno. Altri d'altronde ci hanno prevenuti; epperò ne basti, per rispondere pienamente allo scopo che ci siamo prefissi, dare qui il sommario di tutte le di lui produzioni, che i nostri lettori del resto conoscono diggià e ne apprezzarono più d' una volta certamente il valore; nella massima parte qual più, qual meno applaudita. Eccolo adunque, oltre le commedie già più sopra ricordate: La scuola degli innamorati - Una poltrona storica - Dolcezza e rigore - La medicina di una ragazza malata - La bottega di un cappellaio - Prosa - La donna e lo scettico - Il duello - Amore senza stima - Marianna - Il poltrone — Vecchie storie, ovvero Carbonari e Sanfedisti - Dante a Verona - L'attrice cameriera - Cause ed effetti - Il codicillo dello zio Venanzio - Persuadere, convincere e commuovere - Gli uomini serii - II suicidio - Il lion in ritiro - Amici e rivali - Il Ridicolo - II Cantoniere - Roberto Viglius - Nessuno va al campo - Il perdono, ossia Il delirio, in versi - Monumento Goldoni, 2 prologhi – Antonietta in collegio - Le due dame - Per vendetta - Il giovine ufficiale - Il signor Lorenzo - La separazione - False famiglie. Ma i riportati successi, ma il primato riconosciutogli da tutti i pubblici d'Italia non lo invanirono mai: modesto sempre e buono era largo d'incoraggiamento e di plauso agli altri che si cimentavano nell'ardua arringa del teatro, nè ci consta meritata l'accusa che si volle dargli da taluni che fosse a capo d' una consorteria preparatrice di successi letterari. Forse a ciò contribuiva l'amicizia che il legava a persone che si sapevano di partito. Abbiam già detto come a lui fosse stata affidata la cattedra di letteratura nella nostra Accademia Scientifico-Letteraria: questa egli aveva accettato anche prima di quando ebbe rinunziato ad essere direttore di una compagnia drammatica stabile in Roma. Alle sue lezioni traevano uditori ed anche gentili uditrici, dalla chiara ed amena esposizione, oltre gli scolari di quell' istituto, prova non dubbia della loro bontà. Di lui si ha pure una dotta introduzione storica nell'egregia opera sulla Legislazione e giurisprudenza dai Teatri dell'avv. Enrico Rosmini; ciò che dimostra per altro titolo come il suo ingegno non si restringesse a lavori scenici, ma fosse fornito di versatile coltura e dottrina. Ebbe Paolo Ferrari numerosa famiglia, che grandemente il confortò per ottima riuscita ; ebbe amici sinceri e l'affetto di quanti ebbero il bene di avvicinarlo. La sua morte, avvenuta nel giorno 8 marzo del corrente anno 1889 — lo abbiamo detto — fu lutto cittadino, divenne anzi di tutta Italia. Malgrado il tempo fosse piovoso, i suoi funerali furono onorati da una folla enorme di popolo; autorità e personaggi d’ ogni ordine ne seguirono il mortòro al nostro cimitero monumentale, dove ebbe splendide testimonianze di meritate lodi e di compianto. Il Consiglio comunale in solenne adunanza decretava la piazza de' Filodrammatici denominarsi quind'innanzi da Paolo Ferrari. P. A. C. DEL MIO VOLTO, DELLA MIA FIGURA, NON SONO PADRONE IO SOLO? DIALOGO SCENEGGIATO.

Persone del Dialogo. DONNA LUISA: coniugi DON ROBERTO: coniugi UN MINISTRO DI STATO UN PITTORE IL COADIUTORE DEL PAESE UN CONSIGLIERE D’APPELLO UN INGEGNERE UN AVVOCATO

(In villa di Don Roberto.) DONNA LUISA (con scherzosa solennità al Ministro). Eccellenza, posso offrirle un cognac? MINISTRO. Anche il cognac! e me lo offrite con quello sguardo seduttore! Volete proprio farmi perdere la gravità. DON ROBERTO (scherzoso). Un Ministro Segretario di Stato non perde la gravità per così poco. MINISTRO (a Donna Luisa con garbata galanteria). Bella cugina, mi garantite voi? DONNA LUISA (versandogli il cognac e sorridendo). Garantisco! (volgendosi al Coadiutore) E lei, cognac o chartreuse? COADIUTORE (con compunzione). Oh, donna Luisa, cognac, io! Con questo abito sacerdotale ! PITTORE. Vada là, che l'abito non fa il monaco. DONNA LUISA. Via. prenda la chartreuse dei reverendi padri benedettini di Grenoble. COADIUTORE. Piuttosto. — Grazie. PITTORE (scaldandosi al fuoco con le spalle rivolte al camino). Si ha un bel dire, ma, dopo pranzo, in campagna, con queste giornate d'autunno, un bel fuoco fa un gran piacere! INGEGNERE (sorbendo il caffè, lontano dal camino). Oh vergogna, un giovinotto come lei, nel vigore degli anni, quando il sangue bolle nelle vene! Guardi, noi, uomini maturi, come stiamo lontani dal fuoco. PITTORE. Caro Ingegnere, similia similibus: il fuoco che ho di dentro, mi fa amare il fuoco, che mi scalda di ... fuori (si ride). CONSIGLIERE (guardando una fotografia). Che stupendo ritratto, donna Luisa, e come è somigliante. Chi lo ha fatto? DONNA LUISA. Ricci. CONSIGLIERE. Veramente bello (mostra la fotografia agli altri). INGEGNERE. Sì, bello, proprio bello. PITTORE Sì, non c'è male; la posa è ben trovata; quella forma tonda del fondo, scuro; l'aggruppamento delle due bambine colla mamma; le tinte chiare degli abiti ... - c'è gusto, c' è sapore; è una delle pochissime fotografie in cui il fotografo ha saputo servirsi bene della macchina. DON ROBERTO (al camino, accendendo un sigaro). Cioè son io che ho saputo servir bene la macchina; pechè l'idea della posa è stata propria mia. MINISTRO. Me ne congratulo. Hai dato al ritratto un aspetto di quadretto raffaellesco veramente riuscitissimo. Del resto (volgendosi a donna Luisa) No si poteva trovare soggetto più degno. (Guardando la fotografia) Qui non c'è una mamma colle sue bambine; (a donna Luisa, con galanteria) ci sono tre sorelline. DON ROBERTO (con scherzosa serierà). Eccellenza. mi raccomando!... la gravità della carica ! .. . INGEGNERE (a donna Luisa). Ma io ho veduto un altro suo ritratto, ancora più bello, a Roma, esposto nella grande vetrina di Hoche; di formato grandissimo, figura intera, abito da ballo, décolleté, con un immenso cappello fantastico di piume. MINISTRO (a donna Luisa, con rimprovero scherzoso). Décolletèe in una vetrina ! DON ROBERTO (con sorpresa). Un ritratto grande, décolleté, col cappello?... che razza di toilette?... — A Roma, esposto da Hoche?... Non può essere. INGEGNERE. Anch'io ne sono rimasto un po' sorpreso; tanto più che faceva pendant con quello. pure bellissimo. di una ... orizzontale, molto nota alla capitale. Ma era proprio il ritratto di donna Luisa. DONNA LUISA (a don Roberto). Sarà, quello in costume del ballo di casa Grazioli, non ti ricordi? DON ROBERTO. Ah!... Ma, esposto in vetrina, e a far pendant al ritratto di una orizzontale! Chi ha permesso a Hoche di esporlo? DONNA LUISA. Io no certo, e trovo assai sconveniente che Hoche si sia presa la libertà di mettermi in vetrina a quel modo. PITTORE. Ah! ricordo di averlo veduto anch' io e notai anzi che la sua toilette (a donna Luisa) faceva risaltare maggiormente la toilette della orizzontale - toilette severa, tutt'altro che da orizzontale. Non ho bisogno di dire, anche senza imitare la galanteria del signor Ministro, che, malgrado la bellezza indiscutibile della orizzontale, nel confronto restava vincitrice donna Luisa. DONNA LUISA (seria). La Vittoria non mi lusinga, e il confronto mi offende. Trovo ingiustilicabile l'arbitrio del fotografo. DON ROBERTO. Hai ragione, e non permetterò certo che Hoche continui a servirsi del tuo ritratto per attirare clienti al suo stabilimento. E’ un abuso, è una vera mancanza di rispetto. PITTORE. Cosa vuoi fare? DON ROBERTO. Protesterò, farò ritirare il ritratto. PITTORE. C'era anche il ritratto del povero Depretis, in fotografia di uguale formato, fra donna Luisa e l'orizzontale, e ci faceva una figura ! ... là, cosa indeciso, come sempre, da qual parte voltarsi. Eppure egli non protestò; sebbene allora fosse ancor vivo e primo Ministro di sua Maestà. COADIUTORE (con compunzione). lo non sarei stato indeciso come l'onorevole Depretis. PITTORE. Ah si ! e da che parte si sarebbe voltato?' COADIUTORE. Ad ammirare la sola degna di rispetto. PITTORE. Ah ah! bravo Coadiutore! DON ROBERTO. Buon padrone il Depretis di lasciarsi fotografare, esporre in vetrina, e magari vendere. Ma quanto al ritratto di mia moglie è un caso ben diverso. MINISTRO. Vi sono dei riguardi, specialmente per il sesso gentile, che non permettono certe cose. PITTORE. Sta bene i riguardi; ma, astrattamente parlando, io credo che quando un fotografo ha fatto, con regolare incarico, il ritratto di una persona, la quale, per qualsiasi titolo, o perché è celebro, o perchè è illustre, o percbè è bella, suscita la curiosità del pubblico, passa esporre al pubblico quel ritratto, che è un prodotto dell’arte sua e serve appunto a richiamare sulla sua arte l'attenzione del pubblico. INGEGNERE. Non sono di questo avviso, o almeno trovo la sua teoria giusta soltanto in parte, e cioè in quanto riguarda i ritratti di persone, come direbbe Sbarbaro, pubbliche. Un ministro, un generale, un principe, Tamagno, la Duse, il Papa, che so io, sono tutte persone pubbliche: la loro effigie appartiene in certo modo al pubblico; e quindi il fotografo può liberamente riprodurre, esporre, vendere quelle effigi. DONNA LUISA. Senza permesso dell'effigiato? INGEGNERE. Naturalmente. DONNA LUISA. Ah, scusi, ma io credo che la sua teoria sia errata. MINISTRO. Io, dunque, essendo Ministro, non potrei impedire che si facciano del mio volto, della mia figura, quanti ritratti si vuole, e che si espongano al pubblico, e che si vendano - supposto che vi sia qualcuno che voglia comperarli? PITTORE E INGEGNERE. No, non potrebbe. MINISTRO. Ma come!? Ma, del mio volto, della mia persona sarò padrone io solo, spero?. - E se non mi garbasse di vedere la mia immagine per i canti delle vie o nelle vetrine dei negozi, non potrò impedirlo? Se trovassi l'umanità indegna di bearsi nel mio aspetto, non potrò negarglielo? PITTORE. Non può. DON ROBERTO. Credo anch'io che non potresti. E’ una quistione speciale.. Mi pare che vi sia di mezzo un interesso pubblico. CONSIGLIERE. Sarebbe una specie di espropriazione forzata per causa di pubblica utilità. PITTORE. Bravo. Ecco il magistrato, che trova il principio di diritto: espropriazione forzata per causa di pubblica utilità. COADIUTORE. E allora la pubblica utilità, a mio sommesso avviso, vi sarebbe anche nel caso, esempligrazia, di qualche bella immagine di virtuosa donna o madre. DON ROBERTO. Senza il pendant della orizzontale, spero. PITTORE. Va benissimo, Coadiutore! Sicuro: la bellezza estetica della donna è di pubblico interesse che sia diffusa, contemplata, ammirata. Proibire la libera riproduzione del bello femminile è porre un ingiusto ostacolo alla più nobile manifestazione della grande arte. DONNA LUISA. Questo interesse pubblico, di cui parlate, non mi va. La sua espropriazione forzata. caro Consigliere, mi pare una vera spogliazione. CONSIGLIERE. Definendo col concetto della espropriazione per pubblica utilità la idea dell' interesse pubblico, emossa da Don Roberto, io non mi sono pronunciato nè in un senso nè nell'altro. DONNA LUISA. Quale è dunque, la sua opinione? CONSIGLIERE. Premetto ... PITTORE (scherzosamente sentenzioso). Attesochè! … (Si sentono i campanelli e il rumor delle ruote di un un equipaggio, che entra in corte.) DON ROBERTO. Una carrozza. Chi sarà a quest'ora? PITTORE. Che sia il Dottore? (La carrozza si ferma e si sentono voci diverse) DONNA LUISA. Mi pare proprio lui. COADIUTORE. Direi che si è sentita anche la voce della Signora. PITTORE. Anche la dolce metà! (A Don Roberto scherzosamente) Preparati a far il tarocco e a perdere, per dovere di ospitalità, affinhcè la moglie del dottore non si arrabbi e non si vendichi tormentando il marito, povera vittima! DON ROBERTO. Stasera non me la sento proprio! DONNA LUISA (con rimprovero). Roberto! - Andiamo a incontrarli. (Mentre si avvia, entra il domestico e annuncia.) DOMESTICO. Il signor Avvocato. ROBERTO (incontrando festosamente l'Avvocato). Oh carissimo, che piacere! PITTORE (ugualmente). Benvenuto, Come stai? INGEGNERE (ugualmente). Egregio amico, come arrivi a proposito! AVVOCATO (fermandosi sulla porta). Oh Dio! quanto entusiasmo! Chi aspettavate? DON ROBERTO. Figurati! il Dottore colla dolce metà. AVVOCATO. Allora capisco il vostro entusiasmo al veder me. (Va a stringere Ia mano a Danna Luisa.) DONNA LUISA (stringendogli la mano). Vergogna! anche lei, uomo serio. di toga, unirsi a quei capi scarichi! Del resto lei arriva a proposito, ma per tutt'altro motivo. — Prende un caffè? AVVOCATO. Grazie, volentieri. — Eccellenza (stringe Ia mano al Ministro). DONNA LUISA. Senza zucchero, vero? AVVOCATO. Senza. - Mille grazie (prenda la tazza). Dunque, qual’è l'altro motivo del mio arrivo a proposito? Oh, caro Consigliere! (gli stringe la mano) me l'ha fatta grossa la Corte con quella sentenza. (Saluta gli altri e viene al camino, a scaldarsi, prendendo il caffè.) CONSIGLIERE. Come si fa; la Corte è rimasta impressionata dalla idea di favorire di più lo straniero in confronto del nazionale; è parsa un’ingiustizia. Ma io credo che la Cassazione riformerà. AVVOCATO. Grazie! Ma intanto? DONNA LUISA. Ma … dico ... è venuto a trovarci per parlare delle sue cause? AVVOCATO. Scusi, scusi, ha ragione. Eccomi tutto per lei. Bando alle dispute d'Avvocato! Basta bene che io le subisca nel mio studio e nei tribunali. Qui, accanto a lei, in questo delizioso salotto, tutt'altri pensieri... PITTORE. Ahi, ahi! DONNA LUISA (ridendo). Pur troppo, per questa volta, caro Avvocato, bisogna che si rassegni a una disputa legale. AVVOCATO. E c'entra anche lei? INGEGNERE. Essa ne fu l'origine. MINISTRO. E quindi l'argomento è bello. AVVOCATO. Allora sentiamo. DONNA LUISA. Riassumerò io lo stato della quistione. (Al Ministro) Dicono così, è vero, gli uomini seri'? MINISTRO (s'inchina sorridendo). DONNA LUISA (continuando con intonazione di scherzosa gravità). Si dimanda: se sia lecito fare il ritratto di persona vivente, e metterlo in mostra... AVVOCATO (continuando colla intonazione di donna Luisa) … e in vendita senza permesso della persona interessata. DONNA LUISA. Appunto. Come ha fatto a indovinare? AVVOCATO (scherrzosamente). Intuito legale! (Cambiando tono) No, no; mi è occorso, appunto in questi giorni, di studiare la quistione per un caso che vi si connette. — E quali erano le opinioni manifestate dai presenti? DONNA LUISA. Varie, naturalmente. Il più radicale di tutti ... AVVOCATO. Che sarà l'artista (accennando al Pittore). DONNA LUISA. Già: sostiene il principio della assoluta libertà. L' lngegnere … AVVOCATO. Positivo per professione, farà dei casi pratici. DONNA LUISA. Precisamente: ammette, cioè, la libertà di fare, esporre e vendere i ritratti, quando le persone fotografate sono o principi, o ministri, o cantanti celebri … AVVOCATO. Sì, insomma, persone comunque pubblicamente note. DONNA LUISA. E mio marito è pure di tale opinione, trovando che ciò, deriva da interesse pubblico: ma egli si oppone invece che possa esser lecito di vendere e di esporre i ritratti di una bella e rispettabile Signora. AVVOCATO. Per esempio di sua moglie. DON ROBERTO. Bravo! è proprio questo il punto di partenza della discussione. DONNA LUISA. Il Consigliere, senza pronunciarsi in un senso o in un altro, ha definito quel tale interesse pubblico... spogliazione ... no... Come ha detto? CONSIGLIERE. Espropriazione forzata per causa di pubblica utilità. DONNA LUISA. Ecco. - Il Coadiutore poi è di avviso che tale massima possa giustificare anche l' interesse pubblico di vedere liberamente diffusa e ammirata l'immagine di qualche bella virtuosa donna o madre. PITTORE (imitando scherzosamente, ma con garbo, lo stile e la compunzione del Coadiutore). Esempligrazia, la bella Maddalena, alla quale fu molto perdonato perchè molto amò. DONNA LUISA. Il cugino Ministro invece si oppone a qualunque libertà, combattendo in particolare le idee dell'Ingegnere nel caso degli uomini pubblici. COADIUTORE. Cicero pro domo sua. AVVOCATO. E Lei, donna Luisa, di che parere è? Perché - non ne dispiaccia agli altri - il suo parere mi preme sopra tutti. DONNA LUISA. Io non sono competente; ma, giudicando col mio sentimento di donna, mi pare che non debba esser lecito al primo fotografo venuto di fare il ritratto, per esempio, della Regina e di metterlo in mostra, chissà in quale compagnia, e venderlo per quattro soldi al primo capitato. Questo urta, secondo me, contro qualunque principio di delicatezza. Io poi non faccio distinzioni e credo che chiunque abbia diritto di opporsi al libero uso della sua effigie. AVVOCATO Si dice che la più semplice donna vale due volte un uomo. E io aggiungerò che vale due volte il più acuto giureconsulto. Ella, donna Luisa, ha il vero, esattissimo concetto del diritto in questione, e lo ha definito colla massima precisione, dicendo che chiunque ha diritto di opporsi al libero uso della sua effigie. Infatti se vi è un diritto naturale per eccellenza è quello della libertà, della piena e libera disponibilità della propria persona. Finchè io non offendo i diritti altrui, sono pienamente arbitro di me, sopra di me ho un dominio pieno; e quindi questo pieno dominio l' ho della mia figura, del mio volto, bello . . PITTORE. O brutto. AVVOCATO. ... che sia. MINISTRO. E’ quello che appunto dicevo io poco fa. AVVOCATO. Ma certo. Per conseguenza, chiunque può vietare che un fotografo, o un pittore, o un incisore riproduca in tutto o in parte il suo corpo ed esponga e smerci le riproduzioni. MINISTRO. Degli atti, degli scritti, delle parole di una persona può darsi che il pubblico abbia legittimo interesse, e quindi diritto, di essere informato e di chiedere anche conto. Ma così non è e non può essere riguardo alla figura. PITTORE. Adagio, adagio, protesto! la massima è troppo assoluta!. Il pittore, che fa un quadro storico, non deve avere il diritto di introdurre in esso i ritratti di tutti i personaggi, anche viventi, che parteciparono all’ avvenimento rappresentato nel quadro? -- Come lo storico ha diritto, e nessuno lo contesta, di raccontare quell’ avvenimento, nominando e descrivendo tutti quelli che ne furono attori, indicando la parte che vi ebbero e, se vuole, commentando, criticando, biasimando gli atti di ciascuno, così deve essere per il pittore, il quale è anch'esso uno storico: invece di raccontare i fatti, li rappresenta, li riproduce, e con tutta imparzialità, perchè non fa commenti, non emette giudizi. AVVOCATO. Qualche volta anche lo storico-pittore trova modo di far commenti e pronunciar condanne. A Milano, in una chiesa, che non voglio indicare, perchè vivono tutte le persone del caso che racconto, un insigne pittore ha dipinto a fresco la decollazione di un Santo. Il pittore, ha per cognato un individuo di pessimo animo. Questo individuo, nella triste circostanza di una grave sventura, toccata al pittore, aveva dato prova della sua mancanza di cuore. Il pittore — che in quei giorni, come potete immaginare, non trovava lena per attendere al quadro del Santo — indignato del contegno del cognato, ebbe una ispirazione: corse alla chiesa e nella figura del manigoldo, che leva la scure sul Santo, fece il ritratto del cognato -- figura splendidamente riuscita. DON ROBERTO. Bravissimo ! COADIUTOE Fecit indignatio imaginem. Lo sdegno guidò il pennello. AVVOCATO. Non vi pare che in quel caso il pittore abbia giudicato, condannato e punito? DONNA LUISA. Sì, ma fece benissimo, era nel suo diritto di uomo di cuore. COSIGLIERE. Giudicando col sentimento, anch' io approverei l'atto del pittore. Ma in linea di diritto, mi perdoni, donna Luisa, non potrei; perchè, anche supponendo che la pena fosse proporzionata alla colpa, il pittore si eresse a giudice e si fece giustizia da sè. AVVOCATO. Oh, è certo che il cognato potrebbe far causa per diffamazione. INGEGNERE. Per ottenere il risarcimento dei danni? AVVOCATO. E la cancellazione della sua figura, ossia della rassomiglianza ingiuriosa. DOSN ROBERTO. Ma credi che l'otterrebbe? AVVOCATO. Senza dubbio. DONNA LUISA (scherzosa). Perchè i tribunali sono composti dli uomini. Ma se ci fossimo noi su quei seggioloni! MINISTRO (scherzoso). Ne fareste di belle! AVVOCATO. Si sarebbe fortunati noi. PITTORE. Ma non altrettanto i poveri clienti, dei quali dovreste trattare le cause. - Torniamo alla mia osservazione, a cui nessuno ha risposto. Io dico, come l'Ingegnere, che vi sono persone votate alla pubblicità, uomini politici, generali, grandi scrittori, grandi artisti. La notorietà si attacca anche alla loro persona fisica, si impone ad essi... DON ROBERTO. Anzi sono essi che la cercano. PITTORE. E quindi debbono accettarne le conseguenze. Sarebbe bella che i personaggi dei grandi quadri storici di David, per esempio, o delle famose battaglie di Horace Vernet, avessero avuto il diritto di far cancellare da quegli immortali dipinti la loro figura e di costringere il pittore a sostituire al personaggio storico un individuo immaginario. INGEGNERE. Nella galleria dell'ala destra del Castello di Moncalieri, in fondo proprio alla galleria, c’è un grande quadro, non so di quale autore, rappresentante il Barone Ricasoli che porge a Vittorio Emanuele l'atto recante il plebiscito di annessione della Toscana al Regno d Italia. Oltre al Re e a Ricasoli, si vedono le figure di Cavour, di Lamarmora, e di molti altri personaggi storici. Sarebbe possibile immaginare che Lamarmora, Cavour, Ricasoli e gli altri avessero avuto facoltà di opporsi alla introduzione delle loro ligure in quel quadro ? PITTORE. Ma mai più. DON ROBERTO. Dove andrebbe a finire la pittura storica? CONSIGLIERE. Questo è vero. AVVOCATO. Sì, è vero. Ma adesso la quistione è stata spostata. Si parlava (sottolineando le parole) di ritratti fotografici. Ora io sostengo che quanto ai ritratti, semplici ritratti isolati, chiunque, senza far distinzioni, può vietare che sieno esposti e venduti; non solo per il motivo già detto dal signor Ministro, ma anche perchè l'aspetto di una persona non può essere oggetto che di una pura e semplice curiosità. Non sarà mai possibile parlare di un interesse, di un bene pubblico, che reclamino la contemplazione del volto o delle forme di questa o quella persona. PITTORE. Mah! secondo. L'aspetto di una seducente fanciulla dà certamente tale soddisfazione — purissima, estetica — che mi pare legittimo il desiderio di non esserne privati, a beneficio, per esempio, di un solo privilegiato. DON ROBERTO. Quando poi si tratta di persone pubbliche, io credo che neppure il semplice ritratto possa essere impedito. DONNA LUISA. Ma come si fa a stabilire bene la distinzione fra persone pubbliche e private? AVVOCATO. Bravissima. Quale è la linea di separazione fra la persona pubblica e la persona privata ? Uno, che è conosciuto da tutti gli abitanti del suo Comune, è ignoto a quelli del Circondario. COADIUTORE. Esempligrazia, il nostro reverendo Curato. Tutti in paese lo conoscono, è un uomo pubblico qui; fuori, nessuno sa che esista. E’ un Carneade, come direbbe don Abbondio. AVVOCATO. Ecco. Alcuno è celebre fra i filosofi, altri fra gli artisti, altri fra i giurisperiti — io, per esempio (scherzosamente) — altri è noto in tutto lo Stato, senza destare alcun interesse all'estero. CONSIGLIERE. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi fin che si vuole. AVVOCATO. Ma già; e quindi, come diceva donna Luisa, il distinguere non è possibile. Quasi mai, è vero, le persone, soggette per il loro ufficio, o per particolari loro qualità, al dominio della pubblicità, si oppongono a che sieno esposti e venduti i loro ritratti; ma ciò dipende dalla vanità umana. Un uomo è sempre lusingato di veder la gente ferma davanti al suo ritratto. Ciò non toglie che se a quell'uomo saltasse in monte di sottrarre il suo volto a quella exhibition, egli sarebbe nel pieno diritto di farlo. Nel caso poi della donna, la cosa è tanto più evidente e naturale. DON ROBERTO. Ah sì, in questo siamo pienamente d'accordo. Ma come? mia moglie interviene in casa Grazioli, a Roma, ad un ballo in costume, e dopo si fa rare il ritratto nel costume che aveva al ballo, e il fotografo, senza dir niente a noi, lo espone, nella sua vetrina insieme a quello di eguale formato di una donna... qualunque. Ma ti pare lecito questo? — La gente va là ad estasiarsi davanti alle bellezze di mia moglie ... DONNA LUISA. Roberto, andiamo! DOS ROBERTO (continuando). … le studiano, le confrontano con quelle della cocotte, ci fanno su mille commenti ... DOSA LUISA. Insomma! Roberto! AVVOCATO. Ah si, è cosa intollerabile. La poesia, il mistero, la riverente ammirazione, che debbono circondare la figura della donna, tanto maggiormente quanto è più grande la bellezza e la purezza della gentile persona, scompaiono del tutto, se date alla fotografia la libertà, che invochi tu, caro artista (al Pittore), per amore della tua grande arte. PITTORE. Avrai ragione, ma ci scommetto che i Tribunali non seguirebbero le tue idee; che sono idee da poeta e non da avvocato. Che ne dice lei, Consigliere? CONSlGLIERE:. Mi spiace, ma veramente gli Scrittori e i Tribunali si schierarono finora dalla parte del signor Avvocato. INGEGNERE. Ah sì? vi furono casi giudicati dai Tribunali? AVVOCATO. Altro, specialmente in Francia. Citerò un caso celebre. Mayer e Pierson, fotografi di Parigi, avevano fatto i ritratti di Napoleone III e del Duca di Mornv, nel tempo della massima gloria del caduto di Sedan. Vi era quindi gran ricerca di quei ritratti. Qualche fotografo riprodusse le fotografie di Mayer e Pierson e le mise in commercio. Maver e Pierson mossero causa, e la Cassazione francese, con una sentenza del 1864, se non erro, diene ragione a Mayer e Pierson, affermando che può bensì, in virtù di un diritto naturale, la persona, di cui si riproduco l'immagine, impedire al fotografo di fare, di esporre e dli vendere il ritratto: ma una volta che questo è fatto e messo in commercio senza opposizione della persona interessata, nessuno può riprodurlo, senza violare il diritto d'autore del fotografo che lo fece per il primo. CONSIGLIERE. Il che non vuoi dire che colui, il quale non oppose difficoltà alla esposizione e alla vendita de' suoi ritratti, abbia perduto per sempre il diritto d'impedire in seguito che si continui a riprodurre e a vendere tale sua fotografia. Anche questo fu giudicato a Parigi. Alessandro Dumas padre sembra che avesse delle speciali simpatie per una damigella Adah Menken, artista di teatro. DONNA LUISA (scherzosamente severa). Mi raccomando, Consigliere ! GLI ALTRI. Avanti, avanti! DONNA LUISA. E’ presentabile la storia? CONSIGLIERE. Oh, presentabilissima. DONNA LUISA (sorridendo). Mah, perchè loro signori, abituati a giudicare di tutto, non vedono che la fattispecie. CONSIGLIERE. Stia tranquilla. La fattispecie di questa volta (sorridendo) è davvero presentabile, anche ad una signora. Dunque. Dumas e la signorina Menken, un giorno, nel 1867 mi pare, si recarono da un fotografo di Parigi, e si fecero ritrattare in diverse pose, insieme e separatamente. PITTORE. Si reclama, per la verità storica, qualche maggior particolare intorno alle pose. DONNA LUISA. Lo proibisco! (scherzosamente). CONSIGLIERE. Il fotografo, qualche giorno dopo, inviava in dono a Dumas un certo numero di copie delle fotografie, e poi esponeva le fotografie al pubblico. Questa esposizione, sia per il genere delle pose ... PITTORE. Insomma. è indispensabile che sieno descritte le pose; altrimenti non si può apprezzare il racconto. DONNA LUISA. Insomma non voglio. CONSIGLIERE. Dunque, sia per il genere delle pose, sia per le persone che ne erano il soggetto, nei teatri e nei giornali si parlò molto di quelle fotografie, e in modo piuttosto mordace per Dumas; tantochè Dumas promosse causa al fotografo, per fargli proibire la pubblicazione e la vendita di quei ritratti, sostenendo che non erano destinati alla pubblicità. INGEGNERE. Dal momento che l' illustre Dumas non aveva creduto di derogare, andando dal fotografo spontaneamente colla signorina Menken ... CONSIGLIERE. Anzi aderendo all'invito del fotografo. INGEGNERE. Tanto più … e si era fatto fare i ritratti ... PITTORE. In pose... più o meno plastiche. INGEGNERE. ... doveva ben sapere che il fotografo non faceva quei ritratti per tenerseli poi da contemplare segretamente. PITTORE. Fossero stati soltanto i ritratti della signorina Adah ... in quelle pose ... si potrebbe capire. DONNA LUISA (scherzosa). Vi richiamo all' ordine, e, se non la finite coi vostri commenti, vi manderò via. CONSIGLIERE. E’ da notarsi che il fotografo non si fece menomamente pagare, ed anzi offerse in dono al Dumas, come già dissi, alcune copie delle varie pose. MINISTRO. Allora, poi, Dumas avrà perduta la causa. CONSIGLIERE. La perdette infatti in prima istanza davanti al Tribunale Civile della Senna; il quale, considerato le circostanze, ritenne che da esse scaturiva una autorizzazione per lo meno tacita di esporre e di vendere le fotografie. MISINTRO. Il Tribunale non poteva sentenziare diversamente. DON ROBERTO. Sfido io! AVVOCATO. Scusate, ma non sono di questo parere. Il Tribunale ha dato a quella tacita autorizzazione una portata troppo estesa, produttiva di effetti, che potevano eccedere le previsioni di Dumas. MINISTRO (scherzosamente). Famosi gli avvocati, per trovare appigli contro qualunque sentenza. INGEGNERE. Non sarebbero avvocati (sorridendo). AVVOCATO. No, permettete, qui non è il caso di appigli o di rampini. Io, se fossi stato l'Avvocato di Dumas, lo avrei con piena coscienza, consigliato di appellare. CONSIGLIERE. Infatti Dumas appellò, offrendo di rimborsare il prezzo dei negativi, di cui domandava la distruzione — e la Corte di Parigi opinò — mi pare che la sentenza sia del maggio 1867 — che, in seguito alla convenzione tacita, verificatasi tra il Dumas e il fotografo, quest'ultimo aveva potuto ritenersi autorizzato a pubblicare quelle fotografie, a condizione di non chiedere a Dumas il prezzo di quelle a lui date; che tale era del resto l'uso in materia di produzioni fotografiche; ma che (sottolineando le parole) questo stesso uso vuole che la pubblicazione e la vendita cessino, allorquando chi le autorizzò tacitamente dichiara di ritirare la sua autorizzazione e offre il prezzo del lavoro del fotografo ; che -- come accennava ora l'Avvocato -- nel consenso tacito non si può (sottolineando le parole) ravvisare una concessione definitiva e perpetua del diritto di pubblicare ritratti fotografici; mentre per questo sarebbe necessaria una vera convenzione e non una semplice tolleranza, la misura della quale è sempre a disposizione di chi l'adopera. AVVOCATO. Giustissimo. DONNA LUISA. Non dico che la Corte d' Appello abbia male giudicato; ma il signor Dumas avrebbe meritata una lezione. CONSIGLIERE. Oh l'ebbe e abbastanza severa! COADIUTORE. Ah sì? CONSIGLIERE. La Corte, nei motivi della sentenza, disse: che mille circostanze possono giustificare la cessazione della tolleranza o la revoca revoca della autorizzazione, e che l' effetto stesso della pubblicazione può avvertire quegli che la permise - qui comincia la lezione a Dumas - come egli (sottolineando le parole) abbia dimenticato, autorizzandola, di pensare alla propria dignità - può ricordargli che, (sottolineando Ie parole) se la vita privata deve essere sottratta agli sguardi altrui nell'interesse individuale, lo deve essere anche, spesso, nell'interesse dei costumi e del rispetto, che ciascuno deve all' opinione pubblica. DONNA LUISA. Molto bene. MINITRO. Bisogna che convenga che trovo ineccepibile la decisione della Corte. INGEGNERE. Ma, è un fatto che neppur io saprei trovarci a ridire. AVVOCATO. Vedete? E poco fa: eh già, gli Avvocati!... famosi per trovar rampini! DONNA LUISA. Poveri Avvocati, sempre calunniati! AVVOCATO (con galanteria). Purchè ci difenda il sesso gentile, ci lascieremo calunniare dagli altri a loro talento. DONNA LUIS. Sempre amabile. AVVOCATO. Del resto il caso di Dumas padre me ne ricorda un altro analogo e graziosissimo toccato a Dumas figlio. PITTORE. Un'altra damigella Adah Menken in pose? DONNA LUISA (con scherzoso gesto di minaccia ). Pittore! DON ROBERTO. Oh bella! Pare che i signori Dumas fossero destinati alla celebrità fotografica di padre in figlio. AVVOCATO. Per il figlio non si tratta di fotografie. State a sentire che la storia è piccante. -- Il pittore Jaquet di Parigi aveva esposto al .Salon nel 1881 un quadro intitolato La première arrivée. Non so che cosa rappresentasse, ma il quadro aveva ottenuto molto successo. Dumas figlio lo comperò, lesinando un poco sul prezzo, e l'artista si contentò del minor prezzo offertogli, per un certo sentimento di omaggio all'insigne drammaturgo. Dumas, appena fatto l'acquisto, rivendette il quadro, facendovi sopra un rilevante guadagno. PITTORE. Esoso! DONNA LUISA. Oh che indegnità! MINISTRO. Ma sarà poi vero? AVVOCATO. E’ storico. INGEGNERE E DON ROBERTO. Che vergogna! CONSIGLIERE. L'atto del Dumas è brutto, ma era nel suo diritto. AVVOCATO. Jaquet seppe la cosa — e potete figurarvi se andò sulle furie. Pensò a vendicarsi, e nel febbraio del 1882, alla esposizione degli acquarellisti nella galleria del signor Giorgio Petit, faceva un gran chiasso un acquerello del Jaquet, rappresentante un bazar orientale, nel mezzo del quale stava un mercante, avvolto nel tradizionale caffetano e seduto alla turca. Il mercante era il ritratto perfetto di Dumas e sotto al ritratto c'era il titolo Le marchand juif. (Ilarità generale.) DONNA LUISA. Ah bellissimo, bellissimo! MINISTRO. La vendetta è fiera, ma ben meritata (rivolgendosi all’Avvocato). E analoga a quella da lei raccontata poco fa, di quel pittore del Santo. DON ROBERTo. Ma c'è più spirito. INGEGNERE. Stupenda! COADIUTORE. Accipe ! Piglia su! PITTORE. Bravo Jaquet! riconosco il confratello. AVVOCATO. Il tout Paris, come dicono i giornalisti, era felice di quella satira al poco simpatico drammaturgo. Ognuno correva alla esposizione degli acquarelli. Davanti al bazar di Jaquet c' era la folla, non si poteva muoversi, quantunque i sorveglianti gridassero il solito: Circulez, Messieurs, circulez. Pensate che scandalo. CONSIGLIERE. Dumas si sarà risentito. AVVOCATO. Il primo a risentirsi fu il genero di Dumas. il signor Lipmann; che andò all'esposizione e lacerò il volto del mercante turco. Poi Dumas ottenne dal Presidente del Tribunale Civile l' ordine che fosse ritirato il quadro dalla esposizione e dato in custodia al signor Giorgio Petit — come fu infatti — fino a decisione del Tribunale sulle domande che, entro 8 giorni, doveva Dumas presentare. La causa ebbe luogo, e l'insigne avvocato Demange, che difendeva Jaquet, sostenne la tesi che Dumas, scrittore celebre, uomo pubblico, non poteva impedire la riproduzione del suo volto, essendo tale riproduzione ormai di dominio pubblico, e che d' altronde l'atto di Jaquet non conteneva nè diffamazione, nè ingiuria ma soltanto una satira, una caricatura, pungente è vero, ma giustificata. PITTORE. Benissimo. AVVOCATO. L’Avvocato di Dumas — adesso non mi ricordo il nome — sostenne, naturalmente, che l'essere celebre e uomo pubblico, non toglie il pieno dominio che ognuno ha della propria figura, del proprio volto, e che poi l’atto di Jaquet era diffamatorio, ingiurioso, eccetera, eccetera. INGEGNERE. E il Tribunale? DON ROBERTO. Avrà, come al solito, dato un calcio alla botte e uno al cerchio. AVVOCATO. Presso a poco, ma con ragione. Il Tribunale, proclamando ancora una volta il principio che non si può esporre il ritratto di una persona senza l'autorizzazione di essa, e tanto meno quando col ritratto l'artista ha manifestamente ceduto a un pensiero di denigrazione, nello scopo di portare offesa alla persona ritrattata, vietò a Jaquet di esporre e di vendere il quadro; ma respinse la domanda di Dumas, il quale voleva che fosse ordinata la distruzione dell'acquarello e fosse condannato il Jaquet a risarcirgli i danni morali. CONSIGLIERE. Mi sembra una sentenza correttissima. INGEGNERE. E’ andato in appello Dumas? AVVOCATO. No, la causa finì lì. DON ROBERTO. Insomma però vinse Dumas. DONNA LUISA. Vittoria giuridica, ma condanna morale. AVVOCATO. Vedete, dunque, che i Tribunali francesi, come del resto la massima parte degli scrittori di diritto, non ammettono — neppure nel caso di persona pubblica o celebre — eccezione qualsiasi alla regola che ciascuno è padrone della propria figura, e riconobbero anche che tale diritto passa, come qualunque altro, agli eredi. MINISTRO. Questo poi mi pare troppo. INGEGNERE. Io potrei quindi impedire che si venda o si esponga il ritratto di mio padre generale? CONSIGLIERE. Perchò no? DONNA LUISA. Ma si; vi possono essere ragioni di affetto, dli rispetto, che impongono ad un figlio dli non permettere che si vendano i ritratti del padre. Mi pare naturalissimo. AVVOCATO. Precisamente: e potrei citare un altro caso celebre, giudicato in Francia, se non mi paresse ora di chiudere l'incidente. DONNA. LUISA. Sentiamo anche questo caso, eppoi il Consigliere, tenuto conto di tutto quello che si è detto, pronuncierà la sua sentenza sulle questioni trattate. (all'Avvocato). Avanti, Avvocato. AVVOCATO (schermendosi). Ma, veramente ... mi sembra . DONNA LUISA. Andiamo, non si faccia pregare. PITTORE. Quando poi avrà cominciato non si saprà come fare a farlo finire. DON ROBERTO. Fuori l'ultimo raccontino — poi si giuocherà la solita poule al bigliardo. GLI ALTRI (all'Avvocato). Avanti, presto. AVVOCATO. Insomma, ecco quà. — Quando morì la celebre tragica Rachel ... INGEGNERE. Io non so come facciano gli avvocati ad aver sempre pronto un qualche bel caso. COADIUTORE. Hanno tanta immaginazione! PITTORE. Già, quando non ne hanno di veri, li inventano. AVVOCATO (scherzoso). Allora io non vado avanti. DONNA LUISA (con scherzosa solennità). Signori, non interrompano. Prosegua, onorevole Avvocato. AVVOCATO. Dunque, quando morì la Rachel, la sorella di lei, Sarah Felix, incaricò i fotografi Crette e Ghemar di ricavarne il ritratto dal suo letto di morte; stipulando espressamente che tale ritratto sarebbe rimasto proprietà esclusiva di essa e che i fotografi non avrebbero potuto comunicarne copia ad alcuno. Qualche tempo dopo, presso Goupil, la rinomata Casa Editrice, di cui (scherzosamente) ho l'onore di essere l'Avvocato in Italia. PITTORE (scherzosamente). Con studio via tale, numero tale, consultazioni gratis alle belle clienti. (Tutti ridono.) AVVOCATO (ridendo anch'esso, continua). Presso Goupil fu esposto e messo in vendita un disegno a matita, firmato dalla signora O'Connel, ricavato, non interamente, ma nelle parti principali dalla fotografia di Crette e Ghemar. La Sarah Felix promosse causa, e il Tribunale Civile della Senna ordinò la distruzione di tutte le copie e di tutti i disegni ricavati dalle dette fotografie. La motivazione della sentenza mi è rimasta impressa, perchè è ispirata da un sentimento molto delicato e fine. DONNSA LUISA. Cosa diceva la sentenza? AVVOCATO. Diceva, presso a poco. che nessuno può, (sottolineando le parole) senza il permesso formale della famiglia, riprodurre e dare alla pubblicità i tratti di una persona morta, sul suo letto di morte. PITTORE. Già, viva sul suo letto di morte, non si potrebbe dire. (Si ride) AVVOCATO (ridendo anch'esso, continua) ... e ciò qualunque sia stata la celebrità di quella persona e la maggiore o minore pubblicità che si sia attaccata agli atti della sua vita; che il diritto di opporsi alla riproduzione è assoluto; che ha il suo fondamento nel rispetto imposto dal dolore delle famiglie, e che non si potrebbe disconoscerlo senza offendere i sentimenti i più intimi e i più rispettabili della pietà domestica. DONNA LUISA. Ah, molto bene! Non credevo i Tribunali così sensibili. CONSIGLIERE. Anche noi abbiamo delle famiglie; anche noi abbiamo purtroppo dei dolori. DONNA LUISA. E anche loro sono uomini di cuore, migliori di molti altri. CONSIGLIERE (s'inchina, in atto di grato assentimento). DONNA LUISA Orbene, adesso, giudicando come magistrato e come uomo di cuore, pronunci la sua sentenza. CONSIGLIERE. Ella mi impone un arduo compito. Le quistioni solo molte e complesse. Non è possibile formulare una soluzione precisa, che comprenda tutti i casi diversi. AVVOCATO. Lo credo anch'io assai difficile. MINISTRO. Bisognerebbe che il nostro gentile presidente (a donna Luisa, con galanteria) proponesse al Consigliere dei quesiti distinti. CONSIGLIERE. Allora mi azzarderei di rispondere. DONNA LUISA. Ma, non è facile neanche formulare i quesiti. — Basta, proverò. -- Dunque (con scherzosa solennità) quesito primo: Esiste un diritto naturale di proprietà, avente per oggetto la figura, il volto di una persona? CONSIGLIERE. Sono d'avviso che esista, come derivazione o parte del maggior diritto, che tutta comprende la persona co' suoi vari attributi. DONNA LUIISA. Quesito secondo: Tale diritto è esso illimitato, assoluto? CONSIGLIERE. In senso astratto, è un diritto assoluto; ma, in senso positivo, va anch'esso soggetto a delle restrizioni speciali, come qualunque altro diritto, a seconda dei casi e delle persone. DONNA LUISA. Quesito terzo: (Scherzosamente) Quid — come diceva sempre il povero babbo — quid nel caso del ritratto puro e semplice, in fotografia, in pittura, in acquarello, o in altra forma? CONSIGLIERE. In tal caso il diritto della persona non subisce alcuna limitazione ; potranno tuttavia il pittore, il fotografo, lo scultore, fare, esporre, e vendere liberamente i ritratti, nella presunzione semplice di non opposizione della persona ritratta; ma salvo a questa il diritto, come di dare, così di revocare, in qualunque momento, il consenso, anche se dato esplicitamente. DONNA LUISA (sempre con scherzosa prosopopea). Quesito quarto : quid nel caso della pittura storica? CONSIGLIERE. In tal caso il diritto della persona viene limitato dai diritti della Storia; quindi nessuno potrà opporsi a che la sua immagine sia riprodotta nel quadro rappresentante un avvenimento al quale la persona partecipò ; purchè, ben inteso, la parte che nel quadro si attribuisce alla persona sia quella che la persona ebbe in realtà nell'avvenimento — e salva sempre l’azione contro la diffamazione o l'ingiuria, secondo i principii generali che regolano questi argomenti. DONNA LUISA (dopo aver riflettuto un momento). Mi pare che non vi siano altri quesiti?... Ah sì, ancora uno. Quesito quinto ed ultimo : Si deve far distinzione fra persone pubbliche e private? CONSIGLIERE. No, signora. i principii, che ho accennato rispondendo agli altri quesiti, contengono le sole distinzioni possibili e, secondo me, le sole razionali e giuste. COADIUTORE. Dixit et optime dixit; functus est munere suo. Disse ottimamente, ha esaurito il compito suo. DONNA LUIISA (al Consigliere, con amabilità). Benissimo! Bravissimo! DON ROBERTO (al Consigliere, complimentandolo). Perfettamente. Così io potrò impedire a Hoche di esporre il ritratto di mia moglie alle irriverenti ammirazioni della gente e a far pendant al ritratto d'una... orizzontale. CONSIGLIERE. Sicuro. INGEGNERE (al Consigliere). Ella ha saputo dare splendida forma ai concetti che io, malamente, avevo esposti. CONSIGLIERE (con un po' d' ironia). Oh, troppo buono! MINISTRO (stringendo la mano al Consigliere e con scherzosa superbia). Io. dunque, mi rassegnerò ai diritti della Storia. PITTORE (scherzosamente al Consigliere). Mi pare che lei abbia trascurato i diritti dell' arte sul bello femminile. Basta, ha salvato la pittura storica, e per questo le perdono. AVVOCATO. Consigliere, i miei sinceri complimenti. Ella ha dato a tutti i quesiti soluzioni ineccepibili. PITTORE. Bel caso che un Avvocato non trovi a ridire! AVVOCATO. No, davvero. Quelle soluzioni, poi, a me, come Avvocato, piacciono tanto più in quanto offrono largo campo allo spirito litigioso e alla contraddizione. PITTORE. Grazie tanto! e le chiama soluzioni ineccepibili! DONNA LUISA. Ed ora basta. L'argomento è esaurito e il bigliardo è acceso. Andiamo. (Si avviano tutti alla sala di bigliardo.)

Milano. 14 ottobre 1889 AVV. AUGUSTO FERRARI. IL GIUBILEO ARTISTICO DEL MAESTRO GIUSEPPE VERDI 16 novembre 1889.

GIUSEPPE VERDI da Busseto nel Parmigiano, avuti i primi rudimenti musicali nel suo paese dal suonatore d'organo della sua parrocchia, conducevasi a Milano, aspirando di poter entrare nel Conservatorio di musica a farvi la sua educazione, sentendosi potentemente chiamato a divenirne maestro. Il nostro Conservatorio aveva allora a suo capo quel maestro Vaccai, elle con altri pregevoli lavori, lasciò quelle immortali pagine della Giulietta e Romeo, che surrogano sempre l'ultimo atto dei Capuleti e Montecchi del sommo Bellini, perchè meglio di costui interpretò gli ultimi momenti dei due infelici amanti di Verona. Altri egregi maestri illustravano quel nostro istituto, quali Ray, Mauri, Ferrara, Cavallini, Rabboni, ecc. Non parrà vero che questi egregi non avessero intuito nel giovinetto bussetano un'eminente vocazione musicale, perchè all'esperimento per la di lui accettazione, lo ritennero di non possibile riuscita, e non gli dissero il dignus es intrare. Respinto dal palazzo della Passione, Giuseppe Verdi non per questo si scoraggiò e come che per le umili condizioni di fortuna gli nuocesse l'esclusione, indefesso attese egualmente nella nostra città allo studio di quell'arte, che Dante chiamò a Dio quasi nepote. Divideva allora una stanza con Temistocle Solera, divenuto dopo il suo poeta e prima musicò gli Inni sacri di Manzoni, che non ebbero grande fortuna, perchè il suo nome non era per anco rivestito d’alcun raggio di gloria. Ma il suo genio gli additava il sentiero che doveva percorrere, quello dell'operista. Temistocle Solera gli era al fianco e gli scrisse l' Oberto conte di San Bonifacio. Era un libretto, che dopo quei di Felice Romani, poteva dirsi scritto con lodevoli versi, e Verdi lo musicò. Anche allora era difficile ad un giovane maestro farsi dischiudere i battenti d'un teatro, molto più in quei giorni in cui il maestro Nicolai col suo Templario aveva fatto preconizzare in lui quegli che avrebbe degnamente surrogato Donizetti, pronostico per altro compiutamente fallito, ed è appena se il suo nome vien ricordato. Ma Verdi potè nel 16 novembre 1839 esporre sulle scene del nostro maggior teatro il suo primo spartito, l’ Oberto conte di San Bonifacio. Fortunato ne fu l'esito, quantunque non tale da far proclamare il suo autore per un gran maestro, e intatti di molto ci volle ancora perchè gli si riaprissero le porte della Scala. Fu dovuto alle calde ed efficaci mediazioni dell'ottimo ingegnere Francesco Pasetti se l'impresario Bartolomeo Merelli, d'altronde espertissimo, gli concesse musicare un secondo libretto di Solera, il Nabucco, che suscitò poi alla sua rappresentazione decisi e giusti entusiasmi, che si rinnovarono forse maggiori ad una terza opera, I Lombardi alla prima crociata, e così via via ad ogni suo nuovo spartito, e non interrotti mai per i tanti capolavori che ognuno conosce e che ci dispensiamo dal partitamente ricordare. L'Italia ebbe ancora il suo maestro ; perocchè i grandi che avevano fin allora deliziato e lei e il restante mondo si erano chiusi nel più assoluto silenzio. Cinquant' anni sono trascorsi dal 16 novembre 1839 e Milano intendeva celebrare l'artistico giubileo di tanto maestro, al quale già eresse una statua, onore raramente concesso ai vivi, nell' atrio del massimo suo teatro, che fu l' arringo migliore delle sue glorie; ma Giuseppe Verdi non permise che si indicessero feste per lui, come erano state immaginate, pago della memoria e dell'altissima stima che di lui serbavano i Milanesi. La stampa tuttavia, cittadina non solo, ma anche di altre città d' Italia, commemorarono questa data del 16 novembre 1839 nel 16l novembre del corrente anno 1889, ricordando le opere dell' immortale maestro, e noi pure volevamo che questa data venisse eziandio nella nostra strenna mentovata, come già è impressa nella storia dell'Arte. Mai non fu maestro, che più di Verdi, fosse fortunato e onorato di continui successi: una sola volta egli cadde e fu nell' Un giorno di regno, che lo ammonì come la sua musa non era pel genere giocoso, e fece bene a non ritentarlo più, quantunque anche quella caduta fosse avvenuta in condizioni turbatissitue d'animo per la morte della sua prima consorte. Fu la fama procacciatagli dalle sue opere che gli valse un seggio in Parlamento, dove speravasi che avrebbe portato la sua parola, almeno quando si sarebbe trattato dei Diritti d'autore; ma tutto il suo lavoro parlamentare si ridusse a scrivere una fuga sulle parole Ai voti! Ai voti! che si sogliono gridare dai rappresentanti della nazione, quando lor pare che la discussione d' una questione sia esaurita. (1) Da queste sue fatiche di deputato venne mandato a riposarsi nella Camera vitalizia. Sì, egli è senatore e decorato di non sapremmo quante croci di cavaliere e di commende, di medaglie d'oro e di diplomi d'Accademie e di Società e Circoli artistici. A suo onore Milano gli destina, dicesi, la consacrazione d'una via, e sarà quella che ora si appella da S. Giuseppe, come che quella via fiancheggi il tempio artistico in cui Giuseppe Verdi apparve per la prima valla come stella fulgente sull' orizzonte musicale e in cui, malgrado i suoi settantacinque anni, dalla robusta sua costituzione e dalla splendida sua immaginazione, facciamo voti che Otello non sia stata l'ultima sua ereazione. A. C.

(1) Storico, questo particolare lo ebbi dal compianto amico mio Pasquale Stanislao Mancini, che sedeva a fianco di Verdi nella sala dei Cinquecento in Firenze.