Wikisource:Collaborazioni/SBM/testi/Milano sconosciuta e Milano moderna Valera

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MILANO SCONOSCIUTA E MILANO MODERNA PAOLO VALERA MILANO SCONOSCIUTA MILANO MODERNA Documenti umani illustrati È un lavoro che va via ululando per le anfrattuosità cittadine per chiamar gente intorno alle immondizie sociali.

MILANO SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE 1898. [Didascalia immagine:]Perdute di via Vetraschi e stretta Calusca.

I. Che cosa faremo. Il vero è quello, il vero è la sua scusa : Peggio per voi se lo faceste tale. L. STECCHETTI.

Non scriviamo un romanzo à sensation. Noi, anzichè darvi il benvenuto nelle dorate sale onde emanano gli effluvii di mille grati odori, vi condurremo nei luoghi più orridi e spaventevoli: dalla cella di S. Antonio (1) all'ergastolo di Porta Nuova ; dalla stamberga alla cascina; dal baccalin all'androne di un ospedale; dalla locandaccia alla guardina; dalla palazzina alla soffitta abitata dalla mercantessa di baci ; dalla scuola di ballo al cimitero.

(I) Il lettore non dimentichi che La Milano sconosciuta è stata scritta nel 79. Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata I. Lascieremo dietro le nostre spalle i sontuosi palazzi e le vie superbe, ove affluiscono il fasto e l' opulenza, e ci avvieremo per i guazzi delle sinuose viuzze, ove rigurgita la torma dei pezzenti, cui la società incivilita ha coattizzata al margine sociale. Non avremo paura di sprofondarci nei bassi fondi sociali per studiare, rovistare, scandagliare nelle più intime latebre la popolazione che vivacchia nel sottosuolo della risosottopoli. Ci ficcheremo senza turarci il naso per certi sconosciuti cul-de-sac, e di là saliremo in certe stanzacce d'ogni luce mute, ove pullulano i cenciosi, e dove bestemmiano i lor parenti,

L'umana specie, il loco, il tempo e il seme Di lor semenza e di lor nascimento.

Narreremo da quanti anni non dormono sur un pagliericcio qualunque; e da quanto tempo li tormenta un punto interrogativo nello stomaco vuoto. Diremo le loro miserie, i loro patimenti, i loro vizii e le loro virtù. Seguiremo insomma questi martiridell'ingiustizia ove riposano, ove trafficano, ove mangiano, ove digiunano , ove amoreggiano. Troveremo gente che non ha mai gustato il bacio soave di una madre, di una sorella, di un' amica ; che non si è mai saziata di pane ; che non ha mai provato nè gioie nè piaceri. Troveremo nobili aspirazioni soffocate, cuori eccellenti indurati come un masso. Vedremo facce allampanate, occhi che non dànno più lagrime, fronti rugose, guance emaciate, petti legnosi, mani scarne, fianchi senz'ombra di seduzione. Vedremo l'ingegno avvilito nel fango. Entreremo nel ditterio ove la carne sguaiata è a prezzo fisso; e là ammireremo quelle briache fanciulle impaludate nel vizio far pompa della voluttuosa opulenza delle forme. Nel carnaio vedremo, tra la nudità che fa recere e le smancerie che stomacano, la testolina bionda, la chioma fluente sulla spalla di neve, l'occhio pudico e fiammeggiante, la guancia rosea, il labbro scarlatto , accanto alla testa rapata, alla pupilla spenta, alla gota impiastricciata o fatta rossa dalle frequenti libagioni alcooliche, al seno floscio e viscido di trasudazioni. Il fiore appena sbocciato accanto a quello appassito. La bocca che sprigiona l'alito fetente sui baffi bionditi dalla giovinezza. Bazzicheremo nelle tetre sentine dove il locch ha il suo regno,per soffermarci poscia nell'anticamera della prigione, dove lo snaturato questurino non starà in forse dall'assestare pugni sodi sulla testa degli impotenti vagabondi, arrestati mentre riposavano le stanche membra nel buio di un andito qualunque. Vedremo le Margherite disfogliare la loro camelia tra un waltzer voluttuoso e un' orgia sensuale , come vedremo una frotta di morituri cadere estenuata sullo sdraio miserabile della carità cittadina, e per una malattia, cui la scienza dei parrucconi non ha battezzato del suo vero nome: la fame. Andremo di notte girelloni per le vie dove ad ogni svolto di canto una lercia faccia di megera ti offrirà una ragazza polputa per poche lire ; vedremo il padre e la madre lucrare sul corpo della figlia; il marito lasciarsi insudiciare il letto maritale per pochi quattrini. E quando avremo frugato in tutta la Milano sconosciuta; quando avremo narrata tutta la turpitudine di quei rigagnoli dalle acque stagnanti; quando avremo fatto sfilare la grossa falange dei cenciosi e degli spostati - dalla fanciulla che porta nel ventre il figlio illegale, a colui che sconta la pena in una prigione per non avere avuto il coraggio di morire di inedia ; - quando avremo imprecato e pianto, collo schianto nel cuore, ci recheremo silenziosi nel luogo quasi ignorato, ove s'asconde la carne plebea, e là, su quelle zolle incompiante, senza agitare alcun cencio politico genuflessi,spargererno lagrime e fiori: sincere le une: modesti gli altri: entrambi manifestazioni del sentimento, del diritto, del dovere e della futura giustizia sociale. Dove dormono i pezzenti.

Se tu sei or, lettor, a creder lento

Ciò ch'io dirò, non sarà meraviglia;

Ché io, che '1 vidi, appena il mi consento. DANTE.

Oh! facciamo giustizia- prima che sia già tardi! Prima che sorga l'alba - di quel giorno tremendo! F. FONTANA.

Milano, la bella, la simpatica Milano, la igienica, la splendida Milano, è decantata dai borghesi per il suo Duomo, per la sua Galleria, per i suoi monumenti, per i suoi palazzi alti e magnifici, per il suo ridente e sempre fiorito giardino, pei suoi corsi spaziosi, per le sue luminarie, per le sue vie lunghe e larghe. Nessuno immaginerebbe di trovare in questa capitale morale viottoli ove non scende mai raggio di sole, vicoli cosparsi di detriti, crocicchi dove si respira un' aria graveolente di miasmi micidiali, angiporti che vi costringono a rimboccarvi i calzoni tanto sono coperti di immondizie e di escrementi nauseabondi. Nessuno penserebbe di rinvenire nella città che dà la dote alla Scala e sciupa migliaia di lire per una trachea o due gambe di ballerina ; nella città dove il ceto privilegiato calpesta i tappeti persiani e vive nella grandiosità degli àppartamenti profumati, catapecchie tutte a crepacci, umide, scrostate, diroccate, buie, puzzolenti ; con scale di legno, con ballatoi tenuti assieme dalla fune , con stanzacce dalle pareti bituminose e dal suolo immelmato, dove i sorci , i ragni , gli scarafaggi, le cimici, le pulci, i pedicelli, gli scorpioni, i pidocchi, le mosche, le zanzare hanno il loro costante domicilio. Quando c'ingolfammo in quelle bolgie infernali , quando aspirammo la putredine pestilenziale di quelle morte gore, quando ci trovammo negli stambugi calcati di miseria e di carnaccia plebea , ci sentimmo affluire il sangue al cervello, mentre che una imprecazione ci erompeva dal petto esasperato! Dalla via Gian Giacomo Mora (N. 3), alla via Vetraschi (N. 9 e 30), dal corso di Porta Ticinese in Viarenna (N. 11), e da questa alla Conca di Viarenna (N. 1 e 3), abbiamo visitato, esplorato tutti quei bugigattoli che il linguaggio comune chiama locande. Che squallidezza! Che orrore ! Stambergacce basse, tetre, ora lunghe e larghe, ed ora angustissime ; umide e sporche sempre. Letti o meglio canili, fetenti, cariati, addossati, accavallati, senza materasse, senza lenzuola, con solo pochi cenci che celano a mala pena i corpi ammonticchiati ! Ah! bisognava vederli aggruppati a uno, a due e perfino a tre per saccone ! È là, è sul pagliericcio del pitocco, che la scrofola e il vizio, la fame e gli sfoghi bestiali ballano una ridda infernale ! È là che il flagello omicida raccoglie larga messe... È là, tra il russare affannoso e le flatulenze delle digestioni, tra le esalazioni cutanee, e le fetide traspirazioni, tra la voce catarrosa del vecchio e i gas delle spazzature, che credemmo rimanere asfissiati. Che tanfate di puzzo ! È in quelle mude della nequizia sociale che la gentaglia, la marmaglia, la popolaglia, la bordaglia, la disprezzata, la ripudiata, la maledetta, la vituperata canaglia passa le notti nella cruda stagione Quante volte avranno invidiata la cuccia al cane di un borghese, lo strame in cui s'adagia il bove, la cella in cui geme il condannato ! Noi li abbiamo finalmente veduti questi figli della sventura, questi poveri reietti, là, sprofondati nel sonno, sul gramo giaciglio, sul giaciglio immondo. Abbiamo udito il loro gergo, veduti i loro visi macilenti, i loro occhi appannati dai patimenti, le loro fronti profondamente solcate dalla miseria... È là, tra quella mefite, in quell' afa opprimente, tra quella confusione di sessi, che noi dall' imo del cuore insorgemmo col grido dello strazio contro tutto il presente e che gridammo, in nome dell' avvenire , ingiustizia ! ingiustizia! Ah, per cristo ! Voi avete il coraggio di chiamarli miserabili, irreligiosi, superstiziosi, inumani, orribili ! Accidempoli ! Che cosa volete aspettarvi dalla miseraglia che avete punito dalla culla alla tomba e dalla gentaglia che avete odiata, esecrata e condannata agli orrori di tutte le privazioni ? Al loro posto noi saremmo già in galera da tanti anni ! Che cosa volete esigere da una plebe cresciuta in mezzo alla prostituzione e al carcere , in mezzo alle oscenità e ai digiuni ? Che cosa volete aspettarvi da coloro ai quali negaste perfino il mezzo di guadagnarsi il pane col lavoro ? [didascalia immagine:] Via Vetraschi.

Paneropoli digerisce. L'inno degli stomachi soddisfatti si ripercuote di quartiere in quartiere. Le case di piacere s'aprono. I caffè-concerti si affollano. La Galleria V. E. si popola. Cinedi e megere sono in moto. Milano esulta! Fuggiamo il chiasso delle vie spaziose e il frastuono dell'esercito tripudiante, ed entriamo diffilati nella fogna degli abbracciamenti delittuosi di Via Vetraschi. Che chiassuolo ! È addirittura una fogna. Case alte e basse, decrepite, smattonate, sucide Bottegucce alte un uomo. Bottegucce luride, immonde, piene di cacherie. Laddentro il cuore ti si stringe ! Tramezzo a quella fuga di case, non tocche ancora dal martello demolitore, si respira a disagio. È là che hanno il loro domicilio i forlinn e le donne perdute.

Soffermiamoci al N. 13.

Una vecchia gibbosa, dagli occhi affondati nelle larghe occhiaie cispose, dagli zigomi olivastri, delle guance pezzate , dalle labbra protuberanti, seduta, collo scaldino sulle ginocchia, ti invita a salire. È la megera. Dodici gradini e ti trovi sul limitare di una stanzaccia, il cui fumo t'impedisce di vederla in tutta la sua orridezza. Un tavolaccio zoppo , bucherellato, con due panche intorno alle pareti, è il mobilio. Quattro donnacce dall'abito allacciato fino al collo, brutte come non ne avete vedute mai , e sguaiatamente sdraiate - ti lasciano vedere gambacce chemuovono a schifo. Dieci o dodici locch col tradizionale gessino in bocca, fanno loro corona. Quelle donne e quei giovani non hanno più bisogno di simulare. I loro volti dicono tutto. Con cinquanta centesimi puoi saziarti su uno di quei corpi chiazzati di sudiceria ; puoi sprofondare le tue labbra nelle mammellacce dai capezzoli contorti su sè stessi o inghiottiti dalle rughe ; puoi satollarti di carne. Ah! la sfacciata, la mostruosa degradazione ! Eppure, chi lo crederebbe ? Sotto quelle vesti di cotone rigata e multicolore batte ancora un cuore ! Voi vedete la guanguana (sgualdrina) amare perdutamente. il loccb ed esserne riamata. Si abbracciano coll'effusione e coi trasporti delle persone per bene. Quando lei giace al babi (ospedale), è lui che la soccorre, dovesse vendere anche la lima (camicia) che ha indosso. Quando il fort poltrisce nella santina (prigione), allora è la donna che gli fornisce un po' di pilla (denaro), dovesse darsi in braccio ad un reggimento di Cosacchi, per una tavella (lira). I cirlinn. (ragazze) non vanno mai a far visita ai merlinn (ladri) che col brasc tiraa, frase che significa, in linguaggio furbesco, portar copiosi soccorsi ai carcerati. Usciamo da un bordello per rivederne un altro. Voi che coprite di cipria i vizi eleganti della vostra classe, voi che non avete che insulti o disprezzo per la donna caduta, voi che non avete per questi cosi che castighi e fame, voi infine che non vi commovete dinanzi a quelle facce distrutte dalle astinenze, seguiteci in questi ricetaccolidell'abbominazione. Venite con noi. Prima di infilare il bordello del carnaio numero 10 vediamo un vasto (signore) che parla colla ruffiana. - Che ti diceva ? le domandammo passando. - Cercava, ci disse, col risolino professionale, del selvaggiume proibito ! Mi inalberai, gli diedi del porco, e gli feci capire che qui non si fanno porcherie. No, no, qui, ridisse, non si fanno porcherie! Ci curvammo alla virtuosa mammelluta,sorridemmo e salimmo con sollecitudine. Le stesse griglie semi-chiuse, la stessa ruffiana, la stessa stanza, lo stesso carname bollato, gli stessi frequentatori , lo stesso fetore. Tutto è uguale.

Milano sconosciuta e Milano moderna. - 'Puntata 2. Uguale perfino la tassa che il governo esige per il traffico infame. Le donne, sedute o sdraiate sulle panche in giro, sembrano istupidite. Hanno più della donna di servizio che delle venditrici di piacere. Non è in loro una linea ardita o muliebre o qualche cosa che possa affascinare chi è in cerca di gonnelle venderecce. Sulle loro teste non è abbondanza di capelli. È una capellatura bipartita, giù, piatta, per le pareti craniche. I loro avventori sono soldati, pitocchi, buli e pivelleria del sottosuolo. Alla sommità del fotittoio è il cartello dell'ambiente : Si paga prima. Non c' è una di loro, per quanto laida, che non abbia l'amante. La polputa in fondo, colla faccia bullettata di macchioline nere, è la padrona e la scaia - amante - del Pin Rocchett - il terrore del bordello. Guaia a chi non paga! Lo sfigura con un semplice manrovescio. Si ubbriacano di trani più di una volta al giorno. Col vino alla gola si ingiuriano col linguaggio pornologico e si sbattono fuori i denti a pugni. Ma el pacell (l'amante), sbollita la sbornia, ricomincia a considerarla, onestamente, la sua marca (moglie). Numero 9. Dal pandemonio all' inferno. Dal casino alla baita (locanda). Due scale e siamo sur un pianerottolo fatto a pezzi, per modo che ad ogni tratto ti sembra di cadere. Bussiamo colle nocche e s'apre un uscio. Un'aria velenosa ci risospinge indietro. Avanti! È una stamberga dalla cui parete pende un crocefisso, ivi appeso a testimoniare la sua impotenza innanzi a tanta ingiustizia umana. Cenci e immondizie da tutte le parti. Sucidi sacconi di paglia trita, l'uno rasente all'altro, su ciascuno dei quali dormono due esseri. Sul terzo pagliericcio vediamo un coso aggomitolato e coperto di indumenti a sbrendoli. - Chi è d'essa ? - Una suonatrice d'organetto, ci risponde la vecchia sdentata che ci fa lume.

Sempre colla fiala sotto il naso , ci cacciamo nella seconda stanza.

Orrore! orrore ! Uomini , donne e fanciulli si stringono in un nausante amplesso. Il loro alito pestifero si bacia. Oh ! vedere quelle gambe spolpate, quelle braccia secche, quelle facce luride e scarne, in mezzo ai teneri fanciulli che scontano un delitto che non hanno commesso, ti senti straziato e ti si rimescola il sangue ! Dinanzi a quello spettacolo senza nome ci sentimmo il bisogno di piangere. Non è possibile, dicevamo, che la borghesia sia tanto scellerata. Forse ignora, forse non sa che qui, in via Vetraschi, le necessità urgenti della vita hanno soppresso i sessi e ammonticchiato la puerizia colla adolescenza e colla vecchiaia! Spalancate le porte e chiamate gente ! IV. Un cul-cle-sac.

Vicino al dazio di Porta Ticinese è un antro ignorato da quasi tutta Milano. Si chiama Stretta Calusca o vicolo Calusca. È un angiporto lungo 60 metri, illuminato da due lampade. È una tana famigerata, piena di memorie sanguinose, di intrighi furfanteschi, di sozzure senza nome. Cercheresti invano la sua origine nella caligine dei tempi o sulle pareti ammantate di tenebre e insudiciate di parole incomprensibili. È sotto quell'arco che el bulo de porta Cina faceva la nona (guardia) per dare il segnale ai compagni di lavoro. È laddentro che i borlacatt (guardie di finanza) sequestravano malnatt (vitello immaturo), oliv (bue), saltador (capretto), ecc. È là che i trapanant (contrabbandieri) si davano convegno. È là che tutta la famiglia degli spiantati confabulava e ordiva gli agguati. È là che le mezzane, i marconi (lenoni), le pivelle (fanciulle), trescavano e trescano. É in quell' antro della suburra milanese che la Ulla (pattuglia di questurini in borghese) va sovente a prendere la ribonza (merce) della luna (rubata) dai togli (ladri) e che più di una volta, senza el buflador (confidente), se ne va vuota stringendo la terribil ugna.

[didascalia immagine:] E colla minaccia lasciava cadere tale randellata....


Pochi anni sono la Putifai, una vivadio che vuotava dieci litri al giorno e che passava dalla risata convulsa alla collera facendo sussultare i bicchieri sul tavolo, prese la parte dei ladri e venne sbalestrata in un altra casa tollerata. È là dove tu vedi ceffi che ti fanno allibire, deformità viventi che ti strappano un singulto , anime natanti nel lezzo , nel vizio , nel delitto, nella abbiezione. Rordello N. 3. Pst... pst... è linguaggio con cui due facce , increspate come un papiro gualcito, eccitano a entrare. Appena nel cortile , ci si affaccia una lunga grata di legno , dietro la quale tutto è forse possibile. Il cortile, d'estate, è il loro salotto. Mentre entriamo, la feccia della prostituzione è seduta sulle scranne liscate. Parecchie lavorano di calze, due giuocano a briscola, e altre pipano nel gessino. È un gruppo ignobile. In talune non c' è neppure la parvenza della donna pubblica. Sono nascoste nel percallo sbiadito fino alle orecchie. Nel mezzo ne vediamo due in camicia e sottana. Sono antibacchiche. È nulla in loro di caldo e di afrodisiaco. Il loro seno va giù come un' umiliazione e la nudità delle loro braccia è maculata di patimenti. La Giulia è le veterana della casa. È un tronco di delinquenza . É ingrigiata nel postribolo , numero 3, del Vicolo Calusca. L'ossatura facciale e l'assenza dei canini la rendono ributtante. Le è vicina una criminaloide. Una giovanottona dai capelli scuri spioventi in ciuffetti a punte. E' la ditta della loccheria. Dinanzi a questi orrori femminili ci sale l' interrogazione : sono riabilitabili? No. Esse devono perire nella loro abbiezione e noi dobbiamo assistere al loro naufragio senza aver modo di gettar loro il salvagente. É della zavorra sociale che deve calare a fondo. Un gradino dopo l'altro e siamo nella sala. Vittor Hugo la direbbe una scatola di mattoni, tanto è angusta. I nervi olfatori trasaliscono. Uno sbracato di uomo dal cappellaccio unto, bisunto, ammaccato: dalla faccia scolorata e bitorzoluta : dall'occhio fulvo e striato di sangue : dalle labbra grosse e paonazze : dall' abito a larghe chiazze : dalle scarpe spellate e ridenti, vomita gli insulti più grossolani. Vedendolo si rabbrividisce. - Esci o brutta schifosa, o ti caccio in gola questa negrosa (mano)! vociava, mostrando il randello quel forsennato. Svergognata bagascia, figlia di troia, apri o butto giu l'uscio ! E colla minaccia lasciava cadere tale randellata sul tavolo da far traballare tutto il postribolo. - Ch' el beva de la lenza (acqua), un'altra volta, gridò la padrona. Intanto la fille de joie - se tale si può chiamarla - comparve. Coi capelli arruffati, cogli occhi sbarrati, colla destra armata dello zoccolo, si piantò innanzi al beone :

- Batti, o vigliacco, disse essa d'una voce squillante, che ti rompo il muso !

Le palme ossute di quell'uomo, la cui libidine trapelava da tutti i pori, piombarono d'un tratto sulla faccia color mattone della perduta che cadde stramazzoni. La casa in un attimo fu tutta a soqquadro. -formigh de la giusta (guardie di questura)! disse prontamente una donna che spiava dalle

fessure delle gelosie.

Infatti, due uomini dalle larghe spalle salivano le scale. Al loro apparire tutto era tranquillo. Dinanzi alla giusta si ammansano e assopiscono i loro rancori e diventarono degli amici contro il nemico comune. Lasciamo la sala che fu teatro di quanto narrammo in un dialogo bilingue, e passiamo in quella attigua, più buia ancora, ancora più spaventevole. Sette femmine rappresentano tutto il carname della casa. Chi ci aiuta a narrare la sconcezza di quei corpi delibati, sfruttati, gualciti ? Come vi sono beltà di cui è impossibile dare un' idea, scriveva il povero Tarchetti, così vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione. Immaginatele sfigurate, dalla grinta bestiale, cogli occhi orlati d' inverecondia, schifose, più schifose di quelle di via Vetraschi. Teste senza capelli, bocche senza denti, petti a guisa di vesciche appassite o escoriate. La plastica non ha più nulla a che fare su questi avanzi della immoralità regolarizzata. Notiamo in loro una vecchiezza precoce. Sono fisonomie che ci rammentano quelle delle infanticide e delle coniugicide che abbiamo vedute nei penitenziari. Il loro gusto matto è di fumare e mangiare spesso una ciliegia annegata nello spirito. Non escono mai che per andare in via Lanzone, in obbedienza ai regolamenti sanitari. L' ingiuria più grave che tu possa fare a quelle povere filles de marbre; come le ha battezzate un celebre drammaturgo, è di chiamarle donne da quaranta centesimi. Sono capace di morsicarti via il lobo dell'orecchio. Le loro stanze sono come quelle di una locanda. Un pagliericcio , due scranne liscate , un bacino, un cencio di salvietta, un attaccapanni ed uno sgorbio di Madonna alla parete del letto. Passando d'una in altra stanza, troviamo una fanciulla che può avere vent'anni, di una bellezza rara, come non ne avevamo vedute in tutte quelle tane del delitto sessuale. Ha lo scialle che le sdrucciola per le spalle. - Come ti chiami ? - Mi dicono la Morettin, ci rispose con voce quasi velata.... -Sei dunque la Morettin di lader ? - No , quella è stata arrestata oggi , con ventiquattro sue compagne (1). Poveretta, le volevanò tanto bene ! E, come la courtisane di Henry Murger, ci racconta sa vie et misere. Quella personcina dal taglio elegante, quell'occhio languido e nero come le sopracciglia che lo illustrano, quel volto di cigno, quelle labbra tumide, quella manina bianca e piccina come il piedino che le sbuca dalla gonnella, ci fanno dimenticare per un istante la bolgia in cui ci troviamo. Quanti presunti virginei ornamenti della bigi; life milanese val-

(1) E' stata condannata nel 79 a parecchi anni di lavori forzati. Ha scontata la sua condanna ed é ora nel lupanare della Cisqua di via Spadari, ove andremo a rivederla. Milano sconosciuta e Milano moderna. - Punlata 3.


[didascalia immagine:] Cortile del postribolo di vicolo Callusca, numero 3. gono meno al confronto di questa disgraziata, che espia,mentre tante altre dell'espiazione si fanno le papillottes alle trecce. È una storia eterna. È stata deflorata dalla violenza del bisogno , sciupata dalla concupiscenza ubbriaca e caduta nell' ultima casa della carne irredenta come una smemorata. Addio fanciulla data in pasto per quaranta centesimi; noi, commossi, ti salutiamo. Carnaio N. 5. Invece di passare per un cortile, si sale per una scala tetra e umida. Ci troviamo in una stanzaccia squallida còme una prigione, rischiarata a malapena da un becco a gaz, la cui luce tremolante riflette sinistramente sulle pareti. A destra un mobile tarlato che quarant'anni fa poteva dirsi un bureau; accanto ad esso una vecchia sproporzionatamente grassa, con due ganasce lardose che le scendono come i bargiglioni di un gallo. È la mercantessa di carne. È colei che lucra sulle puttane. Lì vicino, quasi cerbero al bronte (bordello), è un patcell (amante della padrona),dal naso rosso come un peperone,che ci dà una sbirciata provocantissima.

[didascalia immagine:] Lena. Adele. Erminia. Passiamo oltre. Nove donne. Gineceo immondo! Le labbra sitibonde di baci si rifiutano di perdersi su quelle bocche orribilmente deturpate ! Lo stesso pellame che abbiamo visto altrove, le stesse creature istupidite dal vizio, le stesse fronti solcate e depresse, gli stessi occhi imbecilliti, le stesse cianfrogne svergognate, gli stessi abiti di cotone, gli stessi zoccoli ai piedi. Gli stessi sorrisi meccanici , le stesse imprecazioni a Sant'Alto (Dio), e le stesse maledizioni alla virtù degli uomini. Ah ! laddentro sì che è una vitaccia ladra! Alla mattina, non appena alzate, sorseggiano un bicchierino di acquavite, poscia divorano una spongosa (zuppa), o una misturina (rotella di pane bigio), con dieci o quindici centesimi di basletta (tafferia, su cui i salumai mettono gli avanzi dei salami affettati). A mezzo giorno una ciotola nera di sboba (minestra), non sempre fatta di brodo, con un quintino di vino, comperato alla vicina pioda (osteria). Alla sera un po' di criolfa (carne), un po' di pane e un altro quintino di scabi (vino). Ecco il dietario che nutre queste grandi peccatrici condannate dalla religione e dalle leggi ; ecco il lusso di questa melma sociale che invece dell'alfabeto ha imparato l'infame gergo dei Cartouche e dei Poulailler. Rientrandovi, dopo tanti anni, troviamo nulla di cambiato. A sinistra dell' entrata a pianterreno, è ancora la cucina che traduce la povertà delle inquiline. Dei piatti filettati di cilestre, un caldanino, una padella , due piatti di metallo per gli uovi al tegame e due stoviglie smaltate. Sulla madia vi sono dei quintini vuoti e due candellieri di ottone con delle candele di sego. Al di sopra, sulla parete, è una donna piena di polvere e cacherellata di mosche che vorrebbe essere indecente nella cornice di dieci centesimi. Il cartello del si paga prima, è nello stesso angolo delle due stanze di ricevimento al primo piano. La seconda è uno stambugio vuoto, colla finestra verso strada, coi mattoni del suolo solcati dagli anni e dalle pareti diseredate d' incitamenti. La seconda, con delle panche in giro e delle oleografie svestite che s' inseguono sui muri sucidi, ti sopprime la lascivia di immergerti nell'orgia degli abbracciamenti della perversione sessuale. La terrazzuccia, tra il primo e il secondo piano, ha ancora i sedili di pietra coperti di stoffa satura di grassume e imbottita di stoppa. Gli usci delle stanze lungo le ringhiere, ti trasportano in una casupula di pitocchi che si trasmettono, di generazione in generazione, il sedimento degli strazii tragici, senza increspare la superficie della vita collettiva. Sono usci primitivi, ingangherati come dio vuole, che cigolano fino al supplizio e che si chiudono a catenaccio. Tra le donne che abbiamo fotografate, c' è la Corinna, una genovese alta, cogli anelloni alle orecchie e coi capelli pettinati alla bambina e attorcigliati alla superficie cranica come un ciuffo. Veduta in piedi, nella vestaglia accollata, coi nericci sotto le fossette degli occhioni neri, cogli zigomi lisciati di rosso e colla bocca infuocata dal mestiere, può ancora risvegliare il demone del godimento bestiale. Abbiamo veduto un uomo che non barcollava, soffermarsi al limitare della cucina, guardarla intensamente e perdersi sulla procacità delle ànche col segno di salire. Tutte le altre si sono lasciate fotografare al sole, colla scodella della minestra che stavano mangiando e coi trasalimenti delle educande. Il senso del pudore è così atrofizzato in tutte queste donne discese ove la vita è sfrondata di ogni illusione, che ci volle della fatica per impedir loro di denudarci lo sfacelo delle loro carni. La padrona aveva della ripugnanza pel kodak e per la matita. Ma poi, quando vide il ritratto della Giulia del numero 3 che la riproduceva tale e quale, prese la scala e salì al sole. È giunonica. Al tavolo , colle carte ,in mano, continuava a giuocare e a gettarle sul tavolo , dicendo : " Mi ama, non mi ama. „ Fotografata, le venne un capriccio materno. Ci pregò di rifarla colla mano sulla spalla nuda del Luigione, un ragazzotto di 14 anni che frequenta la casa come amico. Indossa il panciotto senza camicia ed è tutto nero come chi sta al mantice del maniscalco. È figlio di qualcuna di queste recluse ? - Che cosa vieni a fare in questo luogo ? gli domandammo uscendo. Ci rispose con una spallata. Nel cantinone del Trani, vicino, ci si disse che è il figlio della donna del pst, seduta all'entrata. si andava, ammalate, in via Lanzone, si stava bene. Con dei denari avevamo tutto. Ora che il sifilicomio è diventato un' ala dell' ospedale Maggiore, si è trattate come cagne - e se si esce - consumate dalla dieta che mantiene nello stomaco il desiderio di un'altra boccata di pane. È vita, questa, da cristiane, per la madonna? si andava, ammalate, in via Lanzone, si stava bene. Con dei denari avevamo tutto. Ora che il sifilicomio è diventato un' ala dell' ospe dale Maggiore, si è trattate come cagne e si esce - se si esce consumate dalla dieta che mantiene nello stomaco il desiderio di un'altra boccata di pane. È vita, questa, da cristiane, per la madonna? -C' è qui la padrona e non vorremmo offenderla . Ma è vero o non è vero ch' essa, oggi, non può più, diremo così, svaligiarvi come quando non potevate assentarvi senza il suo nulla osta?

- Gente che non sapete nulla ! Facciamo a metà come prima e come prima paghiamo il vitto e 1' alloggio !

Sbucati in piazza sant' Eustorgio , colla schiena al lampione del secondo marciapiede, guardiamo un'altra volta questo bordello spaventoso ove le schiave della prostituzione si stancano le reni per la mercede di quaranta centesimi. V.

Studio notturno.

La Galleria V. E., a mezza notte, è uno studio di femmine. Vi passano, vi ripassano, vi sostano e se ne vanno per ritornarvi ancora. C' è quella che ti fa sentire l'aristocrazia col colpo secco del tacco elegante e c'è quella che va via elemosinando un'occhiata maschile. Talune sembrano infuriate dall'ora tarda ; altre trattenute dal compiacimento di adagiare gli occhi negli occhi di chi passeggia. Coloro che seggono al Gambrinus o al Campari a uccellare gli uomini, ti danno 1' idea di ragazze uscite a prendere una boccata d'aria fresca, consolata da una bibita o da un sorbetto che non trovano in famiglia. Il loro modo di seduzione non è volgare come quello delle loro compagne di Piccadilly , a Londra. Le inglesi sono birbe che ti afferrano pel braccio , che ti vengono sopra col seno ansante di prepotenza e che s' impadroniscono della tasca dei tuoi calzoni. Le stradaiuole della Galleria, in vece, non sono mai una sfida o della violenza. Conquistano con garbo. Lavorano d'occhi senza sfacciataggine. Sono delle curiose che ti corrono su e giù, pel panciotto, senza mai sbottonartelo. Attraggono l'attenzione dell'altro sesso, ai tavolini , colla semplicità delle donne avvezze ad essere il centro delle aspirazioni degli uomini. Levano il braccio destro per tirarsi in su il guanto svedese raccoltosi sul polso, titillano il piedino chiuso nel raso neve colla punta del parasole alto fino alla ridondanza del busto, e si muovono, di tanto in tanto, per ricordare ai vivi che sono vive. Non sono mai loro che ti provocano colla buona sera. Sei sempre tu che le adeschi col cognac e col maraschino. A mano a mano che i minuti si accumulano, la loro zona si allarga. I quattro tavolini diventano sei , otto , dieci. Alle dodici e mezzo ti pare di vedere un rosaio che si è sviluppato sotto i tuoi occhi. Il colore che sovraneggia la loro toletta è il rosso. Entrando dalla piazza della Scala, si svolta a destra come sur un enorme rosolaccio. I loro cappelli di paglia sono soffocati di mussolina color brace, allegrati dai tulipani scarlatti, insuperbiti dalla garza tinta nel sangue. Il vermiglio è rotto, qua e là, dalle penne che si levano da tutto quel fuoco come un ciuffo nero o bianco o dagli uccelli sull'ala come in agguato. La Giovanna è, tra loro, la più conosciuta. Il suo cappello di paglia finissimo è arcuato e le lascia all'aria la biondeggiatura della nuca e i ricciolini che le lambiscono la fronte. È sul selciato delle venderecce da otto anni. Per l'avvenire non ha mai avuto nè quattrini nè pensieri. L'avvenire, ci disse ieri sera, mentre vuotavamo con lei una tazza di birra, per noialtre , è 1' ospedale. Ci sono troppe malmaritate che ci fanno concorrenza! Rivediamo, reduce da Montecarlo, la Gildona. È ingrassata ed ha assunto il fare di massaia venuta in città a fare delle spese. - Ciao ! Nelle giornate soleggiate dalla giovinezza, passava dovunque come una vittoria. Piegava gli uomini come il vento piega i giunchi. Si véstiva dal Ventura, si completava dalla Ghezzi o dalla Bellotti, mangiava i pasticcini nell'offelleria di santa Margherita, sfollando, tra la borghesia, senza sentirsi mai spostata e, sovente, quando era in vena di sbottigliare dell'allegria, pranzava all'Eden. Alle sei scarrozzava sul corso per lasciarsi salutare dalla moltitudine che ciaramella dinanzi il Cannetta, la buvette più elegante di Milano, e alle nove e mezzo d'ogni prima rappresentazione la si vedeva affacciarsi al palco e sollevare il susurro dell' invidia che non sapeva perdonarle di essere del selvaggiume reale. Ora non è più 1' asta formosa dinanzi alla quale la gioventù ricca si prosternava riverente. Ora incomincia a sfiorire ed a perdere terreno. Il suo sarto è il Bocconi, il suo calzolaio è il Prezzo Unico e la sua vettura è il tram. La sua rovina è il ganzo. La Gildona non può vivere senza il rocchettlèe (mantenuto) che la percuota e le divori i guadagni. Si è rialzata più di una volta. Ma ora è a terra e per sempre. Andando in su e in giù, per la Galleria, tu non aspiri che il sentore di donna in cerca d'uomini. Siamo in piazza del Duomo , proprio dinanzi a quella cattedrale che i lOcch, nel loro linguaggio pittoresco e scultorio, chiamano la cà di sass. Sul selciato del grande marciapiede della cattedrale, tu vedevi, non molto, un omiciattolo alto poco più di una pagoda, zoppo un. po' meno di Walter Scott e un po' più di Byron , privo di un occhio e vestito quasi sempre di nero. Egli passeggiava, filosoficamente, colle mani in saccoccia, e non parlava mai con alcuno che non fosse tra i suoi clienti. Era un tipo arciconosciuto. Lo si chiamava d' Peppinett, il più illustre lenone di Milano. Aveva nelle mani tutte le fila delle quattro mila clandestine. Egli ti sapeva dire, di ciascuna, la via, il numero, i gradini , il piano, l'uscio e il prezzo nominale. Egli era come il cronometro di tutte queste sottane che non avevano ancora il coraggio di lasciarsi credere pubbliche o che volevano farsi credere private per mungere più quattrini. A che ora sarà in casa la Giulia? Alle tre. Pranzerà all' isola Botta, cenerà alla Fiaschetteria Toscana, nei mezzanini, e rincaserà alle due e mezzo. I camerieri d'albergo,che si prestavano a compiacere i signori forestieri, ricorrevano a lui. E lui, se non fiutava dei forestieri capaci di litigare sul prezzo, li accontentava fino al delirio. corso per lasciarsi salutare dalla moltitudine che ciaramella dinanzi il Cannetta, la buvette più elegante di Milano, e alle nove e mezzo d'ogni prima rappresentazione la si vedeva affacciarsi al palco e sollevare il susurro dell' invidia che non sapeva perdonarle di essere del selvaggiume reale. Ora non è più 1' asta formosa dinanzi alla quale la gioventù ricca si prosternava riverente. Ora incomincia a sfiorire ed a perdere terreno. Il suo sarto è il Bocconi, il suo calzolaio è il Prezzo Unico e la sua vettura è il tram. La sua rovina è il ganzo. La Gildona non può vivere senza il roccbettée (mantenuto) che la percuota e le divori i guadagni. Si è rialzata più di una volta. Ma ora è a terra e per sempre. Andando in su e in giù, per la Galleria, tu non aspiri che il sentore di donna in cerca d'uomini. Siamo in piazza del Duomo , proprio dinanzi a quella cattedrale che i locch; nel loro linguaggio pittoresco e scultorio, chiamano la ai di sass. Sul selciato del grande marciapiede della cattedrale, tu vedevi, non è molto, un omiciattolo alto poco più di una pagoda, zoppo un po' meno di Walter Scott e un po' più di Byron , privo di un occhio e vestito quasi sempre di nero. Egli passeggiava, filosoficamente, colle mani in saccoccia, e non parlava mai con alcuno che non fosse tra i suoi clienti. Era un tipo arciconosciuto. Lo si chiamava d'Peppinett, il più illustre lenone di Milano. Aveva nelle mani tutte le fila delle quattro mila clandestine. Egli ti sapeva dire, di ciascuna, la via, il numero, i gradini , il piano , l'uscio e il prezzo nominale. Egli era come il cronometro di tutte queste sottane che non avevano ancora il coraggio di lasciarsi credere pubbliche o che volevano farsi credere private per mungere più quattrini. A che ora sarà in casa la Giulia? Alle tre. Pranzerà all' isola Botta, cenerà alla Fiaschetteria Toscana, nei mezzanini, e rincaserà alle due e mezzo. I camerieri d'albergo, che si prestavano a compiacere i signori forestieri, ricorrevano a lui. E lui, se non fiutava dei forestieri capaci di litigare sul prezzo, li accontentava fino al delirio. -E non... ama?... -Ne hai una di quelle che.... -Se l' ho ! sciama la megera in aria di trionfo. E che fanciulla !... Sono tre giorni soltanto... -Chi è d'essa ? -È una crestaia che lavora nel magizzeno di***. Ha 17 anni, una chioma corvina e due occhi che la si fa mangiare a baci. "Poverina" -Sì...ma non ci sarebbe qualcosa di più chic, di più appettitoso ? Sai.... La donnaccia, a quella sospensione rimette le mani sui fianchi e ci guarda con occhio incerto. -Eh..,. ci sarebbe ! Ma vede, ci vogliono dodici lire pei genitori della ragazza e cinque per me. -Ma.... E la mezzana si aggrappa al pettorale del nostro abito. e ci susurra parole misteriose nell'orecchio. Filiamo. Una donna tutta velata a bruno , compunta come se stesse orando, ti passa innanzi frettolosa. La diresti una santa o una religiosa che corre in chiesa. Invece non è che una maritata che si vende - consenziente il marito - per due miserabili lire. Il numero delle maritate, lì presso, è stragrande. Basta, per convincersi, fermarsi, per qualche minuto, dinanzi alla casa N. 1, in via P... chiamata la palazzetta. Dopo le otto è un andarivieni indescrivibile. È come la palazzetta della malmaritata. Sono tutte donne la cui vita comincia alle dieci di sera e finisce verso le tre di mattina. Di solito, dànno la colpa ai mariti, i quali, davvero, sono così indurati nel vizio, che non sentono neppure l'obbrobrio del pane che trangugiano. Talune di queste miserabili che hanno trascinato nel fango tutto quanto vi può essere di caro, non si vergognano di tenere la propria prole nelle case in cui si vendono. Lo sviscerato amore che le prostitute hanno pei loro figli è ormai un fatto indiscutibile. A Parigi, per citare un esempio, una giovinetta sedicenne, rotta a tutti gli amorazzi, aveva il vezzò scellerato di non abbandonare la propria figliuoletta neanche nei momenti difficili. Cosicchè la povera piccina morì , in una orribile notte, in cui sua madre si disfogava con un uomo! Arrestata per questo fatto , scriveva all' ispettore di P. , S.: " Mia madre mi gettò nell'ospizio dei trovatelli , ma la mia povera figlia é morta nelle mie braccia ! " Che spaventevole lezione in una sola frase ! Che sia vera e grande l'affezione delle prostitute per le loro creature, lo abbiamo veduto anche ieri l'altro nel primo dei due casini del vicolo Callusca. Una di esse non ci permise di fotografarla che col suo bimbo in braccio. " Sei mio , non è vero ? „ diceva, baciucchiandoselo. Tra le cinque o le sei del pomeriggio , voi vedrete , tutti i giorni, sul corso, una biondina leggiadra che ha tutta l'aria di essere un' inglese. Colla bimba per mano, su e giù pel corso, ci disgustava. Credevamo ch' essa se la trascinasse dietro per proteggersi dal sospetto dí essere una prezzolata. Dovemmo convincerci che in lei è più forte il muscolo materno. Non può vivere senza vederla. " Sono tanto abituata àd avermela vicina! Se mi morisse, ne morirei. È così buona e mi vuol tanto bene ! " Non possiamo sentirci commossi: A quest' egoismo che sagrifica le viscere delle sue viscere sul selciato della prostituzione, preferiamo l'Averna che perde i suoi parti nella ruota senza mai voltarsi indietro. I bimbicidii della siciliana non ci infliggono, almeno, il supplizio di un'angoscia eterna. È un gruppo che tortura, questo della madre colla tosa in cerca di uomini ! Se volete vedere come la prostituzione sia, spesso, un me- stieraccio cane, trovatevi, verso le due di notte, fuori degli uffici telegrafici di piazza Mercante, in faccia al portico della Galleria, dove staziona il " Caffè dei Veterani " del Guercio. Vi troverete tramezzo a una folla di donne vestite con sfarzo bocconiano che chiacchera e beve cinque centesimi di caffè spruzzato di grappa. Sono le spedate che vi vanno dopo una caccia atroce a tirarsi su lo stomaco con qualche cosa di caldo. La si può dire la collezione delle rifiutate. Hanno girellato, hanno inseguito, hanno pedinato, hanno atteso e non sono riuscite a uncinare neppure un miserabile pieno di vino ! Fra loro si consolano. " Non lamentarti, Luigia ; io che sono io, è la terza notte che vado a dormire sola ! " Se la va di questo passo , dice un' altra , andremo a finire agli asili notturni. " I battusi (barabba o vagabondi. È un sostantivo emigrato da Genova a Milano) , rimasti per la strada , vi si mescolano, col mozzicone che hanno raccattato , come dei vaschi. Nutriti di sboba (minestra) e di rostita del 6015 (trattoria dei poveracci), coi piedi nelle scarpe consunte e le gambe nei calzoni divorati dal calcagno , si sentono , diremmo , quasi più uomini. Il tepore femminile che li circonda desta in loro dei pensieri libidinosi che scompigliano o mettono sottosopra tutte le gonne al Caffè dei Veterani. Il Guercio è obbligato , spesso , a disfarsi di questi avventori che gli rovinano la bottega. Andate altrove , spendaccioni ! Il Guercio è a quel posto da parecchi mesi. La sua bottega ambulante è un cassone di metallo bianco che spalanca il ventre pieno di chicchere, della macchina del caffè, di bottiglie e di biscotti. Il coperchio è sormontato da una banderuola sulla cui asta è inchiodata la ditta Caffè dei Veterani. La sua faccia è tutta crespe e l'occhio sembra gli sia stato schiacciato sotto la palpebra da un colpo di bastone di ferro. Non tiene il mastro, ma non nega mai il moka alla conosciuta che va a trovarlo anche quando è completamente al verde. Allontanandoti, nel momento in cui si leva il polverone degli spazzini, tutta quella massa di gente sembra stieraccio cane, trovatevi, verso le due di notte, fuori degli uffici telegrafici di piazza Mercante, in faccia al portico della Galleria, dove staziona il " .Caffè dei Veterani " del Guercio. Vi troverete tramezzo a una folla di donne vestite con sfarzo bocconiano che chiacchera e beve cinque centesimi di caffè spruzzato di grappa. Sono le spedate che vi vanno dopo una caccia atroce a tirarsi su lo stomaco con qualche cosa di caldo. La si può dire la collezione delle rifiutate. Hanno girellato, hanno inseguito, hanno pedinato, hanno atteso e non sono riuscite a uncinare neppure un miserabile pieno di vino ! Fra loro si consolano. " Non lamentarti, Luigia ; io che sono io, è la terza notte che vado a dormire sola ! " Se la va di questo passo, dice un' altra, andremo a finire agli asili notturni. " I battusi (barabba o vagabondi. È un sostantivo emigrato da Genova a Milano) , rimasti per la strada , vi si mescolano, col mozzicone che hanno raccattato , come dei vaschi. Nutriti di sboba (minestra) e di rostita del 6015 (trattoria dei poveracci), coi piedi nelle scarpe consunte e le gambe nei calzoni divorati dal calcagno , si sentono , diremmo , quasi più uomini. Il tepore femminile che li circonda desta in loro dei pensieri libidinosi che scompigliano o mettono sottosopra tutte le gonne al Caffè dei Veterani. Il Guercio è obbligato , spesso , a disfarsi di questi avventori che gli rovinano la bottega. Andate altrove , spendaccioni ! Il Guercio è a quel posto da parecchi mesi. La sua bottega ambulante è un cassone di metallo bianco che spalanca il ventre pieno di chicchere, della macchina del caffè, di bottiglie e di biscotti. Il coperchio è sormontato da una banderuola sulla cui asta è inchiodata la ditta Cap. dei Veterani. La sua faccia è tutta crespe e l'occhio sembra gli sia stato schiacciato sotto la palpebra da un colpo di bastone di ferro. Non tiene il mastro, ma non nega mai il moka alla conosciuta che va a trovarlo anche quando è completamente al verde. Allontanandoti, nel momento in cui si leva il polverone degli spazzini, tutta quella massa di gente sembra VI. Ei scior fondina.

Il capo della squadra volante che spaventava la popolazione cenciosa e ladra del Tivoli e degli ambienti del bisogno cronico, era un famoso poliziotto che i fondeur (borsaiuoli), gli ammoniti e i teppisti chiamavano Dondina per quel suo modo di ninneggiarsi e di andar via a sbilenco. Ei scior Dondina, del quale taluni hanno fatto un Lecoq, fu, per modo di dire, l'Attila dei pregiudicati; degli oziosi, dei vagabondi e dei pericolosi. Tra loro il suo nome era sinonimo di terrore, di ordine e di ubbidienza. Nessuno, per quanto abituato a farsi largo collo stecch (coltello), avrebbe mai avuto il coraggio di rivoltarsi alla sua presenza. El scior Dondina gli avrebbe fatto mordere la lingua con un potente manrovescio. Illetterato, mezzo strambo, con una grinta da malfattore, colla fedina criminale monda dai rigoni del recidivo, egli seppe elevarsi alla fama diremmo quasi dei Lacenaire e dei Vidocc. Uscito dalla marraia (moltitudine), sempre alle prese colla cosiddetta giustizia, conosceva la vita sotterranea in tutte le sue manifestazioni. Sapeva come vi si soffriva, come vi si viveva, come vi si parlava. Il gergo gli era più famigliare che il dialetto della sua paneropoli. Ob-

Milano sconosciuta e Milano moderna. — Puntata 5. bligato, tratto tratto, a cazzottare, egli sapeva ammansarsi come un policeman, quando l' uomo era nelle sue mani. Se veniva a sapere che qualcuno della sua squadra si era abbandonato coi pugni sui suoi arrestati, andava su tutte le furie. Ce lo ripeteva ieri l'altro, sdraiato dalla malattia nel letto numero ventidue della sala san Filippo dell' ospedale maggiore. - Non ho mai, ci diceva el scior Dondina, dato una goda (buffetto) quando ho potuto risparmiarla. La giustizia sommaria cogli adulti non è mai stata il mio forte. Sovente, si sa, ho dovuto servirmi delle mani e dare un giro di più di strencia (cordicelle coi legni ai due capi per stringere i polsi e il braccio degli arrestati), perchè non avevo da fare con dei gentiluomini. Ma ripeto che mi ci dovevano trascinare pei capelli. Colla ragazzaglia che vivacchiava di furterelli, staccando una lima (camicia) dalla fune del lavandaio, alleggerendo la tasca di qualcuno del sacchett (borsellino), o facendo sparire la gotta (spilla) dalla cravatta di qualche distratto, egli era umano come un magistrato inglese. Il magistrato inglese, piuttosto che cellularizzare i ladruncoli minorenni, o sentenziarli al dietario che lascia sempre del posto per del pane, preferisce rovesciarli bocconi sull' asino di legno e far dar loro quindici, o venti, o venticinque sferzate sulle culatte nude. I ragazzi urlano come se si stesse cavando loro la pelle, e tentano liberare i polsi e le cosce dai fori in cui sono chiusi. Ma una volta rimarginata la schiena, tutto è finito. È una sentenza corporale che non macchia e non lascia che il ricordo degli spasimi. El scior Dondina era ancora più spiccio. Li raggiungeva con dei tremendi scapaccioni, incendiava loro le orecchie con delle strappate crudeli e finiva di punirli con una salva di ceffoni. Meglio così, diceva il Dondina, che avviarli sulla via della delinquenza colla condanna che si rinfaccia loro tutta la vita. El scior Dondina aveva una forza straordinaria. Le sue dita sembravano dei tentacoli di ferro, il suo pugno un maglio. Colla mano nella sua mano el lòcch si contorceva su sè stesso colle grida ai scior Mazza, p. r amor di Dio! I teppisti di san Giovanni sul Muro avevano più paura di questo omiciattolo che di tutti i ciappa ciappa - questurini - sì e no in montura. I loro oltraggi superavano la nequizia dei più bassi malviventi. In pochi mesi erano riusciti a terrorizzare l'ambiente e a mettere sottosopra Milano. Una sera sbattevano giù i cappelli ai passanti e andavano sopra ai copricapo coi piedi. All' indomani di un'altra si sentiva che erano andati in giro col secchiello della biacca a pennelleggiare i paletots e gli abiti della gente. Entravano nella osteria a mangiare e a bere e poi rompevano la faccia al padrone e al cameriere che volevano essere pagati. Le ragazze venivano spinte negli angoli, baciate, marturbate e mandate via coi sostantivi del trivio. Al lattaio che transitava rovesciavano il tinozzo e davano dei calci. Le ribalderie erano il loro passatempo. El scior Dondina li distrusse in pochi mesi. Colla sua squadra che s'era messa a lavorare di randello e col suo fiuto che andava a scovarli dappertutto, san Giovanni sul Muro ricuperò la tranquillità di prima. Diciotto anni sono scrivevamo di lui : „ È un po' vinacciuolo, un po' manesco e po' anche audace. Dicono che ai tempi del famoso Candiani, il Dondina poteva dirsi, di fronte al quinto stato, una specie di secondo delegato. „ Diffatti, egli che non era che appuntato, aveva, spésso, l'influenza del delegato più in auge. Era il solo dei suoi tempi e della sua condizione che potesse andare e venire senza mai dare contezza di sè ad alcuno e che potesse spendere e anche scialacquare senza essere obbligato a dire dove i denari erano andati a finire. Cambiati i superiori, l' indipendenza del Dondina venne schiantata. Incominciarono a trovare sciocco che un agente che non sapeva l'alfabeto , fosse tenuto in conto di una sommità poliziesca. Poi introdusséro il sistema che il subalterno non deve avere segreti per il superiore. " Voi mi domandate la vita! disse loro quando si insisteva per conoscere i suoi confidenti. Io vi consegno delle retate di bricconi, io vi metto sulle tracce di tutti i furti, ma non dovete esigere che vi riveli come io sia riuscito a mettere le mani addosso agli autori. Questo, no ! I nuovi superiori non pótevano o non volevano capire la teoria di Vidocq che è necessaria una canaglia per fiutare e snidare una canaglia. Dondina, appuntato di questura, era un non senso. Egli, non era nato per la disciplina di caserma e per la sottomissione del subalterno. Il suo regno era tra i Locch, i forlinn, i dritti, (venditori ambulanti che non isdegnano il furto), i baltrescant (vagabondi), i tirador, de spada (coloro che chiedono l' elemosina e pescano magari il borsellino nella tasca) i maneggiatori di maresciall (coltello ricurvo) e altri più o meno tatuati tipi del Pulleg (locanda) Berrini. Datemi la pensione, disse loro. Perchè questo non è più il mio posto. E lo si lasciò andar via, dopo tanti anni di servizio, con trentasei lire e centesimi al mese. „ Sa scorgere, dicevamo ai tempi della Milano sconosciuta, una forlina in mezzo a migliaia di persone. " Nato e cresciuto tra i lavoratori di grimaldelli e di coltello, egli sapeva andare sulla pista del malandrino colla precisione del cane da seguito che sente la traccia e il nascondiglio della fiera. Quando egli metteva le castagnole (manette) al bel novo (ladro novizzo), l'arrestato lo chiamava col suo vero cognome, di scior Mazza. E lui, che è un po' balbuziente, rispondeva : ‘A... che... che ades mi sont el... el scior Mazza, v'era ? Ma quand te set focura di me ong a... allora sì che... che... sont el scior Dondina. I biricchini, vedendolo passare, cantavano questi versacci sbagliati messi assieme, si diceva, da una celebrità del Tivoli.

"El Dondina quand l' è ciocch 
El va intorna a ciappà i locch ,
E i je mena a San V ittór
A sentì quant' hin i or. 
Sona la vunna, sona i dò
El Dondina 1' è su ancamò
 Esona i tre e sona i quatter
El Dondina 1' è a teater
E sona i cinq e sona i ses
El Dondina 1' è adree a bev
E sona i sett e sona i vott
El Dondina 1' è sul casott. "

El scior Dondina, uscirà dall'ospedale fra un mese. La sua statura è al di sotto della media, e la sua testa che non è piena di capelli bianchi, non è assolutamente volgare, salvo qualche gibbosità degli irregolari: è una testa tipica del polizai austriaco. Malgrado i suoi 68 anni, egli ha ancora della carne sulla faccia e della vivezza negli occhi sotto arcate sopraciliari pelose. Sullo sdraio della carità cittadina egli non si sente a disagio. " Si sa, ci disse, siamo all'ospedale. " È ammogliato o unito con una francese alta come un cammello, che l'aiuta a tirare innanzi i malanni e l'esistenza facendo dei servizi. La sua memoria ha perduto della feracità di una volta.

Quando ci offrimmo di scrivere le sue memorie, gli si colorarono le guance e i suoi occhi vagarono pel soffitto alto dell'androne. Si ricorda, in blocco, che.la sua vita ha fatto storia. Ma non sa più raccapezzarsi di nulla. Prima che se ne andasse all' ospedale abbiamo voluto andare a trovarlo nella sua soffitta di Via Borromei. La miseria delle suppellettili e la tetraggine del luogo ci misero del freddo alla nuca. Dopo avere salvata la società dai malviventi dell' ultimo strato, ed scior Ddndina che tutta Milano conosceva, aspetterà, fra non molto, dimenticato nello squallore di una tana, la fine della vecchiaia e delle privazioni. VII La locanda Berrini.

Tra le seicento locande che contava Milano nel 1888 , quella del Berrini era la più famigerata. La loccheria ne parlava col movimento che traduce la casa gremita di pidocchi. Sui giacigli merdosi del Berrini è passata la generazione della mala vita di mezzo secolo. Vi si sono coricati quasi tutti gli inquilini che popolavano alternativamente, la Polla (carcere di via Santa Margherita, stata demolita nel 1874), la "Palazzetta (penitenziario di Porta Nuova), l'albergo di Dò campann (prigione del Criminale, scomparsa), il Santo (carcere pretorio di Sant'Antonio, scomparso), e il cellulare di San Vittore che mi strazia, ora, tutte le notti, colle grida lunghe e lamentose delle sentinelle - Sentinella all' erta! - Sentinella all'erta! ! - All' erta sto ! La locanda Berrini aveva qualche cosa del castello di don Rodrigo. Non vi si entrava senz'essere squadrati dal capo ai piedi dai bravi del luogo. I bravi del luogo erano degli avanzi di galera sotto la sveglia (sorveglianza) che, senza i pie (soldi) pel letto, facevano ridiscendere la scala a balzelloni con una semplice occhiata o un semplicissimo : fila! Chi si adontava del loro imperativo assoluto si sentiva la spalla come in una morsa che lo piegava. Non era possibile pulleggiarvi (dormirvi) una notte senz'essere brutalmente svegliato dai questurini in borghese della squadra volante. Ti si metteva sentone acciuffandoti pei capelli o agguantandoti per la camicia: el tò noinna? Se eri uno dei cercati, ti si ruzzolava giù dal saccone fetente col vestisett, marmotta! Il proprietario di questo letamaio era un sornione che fingeva di ignorare la condizione dei forestieri che andavano a passarvi la notte. Ma non c'era poliziotto che ne sapesse tanto. In confidenza egli poteva farvi la storia di tutti. Quello là? È un provetto grassatore. Egli ha già scontato sette anni di galera. È sotto la sorveglianza. Una sera che ci aveva invitati a bere una bottiglia di vino nel suo " salotto „ - una stanza negra con un canapè che perdeva stoppa da tutti i lati - gli domandammo se non aveva paura di dormire nella stessa casa ove dormivano tante persone dedite al delitto. " Paura! E di che cosa dovrei avere paura ? Io sono il solo loro amico. Senza la mia locanda nessuno di loro saprebbe dové andare a dormire. Sarebbe un imbecille colui che se la prendesse con me perchè sono visitato tutte le notti- e spesso píù di una volta - dalla benemerita. Io non esisto che a questa condizione. I miei forestieri non hanno poi la pelle tanto sottile. „ Il Berrini con questa locanda di vagabondi , di truffatori e di borsaiuoli, era riuscito a far quattrini. Quantunque vivesse nel lezzo e non indossasse che abiti usati, egli era divenuto il proprietario del blocco di case che portava i numeri 3, 5, ora 7 del corso Garibaldi, vicino al Fossati. Ma la farina del diavolo, come dicono i poveri, va in crusca. Il Berrini è morto divorato dagli avvocati. Era bassotto, aveva un cranio a boccia, delle mandibole voluminose, degli occhi saettati di birbanteria, delle labbre grosse e gualcite, e un naso camuso che completava la sua faccia repulsiva per molti. La sua locanda, scrivemmo nella prima edizione, ha al sommo dell'introibo (porta) la lampada dai vetri colorati colle parole qui si alloggiano i forestieri. Si passa un lungo budello e si riesce in un cortile in cui sembra di soffocare tanto è angusto. " Due gradini, e siamo in una specie di anticamera : a destra alcuni fornelli spenti e delle scodelle nere e vuote : a sinistra una baracca di legno - tappezzata di madonne e di cristi con in testa la solita corona di spine - nella quale scorgiamo una vecchia che prenderesti per una trecca e un uomo ancora rubizzo, tutto intento a registrare i nomi dei nuovi arrivati. Intorno a quella specie di confessionale, cinque o sei individui dalla faccia terribilmente sparuta e a metà coperta da folti ed ispidi peli; presso a loro un giovinotto estremamente pallido. Può avere venticinque anni : i lineamenti del viso dicono addirittura ch' egli non è sempre stato di questo ambiente. Indossa una redingote rossastra, sfilacciata alle falde, dal cui bavero rialzato si suppone che il giovine abbia perduto l' abitudine d'indossare la camicia. I suoi calzoni di panno finissimo sono pezzati ed hanno una frangia agli orli che ne dice il lunghissimo uso; le scarpe scalcagnate sono una rimembranza degli stivali. - Chi è ? domandammo al rubicondo règisseur. - Ma ! noi lo abbiamo qui da tre giorni. Ci ha dato il nome di Arturo *** ed ha dichiarato di essere scrivano. Usciamo di lì, ed eccoci in un altro cortile ingombro di

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 6. secchie e di secchioni. Dal tetto alla base la casa è tutta affollata delle lenzuola gregge sulle canne ad asciugare. - Si fa il bucato in famiglia ? - Sissignore. Primo piano. Dinanzi, di dietro, ai fianchi, dovunque sono filate di stanze. Non appena sul pianerottolo, illuminato da una lampada dai vetri sucidi appesa alla muraglia, si vede che la casa ne ha un' altra al dorso che si raggiunge passando tra il largo di due pareti ammattonate. I letti, per modo di dire, sono l'uno addosso all' altro, come nelle altre locande. I muri neri o viscidi ti ricordano la cantina. I soffitti bassi sono quadrati di travicelli. I mattoni del suolo sono cosparsi della melma e degli sputacchi delle persone che masticano tabacco anche quando dormono. Agli angoli è un reticolato di ragnatele. Il tanfo che esce dalle stanze scappa su per le nari come un morbo. Quantunque abituati a questi luoghi vi viene voglia di recere e vi sentite presi dalle vertigini. In fondo ad una cameraccia vedemmo accesa una candela. Ci inoltrammo per vedere chi si permetteva un tal lusso. Era un ex strozzino che in tempi migliori prestava onestamente 500 lire al 50 per cento al mese. Divenuto manutengolo, capitò nelle mani della polizia. Dopo tre anni di prigione si trovò al verde e in una locanda. L'uscio N. 13 è chiuso. - Chi vi dorme ? domandammo al cicerone della casa che ci accompagnava. Il furbacchione ci ammiccò dell'occhio e bussò. Entrati, ci avvicinammo al letto per guardare attentamente lacoppia che sembrava un sol corpo. Erano due amanti. In mezzo a tanto lezzo e a tanto squallore, avevano trovato il coraggio di scambiarsi dei baci. Fortunati loro ! Nello stanzone a destra di questo primo pianerottolo, i pagliericci erano sull'ammattonato in tutte le direzioni. Non si poteva andare più in giù della scala sociale. Pareva che vi si fosse accumulata la miseria di parecchie generazioni fetide. Era il miluogo della pidoccheria puzzolente o il vivaio delle ignobilità della esistenza. Qui perdemmo la religione e ne uscimmo scredenti. Non vedevamo che stracci e straccioni. L'alito degli addormentati era rappreso sulle pareti come della patina e le espettorazioni fermentavano pei ghirigori dei sacconi tribolati dai parassiti che spaventano i ricchi. Il solo sfiatatoio dell'ambiente di trenta o quaranta addormentati era la porta che spalancammo entrando. Nell' angolo in fondo la bombola - il secchione - delle deiezioni collettive appuzzava l'aria appestata. Sui giacigli erano distesi o aggrovigliati i pezzenti più orribili che abbiamo incontrato nelle bolge dei poveri senza speranza di risalire alla superficie. Qui e qua ci inorridivano teste tignose -teste dal cuoio depilato - teste piene di croste giallastre - teste decalvate o formicolanti di spore - teste che riassumevano un secolo di delitti sociali. C'erano dei petti vellosi e costellati di placche, nasi rossi come il velopendolo infiammato, corpi così inzuppati di alcool che un semplice zolfino sarebbe bastato per procurarsi lo spettacolo della combustione spontanea : labbra nerastre cosparse di afte. Essi soli bastavano per convincerci che il disfacimento della famiglia sociale era incominciato. Secondo piano, terzo piano. Le stesse fughe di camere, la stessa puzza, gli stessi cenci espressivi. In cinquanta stanze che abbiamo visitate ad una ad una, non abbiamo veduto un qualunque induménto che fosse accettabile al Monte di Pietà; come, passando attraverso a più di centocinquanta pezzenti straccioni, non abbiamo udito un lamento che ci provasse che qualcheduno soffriva di sentirsi sommerso nella cloaca. Il loro abbrutimento è così completo, ch' essi possono vivere per degli anni senza mai tuffarsi nell' acqua e senza mai sentire il bisogno di regalarsi una camicia candida. I letti sparnazzati di sozzure e gremiti di insetti, sono per loro le cose più naturali del mondo. Quando sono al largo, il lusso della loro esistenza è limitata a del trani, a della grappa e a dei liquori, cui nessuno di noi beverebbe anche se minacciati collo scudiscio. I loro pasti non sono regolari che in carcere. - Quanto paga il forestiero per sera ? - Trenta centesimi. - E gli amanti ? - Una lira. - Si dice, o almeno il popolino dice, che voi avete degli stanzoni nei quali la gente che paga dieci centesimi dorme appoggiata alla fune. Vorreste avere la bontà di farcele vedere? La strana figura del nostro Virgilio si contorse con una risata plebea. - È una fiaba, diss' egli, inventata da . qualche stupido che scrive per le gazzette. Ha forse creduto di fare dello spirito e non è riuscito che a " denigrare lo stabilimento." Si mise in bocca una pallottola di tabacco e riprese la risata arciplebea. - Tuttavia, insistemmo, vi devono essere dei letti a minor prezzo. E nel dirglielo gli mettemmo in mano del denaro. Ci precedette per un corridoio tortuoso. Salimmo una scala di legno ed entrammo in una specie di granaio affumicato. - Gran dio ! E lo spettacolo angoscioso ci trattenne per un attimo ai piedi dei gradini dello stipite. Potevano essere una trentina. Ci curvammo per non battere la testa nel cielo a travatura e col lume alla mano guardavamo i miserabili allineati sui sacconi nauseabondi che dormivano della grossa come se fossero stati affondati nella lana o nella piuma. Erano tutte facce irregolari,ill- vidite dai miasmi di quest' inferno. Tipi scimmieschi, visi oblunghi, mascelle enormi, bocche spaventevoli. Taluni giacevano come corpi caduti in battaglia, altri bocconi colla guancia sulle braccia imbracciate. Coloro che avevano le braccia spalancate o penzoloni, ci lasciavano vedere i ricami del tatuaggio. Vi si vedevano dei cuori, delle stellucce, déi cerchi di puntini e delle parole e dei nomi cari alla loro memoria. Sul braccio destro d' uno che russava leggemmo Marianna, sul sinistro di un che aveva le gambe incavallate notammo úna viola. Il tatuaggio è un segno della loro insensibilità al dolore. Si incidono larghe ferite per vincere la scommessa di un grappino, o " una rostita del 6015. Prima di uscire abbiamo assistito alla scena tragica che si consuma durante la visita della squadra volante. I perlustratori erano quattro. Entravano nelle stanze preceduti dalla lampada che sbatteva la luce sui ceffi addormentati, scuotevano per la spalla coloro che non riconoscevano, o facevano alzare con sollecitudine gli ammoniti che non avevano dormito in locanda le notti precedenti.

Dove hai dormito ieri sera? Pelandron! vagabond! Vestisétt alla svelta!

In tutte le locande trovate degli storpi, degli erniosi, dei mezzo ciechi e dei mutilati che si servono del moncherino e delle deformità per commuovere il pubblico che altrimenti li lascierebbe morite di fame. In quella del Berrini non si trovavano che cicatrizzati; indizii che sono degli attaccalite e dei birbaccioni. Si vedevano facce sberleffate , braccia pieni di tagli sconci, petti solcati di coltellate e mani che parevano uno studio d'alta chirurgia. Stavamo per abbandonare inorriditi quel luogo, quando in un canto scorgemmo un essere che si sgranchiva, cacciando fuori dalla coperta a brandelli, due gambe spolpate e vellose. Ritornammo sui nostri passi ed udimmo delle imprecazioni ; quell'uomo soffriva. - Cosa avete, buon uomo? Aperse gli occhi, ci guardò come trasognato e poi: nulla. - L'avara scisciaa dò o tri litter de scabi e smorfi on poo de buja (avrà bevuto due o tre litri di vino e mangiato della carne),- rispose il compagno che gli stava vicino. - Sa chi è quel brutto muso? ci chiese il nostro cicerone. - No. - È un certo R..., ex-delegato di Pubblica Sicurezza, licenziato or fanno due anni, perchè era continuamente ubbriaco. Prima aguzzino e poi compagno. Ed ora, prima di separarci da questo ambiente che ci ha nauseato, permetteteci qualche osservazione. È giusta la legge che punisce atrocemente questi esseri che si procurano, illegalmente, quello che è loro strettamente necessario ? Quando, come l'eroe di Victor Hugo, avete bussato a tutte le porte ; quando, come lui, si è fuggiti dappertutto come lebbrosi ; quando si è dovunque disprezzati ; quando si è provato che la riabilitazione non è che una parola vuota di senso, allora.... Allora è facile comprendere come i peggiori eccessi abbiano il loro lato scusabile. Abbiamo conosciuto dei giovani che prima di gettarsi nella marea del ladrocinio, hanno mendicato un pasto carpone o si sono presentati perfino ai delegati a implorare un lavoro che li salvasse dalla fame. O si è risposto loro con delle spallate, o coll'andate a rubare e vi daremo pane e alloggio! Perfino il signor Paolo Locatelli, ispettore di P. S., e perciò non sospetto di tenerume per quelli ch'egli considera canaglie, è costretto a confessare che quasi tutti quegli eterni inquilini delle carceri sono moralmente nella impossibilità di trovar lavoro. La locanda Berrini è stata tramutata in una casa d'affittaletti. Il gruppo che fa piangere.

L' altra notte, durante l' ultima escursione notturna pensavamo a Giovanni lo squartatore che ammazzava le donne del Whitechapel che ciabattavano dietro gli uomini per suscitar loro la libidine di un abbraccio e munger loro un penny. Tutte queste sottane inzaccherate che uscivano dalle fogne milanesi a imporsi agli avvinazzati rimasti nella strada, ci mettevano addosso della malinconia e della disperazione. Jack the 'Ripper - Giovanni lo Squartatore - eri tu un riformatore sociale che sprofondava il coltello nella gola e nell' utero delle femmine macerate dalla fame per farla finita coi loro patimenti, o eri tu un semplice maniaco che uccideva per uccidere? Non c' è risposta. I suoi donnicidii sono rimasti un problema o una filata di punti interrogativi. Ma se induzione o lo studio dell' ambientista giova a qualche cosa, gli è certo che il macelladonne inglese si è lasciato esaltare fino all'omicidio perchè 1' impotenza signoreggiava i suoi progetti di rigenerazione femminile. La società è sorda. La società che idolatra la bibbia ci lascia circondata di questi corpi fracidi su cui è passata tutta la pittocaglia maschia senza aiutarci a liberarcene, e io ammazzo. Ecco quello che deve aver detto Jack the Ripper quando vedeva sfilare i drappelli delle sdruscite baldracche sguinzagliate dal bisogno. È triste la società che non si lascia indurre a purificare la sua casa se non incalzata dalle tragedie sanguinose ! E così dicendo inciampammo in una massa nerastra accovacciata nell' angolo, o piuttosto tra i pilastri dell' ultima bottega del gioielliere Confalonieri, sotto il portico della Galleria Vittorio Emanuele. Era il gruppo dello strazio. Era una povera donna che, stracca morta di scalcagnare col bimbo di sei anni, si era seduta sulle pietre municipali ad aspettare l'aurora. Il fanciullo sdraiato tra le cosce dormiva colla testa sul ventre materno. La donna era corpulenta e poteva avere cinquant' anni. Il fanciullo era vestito e calzato con qualche decenza. Ma la madre era davvero un blocco d' indigenza. Lo scialle a rattoppi giù per la schiena lasciava vedere un busto di cenci. Le scarpe erano coi tacchi consumati e colle punte slabbrate. Il sudiciume era alto sul suo collo e la carne della sua faccia era molle e increspata. Le sue mani erano ruvide come la corteccia.

- Perchè non andate a dormire ? buona donna. Ci guardò cogli occhi stralunati dal sonno.

- Non potete star bene qui sulla pietra.

Ci guardò un' altra volta.

Allora le mettemmo una mano sulla spalla e la pregammo di andare a dormire. - Abbiate almeno compassione di vostro figlio.

Ci guardò la terza volta più istupidita di prima.

- Dormire , dove? All' asilo notturno, buona donna. - Ci sono già stata. E agitò la mano rugosa come per dirci : tante volte ! Le demmo dei soldi e ci offrimmo di condurla col ragazzo alla locanda.- Ci sono ancora delle ore di riposo. - Mio figlio si è coricato senza cena. Domani mattina avrà fame presto.

Milano sconosciuta e Milano moderna. — 'Puntata 7. E ci fece capir che i denari le erano necessari per la colazione della mattina.

Là, in mezzo alla piazza, due signori in panciotto bianco salivano in vettura e andavano a dormire. Fummo lì lì per gridare : fermatevi ! Date la corsa a questa, povera sgraziata che è sulla strada con un bimbo ! VIII.

I notti vaghi.


- Je veux réprescntcr les doulcurs, les misèrcs, et les espcrances de ma géncration, la génération la plus maltraitéc de l'histoire. JULES VALLES.

È mezzanotte ! L' ora in cui la Milano lavoratrice è sprofondata nel sonno, e la Milano fannullona nell' orgia. L' ora in cui taluni divorano e pregustano il superfluo, e tali altri- i nottambuli - s' aggirano per le deserte vie in preda ad una febbre famelica. È in quell' ora fatale, tremenda, spaventevole, che io , in una notte di gennaio, seduto sui gradini della chiesa di San Carlo, contemplavo la cappa plumbea che nascondeva il cielo. Che triste notte ! L'aria diacciata mi flagellava il viso e mi faceva battere dente a dente. - Buona notte, udii sotto quelle volte. Girai lo sguardo come trasecolato, in cerca di chi aveva pro- nunciata quella frase, la quale, in quel momento, suonava al mio orecchio come un insulto. - Buona notte ! ripetè di nuovo quella voce. E in così dire vidi farsi innanzi una vecchierella tutta rattrappita nelle spalle e colla faccia nascosta fino al mento in un fazzoletto di lana qua e là lacerato, che mi augurava, per la terza volta, la buona notte. - Buona notte, risposi, secco secco. - Oh, non ha freddo ? - No no, ribattei, malgrado protestassero le mie membra intirizzite. E che cosa del resto ne importerebbe a voi? La donnicciuola , vedendomi accigliato e burbero , fece atto d' andarsene. Mi pentii della risposta scortese. - E voi, buona donna, non avete freddo ? - A questi chiari di luna può domandarlo ? Ma già io ci sono abituata a questi rigori della vita. La credetti una megera. - Si fanno affari, eh? .... - Affari, affari veramente, no. Auguro soltanto la buona sera. - A chi ? -i passanti che mi regalano qualche centesimo. - E vivete con quello che raccogliete la notte ? - Da tre anni. - Quanto riuscite a raggranellare, se è lecito? - Mai più di 60 o 90 centesimi. Cacciai istintivamente la mano nella saccoccia, ma era vuota. - Buona notte. - Buona notte. Alzai il bavero del mio vecchio e scucito paletot e poi, a passi precipitati, mi diedi a percorrere il corso. Giungo dinanzi all' Albergo Roma. Un nugolo di polvere m' avvolge tutta la persona. Sono 14 miserabili, scalzi, vestiti di fustagno, con un sacco al collo che scopano. - Boja d' on mond! E 'l credevi on muccin! bestemmia uno degli spazzaturai, buttando a terra non so che cosa. - Ej lù él g' ha minga on muce? - Non fumo ! - Ebm ho paura che anca quel li el gh' abbia adoss del frecc ! -Guadagnate molto a scopare tutta notte ? - Una lira. - Quanti siete in tutta Milano ? - Circa 400. In quel mentre s' ode una tempesta di vetri che si frantumano. Guardammo tutti dalla parte del rumore. Era un ubriacco di cognac musséant, in cappello a cilindro, che aveva dato del pugno in una lastra del negozio della corteggiata Giulietta, la liquorista del Corso Vittorio Emanuele (1). - Buona. notte. - Buona notte. Sull'angolo della via Agnello veggo come un coso seduto. Lo credo Quasimodo, il venditore di giornali, e m' avvicino. - Zolfanelli di cera .... sciori. - È questa 1' ora di' vendere i zolfanelli? - Dieci centesimi alla scatola, scio'i ! continuava quell'essere accosciato. - Buona notte. - Buona notte. (1) É scomparsa. E dalla Giulia che convenivano i farfallini della indimenticabile Farfalla di sommarara, un titolo che fece la - fortuna dell'Aliprandi. - Faccio un front' indietro, infilo via Pattari e sono in piazza Beccaria. La statua del Grandi posta nel mezzo mi richiama una considerazione. - Ecco un uomo celebrato come un penalista umano, perchè ha avuto la debolezza di dire che la pena di morte è una barbarie. Sciocchezza ! Ma è forse umano chi sostituisce alla pena di un minuto, quella lenta, eterna, crudele del bagno ? Che cos' è infine la pena di morte, se non un semplice schiaffo d' acciaio. - All' armi ! - Chi va là? - Caporale ! Questi voci simultanee mi fanno pensare ad una sommossa. Il mio cuore balza di gioia. Mi sembra già di veder disarmato il corpo di guardia, infranti i robusti cancelli, legati i guardiani, dischiuse le prigioni, quando' odo rispondere : - Ronda ufficiale. - La parola ? - Maledizione ! rispondo io. Non ho ancora fatto quattro passi che il rumore di un carro mi arresta. Brrrr.... che brividi ! È la lugubre vettura cellulare che trasporta di notte la merce alla ferrovia. Mentre mi passa dinanzi quel portato della inquisizione civile, mi torna alla mente il buon Beccaria. Prima i malviventi si insacconavano in un carrozzone qualunque, ora invece, per essere più umani, si seppelliscono vivi tra quattro abeti, ove sono obbligati ad applicare le labbra ai fori dei traversi superiori, se non vogliono morire rabbiosamente affogati. Affè che lo scambio è gentile ! Rasento il Duomo dalla parte dove sfilano i broughams sui quali gelano, per meno di due lire ogni notte, i poco fortunati auriga, e poi raggiungo l'assito che copriva in quell' epocv la galleria Vittorio Emanuele - proprio a qualche passo da dove capitombolò Mengoni- e vi scorgo un uomo. Mi avvicino; ma, il lungo e magro raccoglitore di carta non smette di raschiare. Ha in testa una berrettaccia oleosa. È coperto d'una giacchetta di frustagno lacera, specialmente alle maniche, e di un paio di calzoni di tela. Ai piedi un paio di ciabatte. Toeletta veramente singolare per quella stagione ! - Eh, buon uomo, cosa fate ? - Non vedete ?... raschio.... - Non vi sentite agghiacciare le dita ? - Eh... ma già è lo stesso. - Guadagnate assai? Lasciò cadere il raschiatore e il sacco che teneva aperto e mi guardò in faccia. Quell'occhio iniettato di sangue aveva qualcosa di feroce. - Scherzate, eh?... - No, buon uomo. - Ed avete il coraggio di chiedermi se guadagno molto ? - Buona notte. - Buona notte. Il freddo - questo implacabile nemico della miseria - infieriva come non lo aveva fatto mai. Il fiato mi gelava sulle labbra. Incalzato da quel dio immane, corro sempre come Assuero. Giungo, per non so qual giro vizioso , sotto l'arco delle colonne di San Lorenzo. Mi ricordo di avere nel taschino del panciotto pochi centesimi destinati alle più positive esigenze dello stomaco. Ma come resistere dinanzi a quella specie di marmitta, il cui fumo soltanto mi metteva in moto tutte le budella assiderate ? - Mamma un caffè bollente. - È buono ? - Oh, eccellente. - Lo credo io ! È il fondo del caffè Sanquirico, sa ... E non 1' ho fatto bollire che due volte ! - Buono, Buono ! ripetei scaldandomi le mani. M' accorgo che lì vicino alla venditrice di quell' acqua sporca e nauseabonda ci sono due donne sdraiate 1' una sull' altra. - Mamma, -chi sono quelle addormentate ? - Due donne ... cioè no, due puttane che si sono bevute anche le quattro palanche da dare alla Tranquillina (1) per il letto. Mi curvai un pochino e le guardai attentamente. Che facce ! rappresentavano la negazione del mestiere che esercitavano.

(1) Il nome della locandiera di Via Pioppette 2. Giungo, per non so qual giro vizioso , sotto l'arco delle colonne di San Lorenzo. Mi ricordo di avere nel taschino del panciotto pochi centesimi, destinati alle più positive esigenze dello stomaco. Ma come resistere dinanzi a quella specie di marmitta, il cui fumo soltanto mi metteva in moto tutte le budella assiderate ? - Mamma un caffè bollente. - È buono ? - Oh, eccellente. -, Lo credo io ! È il fondo del caffè Sanquirico, sa ... E non 1' ho fatto bollire che due volte ! - Buono, Buono ! ripetei scaldandomi le mani. M' accorgo che lì vicino alla venditrice di quell' acqua sporca e nauseabonda ci sono due donne sdraiate 1' una sull' altra. - Mamma, -chi sono quelle addormentate ? - Due donne ... cioè no, due puttane che si sono bevute anche le quattro palanche da dare alla Tranquillina (1) per il letto. Mi curvai un pochino e le guardai attentamente. Che facce ! rappresentavano la negazione del mestiere che esercitavano. (i) Il nome della locandiera di Via Pioppctte 2. - Buona notte. - Buona notte. All' orologio di piazza Mercanti sonavano intanto le quattro, e mi facevano 1' effetto di quattro martellate al cuore. Davanti al palazzo degli Indiani le gambe sembrava non mi volessero più prestare il loro ufficio. Ero affranto. E tuttavia bisognava camminare. La notte inclemente non ammetteva indugio. Un quarto d'ora dopo passeggiava sotto gli alti ippocastani del bastione di Porta Romana

Cui l' onor delle fronde il verno tolse.

Avevo 1' aria di un poeta... affamato. D' un tratto, veggo in lontananza un altro lumicino .... Diavolo ! Chi può mai essere a quest' ora e in questi luoghi ? Quella luce che fendeva il fitto della nebbia, veniva sempre innanzi. Io 1'aspetto imperturbabile, come un soldato della vecchia guardia. - Vuole un grappino ? - No, non bevo mai acquavite ! ... Ma a chi vendete questa vostra bibita sui bastioni ? - Oh bella ! non sapete che ci sono le guardie daziarie ? - E guadagnate ? - Da vivacchiare. Vuole un caffè ? - Non bevo mai caffè. - Allora, buona notte. - Buona notte. Spunta l' aurora. Una luce scialba rischiara i numerosi diacciuoli che pendono dalle tettoie. Che squallida mattina ! Mi dò una rabbiosa fregatina di mani e m' avvicino al dazio di Porta Vittoria. Mi sembrava di essere in una plaga della Siberia. Una ventina di baracche di legno marcio e annerito , alte come l' ingegnere Campiglio, s'accavallano e s'inseguono. Mi caccio tra quelle fangose strette, nella speranza di trovare un palmo di terreno onde ripararmi dai rigori del freddo. Un uscio semichiuso, che sembrava quello di un pollaio, mi infonde un po' di coraggio. L' apro. Orrore ! Nello spazio di 2 o 3 metri, giacciono sei spazzaturai addormentati. Per entrare in quella puzzolente tana, si è costretti curvarsi e pagare 10 centesimi. I noiosi rintocchi delle campane mi avvertivano intanto che io avevo un asilo sicuro. Là nel tempio del dio falso e bugiardo, almeno si può russare senza il pericolo di essere agguantati dai poliziotti, il cui passo grave e monotomo della notte mi percoteva ancora 1' orecchio. IX. Vedendo el barchett di pover. Dimentichiamo il grosso sobborgo di Porta Ticinese, popolato dalla canaglia che smagrisce lavorando; chiudiamo gli occhi sulle appariscenti miserie svolazzanti dai poveri davanzali e ristiamo sul colonnino miliare dove pur sosta el Barchett di pover, decrepita, unica galea, che nè venti, nè tempeste, nè furie, nè progresso hanno potuto sommergere. Quante memorie ci ripullulano nella mente alla vista di quel sicuro, sdruscito navilio di Boffalora! Quante rimembranze di compagni di viaggio non riveduti più mai; quante novellette ascoltate nel silenzio lungo le serate d' inverno, e quante lagrime sgorgate alla narrazione di pietose storie, ignorate dalla geldra borghese, che crede sanare le sventure dei pitocchi, dando pubblicamente due lire .... E tu, vecchio timoniere dalla faccia sparuta, dalle braccia secche, che, dopo due ore di cammino, venivi in volta, colla. basletta illuminata da un moccolo di sego a riscuotere i trenta centesimi ; e tu, cicchettaio ambulante, che, celiando, - ci inaffiavi 1' arsa gola di grappa; e tu, sbilenco cantastorie, che intonavi la dolce canzone più in voga, mentre placido scorreva il navilio ; e voi, mammose forosette dai fianchi poderosi, che ammiccavate dell' occhio , malgrado quel non so che di pizzicore che colava dalle vostre vesti; e voi tutti girovaghi, servi della gleba, rifiuti delle ferrovie, dove siete, perchè non vi vediamo, facce amiche? Ohimè ! più non rimane di voi che questa sciancata carcassa, testimone delle nostre corse, ricordo delle nostre risate, cenacolo delle nostre. miserie. - A voooooooo! è il lungo, prolungato segnale del vecchio navichiere, che annuncia la partenza. L' eco di quella voce che andava perdendosi nello spazio , udita nel silenzio, ti suscita una dolce mestizia. Ti pare di essere lì lì per abbandonare una terra che abbomini e adori ad un tempo; un luogo di ricordanze dolorose e care; un paesello che ti ha veduto piangere e gioire; una capannuccia ove ogni pietra è una pagina della tua vita. Il navilio incominciava a urtare alla sponda, quando una banda di disperati nel vero senso della parola, al trotto, con fuori tanto di lingua, braccia alzate, avvertiva che la si aspettasse. - Malandrini, vocia il leader del drappello, in riga ! - Battelliere, siamo in trentuno, quanto vuoi a caricarci? - Dove scendete ? - A Castelletto.

 Li squadrò dalla testa ai piedi,   poi coll'indice sulle labbra disse:

- Non ho posto per tutti. - Non badare al posto. Ci sdraieremo sul tetto, sederemo sulle punte, sul margine, lungo il remo se vuoi. Quanto dunque ? - Trenta centesimi a testa. - Totale ? - Nove e trenta, risponde uno della comitiva. - Malandrini, vuotate le saccoccie. Dieci, venti, ottanta, cento. Uno, due, tre, quattro... ahi, ahi. Non abbiamo che cinque lire ; bastano ? - Hum! non ne avete altre ? - Frugaci sotto le ascelle, tra le dita, dei piedi, in bocca ; battici il ventre come farebbe un agente di questura, quando vuol accertarsi che non abbiamo ingoiato nulla di prezioso. Ciò che rinvieni è tutto tuo. - Malandrini, al posto ! In un baleno la brigata prese d' assalto la barca. Il carico era completo. - A voooooooo ! Trentuna bocche innalzarono quel grido, come una, scarica di pelottone che esplodeva e saliva morente al cielo. Il navilio era in moto. Sulla vaporiera di Watt, tutto passa come un sogno : vedi e case ineguali e pali altissimi e quercie annose e campi e colline e vigneti e giardini pensili e uomini e buoi e vacche e pineti che ballano o si inseguono accidiosi o si precipitano divorando la via. Sul Barchett di pover tutto invece è calmo, solenne; la natura ti si presenta come in uno specchio ; e ammiri 1' azzurro del firmamento e il verde dei piani e la nuvolaglia che s' accalca quasi cencio sopra cencio e gusti la frescura e il canto degli augelli e il fremito carezzato delle foglie, e sorseggi a larghi polmoni quel complesso ossigenato che è la vita. In quella è il ministro, l' affarista, l' epulone, la dama, la bieche volano in cerca di nuove speculazioni , di nuovi piaceri, di nuove emozioni, di nuovi amplessi. In questa è il mendico, è il masciader (venditore ambulante di scapulari, agnus dei aghi e bottoni di camicia), è il lòcch , è la servente, è il senzascarpe, è il senzacalzoni , è il paesano; gente tutta istupidita dalle sofferenze, che non aspira più a nulla, perchè ovunque per essa non è che una cosa di sicuro : la fame. Addio, città della busecca, dove molti muoiono per mancanza d'alimento e molti d' indigestione , nota a chi è cresciuto nel tuo grembo e ti ha cercato invano un boccone di pane ; case misteriose dove la prostituzione clandestina s'alterna colla pubblica, addio ! Addio carceri criminali , addio S. Vittore , addio S. Antonio, tetri luoghi ove sedendo sul pavimento o sul pagliericcio, con un pensiero occulto , s' imparò a distinguere dal rumore dei passi comuni il rumore d'un passo aspettato con un misterioso timore, quello del secondino. Addio dó Cassinett , carbona (pagliaio o anche casa) dove tante volte venimmo brutalmente svegliati e brutalmente ammanettati da un biss (questurino) sciagurato ; addio Roncoroni dalla faccia argillosa, addio libei-alonzolone Turri, addio Cugnoni, addio Dondina, addio òm de brasciada, addio Pungolista, addio tutti grossi e piccoli poliziotti, che ci addoloravate colle strenciose (funicella ad uso manette) e colla noiosa (sorveglianza), addio ! E a voi pure, aule dove Temi vende a così caro prezzo la ingiustizia, addio ! Tali e non diversi dovevano essere i pensieri di quel drappello, mentre la barca si andava allontanando dalla città delle vergogne sociali. I sensali di carne umana.

In Milano vi sono non meno di cinquanta uffici promiscui, i quali si incaricano di procurare una stanza al forestiere che vuol soggiornare a lungo tra noi e il padrone alle persone di servizio a spasso, come camerieri, domestici, guatteri, serve, scrivani, fattorini, ecc. Ma la fonte inesauribile dei loro guadagni è altrove. C' è per esempio un ditterio che deve sloggiare per ordine della Questura ? È l'ufficio d' indizio che manda i propri commessi a rovistare in tutti i quartieri, fino a che ha rinvenuto la via e la casa di soddisfazione della Questura. C'è una fanciulla venuta di fresco dalla Francia, dalla Germania, dall'Inghilterra, che non ama farsi laureare immediatamente? È l'ufficio,' che le procura un appartamentino contate il faut ; e, quando non bastasse, colla relativa clientela. C'è una moglie che ha bisogno di una stanza sicura, ignota ai cagnotti della Questura, lontana dalla propria abitazione, per ricevere i suoi amici ? È l'ufficio d' indizio che se ne incarica. C'è un vecchio libertino gottoso, acciaccoso che ama continuare la vita artistica, vale a dire, vedersi d'intorno un bel pezzo di fanciulla? È l'ufficio che glielo procura. C'è uno di quegli amori poetici, cari, entusiastici, che, saputi in pubblico, menerebbero rumore o susciterebbero scandalo, da nascondere in un'alcova introvabile ? È questo lenone che pensa a scovare il nascondiglio ,la pàlazzetta , il budoir. Tra i sensali di carne umana, gli affittacamere, gli affittaletti , gli affittacase, e le venditrici del proprio corpo , è una solidarietà diremmo quasi tenace. Non si vogliono bene , ma l'uno sente che

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 9. ha bisogno dell'altro. Il sensale ignora l' immoralità del padrone che intasca pigioni fantastiche, come la femmina di prostituzione finge di non sapere che il direttore dell'ufficio d'indizio è un ruffiano patentato. È in loro della politesse che va fino al rispetto reciproco. Più di una volta ci è capitato di vedere dei padroni andare sulle furie per delle esibizioni di grosse somme, come se si fosse loro proposto di buttarsi a nuoto in un lago di vergogne sociali. Ma poi, dopo i primi trasalimenti , dopo le prime proteste in nome della dignità personale , li abbiamo vedUti ammansarsi e divenire più ragionevoli. Il sensale faceva loro considerare che la questione morale era assente. Voi siete il padrone di questo delizioso appartamentino che piace tanto, ai miei clienti, non è vero ? Voi potete elevarne l'affitto fino al prezzo d'affezione, senza punto suscitare della maldicenza. Non vi pare ? La morale è così salva. Sciupato questo sprazzo di luce che illuminava un angolo degli uffici d' indizii che sono l'anticamera della prostituzione, o se volete, della vita clandestina, diamo la descrizione di uno di essi, il cui traffico è soltanto di " mettere a posto le persone di servizio. " Siamo in via-Maddalena! Che via! quanti misteri in tutte quelle case ! Dal numero otto al numero ? non vi sono che pochi passi. Nella prima casa è un traffico di donne e di uomini o meglio si " appoggiano le persone di servizio d' ambo i sessi; " nella seconda si mercanteggia la carne o si offrono 1' abbraccio e il bacio a un tanto all'ora! Nella prima il mercato è superiormente autorizzato - come dice il cartello alle pareti - nella seconda è clandestino. Sostiamo al numero otto. È l'agenzia di collocamento di Antonio Bosisio (1). Sotto l'oleo-

(1) Il Bosisio è morto stravecchio. Ne aveva quasi novanta. Il suo successore ci disse che aveva fatto dei denari. grafia del re è la striscia colle parole cubitali : " Si paga anticipamente. " Nell'angolo a sinistra è una vecchia scrivania scrostata e smantellata. All' ingiro delle pareti negre e umide sono delle pancacce. Seduto al bureau è il Bosisio, un vecchietto dalla tute longue come quella di Pericle : è secco secco, ha gli occhi incavernati, ma vividi, pieni ancora di lampeggiamenti giovanili. Egli parla a scatti e, spesso, si abbandona all' impazienza. Registra, risponde, dà degli indirizzi o se li mette in tasca per uscire colla serva che deve presentare alla nuova padrona. In ogni stagione indossa un paletot scuro , vecchio, col bavero impatinato di untume e di forfora. Il suo " staio - come lo chiama - è una tuba rotonda dall'ala stretta, col largo oleoso e lucido al disopra del nastro frontale. Il suo fazzoletto da naso a quadretti colorati è incrostato di mucidaglia tabaccosa. Il suo naso è come una tromba. Aspira presate di tabacco con voluttà indicibile. La sua clientela femminile varia dai quindici ai sessant' anni. Tu vi vedi l'occhio inondato di lucentezza e l'occhio velato dalla vecchiaia. Il seno che s'aderge con della presunzione e il seno prostrato, giù penzolone come un sacchetto di carnaccia avvizzita. Il fianco che solleva ancora il vespaio e il corpo infrollito che piega da tutte le parti. I loro abiti sentono tutti degli abiti usati. C'è il fiebu gettato dalla dama e il fazzolettone del vecchio padrone che non si corica mai senza il berretto da notte. La veste di seta la cui trama è in decomposizione e la veste di lana dallo strascico che pare un crostone di melma. Vi trovi stivaletti dal tacco inglese, lunghi più del bisogno, e scarpe rosse, slabbrate o aperte come bocche affamate. Le vecchie sono ravvolte nello scialle fino alla testa ; le giovani nascondono gran parte della capellatura sotto un cappello carico di fiori appassiti. C'è insomma il contrasto. Per cinquanta centesimi l'uomo dal cilindro inforca gli occhiali e inscrive il nome dell' aspirante sul gran mastro delle disponibili, il mastro che serve, sovente, alla polizia. Una volta inscritta si siede e aspetta, accavallando le gambe, appoggiando il mento al palmo della mano o intavolando conversazione colle compagne. All' indomani vi ritorna, risiede, ricomincia a chiacchierare, e così di seguito, fino a quando l' infelice riesce a trovare una famiglia che l'accetti ad assettare i mobili o a lavare i piatti o a fare la cucina. Quando entra qualche signora in cerca di serva o di cuciniera, tutte queste donne si alzano e tentano di mettersi in vista. - Guardi un po', signora, se ne vede qualcuna che le faccia, tra le presenti. - Come ti chiami ? - Teresa Mangiagalli. - Quanti anni hai ? - Diciannove. - Sei già stata al servizio di qualche famiglia ? - Sissignora. Sono venuta via la settimaua scorsa. Mi davano troppo poco. - Quanto ti davano ? - Otto lire al mese. - E da mangiare ? - E da mangiare. - Sei cara. La signora interroga Adalgisa Bianconi. - Tu verresti al mio servizio per sette lire al mese ? - Sissignora. - Bada però che il mio signor marito s'alza presto. Alle sei è in piedi. Ho cinque figli che vanno a scuola. Alle otto devono essere tutti fuori di casa. Sai fare da mangiare ? - Sissignora. - Sai stirare ? - Sissignora. - Lasciami vedere il tuo benservito. Non appena la signora Castagnini ha messo il piede sul marciapiede, i pugni delle serve si protendono verso l'uscita. - Non ci andrei per tutto l'oro del mondo nella casa di quella spiantata ! - Vacci a fare della fame! - Lavorare come una mula per sette lire al mese, coll'obbligo di pagare la terraglia che si rompe ! - Sciocche ! Io ruberei. A padrone io mi impattavo di tutto rubando sulla spesa. Pagatemi, se mi volete onesta! - Con quella lesina avrà molto da rubare. Ci scommetto che leticherebbe sur un centesimo di prezzemolo ! -E come si deve mangiar bene in quella casa ! - Sarà molto se ti si darà del pane a sufficienza. - La tua nuova padrona starà, m'immagino, al secondo piano. Che gusto a tirarti di sopra tanti secchi d'acqua al giorno ! - Voi avete un bel dire. Ma io ho da pensare anche a mia madre. La Rossa in fondo si battè trivialmente la chiappa. - La lascierei morire di fame, piuttosto che servire delle smorfiose per niente ! Ci parve di essere alla vigilia della rivolta delle serve. - Brave, diteci la media dei vostri guadagni. - La lavapiatti non guadagna che sei o sette lire. Quella che cucisce , stira e cucina ne guadagna, su per giù , quindici. Ce ne sono di quelle che ne guadagnano perfino trenta o anche trentacinque. Ma sono guardarobiere, sono ragazze che hanno trovato una nicchia nel cuore di qualcuno della famiglia, sono magari sarte capaci d'imbastire un abito nuovo o capacissime di lucidare il plastron della camicia del signore come la più abile stiratrice. L'aumento di benessere e di mensile delle serve è, come per gli operai, nella organizzazione. Ma chi farà la serva che manderà il nome ai posteri come l'organizzatrice della sua classe ? Avremo, un giorno o l'altro, il basso e l'alto servidorame sul lastrico degli scioperanti ? Un ufficio di collocamento che differisce assai da quello di via della Maddalena, è quello in via s. Vito. È come una cava. È buio, c'è il soffitto sulla testa, è angusto e le suppellettili si riducono a due o tre sedie, alla scrivania e al ritratto del re e della regina. Il direttore è scaltro, e le sue clienti tirano innanzi senza affaticare troppo le braccia. Non abbiamo mai capito il perchè tutta questa gente equivoca si mette sempre sotto la protezione dei rappresentanti della monarchia. Il proprietario della casa tollerata di via s. Pietro all' Orto - del quale daremo in queste pagine la biografia - quando era in vita ci faceva vedere, nelle sue stanze, con della compiacenza, i ritratti di Vittorio Emanuele, di Umberto e della Margherita. L' altro giorno eravamo in una casa convertita in un bordello di kellerine di via Passerella e che cosa, dite, credete che vi abbiamo veduto? Le fotografie delle loro maestà! Il Gavazzeni di via san Raffaele aveva le pareti dei suoi ufficii illustrate da una ventina di coronati. Il suo orgoglio era di dirsi 1' agente di qualche casa reale. In verità era uno che non si elevava di un pollice dal livello degli altri. Noi che lo abbiamo conosciuto povero sappiamo che è morto con del ben di dio. Era bassotto , portava i solini in piedi coi risvolti alle punte e continuava, dalla mattina alla sera, a far sussultare il ciondolo della sua catena d'oro. La sua calligrafia era migliore della nostra. L' Istituto Linda ? È qualcosa come il Martrimonial News di Londra. La differenza è nei quattrini. Il proprietario del Matrimonial News è riuscito , in pochi anni, maritando e appaiando gente , ad accumulare 70 o 80 mila sterline, ventimila delle quali le dovette pagare a una miss per violata promessa di matrimonio. Il donnone dell' Istituto Linda non riesce che a squattrinare e a vuotare qualche litro al giorno. Ci sono delle zitellone che hanno commesso dei peccatacci, come quello di avere abbracciato qualche giovane a insaputa dei genitori ? Con cinque lire l' istituto Linda le registra e quando capita l' uomo adatto le congiunge in nodi indissolubili. Ci sono degli uomini consumati nelle orgie e sfruttati come tante perdute che desiderano accasare i loro malanni e prepararsi una moglie infermiera ? L' istituto Linda ha una galleria di ritratti di donne disponibili. Un tempo bisognava vedere la fanciulla, soggiogarla con una frase, suscitare in lei il tumulto della passione. Ora non si ricorre che all' Istituto Linda - divenuta un' istituzione benefica. Le lettere scritte e scambiate, gli spasimi segreti, i desiderii insoddisfatti, le ansie febbrili, -le fedi giurate, le ritrosie della verecondia, le paure tacite non sono più possibili. L' Istituto Linda ci ha smagati. Ci ha smantellato 1' edificio degli idealisti e ci ha portati in pieno fine di secolo. XI. I frati cavadenti.

Una volta il loro teatro era negli ospedali dei Fatebenefratelli a Porta Nuova e a San Vittore. Ora, dopo la cacciata, è nell' edificio rosso S. Giuseppe , lungo la stessa via. I frati, presi in massa, sono dei curanti che non hanno studiato, salvo qualche rarissima eccezione, nè medicina nè chirurgia. Sono degli zoticoni nel saio che esercitano 1' una e 1' altra colla praticaccia che avevano una volta i maniscalchi, i parrucchieri, gli erborarii, i flebotomi e i cavadenti che furureggiavano alle fiere e sui mercati. I loro superiori di una volta - cioè quando erano ancora nei blocchi monumentali , almeno esteriormente , dei Fatebenefratelli - segavano carpi e metacarpi e disarticolavano ginocchi e gomiti senza autorizzazione universitaria. Non fu che negli ultimi anni che il frate chirurgo dovette andare a Pavia a guadagnarsi la laurea per mettersi in regola colla legge che avrebbe potuto ghermirlo come assassino. In un paese ove il giornalismo professionale di medicina e di chirurgia si fosse sviluppato, i frati non avrebbero potuto esi- stere o crescere sotto le ali della fama usurpata. Essi sarebbero stati inseguiti dagli specialisti laici e denunciati al pubblico come dei ciarlatani e degli incompetenti. Ma fortunatamente per loro i nostri medici non sentono nè la solidarietà di mestiere nè il bisogno di migliorare sè stessi criticando gli altri. Negli altri paesi non c'è giornale di qualche importanza che non abbia il redattore che vive nellè infermerie, che assiste alle ope- razioni e che porta in piazza tutti i delitti che commette 1' ignoranza individuale. Da noi, eh, sì!... In Italia la vita del pubblico è ancora affidata a quel disgraziato di cronista, divenuto , nel giornalismo moderno che vuole mettere alla porta il redattore che sa di tutto e scrive di tutto e raggiungere le altitudini dell'articolo dei competenti - un semplice reporter o un racimolatore di notizie. Quand' è, dite, che abbiamo veduto un medico o un chirurgo sul banco degli accusati ? E non ne vedremo che col redattore medico - col redattore capace di rompere la solidarietà del silenzio - col redattore che antepone il bene pubblico alla quiete personale. Dove siamo rimasti ? Ai frati cavadenti. Questi frati cavadenti hanno sdentato e continuano a sdentare la Lombardia povera senza che si sia levato o si levi il basta! dei professionisti laici, colpevoli di assistere alla sdentizione quotidiana con una indifferenza delittuosa. Il popolo, pur troppo ! pei denti, non ha nella testa che i frati dei fatebenefratelli. Non c' è pitocco che non consigli il collega ammalato di carie dentale di andare ai frati. - Hai male ai denti ? Vai ai frati che in mezzo minuto sei guarito. E i frati vuotano le bocche della povera gente, senza un pensiero per le arcate dentarie tanto indispensabili alla macinazione e ci popolano la provincia di facce coi solchi profondi lasciati dal ferro che sguernisce le gengive. Guardate in bocca alle prime frotte di operai o di cenciosi o di servitori che vi capitano tra i piedi. Voi vi vedrete la strage della lOro tanaglia. Vi vedrete delle mascelle cosparse d'al-

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 10. veoli vuoti, dei denti spaccati dai colpi bestiali dell' operatore, delle gengive saccheggiate dal frate che non conosce altra terapia che la soppressione. Nel fratacchione dei fatebenefratelli non è mai germogliata l'idea della cura del dente, l'idea di cauterizzare o estirpare il bulbo, l' idea di raschiare o di limare o di rimpiazzare lo smalto del dente otturandolo con dell' oro purissimo o anche con del piombo. Per lui sembra che la dentatura sia del lusso. Butta via i canini, gli incisivi e i molari della poveraglia con una noncuranza che ti mette il sangue sottosopra. - Ti duole il dente ? Siedi e spalanca la bocca. È quello a destra o a sinistra ? È quello in mezzo o in fondo? Va bene. Il cavadenti in tunica fratesca gli mette la mano sulla calotta cranica, gli raccomanda di star fermo, col forcipe gli agguanta, il dente pel colletto, ve lo scuote, ve lo tira da una parte e dall'altra, producendogli, magari, delle lacerazioni nei seni mascellari e crac ! crac ! crac! il dente è fuori o resiste. Se è rimasto nell' alveolo il frate inferocisce in ragione della resistenza. Cambia ferro, dà mano alla chiave di Garangeot, pianta nel molare ostinato l'uncino, tira a destra e 'a sinistra senza misericordia, contorcendo il ferro, a costo di fratturargli il bordo della muraglietta polposa. Crac ! crac ! crac ! La vittima rovescia gli occhi o incadaverisce, suda, invoca la madonna e i santi del paradiso. Crac ! crac ! crac! Finalmente il tricuspide o il multicuspide è disalveato. Il frate non lo guarda neppure ! Era un dente che si poteva lasciare nella gengiva con una punta di bambagia inzuppata in una miscela di acido arsenioso, di cloridato di morfina, e di creosoto? Il frate cavadenti non ne sa nulla e non ne capisce nulla. Egli non è che un manovale. Il suo compito era di estrarlo. Eccovelo. Portatevelo a casa. I frati cavadenti sono, di solito, degli omaccioni truculenti, con delle manacce pelose, con delle braccia capaci di sganasciare una bocca di ferro. In loro tutto è volgare. Volgare il naso, volgare la bocca, volgare il pancione, volgari i piedi che tradiscono l'origine del villano. Quando ci trovavamo presenti a queste operazioni che ci facevano trasecolare o pensare a dei disastri boccali, uscivamo dall' ambulanza come tramortiti. I disgraziati e le disgraziate che subivano la sdentizione vociavano, urlavano, scalpicciavano e si alzavano dallo scranno come gente che aveva ricevuto una mazzolata tra coppa e collo. - Madonna santa! vergine immacolata! Credevo che mi strappassero la mascella ! Pareva che mi si levassero i sentimenti ! Dio buono, che dolore ! Noi ci meravigliavamo di vedere che a questi fratacci che rovesciavano o demolivano o sradicavano o facevano in due i denti, tra le grida disperate di chi subiva l'operazione, non veniva mai in mente di alleviare le sofferenze dei pazienti col polverizzatore dell' anestesia locale. Ma dunque non avete proprio imparato nulla ? O poveri che crescete ignoranti e che vi trasmettete di padre in figlio e di generazione in generazione i pregiudizi e le abitudini, ricordatevi che i denti sono necessarii alla bellezza facciale e alla masticazione e che i frati cavadenti che vi sguerniscono le gengive salmeggiando per 1' esaltazione del Signore o per le anime del purgatorio, sono degli ex marrani che pungolavano i buoi o degli analfabeti o dei semi analfabeti che non hanno mai aperto un trattato di odontologia. Fate giudizio e salvatevi i denti scappando dovunque è la tanaglia implacabile del frate di S. Vittore! XII. Pastelli

Carlo Righetti è alto come un dragone. Coi piedi lunghi e piatti sul marciapiede, colle mani stracche sul dorso, cogli occhi perduti nei larghi delle occhiaie fonde, pare uno smemorato che sosti per risovvenirsi dei tempi andati. Tra lo sfacelo facciale gli vedi ancora la " strafottenza „ che trovi diffusa nei chilogrammi della sua carta stampata e tra il naso volgare e i peli abbaruffati del mento che vorrebbero baciarglielo, signoreggia pur sempre la ghignata che disvela la caratteristica maiuscola della sua vita. Veduto a trent'anni di distanza, dalle giornate gaudiose in cui il Rattazzi gli " strozzava in gola „ il suo primo discorso parlamentare, si è obbligati a rispaginare il De Gubernatis - il dizionario di quasi tutte le mediocrità viventi - per convincersi che non si è vittima del daltonismo. Il tempo lo ha divorato. Non ne è più che il fusto e l'eco. È lungo, magro, assecchito. Vicino a lui ti si popola il cervello di denutriti e ti pare di sentire pei tubi au- ricolari il tintinnio dei pellagrosi. La sua faccia olivastra è sparuta, rugosa. Gli orli dei padiglioni delle sue orecchie hanno assunta la colorazione brunastra della persona invecchiata. Così, tutt'assieme, cogli occhiali che gli stanno a calvalcioni come un peso, chiuso nella giacca che gli sta male, sotto il cappello basso che gli sta malissimo, passa tra la gente, a 68 anni, come uno sconosciuto o un dimenticato o uno che sopravvive al suo tempo. Per uscire dagli orrori della indifferenza o rimanere vivo tra i vivi, il Righetti ha sgolato l'aiuto del naufrago più di una volta e più di una volta si è rimesso a rilavorare il materiale della sua penna feconda di cacherie. In pochi anni lo abbiamo veduto rimestare e rimaneggiare il fondaccio dei suoi ricordi, raccontare mille e una volta la storia del suo teatro milanese, sdraiarsi ripetutamente nelle confessioni delle madri per ridere o delle sostitutrici d'inefante, affiggersi, per gli assiti e per i pisciatoi, come un avviso elefante circondato dalla " verginità delle donne," distrugggere e rifare la creatura che gli ha ammazzato il teatro e divorato il repertorio che lo lasciava vivacchiare, percorrere da ladrone le pagine piene di " laidumi e cattivi odori " per infiorettare il suo " ventre " milanese gonfio deí tritumi racimolati dai pennivendoli più malandati della Milano moderna. Lavorando di schiena, il Righetti si è veduto, diremo così, inghiottito dal suo stesso inchiostro che non fa più chiasso. Quanto più produce, tanto meno si sa della sua esistenza. Proprio. L'Arrighi appartiene alla classe dei pennaiuoli che scompare dalla piattaforma pubblica pur continuando a ingrossare la mole della merce invenduta. La ragione ? È semplice. È che nel Righetti che scrive " non tanto per farsi leggere, quanto per dar aria alle sue idee, „ è nulla che non sia del raffazzonatore o del grafomane che piglia gusto e coraggio dal cumulo delle cartelle sgorbiate. I suoi scritti sentono tutti dello sforzo crudele che l'autore ha fatto per levarsi dal padule della prosaccia indigeribile. I suoi libercoli senz'aria, senza stile e senza forma, ti lasciano eternamente sullo spazio sabbioso ove non è possibile vegetazione intellettuale. Tu puoi percorrere mille o due mila o tre mila pagine righettiane, senza mai essere consolato del sagrificio con una frase superba, con una frase che volteggi per il cielo come una gloria letteraria, con una frase che rifocilli lo stomaco indebolito dal pastone antigienico e narcotizzante che ti ha ammanito , con una frase d' acciaio , una frase di bronzo, una frase che ti dia con un po' d'orgia spirituale la forza del cervello che 1' ha generata. Tu esci dai suoi libri stracco, come un viandante che ha percorso lo stradone interminabile , soleggiato, polveroso, senza essere riuscito a trovare la capanna ove nutrirsi e dissetarsi o un gruppo d'alberi per pascersi di verde e proteggersi dal sollione. Forse la colpa non è sua. Forse la colpa è del suo cervello. Il cervello di Righetti o di Cletto Arrighi e di Neo Cirillo , non è mai stato carico che di roba industriale. È un cervello senz'im maginazione. Prima di vedere un cappello, gli è necessario di avere sotto gli occhi un copricapo. Alfonso Karr, per esempio , poteva scrivere le livre de borri senza leggere Cletto Arrighi, ma Carlo Righetti non avrebbe saputo alimentare la " Cronaca grigia " senza fare delle spanciate di Alfonso Karr. Lo spirito d' imitazione fu sempre così sentito in Righetti, ch'egli non ha mai potuto scrivere senz' essere suggestionato o senza " trasformare " la roba degli altri. È in lui qualcosa del cleptomane. Sente un bisogno invincibile di " trasformare" la merce sciorinata nella vetrina pubblica. Fu la " Cagnotte " che gli fece mettere sulle scene " El barchett de Buffalora „ che gli mise in tasca il sogno dei drammaturghi italiani, più di mezzo milione, quasi seicento mila lire! Fu la " Bohème" che gli fece spuntare la " scapigliatura " - un romanzo per modo di dire, perchè non è in esso neppure una favilla del Mùrger. La " Nanà " di Zola lo ha nauseato, ma non gli ha impedito di fare quattrini colla " Nanà a Milano. " Gli Amori degli uomini " lo hanno trascinato a tavolino a scombiccherare gli " Amori delle donne. " I " Moribondi del Palazzo Carignano " del Della Gattina non l' hanno lasciato quieto fino a quando fu padre dei " 450 " - biografie di deputati che documentano la sterilità della sua testa e la sua mania di vedersi in casa uno scaffale zeppo di volumi di Righetti. " Gli onorevoli " del Petrucelli della Gattina sono adagiati, e qualche volta sommersi, nei pensieri che riassumono o condensano, nella grandiosità della forma, la loro esistenza. I " 450 " del Righetti non sono uno studio di sedute parlamentari e di osservazioni personali, ma sono degli uomini imbottiti di paglia, degli uomini rimpinzati di borra, dei deputati di cartone, dei mannequin. Non è in loro la vita. Il " Ventre " zoliano " non è, per Righetti, che un eterno piazzale di verzura. Ma nel catalogo delle sue infinite pubblicazioni è il " 'Ventre di Milano " che il Fortis, nelle " Conversazioni della Domenica, " chiamava un' insulsaggine o una fisiologia .... ventricola. È una cavità riempita di zibaldoni, di imparàticci, di rabberciature e di stracci malamente rappezzati. Qualcheduno ha voluto scovare nelle trivialità righettiane dell'umorismo o della satira o dell' ironia fina o di buona lega. Ma proprio c'è Malia di tutto questo nel guazzabuglio di Cletto Arrighi. Non c' è che lo sberleffo e il paradosso malrifatti. L'ironia, la satira e 1' umorismo si perdono o si compenetrano nella produzione intellettuale, come in quella del Parini. Lo sberleffo e il paradosso malrifatti diventano della masturbazione, o delle dissonanze stilistiche. Quando è " originale, " come si dice, è di una banalità desolante. Che cosa trovate, ditemi, di sarcastico o semplicemente di spiritoso, nel dire, per esempio, che " la Perseveranza è noiosa come la berretta da notte " o nel farci sapere che il Bonfadini " ammazza il Pòlitecnico una volta al mese " o nel definirci il colore della cronaca grigia " così : il grigio miscuglio di bianco o nero- non è un colore ? " Sentite che frasi e che pensieri escono dalla sua " carta. sporca: " " Quando gli salta la mostarda al naso - un colpo alla botte e uno al cerchio - ho voglia di sgannare i creduli - un micolino di penetrazione - un crepuscolo di ubbriachezza. " La frase che gli è andata alla testa e che fa capolino in tutti i suoi scritti, è di " grattarsi il diaframma " ch'egli ha coniugato in tutti i tempi. Anche quando vuol essere patriotta e audace, riesce piatto, comune, contorto come un ragazzo di seconda elementare. Più di una volta, dice, nell' annotare queste memorie, ho dovuto lordare la penna nel putrido fango dell' austriaca polizia. " Non c' è orecchiante della letteratura che sappia scrivere peggio. E di questi periodi, il Righetti, ne ha delle gerlate. Ma volete straconvincervi della nostra convinzione che il Righetti non è che un pedestre scribivendolo o un pessimo racconciature di articoli, di drammi, di commedie , di romanzi, di biografie e di memorie? Datevi la pena di seguire, lungo i grossi volumi della " cronaca grigia, " la sua polemica col " Secolo " - il giornale che lo considerò morto per dieci anni, e il giornale che non volle accorgersi della sua esistenza se non dopo la penitenza, cioè dopo che si era messo a lodare e a stralodare il Sonzogno e gli asili notturni. Voi vi cercherete invano il letterato e il giornalista o il painphlétaire o il semplice pamphiétier che procombe sul nemico colla fraseologia che cinghia, scudiscia o strangola magari 1' avversario. Non vi troverete che il giornalaio nutrito del frasario dei quotidiani che vende. I suoi improperii o i suoi insulti sono del becero, della rivendùgliuola o dello screanzato. Non è in lui l'emotion. Il suo inchiostro è freddo. Le sue pagine sono senza dolori, senza gioie, senz' odio, senz' amore, senza trasporti, senz' ira, senza esecrazione. Leggendolo si attraversa una linda eterna. Tu non trovi nel suo inchiostro, quando vi trovi qualche cosa, che il rancore, il rancore ignobile che sbaveggia alla superficie senza mai lasciarsi sguinzagliare dall'impeto, il rancore vecchio, rancido che si mantiene tiepido per ricordare che il Righetti ha sempre in serbo una parola scurrile per coloro che lo hanno punto o che non


[didascalia immagine:] Interno della cenciaiuola del "Guast"


Milano sconosciuta e Milano moderna. -Puntata 11. hanno creduto al suo ingegno. Dal suo materiale di polemica non esce mai, col fumo e coll'odore della battaglia, la pagina del critico che demolisce e costruisce, la pagina del critico che ragiona o che insegna e mette gli avversarii sul binario della giustizia e della grandezza umane, o la pagina del letterato che va alla sommità stilistica come Flaubert o del giornalista che si abbandona alla veemenza e si riassume con una frase immortale come Rochefort. No, polemizzando col Righetti, tu sei sempre in lotta col nano o colla trecca che ti tappa la bocca con uno sputo sul naso o snudandosi il culo con un trullo che ti rivoluziona lo stomaco. Le colpe del Secolo, se sono colpe, si riducono all'avere attribuite le sue dimissioni di deputato, nel '69, al tripotage della Regia e all'averlo chiamato " matto " nel '72. La prima accusa non esigeva che un documento o anche della semplice virulenza ; la seconda, del silenzio o un articolo che dimostrasse il contrario. Il Righetti non ebbe che delle villanie, delle eterne villanie che cessarono solo quando " casa Sonzogno gli stampò gli estremi aneliti ". Villanie di una trivialità che ribadiscono il nostro concetto che nella penna che mise assieme quel centone di sudicerie intitolato la verginità delle donne, non è mai stato che il giornalaio. La sua bizza viperina o di zitellona non gli diede, per sfogo, che di questa robaccia castrata. Il Secolo " è lo scolo ". " Il giornale delle serve. " " A chi non lo sapesse dirò che il giornale delle serve è il così. detto Secolo, l'idolo appunto di questa interessante classe di cittadini che si pappa la prosa del Romussi senza accorgersi mai della corbellatura ! " Il Secolo, " passatempo delle anticamere, organo delle lavascodelle ". Il Romussi, negli ultimi anni della Cronaca Grigia, non era che un cronista, ma un cronista che nulla aveva di comune col cronista ubriacone del Pungolo e col cronista marzoccone di un altro giornale. Anzi, noi, che non siamo sospetti di tenerezza per alcuno, dobbiamo aggiungere che col Romussi la cronaca cittadina raggiunse la vetta più alta del giornalismo milanese. La sua era una cronaca intellettuale, che sentiva l'avvenimento, che raccoglieva il maggior numero dei lettori del giornale e che, indirettamente, coll'incorruttibilità del cronista, ammazzava quella prezzolata. Un giornalista che avesse avuto dell'orgoglio professionale poteva polemizzare e dare addosso o anche scarnificare il Romussi. Invece, il Righetti, giornalaio, non seppe che perseguitarlo con un insulto indecente, un insulto che avrebbe voluto punirlo di non essersi allungato al disopra della media degli uomini ! Dove non è ingegno, credetelo, non è lode sincera. A leggere sbadatamente il Righetti, potete credere ch'egli sia uno dei più grandi ammiratori dell'" attore più originale che conti l' età presente ", del quale " è stato, se non il maestro, la prima guida ". Ma a leggerlo con qualche cura, incappate subito nella disillusione. In uno scritto trovate l'esaltazione di Ferravilla e in un altro il macellaio che gli recide netta la testa. " Col Ferravilla la vera commedia oggi è Morta, non dirò per colpa sua, ma per causa del Ferravilla. " Il Ferravilla, " colla propria valentia, ha saputo far senza della vera arte " per " incarnare nella propria personalità tutti gli effetti, gli effetti di gloria e di cassetta, e per mettere in ombra parecchi attori della stessa compagnia, che a sentire certuni valgono più di lui perchè sono più versatili, più completi, più bravi. Infatti non è che la personalità del Ferravilla che oggi supplisce alla vergognosa deficienza del repertorio. Tutte le più applaudite produzioni dove egli entra - tranne qualche eccezione - se fossero tentate da un capocomico italiano tirerebbero sul palcoscenico i torsi di cavoli. Per lui non sono necessarie commedie artistiche. Oggi non c'è più - lo ripeto - teatro milanese. C'è un teatro Ferravilla ; quando lui si ritirerà, rifaremo il teatro. Il teatro milanese fu miseramente sciupato da Ferravilla. " Noi non vorremmo essere nè lodati nè difesi dal Righetti. Perchè egli adempie a queste funzioni con una malagrazia che spesso va oltre la cattiveria. Prendete Mazzini. Un giorno l'Italia liberale domandava con una petizione che il Parlamento cancellasse un obbrobrio nazionale, la sentenza di morte contro Mazzini. La Cronaca Grigia si dichiarò favorevole alla petizione, facendo seguire al nome di Mazzini il " soprannominato l'apostolo dell'idea " e aggiungendo che " per Mazzini la pena di morte è una specie d'aureola di martirio che serve a dargli rilievo ed importanza ". Achille Bizzoni, il capo dei perduti dell'indimenticàbile Gazzettino Rosa, scrive, nel periodo più battagliero della sua vita, il suo chef-oeuvre, che è l'Autopsia di, un amore. Il Righetti lo loda. Ma poi vi butta là, lui, che è pieno di francesismi come rango e talento, lui, che è zeppo di parole 'stantie come battisiofola e garantoli, lui, che continua per degli anni a declinare i nomi come il più ignorante presidente di Tribunale che invita il teste a " declinare " il nome, lui, parlando bene del romanzo di Bizzoni, butta là, in fondo, un punto interrogativo e un punto di compassione che distruggono tutto ! " E la lingua ? Dio buono ! " Sainte-Beuve, quando trovava la famosa sgrammaticatura nei romanzi di Balzac, la diceva, non scappava via come il Righetti per lasciar supporre che l'autore di Eugéne Grandet fosse un asino! E come la diceva! Nous adressons ces chicanes de détail à M. de Balzac, parce que nous savons que, malgré toutes les incorrections par nous signalées, il soigne son style. Noi fummo tra coloro che credettero sul serio che la Ivon non sarebbe stata demolita dalle sue mani. Sapevamo che egli si era dichiarato, pubblicamente, il suo " istitutore drammatico " e il suo "difensore al tempo del processo ", come sapevamo ch'egli considerava questa " sua prima donna l'eco della sua anima artistica ". Al tempo del processo, quando l'indignazione popolare caricava la Ivon del teatro milanese di ingiurie, il Righetti fece rinascere la Cronaca Grigia e scese nell'agone, armato delle solite trivialità, a sostenere l'innocenza della " peccatrice elegante ". Egli sosteneva a Milano, contro " circa 299.700 persone " che credevano il contrario, che la Ivon era incapace del delitto di sostituzione d'infante, che la neonata era proprio la Maria Ivon Silvestri, che gli occhi della bimba eran quelli " sputati della madre ", che il " papà Giulio " " rideva sul muso a chi gli parlava di simulato parto ", e che lui, Cletto Arrighi o dottor Righetti, era stato presente al parto, cioè era tra coloro che nella sala attigua alla stanza della gravida ave- vano sentito gli " strazianti aneliti "della povera Ivon e che avevano complimentata la puerpera.

Giacche qui ancor risuonano Nella sgomenta testa Quegli strazianti aneliti Che udii, pur troppo, in questa Sala, che sta qui attigua Il di che al tuo poeta Venisti a far più lieta Del Giulio la magion.

Neanche un cane avrebbe avuto il coraggio di chiamarsi "poeta " e di mettere in pubblico versacci come quelli che abbiamo copiati. Ma via, per noi, equivalevano a una dichiarazione di amicizia fedele, di amicizia salda, che non si lascia frangere dalla bufera. Il Righetti, per noi, rimaneva il giornalaio o lo scrittorazzo, ma diventava una specie di Bottèro, il quale sosteneva l'innocenza di Luciano con affermazioni che commuovevano molta gente. Ma non appena fu in giuoco la sua borsa, il Righetti ritornò Cletto Arrighi. La buttò nel mare. Leggete l'ultima parola sulle Confessioni di Emma Ivon, e ci darete ragione. Le supposte Confessioni di Emma Ivon erano del barone Cicogna II, e cioè di Righetti. Nell'ultima parola " l'eco della sua anima artistica " diventa " la signora Ivon ", l'" impudente signora Ivon ", la mentitrice " signora Ivon " che ha " voluto far credere d'essere estranea alla compilazione del libro ". Egli esigeva da lei qualcosa che non aveva forse neppure il Rousseau. Voleva ch'essa si dichiarasse autrice di brani come questi, o pagasse 2400 lire per le spese di stampa ! " Certamente io non permetto che si sciorinino in pubblico i segreti delle mie galanterie, e tanto meno quelli della mia alcova, per piacere a qualche imbecille. Nessun uomo di buon gusto e di buon senso ci può tenere a tali rivelazioni intime, nè me le cercherebbe di certo. Molti poi non le tollererebbero neanche e avreb- bero pienamente ragione. Mi pare che un libro nel quale una donna, poco o molto conosciuta, lasciasse parlare dei propri amori, ancorchè legittimi, ancorchè non vietati dalla morale o dal codice, farebbe nausea. L'amore vuol l'ideale, non la persona. Dunque di erotismo nulla. Io non sono, nè mi faccio in questo migliore o peggiore della maggior parte delle donne che si trovano spostate e so di non essere mai stata una santa. Soprattutto io ci tengo a non posare all'onestà, nè ad aver l'aria che voi dobbiate intraprendere le mie giustificazioni, nè le mie difese. In fatto di galanteria il pubblico ne sa quanto me, e su questo proposito non ho bisogno di spiegarmi. Se raccontandovi i miei colloqui, le mie gherminelle, le mie avventure, i miei dolori e i miei torti verso qualche amico intimo, io vi darò occasione di pensare che poi con lui non ho sempre recitata la terza parte del rosario, non sarò io che griderò allo scandalo nè alla calunnia. L'amore che si fa col proprio amante deve comparire nelle memorie d'una donna che si rispetta, come le cene, ed i pranzi dei personaggi dell'Ariosto. Costoro devono averne fatti parecchi di pranzi e di cene; se no, non sarebbero stati in piedi e non avrebbero potuto fare quel diavolo a quattro che facevano; ma l'Ariosto non non ne fiata mai, talchè si direbbe che tutti que' cavalieri erranti vivessero d'aria, di amore e di ideali. " Il Righetti di tanto in tanto fa pompa di qualche modestia, battezzando le sue produzioni " sconciature „. Ma in fondo, gratta e gratta, tu trovi sempre il vanitoso. Egli non avrà biografie. Ma se ne avesse uno, il disgraziato si troverebbe senza materiale nuovo. Perchè il Righetti è il Barnum dell'autoréclame. Egli vende al pubblico tutto ciò che fa e dice. Attacca un giornale? Trova modo di dare un consiglio alla Gazzetta di Milano, dicendo che " in tempo di guerra guerreggiata non è il caso di rimettere fuori quel becco e quegli artigli che essa nascose nel 48 e nel 49, quando la Cronaca Grigia, - leggi Righetti, perchè la Cronaca Grigia non era ancora al mondo - era andata a cercarsi una palla pel proprio paese. " C'è in ballo il teatro milanese? Egli ti ficcherà nella questione le 1500 lire che pagò alla Beltemacchi per i due abiti del " debutto " della Ivon. Si parla delle sue pubblicazioni? Non dimentica mai di dirti la loro tiratura. Nel Ferravilla tu leggi: " Esaurita in quindici giorni la prima edizione delle 3000 copie, si dovette, lì per li, mettere mano a questa seconda ". Si loda la Cronaca Grigia? Eccoti il Righetti che viene a dirti che la Cronaca è lui. Qualcheduno eredita ? Egli ti ricorda che anche lui, il 17 settembre 1869, ereditò 80.000 lire dal suo zio Bernardino Righetti. Si chiacchiera sulle ingiustizie? Il Righetti non sa trattenersi dal ripetere che il Ferravilla gli ha soppresso tutti i suoi lavori per " avergli detto quello che si merita ", perfino el gran ciallon, parodia del Francillon, ch'egli aveva scritta per "la Comelli quando la Duse recitava a Milano! Il suo ticchio giornalistico più notevole è quello di negare l'evidenza. Ai tempi della battaglia navale di Lissa, quando la nave ammiraglia, Re d'Italia, era stata affondata dalla marina austriaca, tutti i giornali aggredivano e seppellivano il Persano, come ai nostri tempi abbiamo veduto aggredire e seppellire il Baratieri. Il Righetti non volle saperne di acconciarsi a questa disfatta e di unirsi a coloro che lo denunciavano. " Il fatto per lui di essere marinaio italiano, vale a dire quanto vi è al mondo di più coraggioso e di più audace " non gli permette di credere " il Persano un imbecille. " " Come uomo " il Persano " gli era antipatico e quasi odioso, " " ma come marinaio italiano sentiamo indomito il dovere di difenderlo da questa stolida accusa - di vigliaccheria - ancora a costo di renderci impopolari. " Si riconferma che Cialdini, Bixio e Medici abbiano date le loro dimissioni, ma Righetti persiste " non pertanto a credere che non sia vero ". Come giornalista è un vero squilibrato. Il Lamarmora anticipa di 24 ore il termine di tre giorni da lui stesso stabilito per la dichiarazione di guerra, invadendo il territorio nemico. Qual è il compito di un giornalista che sappia tale notizia? Di denunciarlo come un paltoniere. Il Righetti scrive invece " che allora ci guardammo bene dall'avvertire questo fatto! " L'ufficio elettorale " è accusato di colpevole trascuranza. " La Lombardia ne pubblica la smen- tita. " Ma dal momento che l'ufficio si è voluto rivolgere alla Lombardia, la quale ci smentisce, siamo in obbligo di sostenere ciò che abbiamo detto. " È in lui il " risentimento ". Lo Jarro, crediamo, andò " fuori dei gangheri " pare, per' avere letto delle parolaccie righettiane sul conto di Ermete Novelli, un artista geniale illustrato dallo stesso Jarro. Il Righetti si difese dicendo il Novelli " un uomo di una educazione.... via dirò.... non perfetta, non finita del tutto ". Ma è del risentimento ! " Ebbè ? Che bella scoperta!". E abbiamo finito. Noi, col nostro pastello, non ci siamo proposti che di dimostrare l'inutilità di un'esistenza operosa. Ci siamo riusciti? Se c'è ancora qualcuno che abbia dei dubbii, si dia la pena di passare attraverso le guépes, i bourdonnemenls e i volumi del livre de bord di Alfonse Karr. Egli vedrà che mentre per taluni una lingua moderna diventa un aiuto per slargare gli orizzonti e ringagliardirsi lo stile, per Righetti è un mezzo per entrare nel regno degli abborracciatori col treno lampo. Abusando del suo tempo che contava gli uomini bilingue, trilingue o quadrilingue come noi contiamo ora le mosche bianche, egli ha servito tutto ciò che gli capitava sotto la penna impaziente senza assimilarsi nulla. Così che noi non possiamo neppure mettere il Cletto Arrighi fra gli scolari o gli imitatori dell'autore d'une poignée de vérités. Perchè noi siamo agli antipodi degli ideali di Alfonse Karr che avrebbe voluto, per esempio, una stampa pagata il doppio della stampa " indipendente " dal governo. Ma dobbiamo confessare che veri o no, i suoi aneddoti ci interessano, come ci interessano i suoi calabroni o le sue vespe e i suoi romanzi. Leggendo Righetti voi sapete ch'egli odia i " giornali rossi ", come il Karr, ch'egli non ha opinioni politiche, come il Karr, ch'egli non appartiene ad alcun partito, come il Karr, ch'egli prende peu de choses aux serieux,' come il Karr, ch'egli evita de faire de martyrs, come il Karr, ch'egli è stato accusato d'essere una penna venduta, come il Karr, ma poi ? Il Karr vi può convincere o non vi può convincere, ma vi dà delle ragioni. Il Righetti vi lascia a bocca aperta col ? In 37 anni di vita pubblica il Righetti è rimasto estraneo a ogni movimento letterario politico e sociale. I suoi autori drammatici furono i Marenco ! i suoi romanzieri, i suoi uomini politici, i suoi giornalisti furono i Dossi, i Primo Levi, i Luigi Perelli, i Napoleone Corazzini - tutte penne bislacche divenute più o meno della zavorra burocratica! La questione sociale lo ha lasciato intatto. Egli non ha mai avuto pensieri che pel suo ventre. Abbandoniamolo. Egli è seppellito e dimenticato sotto la montagna della sua " carta sporca „. Nessuno lo ricorda. Il suo egoismo, la sua " strafottenza „, la sua aridità di cuore, il suo cinismo e la sua insolenza o la sua arroganza di una volta, non gli hanno lasciato intorno neppure un istrione del teatro milanese. È morto. Felicenotte.


Milano sconosciuta e Milano moderna. — 'Puntata 12. XIII. La via del Guast.


Il faut perdonner beaucoup à la misere. Balzac


È una via ricurva che ha due sbocchi: l'uno mette in piazza Castello, l'altro in corso Garibaldi. Sono una quarantina di case sopravissute alla grande demolizione : luride, vecchie, screpolate. Un tempo un gavee (minchione) qualunque, che si fosse avventurato in quella stretta, arrischiava di essere derubato, spogliato ed anche assassinato con un colpo di martino (coltello), senza che le sue grida di aiuto! aiuto! gli menassero qualche soccorritore. La camorra, per servirci di un vocabolo moderno, si estendeVa dal proprietario della casa al subaffittuario, dall'affittaletti all'inquilino, dal .bouis al liquorista, dallo straccivendolo al lattivendolo. Era un compromesso tacito fra di loro: l'uno non avrebbe fatto la forca (spia) all'altro. Quando taluni di essi stavano facendo la fera (derubare) a qualche vasto, nessuno di quei pacifici abitanti se ne immischiava. Veniva, per esempio, arrestato Tizio per un furto o un delitto al quale egli non aveva preso parte, ma di cui conosceva gli autori? Il Tizio si lasciava condannare, mandare alla Bassa (ergastolo di Mantova) a scampagnare per qualche anno, al prato (bagno) od anche a Casalbuttano (a farsi appiccare), senza che la sua dannosa (lingua) si sciogliesse. Tanta la solidarietà era radicata in quegli uomini affratellati da una sorte comune! Avevano insomma anch'essi la loro bandiera: tutti per uno, uno per tutti. Ma lasciamo in pace i morti e veniamo a parlare della via Anfiteatro, che è il nuovo nome che i padri della patria hanno dato da qualche anno alla via del " Guast ", memorabile negli annali polizieschi. Cominciamo sbocco che mette in corso garibaldi A sinistra vedi un uomo dal piglio di ammazzasette, intorno ad una carriuola con tanto di tettoia di tela, il quale vende d'estate il sorbetto " dell'unghia " e la consolina, e d'inverno gli " arrosti caldi " e la " trifola " (patate cotte). - Gelati e buoni, cinq ghei la pigna! E l'è bonna la consolina!! Fresca in giass ! - Trifole belle ! E l'è bujenta la trifola! A destra la sucida bottegaccia del polentatt, che è uno sbaiaffone e un giurone a tutta prova, ma che in fondo è una buona pasta d'uomo (1).


(1) Ha violato non sappiamo quale articolo del codice ed è ora in buiosa.


[didascalia immagine:] Sorbettee. Laddentro sono un lungo tavolo e due panche su cui seggono gli avventori che potremmo chiamare forline e lòcch della piazza Castello senza incorrere nella diffamazione. Con una cinquantina di centesimi " el lòcch" ivi desina e cena. Può avere la galba (minestra), la " polenta vedova ", la polenta comodada, el scaglioso (pesce), la buia (carne), i trifol rostii e in insalata, e la rostiscianna, che è un pasticcio di carni fruste comperate da qualche trattore o di carne di porco , o di cavallo puzzolente con cipolle, fritto nel grasso bianco o nello strutto che dir vogliate. In quel bugigattolo che serve per la cibaria, il lòcch trova spesso il manutengolo. Non appena un apostolo (compagno) ha nelle mani un ciff de bava (fazzoletto), una facciada (gilet), una santa (borsa) o un paio de bigoss (calzoni), li porta colà, persuaso di trovarvi qualche altro apostolo, intanto che un famosissimo capoccia, notissimo in juda, " el fa la nona " (la guardia), per vedere se mai spuntassero da qualche via i biss (questurini) o cd traversa (carabinieri). Sempre a sinistra, al n...., troviamo la locanda L..., che rivaleggia con quella del Berrini. La casa è composta di circa trenta stanze, ventuna delle quali servono di dormitorii. È inutile che qui si ridicano la sucidezza delle muraglie, la sporcizia dei sacconi, il tanfo morboso, i ragni che intessono la loro tela senz'essere disturbati negli angoli delle pareti, gli argentei pidocchi dalla coda nera che percorrono in compagnia delle cimici i nauseabondi giacigli. Basti dire che quasi tutte le stanze sono divise da tramezze

[didascalia immagine:] Polentatt. di legno o da semplici tende di percallo, e che in ventuna di esse abbiamo numerato 104 letti; questo prova come l'igiene sia osservata ove dorme la canaglia che vive e muore eroicamente come i refrattarii di Jules Vallès, senza mandare un lamento. Una ventina di passi innanzi, al n...., c'è un baccalin, il padrone del quale è conosciuto sotto un nomignolo che lo dinota un furbo. Oltre a questa classe, da questo cicchettaio convengono soldati e certe stagionate prostitute, conosciute in Francia sotto il nome umiliantissimo di pierreuses o femmes de terrain, e cancellate dal buon Tajetti (1) dal gran mastro, sicuro che, per la loro sconcezza e per la loro vecchiaia, non desterebbero desiderii di sorta. Ma così non è. Esse si ribellano anche alla legge del tempo, pur di non essere costrette ad accattare di porta in porta un tozzo di pane. Sapete cosa fanno? Fanno.... No, non lo diremo. La penna talvolta rifugge dal narrare certe turpitùdini che muovono a schifo. Vi basti sapere che se la intendono assai bene coi sodomiti e coi pederasti. Ecco un altro baccalin " con vendita di vino ". Chi sa come sarà buono ! ci siamo detti, leggendo l'iscrizione. Per entrare, bisogna discendere due gradini molto alti. I vetri, fatti opachi dalla sporcizia e le tendine un tempo rosse, danno addirittura l'idea del luogo. Il proprietario lo chiamano el Golott, il quale, tra parentesi, ha passato una ventina d'anni in buiosa (prigione), per avere incespicato involontariamente in un articolo di quel maledettissimo codice penale. Quando siamo discesi in quel girone infernale, ci sentimmouna stretta al cuore. Altro che luogo di passatempo! Una lunga stanza a coda, piena di nebbia che offusca la vista e che ti farebbe dare del naso in qualche muro, se un lumicino, che sembra lontan lontano, non fendesse, o male o bene, la densa nube.


(1) Il Tajetti era del sifilicornio. Lo rivedremo. Intorno a un tavolo una gobba, con un naso che poteva dar dei punti a quello di Cleopatra, lacera, coi piedi nudi, sdentata, sdraiata come una scrofa sur una panca, colla testa tra le gambe di un lòcch (giovane d'anni, ma invecchiato di molto pei patimenti), che le servono da capezzale. Poi altre vecchie, che potemmo vedere di profilo, buttate metà sul tavolo, che russavano vicino ad un tale che seguiva cogli occhi il fumo della sua pipa. Più in giù, quasi all'estremo della coda, vediamo come due ombre che si muovono. Ci diamo una fregatina d'occhi, come per veder meglio. Indovinate chi erano ? Una di quelle donne che abbiamo testé accennate ed un soldato, i quali, come se nessuno fosse presente, oltrepassavano il bacio. Pagammo la mezza zaina de rabbiosa (acquavite), ed uscimmo. Di fronte a questo luogo d'ogni luce muto, c'è un altro baccalino, dove, oltre al bere, ecc., ecc., si balla. C'era là un organetto capacissimo di lacerare qualsiasi " ben costrutto orecchio " che faceva pirlare due o tre coppie. Le danzatrici, très décentes, appartenevano al postribolo di via Fiori Chiari : i danzatori.... chi lo sa? Forse prima di sera potevano essere nelle mani dei bracchi (guardie di questura). Danzate, danzate, o sventurati ; che almeno in questa ora fugace, in questo secondo d'ebbrezza, possiate dimenticare la via crucis cui siete condannati a percorrere ! Danzate; e se tra quei vortici vi lampeggia un raggio di speranza, voi felici!... Rasentando il muro a destra vi è un altro di questi negozi equivoci. È di proprietà del subaffittuario della casa, il quale ha provato anche lui come sa di sale il pane della prigione. Ma è un uomo bizzarro questo signor cicchettaio. Egli ama far sapere a tutti che è un fior. di galantuomo, che non ha nulla di comune colla " feccia „ come la chiama lui, e che tutte le volte che fu imprigionato lo fu a torto. Pazienza! È la debolezza di quest'uomo, che in fondo, in fondo, come dicono i forlinn, è un buon diavolaccio. Nella casa di questo subaffittuario, che è anche un buon muratore, ci sono quattro o cinque locande, tutte di quindici o venti canili nauseabondi, che nel fantastico linguaggio dei locandieri si chiamano letti. Di tutti questi ributtanti bugigattoli ci sarebbe da ridire tutto quello che abbiamo detto degli altri. Vale forse la pena ? No. A noi basta oramai designare le immonde tane che racchiude nel suo seno la capitale morale d'Italia. A noi basta dare uno strappo qua e , là alla pudibonda tela collocata con cura, sotto cui si celano turpitudini e vergogne incredibili, perchè anche i gaudenti, coloro che ragionano sempre a pancia piena, abbiano a godere l'esilarante spettacolo, senza pagare la tassa d'ingresso. Due passi ancora innanzi e ci troviamo di fronte ad un largo buco, entro cui vegeta una cenciaiuola dal cui faccione sembra sgoccioli il torborino (mosto). Vedendo quelle gambe inanimate penzoloni, quelle giacche scucite, rattoppate, raggrinzate, quei cappelli a mille fogge senza tesa,schiacciati, bucati, quelle ciabattacce in mezzo a dei souliers mignons, arrossate come i pomelli di una bagasciona in pensione, quei bottoni spaiati che rappresentano la storia della divisa militare, dal Primo Napoleone al Primo Umberto, felicemente regnante, quel ferro-vecchio accatastato, quella cianfrusaglia insomma ammonticchiata, diresti che ivi si muore d'inedia. Invece t'inganni, lettore garbatissimo. Quella smargiassona di vecchiaccia (che quando ciancicchia ti pare la stia attaccando briga con qualche erbivendola, tanto dà sulla voce) se la passa assai benino. Non dirige, come la celebre Luigia Bouviers, la banda di ladri, ma, sai.... non è troppo scrupolosa. Compera ad occhi chiusi e vende dormendo... Sa vivere e lasciar vivere : vero modo per non dimagrire. Qualche passo... - Basta, perdio ! sento gridarmi alle spalle, volete farci morire di nausea ? - Oh, che colpa abbiamo noi, lettori, se troviamo per la Milano sconosciuta dei gruppi ignobili e degli antri incredibili ? -Basta! basta! - Poichè lo volete, sia! Volevamo denudarvi un'altra piaga... Non lo volete ? peggio per voi ! XIV. I coscritti per istrada.

Il sole scottava. Le vie erano assordate dai coscritti dell'ultima classe venuti a Milano a indossare la rusca della " mezza pagnotta al giorno ". Parevano gruppi di schiamazzatori in giro a sbevazzare. La gente li evitava o filava via chiamandoli, , mentalmente, pivioni. Erano vestiti di fustagno, colla giacca sì e no' alla cacciatora, col cappello molle sbattuto indietro o tirato sull'occhio, senza cravatta o col foulard giallo o paonazzo annodato in alto per lasciarne svolazzare le punte, colle scarpe dalla suola grossa un dito,

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 13. dal tacco ferrato come un cavallo, dal cuoio duro e rigido coperto di polverone. Il bianco della loro camicia di tela filata e sbiancata in famiglia e ricamata in casa, aveva le gocce di vino giù come un'espansione di lagrime rossastre. Le loro facce erano senza espressione. Erano le solite facce patite dei villani che invecchiano a precipizio. Facce terrigne, pezzate di chiazze fosche, macchiettate di lenticchie, crepate dalla fatica, ingiallite dalla polenta, frustate dal pan giallo. Facce con dei peli, con della peluria, con dei baffi, con dei baffoni, con dei pizzi alla fossetta del mento, con delle faldelle incipienti in margine alle orecchie. Le loro mani erano le mani della forca, della zappa, del badile. Mani dalle vene turgide, dalle dita grosse, coperte di una pelle sulla quale si spuntavano gli aghi. Gli sbracioni sgolavano gridi di un'allegria ubbriaca e buttavano in aria i cappelli o facevano dei salti con delle interiezioni di gioia avvinazzata : ih, ih, ih ! Gli intranati passavano colle penne nei cappelli e i numeri nel nastro, a braccetto o slegati, colla paglia nell'orecchio e col virginia in bocca, che tentavano di accendere premendone la punta colle dita. Ma le maggioranze imbrancate dalla coscrizione rigurgitavano di mattacchioni che si svociavano cantando canzoni che fanno piangere i sobrii.

Addio, mia bella, addio, L'armata se ne va... Se non partissi anch'io Sarebbe una viltà !

Taluni barcollavano. Tiravano innanzi i piedi a ondate, colle braccia sulle spalle, colla mano dell'uno nella mano dell'altro o braccio sottobraccio, emettendo una cantilena penosa accompagnata dalla fisarmonica o dalla chitarra dei girovaghi. Mezza pagnotta al giorno, (bis) Oili! Oilà! Pover' a mi che sont soldà (bis). Semper di sentinella, Semper di guardia al campo, Oili ! Oilà ! Pover' a mi che sont soldà (bis).

Parecchie filate di coscritti erano seguite dalle donne venute per dir loro addio un'altra volta. Le regiore o le mamme col rosario in mano e colla testa nel panett di lana a rosoni, aggruppato sotto il mento, andavano dietro loro, cogli zoccoli, come istupidite dal frastuono e dal viavai cittadino. Alcune di queste povere vecchie perdevano dagli occhi, lungo il cammino, i goccioloni che si asciugavano col dorso della mano rugosa, mentre altre soffocavano l'irruzione del cuore soffiandosi fortemente il naso colle dita e sbattendone il moccio paesanescamente sul selciato. Le ragazze, le contadinotte, le brianzole, coi molleggiamenti dei fianchi accarezzati dal cotone floscio a rigoni o scaccato, col seno colmo ravvolto nello scialletto di cachemir frangiato, colle guance imporporate di rosso di ciliegia chiara, coi treccioni girovoltati sulla nuca e tenuti assieme dagli spuntoni dalla capocchia di ottone o d'argento grossa come un chicco d'uva, erano la poesia di queste scene lagrimevoli. Oh, De Amicis socialista, come è crudele andare a soldato a vent'anni, quando si è appena cominciato a partecipare ai lavori dell'esistenza comune, quando si è la speranza di molti, quando non si è ancora svezzati dai baci materni, quando tutti ci vogliono bene ! Sciupare i più begli anni della vita per una vita regolata dai suoni di tromba, per una vita di caserma, dove vi si dà del voi come un tempo i baroni delle Rose ai vassalli, dove vi si strappazza come cani per un bottone che non rifletta il naso del sergente di settimana, per una nappina perduta, per una ghetta slacciata o una gi- berna lustrata svogliatamente ! Dove si incretinisce coll'attenti ! fissi! contate per due ! alt ! marsc' ! Dove vi si imbarbarisce coll'esaltazione dei fratelli che hanno ammazzato i fratelli, e colle cariche e colle scariche del fucile che un giorno dovrete spianare contro il petto degli sconosciuti. Oh, De Amicis socialista, come è crudele andare a soldato a vent'anni, per imbestialirsi colle pezze dei piedi, col tascapane, col centurino, collo zaino, collo spall'arm ! e col presentat'arm ! Dinanzi la caserma di sant'Ambrogio si piangeva dirottamente. Le donne non volevano staccarsi dai coscritti. Singhiozzavano e dicevano che sarebbero morte senza i loro figli. E dicendolo si gettavano ai loro colli, palpeggiavano loro la nuca e baciavano loro la faccia, bagnandola delle loro lagrime. I coscritti, caldi di vino, scotevano le mani delle mamme e delle sorelle e delle amanti con dei " Ricordati ! " che non finivano e che gonfiavapo il cuore di tutti e scappavano colla gola e gli occhi pieni di lucciconi.. Dalle camerate ci giungeva il noto e straziante benvenuto che il soldato vecchio dà al soldato nuovo : - Tre anni ? Spàrati ! Spàrati ! XV. Via Anfiteatro nel 1897.

Perchè ce ne rioccupiamo ? Perchè rivedendola, diciotto anni dopo, ci suscita un mucchio di considerazioni. È ancora la via tipica della vita povera. È rimasta, se non tale e quale, ancora la via delle lordure, la via degli stracci,la via dei venditori ambulanti, la via dei parrucchieri coi tre piattelli concavi di ottone, la via delle locande, la via dei mendicanti, la via dei giuocatori del lotto, la via dell'insufficienza alimentare, la via degli sciancati, la via del nanismo, la via affollata di case che sono un oltraggio alla Milano nuova, alla Milano dei signori. A ogni passo ci si ritrova faccia a faccia colla superstizionel , collo standard of life di Bethnal Green - il quartiere più pitocco della Londra orientale - colla poveraglia che invecchia e in-

[Didascalia immagine:] Bottega dei ferracci. canutisce prima del tempo nelle tane dall'aria limitata o impaludata nell'ambiente, coi rappresentanti della rogna, della scabbia, della pinguedine floscia e del cretinismo. In via Anfiteatro ti senti sempre in un ghetto, o in mezzo ad una colonia che vive sui ferravecchi, sulle ciabatte buttate dalla finestra, sui cenci scopati fuori colle immondizie. Fermatevi qui, dinanzi a questa bottega di ferramenti usati. È un'esposizione del passato o di serrami inutili. Ci sono collezioni di lucchetti, di chiavistelli, di toppe a due. mandate, di catenacci, di saliscendi che ricordano l'uscio dei nostri vecchi. To', guarda la vecchia stadera, col manico lungo pieno di tacche, coi pesi in terra che vi si appendevano. Vedi là in fondo, tra i cerchioni delle ruote, le lime fruste e le tanaglie arrugginite, le corde lunghe che tiravano dai pozzi i secchi d'acqua sorgiva e le catene coperte di fuliggine, che servivano ai camini patriarcali della gente che si nutriva di polenta e di minestra. È un deposito di chiodi spuntati o scapocchiati che si piegano alla prima martellata, di badili senza manichi, di tridenti colle punte stroncate e di aratri andati alla malora. Chi sapesse mettere assieme la storia di tutti questi ferracci disusati e confusi, metterebbe assieme il libro più straziante delle classi che crepano tra le privazioni lavorando. Quelle pialle nell'angolo sono la storia di una generazione di falegnami morti di crepacuore e di miseria. Il caldaio che ha perduto, al fuoco, quasi tutta la stagnatura, è forse l'ultimo utensile di una madre, ora nel ricovero. E quelle zappe ? I loro padroni sono probabilmente, adesso, in uno dei pellagrosarii. Il caldanino, colle rientrature delle cadute, ti trasporta negli stambugi della povera gente senza legna d'inverno. E quelle staffe di metallo bianco appese al filo di ferro, non sono l'epilogo della storia dei corrieri, che hanno dovuto lasciare il posto alla vaporiera ? - Ecco le ultime padelle di una famiglia morta letteralmente di fame ! ci diceva l'uomo che sta facendo la punta ai chiodi sul l'incudine. - Da quanto tempo siete in questa bottega ? L'interrogato è il fratello della padrona. Ha la faccia oblunga, grassotta e sbarbata. Ride come un ebete. -Chi lo sa ! Saranno quarant'anni. Forse mia sorella se ne ricorda. È tanto tempo ! La sorella sbuca dall'apertura che è nella parete che divide la bottega dei ferravecchi dalla bottega della mercantessa di braccio. È alta, al di là dei quaranta, ed è in lei dell'eleganza. La sua blusa malva, coi volanti al petto e alle maniche incannettati, le dànno un chic che non è dell'ambiente. - Sì, si vende. Si vende qualche cosa tutti i giorni. Ma molto di ciò che vedete dovremo darlo via a peso di ferro. - Che cos'è, scusate, quella cosuccia d'ottone che pende dal soffitto ? - La lampada di un minatore. Saranno dieci anni che l'ho comperata per dieci centesimi da un poveraccio che aveva fame. L'ho comperata per compassione. - Germinal ! È di un Bonnemort o di un Maheu italiano. Chi sa quanta ricchezza ha portato alla superficie con quell'arnese che ha dovuto vendere per un bodcone di pane ! In alto, sulla muraglia, tra questa bottega e la bottega del ramaio, è la striscia dei cattolici che buttano via il diritto di essere cittadini. - " Perdurando il divieto pontificio, i cattolici si astengono dalle urne cittadine. W. il Papa ! W. l'Italia ! " La bottega del ramaio è anch'essa di altri tempi. È bassa, buia, col soffitto a travicelli. Vi si entra scendendo due gradini alti e mal fatti, e lasciandosi giù le braccia lunghe per non dare di gomito alle padelle e casserole che penzolano nello spazio che serve di insegna. La fucina, la nota fucina dei vecchi ramai, colla cappa larga, disotto alla qúale ascende il fumo culle faville per la gola, è nell'angolo, a sinistra dell'entrata. Mentre facciamo delle note, pare un 'inferno. Il vento risoffia indietro il fumo che si disperde per l'antro e se ne va di malavoglia per l'uscita. Il garzone di bottega è sullo sgabello, vicino al ceppo, che batte sulla rotondità dell'incudine cantando sottovoce, sul ritmo del martello - un secchio di rame che ringiovanisce. Il ramaio, sotto la nuvolaglia, tramezzo ai barbagli che lo investono, è un vecchietto che al buio ti sembra di brace. Colle sue maniche di camicia rimboccate oltre il gomito, tira con una mano la catena del mantice, e coll'altra gira, nelle fiamme che soffiano, il saldatoio che arrossisce e corre, infuocato, sullo stagno, che poscia salda le orecchie del caldaio stagnato di fresco. - Si vive ? - Si vivacchia. I tempi sono birboni. Sembra che la povera gente non mangi più come una volta. Una volta il rame era il lusso e l'orgoglio della madre di famiglia. Oggi la donna di casa si contenta della latta, delle stoviglie, dei laveggi e delle padelle smaltate. Si stava meglio sotto i tedeschi, si stava ! Il nostro professore d'igiene, che sentiva il socialismo dicendone corna, continuava a martellarci nella testa la costruzione domestica ideale. Egli non voleva le stanze a pianterreno se disotto non erano arcate alte, attraverso le quali potessero passare le correnti d'aria. Evitate, ci diceva, di abitare case dai pavimenti di mattoni, perché i mattoni spesso sono porosi e perchè tra gli interstizii s'accumulano, colle materie organiche, l'umido e l'infezione. Per lui, lo spazio era sempre deficiente. Voleva del largo, voleva delle finestre che fossero dei ventilatori, e isolava le latrine anche quando erano a sedile, con tanto di bacino di maiolica, inaffiate da un tubo eternamente pieno. Se non fosse morto si metterebbe le mani nei capelli a trovarsi con noi, qui nella casa al N. 20,ad aspirare l'atmosfera fetida di settanta od ottanta famiglie, ciascuna delle quali dorme in una sola stanza che riceve l'aria dall'uscio e dalla finestra lungo la stessa muraglia, colle latrine a fosse stabili, aperte giorno e notte, senza valvola d'irrigazione e senza pompa vicina per scaricarle con dei secchi d'acqua ! È in questo casamento, abitato da gente che mangia ancora pane, che è ancora al disopra della linea della fame, - che si svolge il sistema che non tiene conto che degli affitti. L'entrata è una ditta. È un lungo budello dalla porta arcuata che va direttamente nel cortile, col soffitto dalle travi che lo solcano, sbiancato trent'anni sono con calce senza colla. Il cortile è un acciottolato inzuppato di acqua scaraventata dalla finestra e cosparso di deiezioni alimentari. A sinistra del budello che lambisce il cottile è un soppalco, sotto il quale sono l'ortolana e la tromba, il cui stantuffo riposa di rado. Il suolo di questo lembo dell'edificio è di sassi, coi su e giù fatti dagli anni. Vi si aspira il limaccio. È bagnato dappertutto. È pieno di bucce, di torsoli, di foglie d'insalata ingiallite o marcie. Come in tutti gli alveari della poveraglia, vedete sciami di ragazzi che sculacciano, che si rincorrono, che godono a tuffare i piedini e le manine nei guazzi. In dieci anni di galera inglese non abbiamo mai veduto un bimbo scalzo. Nel casone di via Anfiteatro sono quasi tutti a piedi nudi. Hanno la .faccia impiastricciata di tutto, le mani sudice e sono vestiti alla dio vuole. No, no, non è un biasimo per voi, o povere donne. Voi avete delle viscere e baciate i vostri parti, lo sappiamo. Ma colla borsa vuota il mercante non vi dà la stoffa e la biancheria per tenere puliti i vostri bimbi. Ah, quel maledetto denaro, così pigro a entrare nelle saccocce delle povere donne ! La salita è a destra. Sono scale brevi che s'inseguono a zigzag, scale dalle pareti ingiallite, scale dai gradini slabbrati o spostati, sovente, dai piedi. Alzando gli occhi dalla ringhiera del primo piano, voi vi sentite come in casa del lavandaio della popolazione che non porta mutande. Dovunque vedete delle corde, sulle quali asciugano le lenzuola, le camicie, le sottane, i pannolini e le fasce.

Milano sconosciuta e Milano moderna. Puntata 14. [Didascalia immagine:] Ramaio. Anche la calza, in questa casa, dev'essere un lusso. Non ne abbiamo vedute sulle corde, che quattro paia! Il tirlic tirlac che echeggia in diversi punti, vi assicura che anche in questo periodo della calzatura a prezzo unico, ci sono molte operaie obbligate a camminare cogli zoccoli. Per la virtù sessuale si può avere sì e no dell'ammirazione. Ma cristo, noi, se fossimo donne, la venderemmo al primo uomo per un paio di stivaletti del Bocconi. La maggioranza delle stanze lungo le ringhiere opposte dei tre o quattro piani, non riceve la luce che dall'uscio e dalle finestre. In fondo si è come in una cella intetrata o in una tana nerastra. Non c'è irradiazione. Non c'è aria. Di notte, quando dormono, quando sono chiusi, aspirano le loro respirazioni e le loro trasudazioni. Non c'è che la gola del camino che li salvi dall' asfissia. È in queste bolge che nascono le malattie glandulàri, che vi vengono ì mali di testa e gli stordimenti che si convertono più di una volta in cefalgìe, che si eredita la scrofola, che vi alzate col catarro o che prendete la febbre tifoidea per andare a morire all'ospedale ! Vedendo più di una stanza trasformata, di giorno, in lavorerio, riusciamo a convincerci dell'utilità dell'agitazione inglese contro il lavoro a casa. È malsano. Vedete che facce che hanno questi calzolai, queste sarte d'uomo, queste cucitrici di sacchi ! Sono facce olivastre, come se vivessero nell'atmosfera stazionaria di una latrina. Il lavoro a casa non giova che al padrone, che risparmia il locale e il gas e paga meno i lavori fatti. Per le lavoratrici è un accorciamento di vita. Su per giù le case di via Anfiteatro si assomigliano. Ma quanto più si studiano, tanto più se ne esce disgustati. Tra l'una e l'altra trovate sempre qualcosa di peggio. In queste del 16 e del 18, riunite da un ballatoio interno, sentite il fetore dellé abitazioni povere che si rincorrono lungo le ringhiere o che s'inseguono per le scale non appena vi avete posto piede. Nel cortile annusate la fogna. L'acciottolato ti obbliga a chiudere gli occhi per non ammucchiare la pagina di note puzzolenti. La muraglia di quella del numero 16 è immelmata, è bituminosa, è coperta di uno strato di sudiceria. Nel mezzo, proprio sotto le parole " Ingresso alla cucina pei malati poveri e ambulatorio " è uno squarciamento che vi lascia vedere i tubi di terra cotta lungo i quali passa la rigovernatura delle sessanta famiglie che abitano a destra del casamento. L'onorevole di Cossato, il dottor Dino Rondani, che era in giro con noi a insaccare i documenti che rivelano come la poveraglia sia abbandonata a sè stessa, non seppe trattenere un perdio! In fondo alla ringhiera del primo piano a destra, vediamo tra le muraglie di due case separate, un fosso ove le madri delle case 16 e 18 vanno a lavare la biancheria. È un'acqua nerastra che va via adagio adagio, carica dei fondacci delle concerie, delle tintorie e dei pitali di orina che le buone donne vi rovesciano sopra dalle finestre lungo l'itinerario. È una corrente che manda su gli odori fecali, che sprigiona il colera, che ammazza la povera gente. Gli inquilini che vi sono sopra ingrassano di aria di cacatoio. Dove la corrente fumosa scompare, è, come a cavalcioni, l'officina di un fabbro che vede passare l'acqua color inchiostro dalla finestraccia ferrata. Quante esalazioni nauseabonde inghiottisce questo lavoratore che si sbraccia colla mazza sull'incudine ! - Ma non avete paura di morire? - domandammo alla signora Dall'Orto che ha la ringhiera del fianco sinistro della stanza sul lavatoio degli inquilini. No, la signora Dall'Orto non ha paura. Cucina, mangia, dorme e fa figli in questa stanza da quando si è maritata col suo uomo che vi è nato. Non ha mai avuto nè vomiti, nè capogiri, nè febbri. Ma i suoi figli sono morti l'uno dopo l'altro. Dell'ultimo conserva sotto la campana di vetro, coi san Giuseppe, la Madonna e i fiori artificiali, le fotografie. In una è vispo, è paffuto, è colorato. In un'altra è cadavere. La sua testa è raddoppiata. È gonfio, è de' forme, è giallognolo. Ha l'aria d'essere morto d'idropisia. Anche la madre porta le stimate dell'ambiente. La sua faccia sente della vecchiaia precoce. La sua pelle è biancastra, i suoi occhi sono appannati, le sue labbra sono smorte. È alta, è incinta da sei mesi, ed è locandiera. Affitta, nelle quattro stanze che seguono la sua, sedici o venti letti. - Quanto fate pagare? - Trenta centesimi per sera. In ogni stanza ci sono quattro o cinque letti o canili, con delle oleografie cacherellate per le pareti, un catino in un angolo e qualche chiodo qua e là, per attaccarvi su le giacche e i cappelli. La biancheria dei letti non è certamente quella che la Lisa Quenu del Ventre di Parigi mise nel letto a quattro materassi e a quattro guanciali di Florent, il proscritto. Ma già, con trenta centesimi non si può dormire nella batista. L'orinale coll'ammantatura gialla interna è sotto la scranna di lisca. Il nostro professore d' igiene ci aveva insegnato che la stanza deve avere un cambio d'atmosfera di almeno 60 metri cubici all'ora per persona. Qui sarà molto, quando sono chiusi, se ne avranno venti tutti assieme. Non vi è altro sfia- tatoio che il camino. La stanza della signora Dall'Orto - la benestante, si può dire, del casamento - non è spaziosa, ha i travicelli, è piena di ragnatele e il camino e la stufa di ghisa l'hanno affumicata. Oltre il fosso ha il luogo comodo senza coperchio tra l'uscio e la finestra. La stanza non vede l'imbianchino da trenta o quarant'anni. C'è forse bisogno dell'imbianchino? Domandatelo al padrone di casa. Al quarto piano troviamo Massimo Orighetti, di 40 anni, un

[didascalia immagine:] Interno della casa N. 16. fruttivendolo, che aspetta di morire per uscire dai patimenti. I baffoni lunghi e spioventi dànno maggior risalto alle fosse delle sue occhiaie e ai solchi delle sue guance. Ci pare di essere in presenza di un etico. La sua faccia, il suo collo, le sue braccia, le sue mani sono scarne. Non ha di vivo che gli occhi cilestri. Vorremmo consigliarlo a bere, tutti i giorni, del vino buono di bottiglia e a nutrirsi di cose sostanziose, come si dice tra i pitocchi, ma non vogliamo diventare ridicoli come quel medico che diceva a uno straccione che gli avrebbero fatto bene i bagni di mare! L'Orighetti ha nella testa che la sua malattia " è una conseguenza dei pugni che gli hanno dato nello stomaco i questurini nel 1894, quando lo hanno arrestato" - Ma perchè vi hanno arrestato? - Mi hanno arrestato, durante le Esposizioni riunite, in galleria Vittorio Emanuele. Mi si diceva che io avevo da pagare una multa di quattro lire, una contravvenzione che io non ricordavo o che ignoravo. Una volta a S. Fedele vennero a vedermi molte guardie. Una di esse disse passando : El g'ha ona gran faccia de canaia! - Lu si ch'el g'ha ona faccia de canaia! Mi si diedero poi, in guardina, tanti pugni nello stomaco da lasciarmi morto. Alla mattina sputavo sangue. Dovetti abbandonare la mia professione e vendere la carriuola del fruttivendolo. Da quel giorno io non sono stato più io. Sono sempre ammalato. Tossisco e sono alle spalle di mio fratello. Sulle scale troviamo un ragazzo di sette anni e mezzo gobboso. Ha il gobbo dinanzi e di dietro. È uno scheletro. Non appena ci vede scappa. - È " selvatico ", ci dice la madre. Il suo nome è Alfonsino. La madre è grossa e grassa ed ha una parlantina instancabile. - L'è insti magher e el mangia come on loff! Mi soo no dove le coscia, el mangia ! Ci invita a visitare la sua stanza. - Vedranno come sono povera! Siamo in nove persone e non c'è che la ragazza di diciassette anni che guadagna settantacinque centesimi al giorno a lavorare di maglieria. Sono in arretrato d'affitto e guardino questo libretto del prestinaio. Non so più come tirare innanzi. Il marito el fa el picapréi, ma l'é bon pù de lavorii.Ghe ven el mal de stomegh, ghe ven. La stanza è piena di fumo, perchè la parete del camino è bucata. Una trave del soffitto è tenuta assieme dalle lastre di ferro che la fasciano. Ci sono quattro letti. In quello matrimoniale dormono il marito, la moglie e la bimba di due anni. Negli altri tre dormono a due a due. - Vedano i miei cassettoni, ci disse. Ho impegnato tutto. Devo ancora 60 lire al padrone di casa, il quale non vuol più saperne di andare avanti. Il ragazzo, che è un lavorante in stufe, è uscito ieri dall'ospedale. S'ebbe tutti e due i bracci rotti. Adesso ci vorranno ancora delle settimane prima che sia buono di riprendere il lavoro. Vedendoci prendere delle note ci scambia per dei delegati della Congregazione di carità ! - Mi raccomando a loro. Fingiamo di dare dei soldi ai fanciulli pei dolci. In verità serviranno loro pel pane d'oggi. - Quanto pagate d'affitto, per questa stanza ? - Pago 110 lire all'anno. Al numero sette, al numero sedici, al numero diciotto, al numero venti gli affitti variano dalle 100 alle 120 per stanza. Ma dunque i poveri pagano più dei ricchi ? - Sissignori! ci dissero dappertutto, noi poveri paghiamo più dei ricchi ! - Ma perchè non andate altrove? - Dove ? Nelle case pulite non ci si prende. E poi? Se sloggiassimo, altri, come noi, verrebbero a prendere, i nostri posti. Non possono immaginarsi la ricerca di stanze in via Anfiteatro ! Prima di uscire da questo casone che deve moltiplicare gli scorbutici, siamo attesi sulla scala, da " Adelaide Boccalieri, vedova Zingari ". - Mi facciano la carità, di registrarmi! Sono una povera vedova con sei figli che abita al terzo piano, numero quattordici. La mia figlia maggiore ha 19 anni ed è su, nel letto, ammalata. Aiutino una povera vedova! La Boccalieri è piccina, mingherlina, con una pelle macchiata di morsicature di pulce e una faccia tutta butterata. Parla facendo calze e ci saluta con un profondo inchino. In una via di due minuti di cammino abbiamo trovato tre gobbi. L'Alfonsino, il figlio della cenciaiuola di mezzo e il giovane, orologiaio della bottega che viene dopo. Tutti e tre non sono più alti di un paracarro e tutti e tre sono deformati dai rialzi sullo stomaco e sulla schiena ! Al numero cinque troviamo appesa l'ortografia che completa il luogo dei malanni sociali, fisici e intellettuali :

CAMERE AMMOBIGLIATE Conduve letti per duve Persone e si afitta letti In famiglia dirigersi presso Ricotti Angelo piano tereno.

Della religione è inutile occuparci. Tutti sanno che dove trionfa la penuria, la religione trova terreno più coltivabile che negli ambienti letificati dal lusso. In quasi tutte le case e i casoni di via Anfiteatro, sono altarini piantati nelle pareti dei caposcala e dei ballatoi, popolati di cristi martirizzati, di beate vergini con cuori trafitti, di santi circonfusi di gloria celeste e di amuleti colle gale stinte. Oh, non date addosso alle povere donne che si curvano dinanzi questi giocattoli quando salgono e scendono le scale ! Non chiamate ignoranti cloro che risparmiano sul pane due centesimi per l'olio della madonna, perchè infine è naturale che chi ha per- duto la fede nel soccorso dei superuomini tenda le mani giunte al dio che " vede e provvede "! La vitaccia dei poveri cristi del numero sette è ancora più spaventevole di quella degli altri che avete veduti girellare in queste pagine. Qui si è al disotto della linea della fame. Qui ci sono gli organari, qui ci sono i senza gambe, i senza braccia, i senz'occhi. Qui si è come in un casamento di mutilati. Da ogni ringhiera perii zolano i cenci lavati. In ogni cortile trovate straccerie, cacherie, rifiuti di pitocchi che stomacano. I bimbi di questi cortili sono in una condizione piangevole. E poi ? Ci sarebbero i concubinaggi che trovate in tutte le case ; ci sarebbero i dritti che vedete a sciami ; ci sarebbero diciotto liscardini sparpagliati per il budello rigurgitante di sozzure sociali. Ma voi ne siete sazii e noi più di voi. I dritti sono coloro che esercitano la " professione " di imbonidor e di treppisti (radunatori di gente) - personaggi che cercano di persuadere il pubblico a comperare la merce che vendono o a entrare nei baracconi della donna cannone, del pescecane, dei panorami, ecc. I diciotto liscardini sono giovani che hanno preso il posto delle prostitute. Sono cinedi conosciutissimi da tutti i questurini. Sono i batilli che continuano il " vizio greco" o l'esecranda prostituzione dei maschi. I loro nomi di guerra sono femminili. I più noti in tutto il " Guast" sono " la Veneziana", " la Bolognese", " la Mantovana", " la Leonora", " la Veronesa" e " la Martina". In un'altra puntata vedrete queste prostitute in giacca fotografate. XVI. I contrabbandieri.

Il contrabbandiere della cinta daziaria è un tipo bizzarro. È rozzo di modi e di linguaggio, ma ti offre in cambio una lealtà senza pari. Sembra nato sulle balze dei monti e cresciuto sotto le leggi di Licurgo, tanto egli è robusto e ardito. Nelle fatiche è invincibile. Sfida i pericoli coll'audacia di un bandito, col quale sembra abbia qualcosa di comune. Vive come un albino: dorme di giorno e lavora di notte. È un grande ribelle alle leggi daziarie e il nemico più implacabile del gabellotto ch'egli disprezza e ingiuria chiamandolo borlacatt o borlandott. Il contrabbandiere sa acconciarsi alle vicende del mestiere: è capace di sciupare in un giorno quanto gli basterebbe per una settimana, e ha la virtù d'imitare la moglie di Focione, cibandosi di legumi all'acqua pura. Il suo modo di vestire è caratteristico. Ha in testa il berretto d'un pezzo solo; al collo un foulard an-

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 15. nodato alla locca; indossa una giacchetta di frustagno rasato che gli accarezza le reni e non gli arriva ai lombi; un gilet e un paio di calzoni, pure di frustagno, che rasentano la foggia del fort, e calza un paio di sandali detti, nel gergo contrabbandieresco, pee-de-can, che servono mirabilmente ad attutire i passi del trapanant (contrabbandiere). In domenica, è un buio superbo. In un circo d'uomini ove le donne educate alla lussuria delle forme, avessero diritto di scelta, egli sarebbe primo tra i primi ad esserne divorato dai baci. Il suo " completo ", che gli sta alle carni come un guanto alla mano grassottella di una signora, te lo lascia ammirare in tutto lo sfarzo della grandiosità scultoria. La sua giacca nuova di frustagno rasato ha i risvolti dello stifelius e la brevità del bolero che accarezza il dorso e non lambisce i lombi. I suoi calzoni di velluto o di frustagno chiarissimo sono il capolavoro del sarto di Porta Ticinese e di Porta Garibaldi. Gli vanno giù per le cosce aderenti fino ai polpacci e gli si slargano, gradatamente, a campana dai malleoli alla punta delle scarpe, che rimangono scoperte per ricordare l'eleganza del piede. Sotto il cappello a cencio nerissimo, col suo foulard che signoreggia sul largo bianco della camicia fumicante di bucato come un fuoco di colori, con la fascia scarlatta o verde che gli gira la vita e gli si ferma sul fianco destro come una gala floscia penzolone coi fiocchi alle punte nere, pare il dio della plebe. All'osteria, può diventare il finimondo o un fanciullone a cui si possa dare un ganascino senza incendiargli il sangue. Quando la. collera è entrata nei suoi occhi, i tavoli traballano, le scranne si piegano e si sfasciano, i bicchieri vanno in frantumi. Egli giura con dei sacramenti, ordinando un altro litro di vino e vuotando il bicchiere sul pavimento, dopo di averlo assaggiato e detto che gli andrebbe in veleno se lo bevesse ! Rabbonito, si lascerebbe svenare dal primo poltrone. Bacia tutti e dà a tutti delle strette di mano con dei bicchieri di vino ch'egli obbliga a bere : — Bev, boja d'un mond, bev ! Le sue " allegrie , finiscono con delle cantate che lo mandano a casa afono.

La g'ha i capelli color del vin bianco,

Pettinati all'onda del mar.

Le amanti dei contrabbandieri sono delle matrone, delle belle donne, dei tronchi di salute e di plastica. Sono bule dalle carni sode, dal pugno poderoso, dai garretti d'acciaio. La loro eleganza è nello stivaletto, nella balzana insaldata della sottoveste bianca, nella spilla d'oro fiammeggiante sull'altura del seno, negli anelloni all'orecchio. Il loro amante è il loro universo. Compendia il perchè della loro esistenza. Sano, lo idolatrano e si lasciano ammaccare dai suoi pugni con godimento. Ammalato o in carcere, farebbero della loro pelle uno scialle per il monte di pietà per aiutarlo o soccorrerlo. Infedele, lo assalgono con caterve d'ingiurie, ma non sfogano la gelosia che sulle rivali. Con la svergognata che tenta di di portar loro via l'amante sono delle tigri. La malconciano strappandole manate di capelli, le lasciano i neracci dei pugni sotto gli occhi e le immergono nelle parti polpose le unghie e i denti. - Brutta vigliaccona ! Prenditi gli uomini degli altri ! To' ! questo è quello che ti meriti, puttana del streccion ! , Il fascino dei loro uomini è nel calzone a campana. È un calzone che dà loro dei piaceri spasmodici. - Quand el vedi, ci diceva una di esse, me se quatta i ceucc ! Per fa a l'amor con la Giovana G'hee vceur i calzon a la campana. Vediamo questi loro uomini al lavoro. Come i camorristi, i contrabbandieri lavorano in società e sono solidali in tutte le avventure, come lo erano i discepoli di Pitagora. Di notte, quando gli stelloni (coloro che stanno in certi luoghi a spiare i movimenti della guardia in sentinella) dànno l'avviso con certi segni convenzionali che el temp l'è bell, i contrabbandieri si avvicinano silenziosi sotto le mura,- attaccano una scala uncinata, salgono con la carica sulle spalle, con l'agilità di un mozzo, e nel fitto dell'ombra s'involano giù per le ortaglie o per i viottoli vicini. Se, come avviene spesso, la sentinella sonnecchia appoggiata all'ippocastano in fondo, i contrabbandieri lavorano di corda. Il lavorare di corda è facilissimo. Quelli di fuori rimangono sotto la circonvallazione, alcuni per pòrtare la roba da introdurre rasente le mura, altri per attaccarla ai capi della corda e accompagnarla con le mani, mentre sale, fin dove è possibile. Quelli di dentro si nascondono dietro la parte del bastione che lambisce le vie cittadine e tirano fino a quando gli stelloni dànno il segnale o di darsi alla fuga o di sollecitare l'ultima tirata, perchè la squadra volante è in giro e alla loro volta. Se mai la banda (drappello) è attaccata (inseguita) dagli agenti appostati, allora è un fuggi fuggi da non si dire. Difficilmente, però, si lasciano acchiappare. Una notte, di non ricordiamo più quale anno, lungo il bastione di porta Genova, el Rampin, el Senza Talon, el Magher Secch, el Barabin, el Pistola, el Scaeuccia, el Bersaglier - tutti destri contrabbandieri - spuntano curvi ciascuno sotto il peso di 40 chilogrammi di cornuta (vacca). I gabellieri avevano avuto la confidenza da un soffia (spia). BARABIN. Luma (guarda), Scauccia, dove gh' è el borlusco (sentinella). - Ch'el calcagn de sant' Alt el ne iuta (che il nostro angelo ci aiuti), sussurra el Magher Secch, che aveva fiutato il vento infido. I sette contrabbandieri eran già sull'aire, quando un drappello di agenti sbuca fuori intimando, in nome della legge, .de mett già la criolfa (carne). - Mandegh a sani' Alt la devota I (mandagli l'anima a Dio !), dice tra una bestemmia e l'altra el Bersaglier. - Deponete la carne o faccio far fuoco, intima per l'ultimavolta il comandante. -Vegnii chi, se la vorii! rispondono in coro. - Giò la mella (spada), spaghescioni! vocia el Senza Talon. Ma i finanzieri sono invece di tutt'altro parere. Alle sciabolate di piatto, i contrabbandieri rispondono con una furia di bastonate. La scaramuccia dura incerta per qualche minuto, ma infine i contrabbandieri, sopraffatti dalla forza, abbandonano la preda nelle mani del nemico e se la dànno a gambe. La sconfitta di quella notte aveva amareggiato i contrabbandieri in un modo insolito. - Mi vendicherò ! disse mordendosi le dita el Scoeuccia. Infatti non era ancora scomparsa dallo stellato orizzonte la mocolosa (luna), che el Scoeuccia era di nuovo alle prese con la guardia in fazione. - Borlacatt! vigliacon! - Bada, Scceuccia, che ti allungo sul terreno! Una tegola sulla testa, uno sparo di rivoltella vicino all'orecchio, non avrebbero ottenuto l'effeito di quella frase. Scoeuccia si lancia come una belva ferita sul suo avversario e lo atterra come canna di giunco. El curios (finanziere) aveva, durante la collutazione, potuto appuntare la canna del fucile al petto del Scoeuccia. - Molla, o te foo frecc!

[didascalia immagine:] Dazio di Porta Ticinese. - Tira pur! t'insegnerò, diss'egli coll'intrepidezza di Baudin, come sanno morire i miei pari. Una detonazione svegliava i dormienti. Il povero Scoeuccia giaceva supino al suolo immerso in un lago di sangue.

Il contrabbandiere è anche ingegnosissimo. Quando la salita delle mura gli diviene impossibile, sa camuffarsi ora sotto le spoglie del mendicante, ora del carrettiere, ora del lattivendolo, ecc., ecc. Alle Porte si sequestrarono infatti gambali, petti, avambracci, schienali di latta, vesciche di maiale; carrette, carrozze, organetti e secchioni da latte con delle cavità capacissime ; cose tutte che servirono alternativamente per l'introduzione dello spirito e delle bibite alcooliche. Negli ultimi anni, il contrabbando era cessato senza far aumentare gli incassi daziarii. Il Comune se n'era impensierito. Un sicofante - poichè la razza di Giuda Iscariota è eterna quanto il mondo - svelò anche allora la nuova via che avevano preso i contrabbandieri. Una strada sicura che avrebbe permesso loro di far pancia e mettere da parte dei quattrini. Era una via sotterranea che comunicava dal borgo di S. Gottardo fino quasi al ponte di Porta Ticinese. La sola noia era che dovevano percorrere lo spazio passando attraverso l'acqua alta più del ginocchio. Una notte, una notte crudele, i gabellieri s'erano travestiti nel cortile della casa n. 68 del sobborgo di San Gottardo, dalla quale, movendo una pietra, scendevano nel canale. Il rumore delle acque cozzanti impediva al trapanant di sentirsi alle spalle i nemici della squadra volante. - Fermi tutti! gridò a un certo punto il tenente. Nessuno rispose. Non si udiva che un rimestìo come di chi taglia e fende frettolosamente l'onda. Il tenente della squadra accese la candela. I contrabbandieri erano spariti, ma avevano dimenticato una luganega (fune) stroncata, la quale sembrava destinata a trascinare : cinq cerchios (barili) di alcool, duu grugnanti (maiali), duu pasquin pelos (agnelli), duu cervanti (becchi) e due quarti di cornuto (toro). Tutta roba che venne portata al dazio di Porta Ticinese, ove l'impiegato di notturna ne redasse il verbale. Oltre a questi contrabbandieri locali, vi sono di quando in quando, gli spalloni (contrabbandieri), che sono per lo più contadini di Cermenago, di San Fermo, di Trezzo e di quanti altri paesi circostanti ai confini della libera Elvezia. Due anni fa, il tenente del Riparto I era stato avvisato da un suo confidente, che, nella notte dell'8 febbraio, sette spalloni avrebbero tentata la scalata del bastione di porta Vigentina, salendo proprio dalla parte della " Forca „, così chiamata perchè è in linea retta col terreno dove fu appiccato il Boggia. Al posto della sentinella semplice era subentrato un brigadiere, il quale lasciava cadere la testa sul petto, quasi fosse morto di sonno. Verso le due, i sette denunciati dalla solita spia erano sul bastione. Un colpo di fucile, poi un altro, poi un altro ancora. Le bricolle (cariche) di sigari erano tutte sul tappeto verde. Gli uomini fuggivano. Un quarto d'ora dopo tutto ricadeva nel silenzio.

La sfrosadora (contrabbandiera) invece ha nulla di caratteristico, se togli l'audacia. Essa ti si presenta alla craeusa (dazio) foggiata in mille modi, come il diavolo di Le Sage. Ora la ti sembra una tessitrice, ora una madamin, ora una signora di garbo, ora una pescivendola, ora una serva, ora una povera donna. Ora è gobba, ora è zoppa ed ora è in una condizione di gravidanza avanzata. Sa nascondere 30 litri di bibite spiritose o 40 chilogrammi di malnatt (vitello immaturo o lattonzolo), senza dar nell'occhio al curios. Quando l'agente daziario la sospetta e la invita in ufficio, la sfrosadora diventa un'ossessa. Essa protesta contro l'infamia della visita. - Visitare le donne, vergogna! Già qui man, già! L'è vora de finilla. Mi g'hoo nient, el san ben anca lor, el san. Sont ona povera donna che va per la soa strada, porscelloni de porscelloni! La visitatrice che le toglie il pettorale di grappa dallo stomaco,o la ventriera di rhum, o le stacca i giamboni, o i salami appesi alla cinta sotto la sottana, diventa il suo bersaglio. - Preferiria fà el boja che la visitatrice! Portagh via el disnà a ona povera donna che g'ha famiglia! Te me capitaree in di ong, va là! Te pagaree el fijo per tucc! La visitatrice, che aveva una fama che si estendeva in tutti i corpisanti, era la Fontanella di Porta Ticinese. Le sue mani avevano palpeggiato tutte le contrabbandiere dei sobborghi. Era alta poco più di una figurina di porcellana, aveva gli occhi alla superficie della faccia, il seno liscio e secco come un'asse, le mani scheletrite e lunghe, i piedi larghi e piatti che andavano via con la precauzione di chi è tormentato dalla gotta. La più celebre, la più impenitente di queste cento donne, che vissero contrabbandando, è la Bionda. È la più bella donna di Porta Ticinese. Ha una taglia elegante, è alta e ha il piglio di un granatiere. Spira in lei un qualcosa di imperativo e di voluttuoso ad un tempo. Ai tempi beati della Dubarry avrebbe potuto avere un cardinale per farsi allacciare gli stivaletti. Ha un volume di capelli biondo-dorati, un occhio fulgido come goccia di diamante, e certe linee che non sai dire se dolci o austere. Ti sa mostrare delle nudità abilmente ménagées, e due bianchi filari di denti che t'innamorano. Durante la sua fortunosa carriera di sfrosadora avrà avuto, senza esagerare, circa duemila processi. Ha subito spesse volte lunghi mesi di prigionia con la rassegnazione di un Pellico. Ha lottato a corpo a corpo coi gabellotti, ed è uscita qualche volta vincitrice. Un giorno entra sfarzosamente vestita da porta cita (Ticinese). GUARDIA. Ha qualche cosa di dazio? BIONDA. Nient. GUARDIA. Favorisca allora in ufficio. Due minuti dopo usciva dalla stanza la Fontanella a dire che non le aveva trovato nulla. - Impossibile ! grida il gabellino, battendosi la fronte col palmo della mano. BIONDA. Insci l'è content? - No. Ed è tanto vero che mando a prendere un'altra visitatrice.' Alla seconda visita essa deponeva tre quarti di cornuta! La prima visitatrice si era, lasciata intimorire dalle minacce. Ha avuto sotto di sè battaglioni di donne che essa sapeva conciare, infagottare, dirigere e far sfuggire al fiuto dell'accorto gabellotto. Ora la Bionda, stanca delle patite lotte, si è ritirata dall'agone, affidando il suo posto alla Tencia, la quale è tuttora sulla breccia. Oggi il numero dei contrabbandieri è molto esiguo, vuoi per le difficoltà di una sorveglianza più rigorosa, vuoi per il ribasso di certi prezzi, che prima rendevano più proficuo il contrabbando.

Milano sconosciuta e Milano moderna.- Puntata 16.

[didascalia immagine:] Fontanella, visitatrice. Dei 300 contrabbandieri che si notavano negli anni 1867-68-69 e 70, ora troviamo i fratelli Portinaritt, el Can, el Barbisin e altri meno noti. Gli altri o sono morti o hanno dovuto cercarsi altre fonti di guadagno.

L'introduzione minuta schianta il cuore. Sono poverelle che nascondono nel tasconé delle pugnate di riso per la galba (minestra), dei pezzi di lardo per la settimana, qualche sleppa di vacca per la domenica, due miche o tre per la giornata o un litro di vino per le feste natalizie. Per risparmiare cinque o sette o dieci centesimi di dazio fanno delle miglia. Vanno, per esempio, dalla via Orefici, cioè dal cancro di Milano, fino nel borgo degli Ortolani o al mercato fuori di Porta Ticinese. Escono di porta adocchiando furtivamente le guardie e vanno innanzi mulinando pensieri tristi se vedono ai cancelli o alle porte el barbison negher o quel di ceucc sbarlusent ch'el mandaria in dcqi soa mader ! Rientrano piene di paura colle fiamme alla faccia. cogli occhi per terra, con la corba degli erbaggi sul ventre, con la parola pronta per rispondere all'interrogazione. - Cossa la g'ha li? - Nient. - Proppi ? - Gh'el giuri. - Che la vaga. Passato il pericolo, tirano un sospirone, ringraziano la madonna e sollecitano il passo dicendosi che l'hanno scappata bella. Il guaio è quando invece el barbison negher dice alla donnicciuola di seguirla in ufficio. - Ma mi g'hoo chi nient, g'hoo. Ch'el tceuja, ch'el guarda in la mia scorbina. - Che la vegna in uffisi, ghe disi. - Ma signor, ma ghe disi che g'hoo nient, ghe disi! El ved no che sont una povera vegia? "Ma santo dio, ch'el me lassa anca in dree, alora ! Dinanzi il capo d'ufficio tremano come foglie, domandano centomila scuse e spergiurano che non è che la prima volta che entrano con la roba di dazio. - Mi el savevi minga che fan pagà el dazi per sta miseria d'on tochell de soriana che chi! CAPO D'UFFICIO (con voce grave e la penna d'oca in mano). Lor disen semper insci! San-Mai nagottl (Scaldandosi). L'é perché lor in porci (testuale) che vceuren minga rispetti la lég. (Al praticante o all'assistente). Scià, lú, ch'el faga giò el process verbal e ch'el manda la carna al macell. Intanto che le si domandano il nome, il cognome, l'abitazione e il mestiere, la sgraziata invoca tutti i santi del paradiso. — Oh i mé pover mort, cossa hoo mai fa mi! Se invece della soriana si tratta di commestibili " soggetti a dazio", il capo d'ufficio o il " controllore" o l' " ufficiale" o l' " assistente" o il " praticante" è capace di assassinare la povera donna con una multa di otto o dieci volte il dazio. Ai tempi del Della Carlina - il quale era il capo dell'ufficio centrale del dazio consumo - abbiamo veduto noi, coi nostri occhi, parecchi di questi " cani" - così chiamati per non confonderli coi buoni - che rubavano magari il danaro municipale con la bacchetta cadometrica o col bollettario o con la vachetta (sfogliazzo), infliggere otto o dieci imposte (nel linguaggio gergale daziario ogni imposta è una volta il dazio), per una bottiglia di vino che costava quindici centesimi di dazio o per un cappone che costava altrettanto! L'impostomania non era mica, credetelo, per la voglia pazza di ingrossare gli incassi daziarii o per la smania di punire il popolo di essere ignorante o di non volere sottomettersi ai regolamenti ,.civici. Tutt'altro. Era perchè con tante di queste multe, che venivano ripartite tra l'impiegato che le infliggeva e la guardia che scovava il contravventore, si raddoppiava il mensile. L'impiegato addetto all'ufficio di Principe Umberto, per esempio, veniva considerato, da questo punto di vista, un travetto for- tunato. Perchè da questa porta i forestieri e i passeggieri che cadevano nella trappola erano infiniti. Ecco come. Tanto i primi che i secondi erano persone che sapevano difficilmente le " voci daziarie " a memoria. Arrivavano quasi sempre, come tutti i viaggiatori, stracchi morti, prendevano una vettura o saltavano in omnibus imbambolati dal sonno e giungevano alla barriera. AGENTE FINANZIARIO. Niente di dazio ? Gli stranieri o non sapevano che cosa rispondere a una interrogazione fatta così a bruciapelo o non capivano assolutamente nulla. Gli inglesi poi, che ignoravano che esistesse una nazione che si era sottomessa alle tariffe daziarie senza insorgere, rimanevano lì a bocca aperta o si domandavano l'un l'altro : What is he saying ? - che cosa dice ? L'agente daziario non aspettava del resto la risposta. Egli, colla rapacità del mestiere, slegava pacchi, sfaceva valige, apriva bauli, metteva sottosopra sacchi, frugava tutto e dappertutto con una impertinenza che empiva la bocca di maledizioni e, se riusciva a mettere le mani su delle bottiglie di liquori o qualche pacco di sigari che i fumatori si portano con loro quando viaggiano, raccoglieva il corpo del delitto, lo portava in ufficio e dichiarava imperturbabilmente che la roba che deponeva era stata trovata " maliziosamente nascosta". L'impiegato di sorveglianza che non aveva interesse alcuno a mettere in dubbio la parola dell'agente, diceva ai signori " còlti in flagrante „ che avrebbero fatto meglio a pagar subito. Per le bottiglie, diceva loro, trattandosi che è la prima volta " che cadono in contravvenzione ", darò loro dieci imposte - cioè il massimo e pei due mazzi di Brissago o di Avana, depositeranno settantadue lire se possono dare un domicilio da verificarsi e novantadue se ne sono senza. I signori si guardavano negli occhi come quando si è alla mercè di un bandito che non lascia altra alternativa che la borsa o la vita e pagavano. Quando i signori forestieri e passeggieri s'incaponivano, avvenivano delle scene come questa. VIAGGIATORE (battendo la mano sul banco della Ricevitoria). E io le dico che non pago! Quando la guardia mi domandò che cosa avevo di dazio, ho risposto che avevo una dozzina di bottiglie di diversi liquori in una cassetta. IMPIEGATO. "`Poti ciaccer, o el paga, o facciamo el processo verbale. Lei doveva rispondere che aveva delle " cose soggette a dazio " ! questo è quello che doveva rispondere! VIAGGIATORE (trasecolato). Ma questo è furto, signor' impiegato. Andrò dal sindaco (era il Belinzaghi) che è mio amico. IMPIEGATO. Abbassi la voce, piuttosto. Vada dove vuole. Qui siamo in ufficio. Semm minga in stalla ! Il dazio di dodici bottiglie è di lire quattro. Per non farle perdere tempo, le farò due bollette di dazio e di contravvenzione. Totale lire quarantaquattro e centesimi dieci per le bollette. VIAGGIATORI. Creda pure, signor impiegato, che noi non siamo capaci di defraudare il comune. Eccole il nostro biglietto da visita. Forse l'agente non avrà capito. Noi abbiamo risposto di avere queste cose nel baule. IMPIEGATO. Non so che cosa dir loro. La legge è uguale per tutti. Essa dà facoltà all'impiegato di imporre dalle due alle dieci imposte. Io voglio credere che sia stato un semplice sbaglio. Così mi limito a far loro pagare otto imposte. VIAGGIATORI. Lei è buono, signor impiegato. Ma creda che è una vera ingiustizia. (Pagando). Non si crederebbe ! I lettori capiranno assai meglio l'ambiente daziario quando avranno letto i due capitoli Le guardie daiarie e Gli impiegati daziari del tempo del Della Carlina. Ma intanto, per non lasciarli sulle spine e per giustificare qualche nostra affermaziòne, diremo loro due parole sugli impiegati. Tra la massa impiegati c'era, è inutile dirlo, un po' di tutto.C'erano degli impiegati buoni, degli impiegati cortesi, degli impiegati che avevano frequentate le scuole, degli impiegati che avevano un alto concetto dei servigi pubblici e degli impiegati incapaci di commettere una bassezza. Ma c'era anche una zavorra burocratica che non era possibile trovare altrove. C'erano dei beoni, dei maleducati, degli analfabeti che erano riusciti, cogli anni, a scrivere farrina o farinna o ollio e dei semi analfabeti rismasti alla corteccia di un'istruzione elementare e incapaci di parlare e di scrivere con un po' di armonia grammaticale. I vecchi di questa zavorra erano delle ex guardie o degli ex brigadieri o dei diurnisti dell'amministrazione finanziaria austriaca. I giovani erano degli ignoti stati assunti non si sapeva per quale influenza o degli individui che non avevano superato l'esame di seconda o terza elementare o infine delle persone il cui livello morale non era superiore a quello dei vecchi. Che ne avveniva? Che da questa miscela usciva il furto. O come ? Non c'era, dite, il bollettario ? Sissignori, c'era il bollettario colla madre che rimaneva attaccata, collo scontrino che passava dalle mani del capoposto nella cassetta che non veniva aperta che al Municipio e colla bolletta che andava dall'impiegato di sorveglianza al capoposto, dalle guardie daziarie e sovente dai brigadieri e dai tenenti in borghese incaricati della verifica. E poi, come se tutte queste precauzioni non bastassero, c'era il registro (la vachetta), nel quale il controllore o l'ufficiale o l'assistente scriveva i generi verificati e daziati. - O dunque ? Non siate impazienti. Noi stessi, per capire come il comune veniva truffato di migliaia di lire al giorno, abbiamo dovuto sciupare degli anni. Sviluppiamone il sistema come in un lavoro drammatico. Tutti gli uffici per noi sono buoni. Ma per non incorrere nella diffamazione prendiamo quello di Porta Garibaldi, ove più di un impiegato è stato sorpreso colla mano, diremo, nel sacco. I personaggi del dramma possono essere tre, quattro, cinque e anche sei. Ma noi, per semplificare ,la cosa, li ridurremo al contribuente, all'impiegato che verifica e registra la quantità dichiarata, all'impiegata del bollettario e all'impiegato che ne riscuote la somma.

SCENA UNICA.

Capoposto in piedi sotto il portico dell'ufficio. Egli è graduato e indossa la montura col cinturone e la daga. Il contribuente è un mugnaio infarinato fino ai capelli. I due impiegati hanno in testa il berretto collo stemma municipale e coi giri d'oro che rappresentano il loro grado. Colui che registra, scrive su una specie di leggìo addossato alla colonna, l'altro del bollettario è seduto alla scrivania, sotto la finestra. La scena si compie in un modo rapidissimo. Il dazio è sempre affollato. MUGNAIO (salendo i due o tre gradini). Ho novanta sacchi di farina di frumento abburattata. IMPIEGATO (che registra, per un po' finge di non accorgersi e continua a registrare gli altri contribuenti, scrivendo e dettando) Quintali due e libbre ottantasei di burro fresco. (Al mugnaio).Andee a on'altra porta se gh'avii pressa ! (Prendendogli la dichiarazione). Novanta sacchi ? (Intanto che adocchia se vi è qualche sorvegliante in borghese in vista). Capoposto, vada a verificare se sono novanta sacchi. Intanto che il capoposto va a verificare con un'altra guardia i sacchi, l'impiegato operatore scrive lasciando in bianco sul registro il numero dei colli e il quintalato. L'impiegato del bollettario scrive sulla bolletta il peso preciso, cioè quintali novantacinque e libbre trentotto farina di frumento abburattata, colli novanta, lire cinquecento e centesimi novanta (in cifre). Il contribuente paga e riceve la bolletta che consegna al capoposto, il quale le fa un'orecchia e la restituisce al mugnaio. Il carico di farine se ne va verso il corso di Porta Garibaldi e scompare. L'impiegato del bollettario riempie i bianchi della bolletta madre e dello scontrino con due quintali e due colli, l'impiegato del registro lo imita e la scena finisce con una perdita, pel comune, di circa 498 lire. A tempo opportuno il contribuente restituisce a uno degli impiegati la bolletta figlia che viene lacerata subito per tranquillità degli interessati e a tempo opportuno contribuente, capoposto e impiegati dividono il bottino. Spesso avveniva che gli impiegati spingevano l'audacia fino a far senza del concorsó del capoposto e della connivenza del contribuente.

Ed eccoci al tumulto di Porta Tenaglia. La data è nota a tutti. Il sindaco Negri, popolofobo e collaboratore della Perseveranza, aveva dato ordine che i poveri morissero pure di fame se volevano, ma che la grida municipale che impediva l'entrata della mezza libbra di pane, fosse rispetta. Era tempo che anche gli operai e le operaie. di questa città, Chiamata giustamente la capitale morale d'Italia, rientrassero nell'orbita della legge. Imparino da noi signori. Non c'è persona della nostra classe che tenterebbe di defraudare il comune del dazio sul pane! L'avviso sesquipedale che copriva le mura della circonvallazione e tappezzava gli spazii degli edificii del suburbio parlava chiaro. L'abuso della micca doveva cessare. La gente che si alza stordita e stracca per ricominciare la storia di ieri, arrivava a gruppi e si fermava a leggere e a chiacchierare. Ciascheduno diceva la sua. Alcuni muratori, con la faccia ancora impillaccherata di calcina, si erano messi a sbocconcellare la misturina e a dire che era una infamia che dopo tanti anni di progresso si fosse giunti a proibire a chi lavora di andare in fabbrica con mezza libbra di pane. Per loro conto gridavano : " abbasso il sindaco Negri ! " I fabbri, quelli che avevano le maniche rimboccate e la giacca sulla spalla sinistra, asserivano che le cose andavano come andavano perchè gli operai milanesi erano una massa di caconi. In Francia, avrebbero già fatte le barricate. In Inghilterra, si sarebbero impadroniti del sindaco e degli assessori e avrebbero tenuta la Giunta in ostaggio fino alla cancellazione di quella vergogna. Leggete il Chartismo (1) di Paolo Valera e vedrete se non è vero. L'agglomerazione infittiva. Le donne, che avevano le bisacce sucide piene di pane, erano esasperate. Puntavano i pugni verso il dazio e chiamavano dio in testimonio che questo era il modo di prendere la gente pei capelli. L'ultimo, in fondo, le consolava di-

(1) È un volume della biblioteca della Critica Sociale di Filippo Turati.

Milano sconosciuta e Milano moderna. -Puntata 17.


[didascalia immagine:] I tumulti per la micca al dazio di porta Tenaglia cendo che non avrebbero avuto il coraggio di andare fino in fondo. Il Secolo era della loro e col Secolo non si scherzava. L'omaccione di mezzo, che torreggiava su tutti e che fumava col gusto di chi ha la cena nel ventre, si contentava d'interrompere le conversazioni con delle sboccate di " abbasso il sindaco Negri ! " Gli occhi incominciavano a convergere verso i cancelli affollati di guardie daziarie e di questurini. L'ortolana che aveva il banco rasente le mura, inaffiava le carote, le verze e l'insalata e diceva alle donne che comperavano, che lei era vecchia, ma che non ricordava di avere mai visto una canagliata simile. Se non ci fosse stato lì l'avviso, non avrebbe, creduto che un sindaco, che doveva avere la testa sulle spalle, fosse stato capace di levare il boccone di bocca ai poveri diavoli. Il socialista, con le mani in tasca e il bavero su fino al mento, consigliava tutti a tener duro senza violare la legge. " Bisogna dimostrare a questi borghesi che noi siamo una moltitudine cosciente. " Le donne che lo ascoltavano se ne andavano sfollando tra gli altri gruppi. Il tempo della pazienza era finito. Gli altri che non erano del parere del socialista, si sbracciavano e affermavano che i nostri diritti sono i nostri diritti. Di qui non si scappa. Gli " abbasso il sindaco Negri! „ infittivano. Non c'era più gruppo che non sentisse il bisogno di scaricarsi del grido sedizioso. Alle otto, il terreno era gremito. Dal centro degli assembrati saliva l'asta sulla cui punta era inchiodata una enorme micca. Fu come il segnale degli applausi e degli evviva. Uomini e donne battevano le mani e salutavano il pane come una bandiera. L'omaccione alto si tolse la micca di sotto l'ascella, l'agitò in aria dicendo che nessuno avrebbe osato toccargliela. Nessuna legge poteva togliere il pane al popolo. A mano a mano che i contingenti ingrossavano, ogni operaio diventava un leone. Il falegname con la barba intiera si proponeva di passare dinanzi le guardie con la mezza libbra in mano. Avrebbe voluto vedere la, bella faccia capace di togliergliela. Una filata di donne si proponeva di procedere senza paura, con la micca in una mano e la mano del bimbo nell'altra. Se si fossero toccate le donne, si sarebbe fatto un quarantotto. Non si sa chi sia stato il primo a gridare avanti ! Fu un imperativo che commosse, che rimescolò il sangue, che produsse un movimento ondulatorio. L'avanti echeggiava e i vetri dell'ufficio daziario cadevano senza che alcuno potesse dire come. I distributori di pane davano la micca a chi non l'aveva. Si era come ai tempi di Renzo. Coll'abbondanza ritornava il buon umore e si spiànava il cipiglio popolare. Ogni castroneria suscitava la risata larga che giungeva ai margini della folla come un'ondata chiassosa. La notizia che uno della rivolta era stato condotto in ufficio, fu la favilla dell'incendio. I bicipiti sentivano il prurito della battaglia. Avanti ! Chi era il capopopolo ? Nessuno lo sapeva. Si sapeva che bisognava frangere la muraglia dei monturati, i quali istupidivano per una mercede che li manteneva in piedi. Di dietro si calcava come ai fianchi, come al centro: Quando il grosso pigiato, in testa alla moltitudine, fece per rompersi alle cancellate daziarie, nacque il pandemonio. Fu un chi piglia piglia. Si vedevano le dita degli agenti in alto che cercavano di ghermire i pani di coloro che non volevano pagare l'imposta sulla fame. Gli uomini spingevano le donne e le donne col pane riuscivano dall'altra parte e si voltavano con delle esclamazioni minacciose : " Brutti vigliacchi ! I lavoratori lottavano corpo a corpo. Erano gruppi che piegavano, che si risollevavano, che si sfacevano colla vittoria dei rivoltosi. Alle dieci e mezzo la micca era passata. E i cronisti di sommosse registravano un episodio indimenticabile della lotta di classe milanese. XVII. Pagine cloacali. (Paralleli)

Gli inglesi non avranno la vivacità italiana. Ma nessuno, che li abbia studiati, metterà in dubbio che in fatto d'igiene domestica e sociale essi sono quasi al vertice degli ideali cittadini. E noi ? Giudicatene dai paralleli che condensiamo in questa dispensa. Incominciamo con le abluzioni. È impossibile, anche per un acquofobo, rimanere in qualche parte del Regno Unito, senza prendere l'abitudine del bagno. Forse, direte, la spinta è nell'atmosfera. In mezzo a un'aria impregnata di sostanze oleose, sentite spesso un bisogno prepotente di sgrassarvi in una vasca. Può darsi. Ma credete pure che la spinta principale è nell'ambiente. Non c'è casa o appartamento, che non sia dell'ultimo pitocco, senza bagno. Se siete in pensione, voi vedrete ogni mattina i vostri amici e le vostre amiche passare negli accappatoi per la immersione fresca che monda dalle trasudazioni notturne rimaste sulla pelle. Per la strada incontrate tutti i giorni degli amici che vi dicono sfiorandovi : " Good by - addio, vado al bagno. " Non ci sono clubs senza filate di bagni. Non c'è locanda municipale che non abbia i suoi bagni. Tutti i quartieri - poveri o ricchi - ne hanno per tutte le borse. Nel pomeriggio di ogni sabato, trovate frotte di operai che vanno a sommergersi nelle vasche pubbliche. - Where are you going ? - dove andate? si domandano passando. - Al bagno. Avvicinatevi a un gruppo di misses o di gentlemen. Ne aspirerete il sentore gradevole della gente abituata al lavoro di spazzola e all'immersione quotidiana. Da noi ? I borghesi che hanno in casa il bagno si possono contare sulle dita. Chi va alle Terme è un raffinato che può spendere una lira e regalare venti centesimi al bagnino. Interrogate i cittadini che incontrate per istrada. Voi vedrete che è come domandar loro se hanno ucciso qualcuno nella notte scorsa. Novantanove su cento .non se ne ricordano. Ottanta fra loro non sono mai andati oltre la spugna o non hanno mai consumato il momento igienico della purificazione corporale. Le ragioni ? Un po' sarà perchè la madre non ci avrà mai detto una volta, nella vita : animale, va al bagno ! Un po' sarà perchè l'igiene individuale non fa parte del nostro bagaglio scolastico. Ma un po' è anche perchè ce ne mancano i mezzi e le opportunità. Con un'esistenza così affrettata come la nostra, non è che il fannullone che sappia trovar tempo di andare da un punto all'altro


[didascalia immagine:] A men che non t'infilet quell gabbiot.... Milano sconosciuta e Milano moderna

della città e di svestirsi e vestirsi due volte in un giorno. Poi quanti sono coloro che possono, indifferentemente, darsi il lusso di un bagno di una lira? (1) E anche avendo tempo e denari per la immersione settimanale o quotidiana, dov'è la vasca che vi faccia venir voglia di ritornarvi ? Non abbiamo da scegliere. Non c'è che quella del bagno di Diana. Una vasca che cambia l'acqua, per comodo dei signori azionisti, una volta la settimana ! Quando vi andiamo coll'illusione di rinfrescarci, ci vediamo come circondati dagli occhi del grassume dimenticato dai nuotatori che ci hanno preceduti. Ci pare di essere in un'acqua morta, in un'acqua carica, in un'acqua plumbea, in un'acqua che ci dà, fendendola, le bollicine del liquido untuoso. Nel pomeriggio di un sabato, ricordandoci che eravamo nell'acqua dove si erano lavati almeno mille persone, ci figuravamo di nuotare in un immenso brodo di maiale ! Ogni sorsata che ci scappava giù per la gola ci faceva tirar su l'anima. Ce ne andammo disgustati.

Prendiamo i pisciatoi. Quelli degli inglesi sono involutati nelle alte lastre di ghisa o di ferro ed hanno gli acquai di metallo e le pile di porcellana continuamente e generosamente inaffiate. Sono inodori. I nostri sono indecenze pubbliche. Sono pisciatoi liberi che dànno a chiunque modo di fare della pornografia. Sono pisciatoi incastrati non importa dove. Lungo i corsi, nel mezzo delle vie, sugli angoli dei trivii e dei quadrivii, di fianco ai teatri, sotto, le finestre delle abitazioni, in faccia ai balconi e dappertutto ove non è possibile passare che urtando chi piscia. Il concetto municipale sembra sia stato quello di ricordare eternamente una necessità che gli inglesi non infliggono a coloro


(1) Dei bagni popolari o municipali ci occuperemo a suo tempo. Intanto diciamo che dai bagni di S. Marco abbiamo dovuto scappare. Ché puzza sotto il tendone, o padri "coscritti !" che non hanno gli stessi bisogni. Dappertutto vedete uomini che fanno coda a un pisciatoio con le dita sui bottoni ; uomini che si abbottonano o si sbottonano i calzoni ; uomini che si scaricano nella cavità o lontano dalla cavità granitica. I nostri pisciatoi sono fetenti. In tempi in cui i popoli inciviliti si disinfettano le istituzioni indispensabili col cloro o col permanganato potassico, noi laviamo ancora i nostri urinali pubblici col mezzo secchio d'acqua e con la granata dello spazzino pubblico. Vedetene uno qualunque. Sono come stratificati di una poltiglia gialla che invelenisce l'aria di chi vi va sopra col naso. Il largo della base che lo circonda, quando non è solcato di pozze in fermentazione, è inzuppato di urine sì e no patologiche. Coi piedi nei guazzi putrescenti, voi aspirate odori pestilenziali, odori cadaverici, odori di cangrene vescicali, odori carichi di materie organiche e parassitarie. Ve ne andate coll'uziolo di recere. Sì, lo sappiamo che qualcuno vorrebbe prenderci per un orecchio e condurci proprio dove abbiamo, come gli inglesi, i pisciatoi ravvolti nelle pieghe di ferro o di ghisa o nascosti tra le muraglie di qualche edificio. Ma tra questi e quelli che differenza! I pisciatoi inglesi, anche dove non è il lusso, si possono dire comodi. Vi entrate e ne uscite senza mettere i piedi nel bagnato, senza insudiciarvi gli abiti, senza inghiottire la buffata d'urina putrefatta, senz' incontrarvi con quelli che vogliono uscire e senza sgomitare. Andate invece a vedere quello di via Marino ! La prima impressione di colui che non è abituato alle sconcezze cittadine, è di sbalordimento. Vi sembra impossibile che un padrone di casa che si chiami Municipio abbia potuto lucrare sulla salute degli altri inquilini e sia stato capace di costruirsi, a fianco della propria residenza, in una via frequentatissima che va dal teatro Manzoni allo sbocco della galleria Vittorio Emanuele, in piazza della Scala, una piccola cloaca. Eppure è così. Digiuno di qualsiasi nozione igienica e ingordo come un padronaccio di casa della via Anfiteatro, ha avuto l'impudenza di lasciar convertire una bottega, che non ha altro sfogo che l'entrata, in una latrina a parecchi sedili di speculazione privata ! Se passate rasente, quando l'uscio è chiuso, voi udite i rumoreggiamenti sordi di un cielo in rivoluzione. Se si spalanca l'uscio mentre passeggiate sul marciapiede, vi sentite investiti da una ventata purulenta che vi dà il capogiro. Il pisciatoio che le è vicino è come una fogna senza correnti d'aria, tra due pareti lastricate fino al ventre di marmo coperto di un giallo ambrato o di un giallo rossastro, con uno spazio di due piedi quadrati inondato di urina. I rigagnoli che lo girano sono incrostati del sedimento uretrale. Entrando col bottone fra le dita, venite risospinti dalle emanazioni miasmatiche e marciose che cercano lo sfogo. Di dentro vi sentite colle scarpe sul molle o sul lubrico e siete molestati dai gomiti di quelli che vanno e vengono. Andiamo ai pisciatoi ai fianchi del Duomo. Quelli lungo i fianchi della cattedrale sono lo scandalo dei forestieri. Bradlaugh, che prima di essere una personalità della Camera dei Comuni era una sommità atea, ci diceva una notte, mentre viaggiavamo verso Newcastle sul Tyne, che Milano era una beautiful town - una bella città - ma che non sapeva capire come i milanesi avessero potuto permettere l'erezione dei pisciatoi in margine a uno dei più grandi monumenti cittadini. - Credete che noi londinesi, credenti o non credenti, permetteremmo di questi chioschi intorno all'abbazia di Westminster o alla cattedrale di S. Paolo o intorno al nostro Parlamento ? Nei vostri " chioschi " di Milano - com' egli li chiamava - vi ho veduto qualcosa di peggio. Un orrore ! E ci disse che cosa gli era toccato vedere, susurrandocelo in un orecchio. - I saw it, as you see me -- lo vidi come mi vedete. Non c'era bisogno di punti d'interiezione per farcelo credere. Noi sapevamo assai meglio di lui che il tipo che fa i fatt sceu depòs al domm continua a trasmettere il vizio di generazione in generazione, come ai tempi di du cavicc. El busseree può aspettarlo in agguato, gridargli che è proibito. Ma il pitocco vi ritorna e continua come se fosse la cosa più naturale del mondo. E noi, che abbiamo un ribrezzo indicibile pei prodotti dei tubi digerenti, non possiamo dargli torto. Dove volete che vada? Egli, che è obbligato a stringersi la cordicella che gli tiene su i calzoni tutte le volte che i signori vanno a pranzo, non può trovare in saccoccia i dieci centesimi da dare all'uomo o alla donna della latrina che specula sulle urgenze personali. Non vi pare ? I colpevoli di questi depositi fecali disseminati pei pisciatoi siamo noi che abbiamo l'audacia di stare col naso su questi fetidissimi documenti umani senza trasalire e protestare. Ma più di noi sono colpevoli i consiglieri municipali. Pei consiglieri del County Council londinese la salute pubblica è una questione che torreggia su tutte le altre, tanto nel programma del " moderato „ che in quello del " progressivo „. Scovare le immondizie cittadine è per loro un bisogno, se non una gara. Gli è così che in soli otto anni - dalla data del 'Consiglio di Contea - noi abbiamo potuto vedere questa città provincia che si chiama Londra, uscire dal mondezzaio in cui giaceva sprofondata fino al labbro inferiore, sana e ringiovanita come una bella donna che l'abbia fatta finita colle rappezzature e col putridume. [didascalia immagine:]

-Se pò pò no, se pò no!... ma mi la foo, El respondeva intant al busseree.... I pisciatoi parrocchiali sono scomparsi o stanno per scomparire completamente. Adesso in tutti i quartieri vedete dei superbi pisciatoi pubblici sotterranei, per le signore e pei signori, con la scala per l'entrata e la scala per l'uscita, con la volta bucherellata per i flussi del ventre, con un giro di acquai di porcellana nel mezzo dello spazio, chiusi tra le lastre di marmo gallese che li separano. In un paese in cui l'acqua costa, diremo, come il vinello che esce dalla risciacquatura dell'uva pigiata, sono inaffiati coll'abbondanza di chi non conosce miseria. Il consigliere di contea è un lavoratore come noi, in Italia, non abbiamo idea. Le sue funzioni gli assorbono gran parte della giornata. Chiuso il Consiglio il suo lavoro incomincia con lena maggiore di prima. Un giorno John Burns, incontrandoci, ci domandò se volevamo andare con lui. - I am going to have a round - vado a fare un giro. Voleva dire che andava a fare un giro sanitario o a snidare i residui di un sistema condannato dall'igiene moderna. Con lui e cogli altri consiglieri abbiamo potuto scrivere una Londra sconosciuta. Egli, John Burns, si interessava anche delle minuzie. Qui bisogna migliorare, là bisogna distruggere, altrove disfare o rifare. Socialista nutrito dei libri di Guglielmo Morris e di Giovanni Ruskin, aveva ed ha una predilezione per l'estetica cittadina. Fu lui che frenò la reclamomania che deturpa gli edifici e tramuta i quartieri in cittadelle di rigattieri e di merciaiuoli che si contendono i compratori con un avviso più spettacoloso dell'altro. I nostri consiglieri all'indolenza aggiungono il malanno di avere i nervi ottici e olfattorii atrofizzati. Non vedono nulla e non sentono nulla. Forse gli inglesi esagerano eliminando dal linguaggio comune le parole che puzzano, come latrina e pitale. Ma noi andiamo fin dove non va che il vuotacessi, abituato a camminare tra o sui detriti nauseabondi. Vedete se non abbiamo ragione. Noi lasciamo girellare per le vie e per le piazze, a tutte le ore, le ditte ambulanti dei latrinisti, coi pali alti come i lampioni, sulla cui cima è inchiodato il legno col nome elefantesco che vi toglie l'appetito e vi fa torcere gli occhi con un rutto plebeo. Con dei consiglieri che chiudono gli occhi per non vedere, la piazza del Duomo è circondata da botteghe che infettano l'aria e contaminano il suolo. In uno spazio di pochi metri quadrati abbiamo quattro latrine di speculazione, quattro botteghe di escrementi, quattro serbatoi di colera. Sono botteghe che hanno ai fianchi delle altre botteghe o di mobili o di mode o di restaurants. Chi dei nostri lettori che non abbia l'olfatto guasto o ammalato andrebbe mai a mangiare o a bere in una trattoria che abbia al dorso uno di questi diffusori di tanfate. d'androne d'Ospedale Maggiore? A Parigi, dove il senso artistico pare più alto che da noi, abbiamo veduto l'opinione pubblica far demolire in un giorno il chàlet che l'autorità aveva permesso si edificasse in faccia al teatro dell'Opera. I Milanesi che vanno pel mondo come una popolazione di musicisti orecchianti e di gole che sanno modulare le note come la Patti e il Tamagno, si sono lasciati perforare il cuore del tempio dell'arte, per farne un pisciatoio che sprigioni i fluidi ricchi di sostanze che ammazzano quando dovete far coda, per una mezza giornata, come alla prima del Falstaff. Abbiamo lasciato nel calamaio l'autoesibizionismo stomachevole che si propaga con dei pisciatoi come i nostri, perchè da noi ci sono ancora déi procuratori del re che hanno per missione di precipitarsi sulla penna socialista che corregge e di lasciar passare la penna' aristocratica che diguazza nell'inchiostro della lascivia. Per noi dire, nella terminologia esatta, quello che vediamo, diventa dèlitto. Per gli altri della haute pégre sociale, servire al pubblico dei quadri plastici sdraiati in un letto di pornografia, diventa dell'arte. Se, per esempio, ci venisse il ticchio di trascrivere La pomologia distesa sui muri di questi luoghi comuni, per dire ai loro autori che sono dei grafomani schifosi e dei cretini, saremmo sicuri di venire agguantati poi collo dalla mano che tentò di strangolarci alla pubblicazione delle prime dispense. In Inghilterra, invece, con una popolazione che digerisce bene, che ha avuto una vera educazione fisica e che ha per motto nazionale che i vizii di classe non devono essere sottratti al pubblico, i giornali escono coi resoconti di tutto ciò che si dice durante i processi delle ladies Campbell, dei Charlei..,Dilke e degli Oscar Wilde - resoconti che rigurgitano di amorazzi e di inversioni sessuali che vanno dal tribadismo alla pederastia. Ritorniamo alla latrina. Per dimostrare come la città che è ancora ai pozzi neri colle fosse scavate nel suolo delle abitazioni, coi tubi che vanno dal sedile delle latrine nelle fosse, coi tubi di

[didascalia immagine: ] A spend des ghei per la cagada Quand hoo ein ghei de pan! scarico e di ventilazione che disperdono per l'aria gli elementi morbigeni, per dimostrare, diciamo, come la Milano delle cinque giornate abbia bisogno di essere educata e sorretta dalla mano igienica, non avremmo che di continuare la descrizione " dei luoghi comuni " degli ospedali - monumenti di obbrobrio delle amministrazioni ospitaliere - dei cessi degli alberghi di terza, di seconda e qualche volta di prima classe - delle ritirate .degli stabilimenti industriali e pubblici e delle latrine in generale, di ottanta o novanta su cento case di Milano. I lettori vedrebbero che noi saremmo costretti a ripassare attraverso dell'altro sterco, attraverso degli altri ambienti pestilenziali o saturi di esalazioni pericolose, attraverso migliaia di latrine senza una goccia d'acqua che quella dei piatti che vi versa la donna di casa, attraverso latrine scoperchiate tutto l'anno e tutto l'anno col suolo e il sedile cosparsi di " ignobili documenti " giallognoli, verdognoli, rossastri, grigiastri e brunastri, - attraverso latrine asciutte incantucciate dietro la stanza dove si dorme o dove si cucina o dove si pranza! Ma riassumiamo queste pagine cloacali con un'illustrazione che riproduce fedelmente l'ambiente delle ritirate di una delle più grandiose istituzioni milanesi.. Date, o signori consiglieri municipali e signori cronisti, date un'occhiata alle ritirate della Biblioteca Nazionale di Brera - il tempio dell'arte, della letteratura e della scienza visitato dal mondo internazionale e vedrete che a cinque minuti dalla sede civica è

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Ritirata della Biblioteca Nazionale di Brera. impiantata una vera officina di composti che diffondono l'odore assassino di tremila tuorli d'uova in completa putrefazione. Una volta nell'ambiente, vi pare di essere nella stanza mortuaria di un cimitero nella quale i becchini abbiano dovuto ammonticchiare, nella quindicina di una epidemia spaventevole, duecento cadaveri per mancanza di fosse! Sono le ritirate dei nostri nonni. Ritirate chiuse in un buio pesto, senza sedili, senza sifoni per scaricarle almeno una volta al giorno, con le buche aperte a livello del suolo, con le buche eternamente circondate di gnocchi fecali che sprigionano i gas marciosi del bonzone dei pozzi neri, con le pietre delle buche imbrattate degli spandimenti degli straccioni che cercano un luogo comodo gratis, degli studenti che formicolano nella scuola della pittura, della scultura e della lettura ! Noi non denunciamo nessuno. Ma diciamo che in tempi in cui i delitti antigienici fossero puniti come i bimbicidii, i responsabili di questi ricettacoli di sedimenti contagiosi, sederebbero sul banco delle assisie. La soluzione ? Imitiamo l'Inghilterra che ha scavato il suolo e dato alla popolazione maschia e femmina di tutti i quartieri i water-closets e i pisciatoi moderni. E facciamo che queste istituzioni indispensabili alla vita collettiva non diventino una speculazione che costringa ancora la gente povera a scaricarsi dietro il Duomo, in un vicolo, o in un angiporto, o sotto il portico della Scala o magari sotto l'arcata di un portone della plutocrazia milanese. La necessità delle, latrine gratis è illustrata assai bene da una canzone del Bruant, uno dei più poderosi ingegni parigini che sappiano riprodurre nel verso la vita e il linguaggio della " canaglia „ del selciato.

Quand ga m'arriv' dans la banlieue, J' pos' 4a n'importe où,n'fait rien ; Mais dans Paris faut faire eun' lieue Encor, des fois, ya pas moyen.

A moins qu'on rentr' dans eun' boutique Comm' cell' l'istant d'où que j'sors ; J'avais besoin d'pousser ma chique, J'povais pas la pousser dehors. Uscendo : J'ne r'verra pus ma figure, J' s'rais pustòt dans mon pantalon. Si j'ai des besoins légitimes, J' veux pas qu'on m'prenn' pour-un rupin, Et dépenser des quinz' centimes Quand ej' n'ai bouffé qu'un p' tit pain.

TRADUZIONE. Quand me ven vceuja in Borgh, pazienza, Dove me trceuvi lassi giò i calzon ; Se l'è in Milan, cribbio che penitenza! Certi volt non se trceuva pu on canton.

A men che non t'infilet quell gabbiott De dove vegni fceura in sto moment; Se non vo denter li, me la fo sott, Se la tegni, me vegn' on accident.

Uscendo : Te vedet pu la mia lumaga La foo puttost in di calzon. Se me veri vceuja adree a la strada Sta pur sicur, foo pu el gabbian, A spend des ghei per la cagada Quand hoo mangiaa cinq ghei de pan ! XVIII. I bois.

Nella scena intitolata La via del Guast abbiamo già accennato ad una di quelle botteghe in cui va a mangiare la rostiscianna tutta quella disgraziata colluvie che è di esclusivo patrimonio delle carceri. Ora diremo invece dei bois propriamente detti, che si distaccano totalmente dal polentatt, senza entrare nella categoria degli osti o dei trattori, come vorrebbero le insegne che li classificano per tali. I bois, o 6015, come li ha battezzati il volgo, rappresentano qualcosa di bizzarro pel modo con cui vi si preparano i succulenti intingoli, e per gli avventori che li frequentano. A certe ore fisse il pubblico si cambia : alle 8 antimeridiane, a mezzo giorno ed alle 8 di sera, tu vedi entrare muratori, garzoni di pubbliche scuderie, di fonderie, falegnami, imbianchini, et similia ; alle 5 pomeridiane invece t'accorgi che alla spicciolata s'involano dalla porta - che sembra non abbia nulla di comune col bois, ma che in realtà vi ti conduce - certi esseri dalla faccia scialba, dall'abito sdruscito e dalla chioma assalonnica, che in lingua povera si direbbero spiantati. I primi e i secondi, quantunque seggano ad una stessa mensa, non hanno e non vogliono aver nulla di comune. Uno spiantato si terrebbe disonorato, oltraggiato, al contatto di un manuale qualunque. È la miseria che ha ancora del falso orgoglio! Appartengono all'eroico drappello degli spiantati tutti coloro che non hanno un mestiere determinato od anche quelli che non ne hanno esercitato mai uno in tutta la loro trambasciata esistenza. Sono per lo più pittori senza tavolozza; poeti senz'estro; romanzieri senza aver mai scritto una linea; cantanti senza voce; commessi senza negozio ; ammiragli senza nave; generali senz'esercito ; scrivani di avvocati eternamente a spasso; camerieri e servitori maledicenti alla tracotanza dei padroni che li han cacciati dal servizio; persone insomma che si sono ormai abituate a vedersi coperti di cenci e a vivere in mezzo alla più implacabile miseria. Mentre le mantenute sgonnellano sul corso per far pompa dei gioielli e delle vesti che han pagato con altrettanti baci ; mentre i ricchi sfondolati vanno dal Rainoldi ad eccitare 1' appetito coi liquori digestivi; mentre i borghesi assaporano all'Hagy la coca

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 19. [didascalia immagine:] Le due trappe sostavano qua e là,tra un albero e l'altro o il bitter con seltz; mentre il terzo stato tracanna dal Ramazzotti il wermouth a 10 centesimi, noi entreremo nel bois N. 1, di via della Madonnina, che è il più celebre tra i 300 che conta Milano. Entrando dalla porta, ti trovi subito in faccia ai 25 fornelli accesi, dove tu vedi il maggiore dei cuochi in faccende, che ammannisce le diverse vivande senza forse avere studiato il sapientissimo libro De re culinaria di Apicio, buon'anima, o quello di BrillatSavarin - il celebre cuoco del re Sole. Facciamo capolino nella seconda stanza che rimane quasi nascosta. Vediamo intorno a lunghe tavole coperte di tovaglie tutte macchiate una moltitudine di teste che si agita. I commensali rappresentano, apparentemente, i due estremi: la miseria in abito nero come la classificò Balzac, e la miseria che non ha più rossore. In sostanza, gli uni più poveri degli altri. Ci sono giovani dal solino e dai polsini candidi, e ce ne son altri che mostrano qualcosa di sporco e lacero che doveva essere, un tempo, una camicia; c'è il surtout ancora in arnese e quello sfilacciato, imbrodolato, scucito, lacerato ; ci sono calzoni che sembrano staccati dal cavicchio delle tre lire e ce ne sono di quelli sbrindellati, che ridono, da tutte le parti, specialmente alle natiche; ci sono scarpe che sopportano ancora il lucido, e ce ne son di quelle che han perduto perfino la forma della ciabatta. Vedendoli così silenziosi ed intenti ciascuno sulla propria vivanda, si direbbe che l'uno è estraneo all'altro. Non si ode che il rumore delle mascelle, interrotto a quando a quando dalla voce del cameriere, che, tra parentesi, ha l'aspetto di un guattero sbrodolone, il quale grida per esempio : - Dieci (centesimi) merlo (merluzzo) per quel signore là in fondo... a pee biott. Intanto che stiamo osservando quel battaglione che rosicchia come una muta di mastini affamati, entra un giovine pallido, dai lineamenti delicati e dagli abiti spaventevolmente stracciati. Si siede in un angolo della tavola a destra, si leva l'untuoso cappello che si mette tra le gambe, si caccia due o tre volte le mani nella lunga capigliatura, che ha più che mai bisogno delle forbici del Figaro, e si sgrava di un sospirone. CAMERIERE. Desidera pranzare? AVVENTORE. Cos'hai? CAMERIERE. C'è la roma (rosticceria), la venezia (trippa) eccellente, la spagnuola (patate arrosto), i maccheri al sughillo (pasta condita), c'è... - Dammi invece dieci di repubblica (guazzabuglio di carne stracotta con cipolle e pomi di terra) e mezza micca. - Vino ? - Sono indisposto ; dammi un bicchier d'acqua. - Dieci repubblica e una siciliana (acqua), grida con quanto fiato ha in corpo il cameriere. Frase che viene ripetuta con altrettanta forza di voce da chi eseguisce il comando. Indovinate chi era ? Era... No, non commetteremo l'indiscrezione di metterlo in pubblico. Vi basti sapere ch'esso era un poeta, un vero poeta, i cui versi han fatto pronosticare in lui un forte ingegno. Un poetal... Fare dei versi!... O ma che sono cose da mangiare i versi? Bisogna esser ben devoto alla musa per avere tanta abnegazione, per sopportare la vista dei cenci e per impinzarsi come non farebbe il più gramo dei molossi. Poeti dell'avvenire, buttate la lira... In Italia bisogna almeno avere la fama di un Manzoni o di un Tommaséo per poter appena vivacchiare! - Cameriere ! grida battendo del pugno sul tavolo un altro impazientito. -Eccomi. Ci sono i mondeghilli alla Rochefort; i vermi (vermicelli) pronti ; il trotto (risotto) bollente. - Quindici di trotto e un quinto sabaudo (barbera). - E lei? domanda il cameriere a un altro. - Ci sono i nervosi (nervetti all'aceto)? - Sempre nervosi! - Allora, dodici di nervosi, mezza micca, ma de mistura nee,ch'el me pias pussee. - Questa l'è acqua tengiuda, bestemmia quello che aveva voluto godersi il lusso del sabaudo. Ci volgiamo a sinistra e i nostri sguardi s'incontrano in una nostra conoscenza. In uno che abbiamo trovato nella locanda di via Pioppette N. 2. Questo disgraziato è venuto in Milano da tre anni allo scopo di trovarsi un posto. Il posto, come potete immaginarvi, si fa ancora desiderare, mentre i denari che aveva seco si sono dileguati come neve al sole. Rimasto sprovvisto di mezzi imparò la scala, non tanto alta, se vogliamo, del pignoratario di via Fabbri. Poi vendette i biglietti e l'ultimo indumento che poteva valere ancora qualche soldo presso il cenciaiuolo di piazza Castello, senza che il sospirato posto si facesse vivo. Breve. Il giovine tre anni fa tutto attillato è un pezzente nel vero senso della parola. - Ella viene fin qui a pranzo ? gli domandiamo. - Bazzico un po' dappertutto, ben inteso quando ho del cumquibus, cosa assai difficile in questi tempi difficilissimi. Si ha un bel dire all'antico compagno che ci conobbe in giorni migliori, che si è in grazia di dio da due giorni, e che si ha una fame da oscurare quella del polifago granatiere Tarare ! Egli rimane a ciglio asciutto e ci pianta lì come un mascalzone. Oggi, per esempio, ho potuto avere 50 centesimi da un compagno di scuola. Cinquanta centesimi, hum ! Glieli avrei buttati addietro se non avessi udito il feroce grido delle mie budella.... vuote. -E, dite, che cosa sono tutti quei fogliettini di carta che vi levate dalla tasca ? - Ah !... questi, dite ? - Sì ! - Oh bella, non lo sapete ? - No. - Sono le noterelle dei pensieri che mi balenano nella mente durante il giorno e che io trascrivo a infamia della società vivente. Faceva così anche Gérard de Nerval. - Sì, ma Gérard ebbe anche il coraggio di appiccarsi ad una inferriata, mentre voi.... - Capisco cosa volete dire. So il mio dovere, aggiunse con una certa gravità. E ci lasciò lì senza salutarci. All'indomani i giornali pubblicavano la seguente notizia : " Suicidio ? - Ieri i vigili urbani coll'aiuto di alcuni cittadini estrassero dalle acque del tombone di San Marco uno sconosciuto dall'apparente età d'anni 36. " Nelle tasche non gli si rinvennero che dei pezzetti di carta zeppi di note inintelligibili. " Il cadavere sarà esposto nella cella mortuaria pel riconoscimento. „ Come potete immaginarvi, dopo quella lettura, ci recammo difilati all'ospedale. Era lui ! Una lagrima ci sgorgò dal ciglio.... In quel momento lo avremmo baciato. Sentimmo che meritava tutta la nostra stima.

Quand on a tout perdo, quand on n'a plus d'espoir La vie est un opprobre, et la mort un devoir.

Se noi interrogassimo i 6000 spiantati che percorrono a tutte le ore e in tutte le stagioni le vie di Milano, per sapere donde traggono i mezzi della loro esistenza, difficilmente troveremmo uno che ce lo saprebbe dire. Come vivono ? Vivono dando la caccia ad un gilet o ad un paio di calzoni abbandonati da qualche amico ; ora facendosi im- prestare 40 o 50 centesimi da un conoscente o da un pietoso ; ora portando una lettera ; ora impegnando per qualcuno che non ha ancora fatto il callo a questo genere di vita ; ora cogli ultimi quattrini di un futuro collega al quale fanno pagare la camerata; ora accattando un tozzo di pane smarrito dal fanciullo che va all'asilo, ora, insomma.... digiunando! Noi li abbiamo veduti questi spiantati nel cuore dell'inverno laceri e scalzi come li avevamo veduti nel mese di agosto. Li abbiamo incontrati nelle notti nevose, Scalcagnavano ora nella mota, ed ora nella neve; sbattevano i denti, piangevano forse in segreto, ma non s'arrestavano che all'alba.... Poiché gli agenti polizieschi li avrebbero arrestati come vagabondi.... Proprio questi " errori della natura" come li chiamò il Giorio, proprio essi, che prima di indossare l'obbrobriosa divisa, avevano forse lottato contro la fame ! Ma lasciamo in pace gli spiantati, i quali ci danno l'esempio di sapere vivere una giornata con quanto non basta a certi messeri per la bibita prima del pranzo, ed assistiamo alla cena degli operai nel bois, in via del Cappello. In due lunghe sale illuminate assai scarsamente, vediamo un centinaio di teste dalla capigliatura incolta, chine su una ciotola nera di galba (minestra). Anche qui non vi sono discussioni. Il capo della tribù, che è il cuoco, continua a mestolare ed a gridare : - Quindici pasta in brodo. Dieci riso. Dodici di rostita, ecc. Tra tutte quelle bocche voraci non ne abbiamo vedute che tre o quattro darsi il lusso di manducare la repubblica, che sembra la vivanda più prediletta di quanti frequentano i bois. Ci avviciniamo alla giovine banchiera, che è quel che si suol dire un bel pezzo di fanciulla. -Dica : quel tacchino, quel pollo arrosto, quello storione in bianco e tutti quegli altri piatti lì nella vetrina che sembrano aspettino un divoratore, per chi sono ? - Bella domanda ! per chi li desidera. - Questo lo sapevamo. Ma volevamo dire chi li mangia, poichè a dir vero in tutti questi negozi non abbiamo trovato un cliente che avesse sul piatto un quarto di pollo. -Ora ho capito, ci risponde con un sorriso civettuolo. Sono per lo più persone che non si fermano qui a mangiare. -Ah !... E quanto spendono suppergiù gli avventori di questo luogo in una giornata? -Una zuppa alla mattina con tre quarti di pane misto e vott de bagniffa Cent 22 A mezzogiorno una qualunque vivanda di dieci centesimi e nove di pane "19 Alla sera quindici di minestra, dieci di pietanza e nove di pane " 34 Totale Cen. 75

Settantacinque centesimi!.. Affè, la gran somma ! E dire che dopo queste crude verità ci sono i giornaloni.... borghesi, che hanno il coraggio di registrare quotidianamente i nomi degli ubbriachi !...Già, ubbriachi, di che cosa ? Di fame ! Non v'è altra parola per essere vero. Jules Janin, quandò parlò di Henry Murger, scrisse : " Il n'y a qu'un mot qui serve en tout ceci : hòpital " Sul corso di Porta Garibaldi, al N. 23, è l'antica trattoria degli Angeli, con alloggio - un 6015 frequentato dalla popolazione dei dritti (1) che baccaiano (parlano) la lingua furbesca assai meglio di tutti gli Ascoli e di tutti i Biondelli del mondo. Per loro i carabinieri sono i giand, il vapore el furios e la prigione la casansa. La maggioranza dei dritti di questo 6015 è comp [.....]suonatori ambulanti, di imbonitori di barraconi e di [...]ditori,


(1) Ometteremo sempre di tradurre le parole che abbiamo già fatto con i lettori quest'ultimi, di stringhe e bindelli, di aghi, di spilli, di bottoni di camicia e di refe. I masciader e i suonatori ambulanti vanno, sovente, in provincia. I primi li trovate su tutti i mercati e a quasi tutte le sagre. I secondi non rinunciano alle solennità religiose, ma preferiscono posteggiare - lavorare e anche andare in giro - le cascine, ove trovano sempre una colonia pronta a dar loro il benvenuto, del latte fresco con del pane giallo e delle palanche. - Guadagnate ? domandammo loro uno di questi giorni. - La nostra giornada, s'el fa beli, gh' ee la demm minga a do cavell e nituct (a due lire e mezza). S'el piceuv, addio ! L'altro giorno con la " vieni alla finestra „ abbiamo fatto più di 15 lire in quattro.

Vieni alla finestra, O bambinel d'amore, Questa è la nell'ora Questa è la bell'ora.

Vieni alla finestra,

Che vien la primavera,
Noi canterem di sera,
O bambinel d'amor.

- Ma ci sono, ci disse un altro, anche delle giornate loffie (disgraziaté). Qualche volta si posteggia e la si fa bianca (si prende niente). Ma in generale el morlacc (contadino) e la morlacca sono buoni. Se non ci dànno della pila (denaro) non mancano nei di offrirci una basla - ciotola grande - di minestra. La cascina per la notte è sempre a nostra disposizione. Tra le donne che ricordiamo di questo 6015 sono due crappe - prostitute della loccheria di piazza Castello. Nel bois di solito la conversazione non esiste. Ciascun commensale non si occupa che di divorare il proprio piatto. da le due crappe che andavano sempre allo stesso tavolo, avevano l'abitudine di salutare le facce conosciute e anche di chiacchierare o di interessarsi dei disoccupati. -Avete trovato qualche cosa, oggi ? Se si diceva loro che non avevamo trovato nulla, ci incorag- giavano a persistere nella ricerca perchè domani saremmo stati più fortunati. A dirle prostitute si esagera. Perchè in verità non erano che delle amiche dei locch. E i lòcch, come sapete, non pagano la donna. Quando ne hanno, le fanno mangiare una cena, regalano loro un


Puntata 20

[didascalia immagine:] - Avrete però sempre i genitori che.... (pag. 159). azzoletto o cinque lire per cambiarsi l'abito. Ma non dànno mai loro la mercede che i borghesi dànno alla prostituta. Le trappe si affezionano ai lòcch come a una famiglia. Sentono le loro sventure e sono pronte a qualsiasi sagrificio per soccorrerli. Avvertire el scarpa (ladro) de spesà (di andarsene) perchè viene la giusta (i questurini), è per loro un dovere sacro. Il furto non è escluso dalle sorgenti dei loro guadagni. Se capita loro tra le mani un borghese o un vecchio non lo lasciano andar via che svaligiato. È come una punizione che infliggono a coloro che non appartengono alla loro classe. Queste nostre conoscenze erano sempre assieme e lavoravano una zona che non arrivava a Porta Tenaglia e non giungeva al Fossati. Sostavano qua e là, tra un albero e l'altro, chiacchieravano con chi trovavano o sedevano, per delle ore, ove era qualche gruppo che faceva della flanella come loro. Giovanni, il venditore d'abiti usati appesi alla corda, era un loro intimo. Non abbiamo mai potuto capire se era l'amante di una di loro o se era semplicemente uno che comperava da loro la roba rubata. Non sappiamo più dove siano andate a finire. Il loro abbigliamento era locchesco. Si ravvolgevano nello scialle Come le veneziane, avevano il grembiale chiaro con le due tasche, calzavano degli stivaletti dal tacco piuttosto alto e pendeva dal loro orecchio. la buccola. Erano leggiadre. XIX. Le scuole da ballo.

Come è cambiata! possiamo a ragione dire della scuola da ballo. Non è più il rendez-vous delle Mimi Pinson, delle Musette, delle Francine, delle Fleurinette, che ivi convenivano colla canzone di Béranger o di Musset sulle labbra, a consumare alla fiamma della danza gli anni giovanili; non è più il cenacolo, ove bellezza e ingegno si sposavano in un valzer voluttuoso; non è più il luogo ove affluivano le future celebrità artistiche e letterarie, per cercarvi col bacio infuocato l'estro alle elucubrazioni del pensiero. Ah, come è cambiata! Non vedi più le balde fanciulle, coperte di un " vento tessuto"

Che non copria dinanzi ne di dietro Più che i gigli e le rose un chiaro vetro,

abbandonarsi all'orgia di un ballo tumultuante; non vedi più gorgogliare nei lucidi cristalli lo spumeggiante Sciampagna o il Medoc che infiamma; non odi più l'eco del lungo bacio, che si scambiavano gli amanti di un giorno, di un'ora, in un angolo o in mezzo alle coppie che piroettavano. Addio follie, delirii di un giorno ! Addio Silfidi, che sapevate farci gustare un galop od una polka; addio Aspasie ! addio ricolmi seni ! addio a voi, che ci facevate dimenticare le noie della vita! Ma lasciamo da parte i rimpianti e le disillusioni puramente.... personali, .e veniamo a dire ciò che abbiamo veduto in quelle quattro scuole che ancora sopravvivono al naufragio di tante e tante consorelle. Incominciamo dalla scuola Cabrini, in via Cordusio, famosa un giorno pei personaggi che ospitava e pei drammi più o meno tetri che ivi si svolgevano. I ventiquattro orologi non elettrici battono le dieci. Entriamo. È un'ampia sala illuminata da una quindicina di fiamme. Al nostro apparire tutta la famiglia delle grisettes, lorettes, cocottes,cocodeties si dimena sui soffici divani dei quali è contornata la vasta sala. - Ovuj, gh'é chi duu misceroni!... dice ironicamente sottovoce una delle più brutte. - Del togo ! soggiunge un'altra. Ma noi, senza perderci di coraggio, come avrebbe fatto un provinciale, c'inchiniamo e diamo a quelle sacerdotesse dell'amore in tre tempi, la buona sera. - Buona sera, ci rispondono in coro. La prima che attrae la nostra attenzione è l'Adalgisa, una vera crdneuse che abbiamo veduto crescere e svilupparsi in una casa del Terraggio di Porta Ticinese. È alta, snella, forte. Seduta o in piedi, con l'abito floscio come la batista ti lascia vedere la correttezza d'una femmina modello. Il suo seno senza il tremolio della ridondanza, ti rivela la sodezza delle carni. Nei suoi 'occhi è la diavoleria incosciente della donna che distrugge inconsapevolmente gli uomini. Le sue linee facciali sentono della durezza della vita passata senza perdere di grazia. Lasciata nel suo ambiente, vestita con l' eleganza della sua classe, libera di chiamare " vacca" la donna che va con coloro che le piacciono e di dire " merda!" quando non vuol rispondere, è un capolavoro nel mondo femminino. Ricca, trasportata in mezzo allo sfarzo e all'esuberanza di tutto, diventerebbe una platitude in gonnella. Tra le altre ne vediamo di 18 anni e di 35 ; di belle e di brutte, di orrende e di imbellettate. La loro acconciatura è. modesta e comunissima, quanto quella di una sartina non ancora iniziata ai sacri misteri dell'arte. Talune hanno alle orecchie ed alle dita dei cerchietti.... d'oro, che il Monte di pietà o d'impietà rifiuterebbe. Le loro vesti sono aggraziate e succinte, in modo da lasciar scorgere forme provocanti. Offriamo loro delle cigarettes, malgrado il divieto di fumare alle.... " signore.... " Accettano e ci ringraziano. Intanto che il fumo sale a globuli e a spire, seguitiamo a contemplare quelle filles du monde, le cui facce, secondo noi, hanno patito più fame che godute carezze d'amore. Suona una polka. Nessuno danza. Lo spleen comincia a impadronirsi di noi. Entriamo nel dietro scena che serve da caffè. Ivi tre o quattro tavolini intorno ai quali degli scapoli, dei giovanotti un po' maturi, e perfino dei mariti.... impenitenti, in istretti conciliaboli con delle scinsce (amanti) veramente seducenti. Più innanzi una specie d'alcova, sotto cui vedi un largo tavolo coperto di giornali.... teatrali. - Cameriere, portaci della birra. Messa alla bocca, non possiamo berla, tanto è acida. Ci volgiamo per riprendere quel cameriere, allorchè ci si avvicina una fanciulla, bella di una bellezza senza pari. È un'asta di donna. Con una capigliatura alla brutus, con delle sopracciglie nere, con un occhio dal lampo irresistibile; con delle guance di un roseo pallidissimo, con un collo alabastrino, con delle mani diafane, con dei piedini d'andalusa. O ma petite fée! avrebbe gridato Musset, che era appassionatissimo per questo génere di fanciulle. Ci sorrise. Le esibimmo dei rinfreschi ed il braccio per un valzer. Accettò i primi. - Come avete nome ? - Evelina. - Tò ! un'amica di Tronconi ! - Siete qui con l'amante ? - Sola. - Possiamo allora farvi da cavaliere, questa sera ? - Mi terrò onorata. Baciammo quella mano che ci aveva entusiasmato e ritórnammo in sala, attrattivi dal rumore delle danzatrici. Che allegria! Si buttavan là le gambe, senza grazia e senza energia. Le ballerine si abbandonavano di peso sul corpo dei ballerini, quasichè il loro concorso non dovesse essere che materiale. Addio cancan milanese ! addio ciouf-ciouf che un tempo, in quella. stessa sala, su quello stesso parquet, risuonavate e riscuotevate tanti applausi ! Evelina, strizzando l'occhio, ci fa capire che è stanca. L'aiutiamo a indossare il paletot di raso nero e scendiamo. Il brougham N. 69 ci attendeva alla porta. - Alla Fiaschetteria Toscana. L'automedonte fece scoppiettare la frusta e in un baleno fummo nella camera ove convenivano ogni sera parecchi, bohémiens. della Milano notturna. Siamo agli sgoccioli della cena. Lei sorseggia la chartreuse, noi il cognac. - Che bella vita è la vostra ! dicemmo, come distratti. Buttò la cigarette sul piatto, poi, come una iena ferita, ci piantò quel suo occhio rutilante in faccia. - Non ripetete la sciocca parola ! Bella vita, dite ? Ah, ah! avete ragione. È invidiabile ! Star là per delle lunghe ore - talvolta a stomaco vuoto - ad aspettare magari un vecchio rotto a tutti i vizi, che vi sfami, e vi dia un pezzo da cinque lire pel giorno appresso!... La chiamate bella vita.... - Ma i vostri amanti.... - Singolari anch'essi ! Spesso danno ,in ismanie, ci percuotono scimiottando l'Otello, ci insultano coi nomi i più turpi; ma poi, quando si tratta di rispondere a certe domande che ci strappano le esigenze della vita, allora, quegli esseri che avrebbero voluto fare di noi tanti automi viventi, non sanno più che dire!... E ve ne sono di quelle -incredibile a dirsi! - che, mentre ingiuriano colei che dicono di amare perdutamente col trivialissimo nomignolo di vajana, non si vergognano poscia di chiudere un occhio e di dividere con essa il già scarso ed abbominevole guadagno.... - Avrete però sempre i genitori che.... Una terribile risata interruppe la frase. - Che volete che facciano ? disse essa di una voce grave. Io, per esempio, ho mia madre che ha 60 anni, e una sorella che una lente tabe sta consumando.... Posso esigere, posso strappar loro quello che non hanno? È quindi naturale che le mantenga e paghi loro l'affitto della stanza, nella quale abbiamo un pagliericcio per tutte e tre. Questo per me. Ve ne sono poi di quelle - tra noi - che se non portano a casa il frutto della notte, vengono battute dai loro padri... - Snaturati ! Ma se - puta caso - una sera, la fortuna vi fosse maladettamente avversa ? - Allora ci alziamo di buon mattino, vale a dire verso le 9, e d'uscio in uscio andiamo in volta fino a quando abbiamo trovato l'amica, che abbia qualcosa da prestarci. Tra noi, nei giorni di sventura, v'è una certa solidarietà. Le crude rivelazioni di quella fanciulla ci commovevano. Pagammo lo scotto, e ci ficcammo di nuovo in brougham. - Andiamo a casa mia, ci diss'ella sottovoce. - Ma se non hai che una stanza sola con.... - Ah i quella è per salvare le apparenze e sfuggire in certo qual modo alle peste della crudele, inesorabile Questura, la quale non ci lascia mai pace. - Dunque ne hai un'altra ? - Via Ospedale N. *** Salimmo quattro interminabili piani, prima di trovarci in un salottino,meschinissimamente addobbato. Un divano, un tavolo, un porta mantelli, uno specchio e quattro scranne. Accendemmo i sigari, e sedemmo accanto l'uno dell'altra. - Paghi molto di queste due stanze ? - Sessanta lire al mese. - Al quarto piano, senza portinaia e con questa razza di mobiglia? - Gl'ingenui che siete ! Volete forse che la padrona di casa affitti a noi senza che.... Evvia, sarebbe pretender troppo ! Le nostre padrone di casa sibilo del resto buone donne ; esse non sanno e non conoscono che la fine del mese. - Dunque sono anch'esse conniventi ?... - In faccia alla legge no, perchè noi dichiariamo quasi sempre un mestiere che non esercitiamo : ballerina o modella. - Appagaci di un'altra curiosità. Nelle scuole da ballo ve ne sono di quelle inscritte...? - Cioè ? - Vogliam dire di quelle già accalappiate e registrate dall'immortale signor Tajetti sul gran mastro del bureau des maeurs. - Se ve ne sono! Vi ricordate della grassotta seduta nell'angolo sinistro della sala, che fumava ferocemente un londres? Quella ne è una. Vi rammentate dell'altra più alta di tutte, che parlava in veneziano ? Sgonnellò tre anni nel bordello N. 1 in via Spadari : venne tolta di là da un Tizio che se la tenne per tre mesi: ed ora ha ripreso la vita primiera e con essa l'abitudine di andare al martedì e al venerdì a farsi visitare in via Lanzone. - Oh basta, non dircene di più ! La scuola di ballo secondo te, dunque, è l'anticamera del ditterio? - Anzi, talvolta è il ditterio stesso. La nostra leggiadra compagna cominciava a socchiudere gli occhi. - Hai sonno? Non ci rispose ; Morfeo se la stringeva in un beato amplesso! Sfortunata fanciulla, esempio di abnegazione e di amore figliale, dormi! dormi ! Dimani Chi sa qual braccia stringeranno questo Candido corpo e quai labbra dovranno Sugger stille d'amor dalla tua bocca. Dormi ; questa fugace ora di quiete Godi e sia senza sogni il sonno tuo. Le scuole di via Orefici (maestro Chiappini) e di via Pasquirolo (maestro Poletti), differiscono di poco da quella di via Cordusio. Nel Cabrini ti verrà fatto di vedere talvolta il cappello a staio,

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 21. [didascalia immagine:] La Fioravanti. el gilè de gèss (il panciotto bianco), come lo si chiama in quel luogo, e il guanto glacè; in quest'altre due invece vedi far capolino i calzoni che delineano delle belle gambe e il foulard annodato alla locca o meglio alla foggia dei fort. Anche le fanciulle si distinguono da quelle della scuola Cabrini. Là non sono ammesse che quelle che indossano un abito un po' elegante e calzano un paio di brodequin alla vivadio ; qui invece si è più di manica larga; là il linguaggio è assai corretto ; qui è più licenzioso. E queste e quelle si odiano tra di loro cordialmente.. - Vuj, Luisina, te pirlet ? Metten giò pù del stuaa. A momenti te me rughet ! E dopo queste espressioni che vogliono dire : balli ? Via, non fare la schizzinosa ! Cominci ad annoiarmi, sai ! la Luigia raccoglie nella mano destra la coda della sua veste e poi, senza far motto, si lancia nelle braccia del suo ganzo, il quale la trasporta e la fa ,piroettare in un modo vertiginoso. Un'altra cosa abbiamo trovato che non è in uso nella scuola Cabrini. In questa tutte le ragazze sono obbligate da un apposito regolamento a ballare con chiunque si fosse; in quelle no. - Balla ? domandammo una sera ad una bella e simpatica danzatrice della via Orefici. - No, grazie. - Maestro, o come va questa faccenda ? - Quella, ci disse all'orecchio, è accompagnata dal suo amante, il quale le proibisce di danzare con gli altri. - Non è questa una scuola pubblica ? - È vero, ma ella mi capisce.... Eravamo impazienti di conoscere se tutte quelle Tersicore, conosciute in Milano sotto il nomignolo di scovinett, si potevano condurre a cena come quelle del Cabrini. A chi domandarlo ? - Lei, in questo luogo ? ci disse ùn giovinotto molto barbuto. C'era, come si suol dire, capitato il cacio sui maccheroni. Stringemmo fortemente la mano amicone, che non ricordavamo più dove avevamo conosciuto, e l'invitammo a bere una chiavenna nell'attiguo bugigattolo, ivi chiamato - per ironia, crediamo - buffet. - Si balla, eh ?... bravo, bravo ! - E lei ? - Peuh.... El g' ha chi anca lù el mestee ?.... (amante). - Quando ho peltro (denaro), sempre. - Ah, bisogna dunque pagarle ? domandammo con fare ingenuo. - Si sa, sono ragazze ; non vivono mica sempre di aria ; del resto, sono modeste nelle loro esigenze.... - Tutte? - Oibò! Quelle due sorelle, per esempio, le ha vedute? Ebbene, esse non vengono qui che per ballare. Così pure la giovanattona che non volle danzare con lei : ella sarà fedele al so pivell (amante), fino a quando ne pagherà le spese. El rest l' é tutta carna de god ! Un risolino ironico ci spuntò sulle labbra. - Vede quelle due là che fumano ? - Ebbene? - Sono da tre notti senza tetto. La prima l'hanno passata in casa mia, le altre due al caffè Carini - (ora Stabilini, asilo, dopo mezzanotte, agli ubbriachi e luogo di sosta alle perdute che sbucano dai centri della prostituzione tollerata nelle ore a e antelucane). - Vedono la Fioravanti? Quella scollata che parla coi due signori che la invitano a cena ? È una malmaritata che incomincia a salire. Farà carriera. Ma quanta fame ha fatto nell'ultimo inverno! L'ho trovata negli angoli che batteva i denti dal freddo e dalla fame. La si poteva avere per venti centesimi. Ci vuole della abnegazione a persistere in questo mestieraccio cane di trascinarsi dietro gli uomini. Chi sono i due che la invitano? Due adulteri. Sono due agenti di cambio che possono vedere in borsa tutti i giorni. Sprecano il danaro come se lo rubassero. Non mi meraviglierei di saperli in terra a un primo rovescio. Il Padiglione di Porta Garibaldi (N. 30) non ha nulla di comune colle tre scuole che abbiamo tentato di descrivere più sopra. L'ampio salone è guardato costantemente da due agenti di P. S. L'entrata è di 50 centesimi. I frequentatori sono tutti lòcch nel vero senso della parola; le frequentatrici sono scovitt o donne dei lupanari di San Carpoforo. Uno che non appartenesse a quella classe, arrischierebbe di buscarsi qualche pugno, senza punto riuscire a ballare con quelle perdute. Quando siamo entrati, vedemmo trenta facce sinistre guardarci in cagnesco. - Cosa vegnen chi a fa quij pelaa (giovani eleganti) li? - Ovej, g'han sotta el bogol (orologio), e la bria de polenta (catanella d'oro). - Se se podes leccaghi via.... (se si potesse involarglieli !) - Micheggia (guarda) un poo, ti, Tanella. - Me paren duu ignorant (minchioni). - Ah ! se se podes fa tórta colla rama (se si potesse dividere colla sbirraglia) come ai bej teme di duu cavicc! - T'hoo tolt! (t'ho inteso). - Comincemm minga a spaghescià.... (non incominciamo ad intimorirci). - Donca femm trèpp (uniamoci). - Toeu su intrettant, ti Schinitria, quel pongo de bavòsa (ombrello di seta) che gh'é là in canton. Questo fu il dialogo che alcuni della somma (compagnia dei borsaiuoli) tennero mentre ci trovavamo in quel luogo, che sembrava più la tetra Pepajuola descritta da Gaborieau, anzichè un padiglione da ballo. Il 18 agosto - non sappiamo per quale ragione - venne chiuso anche questo Padiglione, che era, senza dubbio, il ricettacolo di tutti quegli esseri fatti malvagi e sordi a qualsiasi generoso sentimento, dalla scellerata e peccaminosa oblivione in cui vennero lasciati tutto il tempo della loro vita. Tutte queste scuole da ballo, perseguitate dalla questura, dovettero emigrare nei sobborghi. Il solo che abbia potuto prendere il posto del Padiglione, fu la Follia - una specie di café-chantant - con biglietto d'ingresso. Ci siamo stati parecchie volte e vi abbiamo anche sciupata una notte, durante una così detta veglia di gala, con cena. Con tutta la voglia di divertirci abbiamo dovuto rinunciarvi. Le donne che vi trovammo avevano dei guanti gualciti o vecchi e i loro seni e i loro colli erano adornati di tutte le cianfrusaglie della ragazza che non sa più come nascondere la poverezza. Le loro facce, note a tutti i nottambuli della suburra milanese, sollevavano il vespaio dei pensieri spiacevoli. Vi dicevano che non erano là che per impadronirsi di un maschio che desse loro cinque lire. XX. Il birbante.

Sconosciuto, rieccoti nelle mani della giustizia. Tu sei una perturbazione sociale. Non negarlo. La casella giudiziaria rigurgita delle tue deviazioni ai comandamenti etici. Tu hai ripetutamente violato i diritti naturali dettati dal cielo all'uomo. Refrattario a ogni lavoro sociale, ti sei gettato più di una volta sulla roba degli altri. Perchè avevi fame? Bugiardo. È in te lo stimolo del furto. Tu sei un delinquente nato. Non negarlo. È la scienza che ti condanna. Volgiti indietro. Tu non hai avuto nè padre nè madre. Tu non sei che il risultato del coito. La prostituta che ti ha evacuato è morta come una carogna, consumata dall'alcool e divorata dalle pustole. Tu accusi la società che frena la tua natura malvagia di non essersi occupata che dei tuoi crimini. È la caratteristica maiuscola di tutti i delinquenti, i quali cercano sempre altrove il gerente responsabile delle loro colpe. Tipo antisociale, levati il cappello. Tu sei un microcefalo. Non negarlo. La tua conformazione cranica è differente da quella del borghese equilibrato. La tua fronte stretta va su a cono e le pareti del tuo cervello hanno le depressioni dell'individuo capace a delinquere. Apri la bocca. È una fornace di delitti. I canini sono accavallati, gli incisivi e i molari sono staccati l'uno dall'altro, come nelle arcate dei ladri e dei grassatori. Ah sì, tu vorresti evitare questo momento tragico della tua esistenza. Ma l'antropologia criminale non ha tempo da perdere. Non muoverti. Le sommità della scuola positiva sono qui a studiarti. Su, lasciati vedere a testa alta. La tua faccia è piena di quelle varietà anatomiche che distinguono il malvivente ereditario dall'uomo sano che ha trovato la sua nicchia nell'organismo sociale. Il tuo occhio è truce, i padiglioni delle tue orecchie piegano su sè stessi, le tue mandibole sono enormi, le tue volte sopraccigliari proteggono una cavità spaventevole. Tu sei un orrore. Carname dell'ultimo strato sociale, rimboccati le maniche. Le tue braccia sono la vetrina dei tuoi affetti. Tu sei tatuato come tutti i tuoi pari insensibili ai loro dolori fisici, come ai dolori fisici dei loro, torturati. Non negarlo. Sono i segni della tua ferocia. Che cosa vuol dire quel pugnale circondato di un nome femminile ? Amore ? Vendetta! In te è l'odio inestinguibile. Il tuo amorazzo finisce per dissetarsi nel sangue. Tiriamo innanzi. Spalanca le mani. Gente incredula, dàte una occhiata alle anomalìe dei suoi solchi palmari. Eccoti nella trappola. Tu sei un rivoltoso. Non negarlo. Queste ramificazioni suggellano il convincimento scientifico. Rappresentano il tuo cinismo. Dovunque sono le stigmate della tua degenerazione. Contemplati. Nessuna scuola può riabilitarti. Le tue lesioni sono organiche. Vuoi convircetene ? Tu non puoi parlare come la maggioranza. Il tuo linguaggio è nel dizionario degli inquilini delle carceri. Tu chiamai cattiva la minestra, tarocch il biglietto, maggiorengo il capo guardiano, colomba il filo col quale un prigioniero comunica con un altro e chignera la pagnottella del cellulare. È inutile. In un ambiente onesto, tu sei un pericolo permanente. Tu sei lo spirito d'insubordinazione. Non negarlo. Ogni tuo atto tende a disfare questa divina creazione sociale elevata sulla rocca dell'utilitarismo scientifico. Spostato, tu non puoi aver posto in questo superbo edificio della cooperazione basata sull'uguaglianza di trattamento per gli uomini evoluti. Tu sei debole, tu sei inabile, tu sei il nostro microbo. La società ti schiaccia. E giustamente ti schiaccia. Perchè tu sei un inadatto. E come no? La tua struttura mingherlina lo dice. Il tuo corpo è un abbozzo malfatto. Bisognerebbe rimodellarti e noi non abbiamo tempo di occuparci degli idioti. Vuoi che ti si documenti l'insufficienza del tuo sviluppo fisico e intellettuale ? Guardati intorno. Tutti stanno bene, tutti sono in carne, tutti sono ben piantati: Tu sei rattrappito nelle spalle, sei scarno, sei smunto, sei logoro, sei avariato e vai via come un ubbriacone. Quello che per noi è eccellente, per te è veleno. Per noi evoluti la vita è una sorgente perenne di benessere, di piacere, di felicità. Per te è una fonte inesauribile di miseria. Ciò che per noi è il supremo dei benefici, per te è una maledizione. In mezzo a noi tu sei la catastrofe, la dissoluzione, il pervertimento. In noi sovraneggia il senso morale, in te la birbanteria. Parassita che hai rifiutato di adempiere ai tuoi obblighi sociali, curvati sotto il pugno poliziesco che ti ha agguantato mentre mettevi in saccoccia le ottanta lire rubate. La lotta per l'esistenza? Taci, ribaldo. Tu non puoi capire quest'alto concetto sociale del forte sul debole. Perchè il carnivoro viva, è necessario che muoia l'erbivoro. È un combattimento scientifico nel quale, spesso, il più atto si impadronisce della preda còlta dal meno atto. È l'altruismo delle classi superiori. Ma tu ignori le leggi dell'evoluzione, come tu ignori i patti della convivenza comune. Straccione che non ti sei sottomesso alla volontà di Dio che per dargli la soddisfazione di contemplare la tua indigenza, la tua carriera è finita. Dalle manette del poliziotto sei passato sul banco della patologia sociale. Ascolta il pubblico ministero. È un'arca di scienza. Egli ti parla di psicosi criminale. Egli ti decreta l'ostracismo. Ti finisce. Tutto è finito. La biologia ti rifiuta. Curvati. La tua è una sconfitta meritata. Tu sei rimasto un bruto come la tua classe. La tua è una razza che deve perire. È la sapienza giuridica che lo dice. La platea mormura. Tu piangi. La pietà è un sentimento morboso. È il ferravecchio della scuola classica del diritto penale. Noi siamo passati sopra gli idealismi della collettività ignorante. La presenza di una birba inquinerebbe il sangue delle arterie nazionali. Se dobbiamo piangere, piangiamo assieme che sia stata abolita la pena di morte -la sola, la vera liberatrice di tutte le immon-

Milano sconosciuta e Milano moderna.- Puntala 22.


[DIDASCALIA IMMAGINE:] il birbante dizie sociali. Penalisti, ridateci la macchina scientifica. Aiutateci ad abbattere l'albero del male, a rendere questo nostro Eden perfetto. Il delinquente nato non può essere corretto che con due tratti di corda. Giudice, condanna. Quanto più sarai atroce, tanto più meriterai la nostra gratitudine. Egli non è un essere socievole. Egli non è che del materiale per l'edificio dell'antropologia criminale. Spiantato, va in galera a , scontare le tue ottanta lire. Noi, Cavallini, noi superuomini, noi maggioranza, abbiamo diritto alla sicurezza pubblica. Noi vogliamo essere tranquilli, noi non domandiamo che della quiete. Galeotto, il giudice ha parlato. Tu non rivedrai più il selciato di Milano. Tu non sei più che un numero. Vattene. Muori. XXI. Il Tivoli.

Questo sterminato semi-circolo che rasenta due monumenti storici - il Castello e l'Arena - sei o sette anni fa poteva dirsi il bosco della Merlata, malgrado che di bosco non vi fosse neppure l'ombra. Lo si poteva dire il serbatoio della masturbazione fisica. Erano facce che facevano allibire. Tra loro ti sembrava di essere in mezzo ad una popolazione evasa dal bagno penale. Nessuno andava in piazza Castello senza tenersi pronto col bastone. A colui che vi andaa, si diceva : bada, che ne hanno accoltellato uno anche ieri sera! Una donna sola, che non fosse una crappa, non avrebbe mai messo piede su quel terreno della malvivenza. Accompagnata, si stringeva al tuo braccio come quando si ha paura che sbuchino i malandrini. La polizia non vi mandava che gli agenti coi baffoni e il pugno capace di atterrare il " malvivente " al primo colpo. Era una geldra che aveva per divertimento il furto. Strappava di dosso il troppo (mantello), toglieva il tic-tac (orologio) dal taschino del gonzo (semplicione), involava una quantità di moccoli (moccichini), staccava, mercè una rana (forbice) fatta appositamente, i coriandoli (colanna di corallo) dal collo delle forosette, e le brie (catene d'orologio) dal taschino del gilet, dissaccocciava la fanfirla (tabacchiera) del tabaccoso e ghermiva il redin (borsellino a rete in uso a quei tempi) a chi lo aveva, con una leggerezza e una prestezza da non dirsi. Alla lega dei pescatori (ladri), aggiungi quell'altra legione non meno numerosa che teneva treppo (capannello di persone), che imboniva colle polveri insetticide, col giuoco dei tassi (dadi), dei cocle (gusci di noci) o con vocabolo più moderno dei gusset, ed avrai una pallida idea di ciò che era un giorno il Tivoli. Ora, si è modificato. La scena è quasi mutata. Il progresso, questo implacabile nemico della miseria, ha portato, col suo soffio inesorabile, anche su quel campo la rivoluzione. Si pensa a demolire, a cancellare, a distruggere, a rovesciare, a disperdere. - Ma chi pensa al resto ? Nessuno. Dove va a finire la gente che scacciate dall'oggi indomani? A ingrossare i reietti degli altri quartieri. Una volta sbucato dalla via Arco, ti trovi dinanzi quel vasto edificio denominato il mercato delle erbe, eretto nel 1873 dal Co- mune, che volle in parte distrutti quei luridi banchini posticci che facevano così brutta mostra di sè. Ma siccome a noi poco deve importare il progresso edilizio quando vi sono morenti di fame, così saltiamo le panciute erbivendole che si sfiatano sotto quei portici, tra una sorsata di vino e una sleppa di manzo puro sangue, e volgiamo i passi dalla parte opposta, proprio là dove incominciano le annose quercie sfiorate dalla vaporiera dei tram, che ti portano al paese degli amaretti e da questo a Tradate. L'ambiente è piantumato. Voi vedete una ventina di baracche sucide sotto cui si vendono angurie e poponi: e l'è fresca in giazz;taja Bustoch : cinq ghej la fetta: se mangia e se bev e se lava la faccia....a!,... melon bon.... melon bon.... cinq ghej al tocch.... Poi incontriamo un banchino di libri usati, su cui leggiamo il nome di tanti infelici che sciuparono carta e inchiostro: poi un altra fila di carriuole alternate ora da chi vende i figh de la gotta e i pèrsegh a cinq ghej la pigna; poi un sorbettaio che grida alla sua volta: andem, ficeuj e l'è gelaa: dò qualitaa per on sold e la consolina dolza: ah! che bel beeeev.... A questo punto lo spietato bum ! bum ! del tamburo e il tam tam ! cium cium ! dei piatti ci arrestano intorno a una corona di gente diversa che accerchia una compagnia di saltimbanchi. Piazza Castello fu sempre il teatro di questi sventurati pagliacci che vivacchiattano torcendosi le membra, slogandosi l'osso del collo, rompendosi le reni, accavallando ed incrociando le gambe,

[didascalia immagine:]

I saltimbanchi. facendo salti mortali, tenendo sulla punta del naso una scala di scranne, portando sulle spalle o sulla testa, a braccia aperte, due o tre bambini, i quali rotolano a terra tra le risa, sovente, sguaiate di una turba impudente ; camminando colle mani a terra e i piedi all'aria, imitando la tartaruga, interrogando la Pizia sulla sorte dei citrulli, facendo uscire uova dal magico sacco ed altre piacevolezze. La compagnia che ci stava dinanzi era composta di un clown e di un buffone meneghino più in voglia, se si deve tener calcolo dei lunghi sgangherati sbadigli, di mangiare che di divertire coi lazzi osceni il colto e l'inclita: di una donna malamente coperta di cenci saltimbancheschi : di due tenere creature che forse non sapevano ancora perchè il padre li sconciava e quel modo e perchè li ballonzolava nel vuoto a tutto rischio e pericolo dei loro poveri corpicini: e di un grosso cane barbone che stava sdraiato ai piedi degli arnesi del mestiere, dormicchiando, forse, per attutire le voci degli intestini famelici. Il clown era un perticone che camminava come se le sue gambe fossero state di gomma. - Adesso passeremo, diceva, ai salti degli inarrivabili fratelli Tom Pouce. Si lavora per la fabbrica dell'appetito. Attenti, signori! Il clown si sdraiava sul dorso, il bimbo dietro la testa gli andava coi piedini sulle mani e le braccia dell'uomo si alzavano e si abbassavano col corpo del piccolo artista che rimaneva ritto con le manucce in alto unite. - Attenti, signori ! Là, là e là ! Il piccino sbattuto in aria cadeva sul tappeto con un salto mortale. - E là ! diceva il bimbo rizzandosi in piedi. Il fratellino prendeva il suo posto, cadeva sui palmi delle mani, camminava colle braccia e ritornava sulle gambe con un salto mortale. Ma non avevamo ancora veduto nulla. Il buffone meneghino riempiva gli intervalli scappucciando, gettando nel vuoto il cappello a tre corni, per riceverlo sulla punta del naso e assumendo degli atteggiamenti che facevano scompisciare dalle risa. La donna, con le mammelle mezzo vuote e le cosce nelle maglie stinte e i piedi nelle babbucce di raso bianco e bavoso, andava, continuamente, tra la folla col piattello. - Da bravi, signori ! - Ora, aggiunse il clown, vedrete la tartaruga. Tom Pouce sedeva sul tappeto con la testa tra le gambe e le mani sulla punta dei piedi. Il clown gli incrociava i piedi sulla nuca e gli contorceva le braccia e glieli lasciava contorte sulla schiena, senza suscitare alcun grido d'orrore. Mentre voltolava il corpicirio aggruppato con la punta del piede, si raccomandava alla gente. - Da bravi, signori ! Poi, quando sentiva il suono di qualche soldo sul piattello, andava sulla schiena del bimbo-tartaruga e vi sostava colle braccia larghe. La folla applaudiva. Noi no. Noi soffrivamo. Ci pareva di sentire le ossa del Tom Pouce scricchiolare sotto il peso del clown. Terminata questa tortura, il buffone meneghino gettava nel mezzo il suo cappello colorato col codino rosso, e diceva che dopo che i signori vi avrebbero gettato otto palanche, egli avrebbe mostrato loro la duttilità del corpo dell'altro Tom Pouce. I signori non erano generosi. Ma di tanto in tanto vi lanciavano cinque centesimi. Raccolta la somma, agguantava il fanciulllo per la maglia del sedere, lo portava in alto, lo lasciava cadere come corpo morto per riprenderlo sul dorso della mano, lo teneva così, con la testa e coi piedini penzoloni, per dei secondi, poi lo buttava in su per riceverlo sulle cinque dita fatte a piattaforma. - Attenti, signori ! E il bimbo sembrava un fagotto di stracci che girellava vertiginosamente, che precipitava col pancino o con le natiche sulle dita. Nessuno gridava basta. Non si udiva che il " da bravi, signori! „. Il buffone meneghino, a un certo punto, si fermava, s'asciugava la fronte, traeva un lungo sospiro come di chi aveva compiuto un faticoso lavoro. Riprendeva il suo posto il clown con un disorso : - Signori! Voi avete potuto giudicare come sappiamo lavorar noi. Ora io e Meneghino vi faremo vedere un triplice salto mortale senza metter le mani a terra. Intanto che noi eseguiremo questo difficile e sorprendente salto, la donna verrà intorno col bacile. Siamo in cinque persone. Siate generosi. - Da bravi, sciori, si lavora per la fabbrica dell'appetito! vociavano come un sol uomo quei meschini. Ma la folla si scompigliava e si disperdeva. Oh, l'aveste veduto quel pOvero meneghino con quale rabbia alzava il pugno al cielo! - Novantotto centesimi in cinque! brontolava il clown padre dei piccini. E in così dire, il povero ciarlatano si tergeva col rovescio della destra il sudore che gli gocciolava per la biacca e per il rossetto sulla faccia. Ma andiamo innanzi. Passato di poco il baraccone Ippodromo, dove si recita come non è possibile in nessun altro luogo, vediamo alcuni caffé-birrarie. La birraria dell'Arena è quella che ci sollecita per lo studio che stiamo, facendo. La porca ciurmaglia, il patrimonio delle carceri, degli ospedali e della brugna (cella mortuaria), erano là generosamente rappresentati. Un tale che non fosse stato dotato di una certa disinvoltura e non avesse indossato l'abito del locch, non avrebbe potuto avventurarsi in quella pseudo-birraria senza correre qualche pericolo. - Una birra nostrana. - Smiccia Peder, che grinta el gha quel pivastro che ti fiancheggia (guarda Pietro, che faccia ha quello zerbino che ti sta al fianco). - Mett in berta che mi doggi (sta zitto che io guardo). - Camuffegh el ciff ch'el se luma (rubagli il fazzoletto che lo si vede). E in un batter di ciglio rimanemmo senza moccichino. Dal luogo dove tentavamo di ingoiare quella birra che, per quanto buona, non apparteneva a nessuna delle ditte celebrate nel libro di Paolo Mantegazza, scorgevamo tre altri tavolini intorno ai quali stavano una quarantina di facce terribilmente sinistre che spillavano (giuocavano a lanzichenetto) silenziosamente. Il nostro aspetto per quanto calmo ed indifferente non lasciava però di attirarci gli sguardi di quegli sgraziati, che vedevano in noi un peluch (birro) o un soffia. - Luma se'l gha el tuff (guarda se ha la rivoltella). - Spara el tir se l'è un spessega (avvisa se è un birro). - L'è on gavee (un provinciale, un minchione). - Imboniss e tasta el terren (interrogalo ed osserva se c'è qualcosa da rubargli). - Che lanterne de ghinaldo! (che occhi da malizioso!) disse il maggiore di quella diabolica tresca, che si accarezzava la lisciosa (barba), intanto che teneva conficcato il suo nell'occhio nostro. - Te ghee on mucc de cicca? ci chiedeva uno a piedi nudi. Gli presentammo un pezzo di zigaro ch'egli prese e cacciò interamente in bocca senza dirci grazie. - Mettii sott al taff le sfojose, che me par che vegna la gaffa

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 23.

[didascalia immagine:]

La sonnambula (pag. 182). (mettete sotto il deretano le carte, chè mi sembra venga la pattuglia), bisbigliò un tale che stava quattro passi innanzi ai giuoca-tori a fare la nona (sentinella). Bastò quella frase, perchè in un baleno sparisse ogni traccia di giuoco. Era infatti el Dondina, seguito da sei altre guardie, che veniva a fare una delle solite razzie. Quando i birri giungevano sul luogo, metà della comitiva se l'era svignata. DONDINA. A che... che... sont chi mi. Cosa fee chi, lazzaroni porchi! ["un, duu, trii (e li additava col dito). Vun, duu, trii; vun, duu, trii: via tucc con mi. (Uno, due, tre ; uno, due, tre ; venite tutti con me). Duu thccH. Sur Mazza ! el ved ben che me vaeuren nissun a lavorà.. DONDINA. Fel daroo mi el sur Mazza ! Strengegh ben i polis. E ' ti, veggion baloss, hoo semper de menatt in bojosa? VECCHIO. Cos'el vaeur fa, sur Mazza, che l'abbia pazienza. DONDINA. Sur Mazza, sur Mazza ! Te la daroo mi la pazienza.... Che.... che.... mettigh i strencios a sto vecc di antico pelo, com' el disaria Danto. - Ahi, ahi.... - Strengii, sona remission.... Vicino al Pulvinare vedevamo una forlina che aveva sedici condanne sulle spalle e che noi abbiamo incontrato, ultimamente nel penitenziario di Porta Nuova, dove aveva quasi finito di scontare la pena di 10 anni di reclusione. Sulla sua faccia erano ancora le tracce del carcere. Ci avvicinammo. Quell'uomo si scoprì la testa. - Ora siete libero, come un uccello, non è vero? - Verissimo. Ma ora che sono libero, dovrò farmi nuovamente imprigionare. - Cercate di occuparvi pressò qualcuno.... - Presso chi ? Vogliono raccomandarmi a qualche loro conoscente ? - Lo faremmo ben volentieri. Ma a chi indirizzarvi? - Dicono bene. Chi prenderebbe mai un ex condannato alla reclusione ? Aprimmo il portamonete, e salutandolo gli stringemmo nella mano quello che potevamo. L'alienista Lombroso narra, nell'Uomo delinquente, di un tale invecchiato nelle carceri e negli ergastoli, che il giorno in cui venne posto in libertà si mise a piangere come un fanciullo dinanzi al direttore del bagno, pregandolo di tenerlo ancora nella casa come inserviente o come carcerato. Cosa farò io dopo tanti anni sulla via senza un soldo? - Cosa volete che vi dica, buon ***, i regolamenti non permettono ch'io trattenga chi non ha più alcuna pena da scontare. Il *** addusse allora un pretesto per risalire un momento nella sua " amata „ cella, e lassù con un coltellino si svenò. Un'ora dopo egli era passato a miglior vita. Una scena più commovente dell'altra. Dietra quella capanna, che s'intitola " Birraria Garibaldi ", era appoggiata ad un ippocastano una bella giovane, che presentava tali caratteristiche da non lasciar dubbio alcuno com' ella appartenesse a quelle che pagano il tributo della lascivia al più volte citato signor Taietti. - Va a casa! le diceva un giovinotto, che anche lui, per la sua toletta, si faceva subito conoscere per un lòcch. - No, vceuj sta chi! (no, voglio star qui)! - Va a casa, Nina! ripetè quegli con voce strozzata. - Nanca se te me masset! (neanche se tu m'ammazzi ! - Va, o te spetasci la lumaga ! (va, o ti rompo la faccia)! -Moeuri, puttost (preferisco morire !) rispose la perduta, battendo del piede al suolo. Non ci volle altro. egli, come un forsennato, le si scagliava addosso, l'atterrava, la schiaffeggiava e poi, inorridite! con rabbia felina le addentava il bel collo vigoroso, che un minuto dopo era tutto solcato di sangue. - Basta! gridammo. E in così dire ci scagliammo senz'altro sull'uomo brutale, che staccammo a stento dal corpo che già aveva tutto contaminato. Eppure, sentite. La fanciulla che ci lasciava vedere, grazie alle vesti a brandelli, la voluttuosa opulenza delle forme e le rotondità tentatrici di un seno che non aveva bisogno di busto, sdegnava, con mal garbo, il nostro soccorso. - Vadano per la loro strada, imbecilli! Cosa c'entrano loro? Se mi batte è il mio uomo. Ne ha il diritto, ne ha. Essa preferiva ancora il suo ganzo che l'aveva brutalmente percossa, a noi che volevamo salvarla dai pugni e dalle morsicature! Infatti, è proverbiale la tradizione che le prostitute, se non si battono, di quando in quando, di santa ragione, non amano. Noi certamente non imiteremo nè diremo di imitare quello strano modo di amoreggiare ; ma ci ricordiamo di un nostro compagno di scuola, pazzamente innamorato di una pivella del postribolo di via Poslaghetto, il quale ci diceva che più la batteva e più essa era sitibonda de' suoi baci. Era ricco e finì per sposarla. Siccome in casa, coi suoi genitori, non poteva percuoterla, così la donna non seppe più che farne della vita coniugale. Ritornò nel casino. In piazza Castello vi è poi un altro giuoco, che se apparentemente non ha nulla in sè di pericoloso, è però vivaio di fannulloni. Ed è il giuoco delle bocce. Voi vedete tre o quattro di questi giuochi che incominciano alle undici e terminano proprio quando il sole si è seppellito a occaso. Una turba numerosa per ogni giuoco segue il pallino dall'un capo all'altro e si commuove e si contorce e si lascia sfuggire degli ah e degli oh di sorpresa. Quando un giuocatore prende di mira qualche boccia, il pub- blico ammiratore trattiene quasi il respiro. È impossibile dire quanto interesse prendano tutti quegli affamati a queste partite che costano 20 centesimi ciascuna. Poco discosto dai giuocatori di bocce vi sono i cenciaiuoli,i ciabattini, i magnani, i cappellai, i venditori di ferravecchi, ecc., e i caldarrostari. La carriuola del marronee è quella che fa più quattrini. Perchè le castagne arrosto si possono dire il manicaretto del Tivoli. Luigi, in berretto, era il più popolare. A sentire lui crepava dalla fame. Ma egli poteva annerire la sua pipa di gesso con del tabacco del moro. Indizio certo che incominciava ad essere tra i benestanti del luogo. Il sottovoce lo accusava perfino di prestar denari ad usura alle canaglie al verde. Su quei quaranta metri quadrati di terra c'è tutto il magazzino Bocconi. Nastri smuntati, parasoli col manico infranto, ombrelle bucherellate, bastoni senza puntale, portamonete senza cerniera, spiedi arrugginiti, ferri da stirare e da incannettare, casseruole e caldai stagnati e pezzati, kepì della vecchia guardia.... nazionale, sciabole, spadoni, fioretti, bottoni, souwaroff, marsine, mantelli, trine, solini, cravatte, cravattone, guanti di tutti i colori e per tutte le mani, valige, pietre.... preziose, cuffie, sottane e mille altre cianfrusaglie. cui sarebbe lungo enumerare. Poi? Vedete rigurgitare il Tivoli di fanciulli scamiciati, destinati alla galera; di provinciali che stanno consumandosi l'ultimo cavourino per farsi ladri; di vecchi e vecchie che stendono la mano furtiva al passeggiero ; di locch, di lenoni, di cócch, di megere, di pederasti e di pederaste e di prostitute della più ributtante specie et similia. La giostra era quasi sempre vicino all'Arena. Era la civetta dei ragazzi e delle cameriere che vi andavano coi soldati di fanteria. Ma più che la giostra, ma più che i saltimbanchi, ma più che i giuocatori di bocce, era interessante il baraccone di qualche celebre sonnambula. La sonnambula era come l'angelo consolatore di tutto questo mondo di ignoranti e di spostati. Avevate bisogno di un'occupazione ? Con dieci centesimi essa vi annunciava l'avvenimento. Il soldato mercè sua sapeva tutto. Che la Luigia non pensava che a lui e che la mamma continuava a sciupare candele di cerogine perchè la Beata Vergine lo proteggesse. La crappa la consultava ogni volta che uno dei suoi ludri era in carcere. " Si ricorda di me ?" " Non aspetta che il tuo soccorso." La sonnambula del periodo di questo capitolo era una - secondo il cartello - delle più famose. " La celebre sonambula - Romana Matilde - dà consulti tutti i giorni - per affari e curiosità diverse - bastanti prove sono la fama di suddetta sonambula.... " Per le consultazioni prolungate la Matilde esigeva cinquanta centesimi. Il suo baraccone era sempre circondato di una triplice fila di uomini, di donne e di soldati. La si diceva insuperabile. Noi non abbiamo voluto essere tra gli assenti. La Matilde era piuttosto magra e bassa. Ci accolse prendendoci subito la mano destra. - Che cosa desiderate sapere ? - Se saremo processati qualche volta durante la nostra esistenza. - Senza dubbio. Sarete processati più di una volta. - Per quali delitti ? Pér reati di stampa. - Impossibile ! Seguì attentamente le linee " del palmo della mano con dei segni di assentimento. - Sicuro. Voi sarete processati. Voi pubblicherete un libro intitolato, Milano sconosciuta. Sarete processati due volte. I vostri pari, i giurati, vi assolveranno. - E poi ? - E poi gli istrioni del teatro milanese vi manderanno all'estero per dieci anni. Ritornerete in patria. Manderete qualche gerente in prigione. - E poi ? - Pubblicherete a dispense Milano sconosciuta e Milano moderna illustrate. Vi si riprocesserà un'altra volta e un'altra volta.... Non vedo bene.... Non è chiaro. Ho dei dubbi. È certo però che voi sarete sottratto ai vostri giudici naturali, i giurati - e consegnati ai vostri giudici snaturati, i quali.... Non vedo bene.... Vedo buio. Vedo una confusione.... Stanno leticando tra loro. Ma non posso distinguere. Ve lo saprò dire un'altra volta. XXII. Dove incontro il mio amico l' " av-vocat di pover ".

Uno di quei giorni in cui la neve cadeva a larghi fiocchi a rendere la vita più monotona e più uggiosa, infilavo il portone della Pretura urbana, la quale, come si sa, è in via S. Antonio. Quel porticato squallido, quelle scale dai gradini qua e là profondamente solcati dal peso dei su e giù delle persone, quei sinuosi corridoi dalle sporche pareti, quelle aule dove si condanna la poveraglia diremmo quasi per sbarazzarsene, quei capannelli di gente che discorre e gestisce e vocia, quell'andirivieni di amanuensi e di pretori e vicepretori tronfi e pettoruti nella toga, quel formicolio di azzeccagarbugli dal fascio dei cavilli sotto l'ascella, quell'urtarsi, spingersi e risospingersi di affaristi, imbroglioni, pitocchi, usurai, debitori, questurini, uscieri et similia, non attiravano gran che la mia attenzione. Perchè? La mia mente sembrava imbevuta da una sola idea. Guardavo per il vano dell'intercolonnio quei grossi bastoni di ferro che annodati formano un mostruoso scacchiere, e pensavo agli infelici che stanno al di là di quel cancello. Ah! dev'essere un grande, un immenso dolore, il vedersi soli tra quattro spaventevoli muri, debilitati dallo scarso nutrimento, in braccio alla tempesta dei propri pensieri, guardati da un fantoccio muto, pronto a freddarvi alla minima infrazione della sua consegna ; martoriati, terrorizzati, rifiniti da un birro-carceriere sospettoso, iracondo, ferose che non apre bocca che per svillaneggiarvi, che per eruttare il suo fiele, la sua bile. Ah, dev'essere un grande, un immenso dolore!

L'avvocat di pover Milano sconosciuta e Milano moderna.- Puntata 24. Li vedevo questi " miserabili ", sdraiati sui sucidi sacconi, mesti, cogitabondi, con l'angoscia coacervata nel cuore ; scorgevo ora l'uno che rasciugava la lagrima che gli scorreva lungo la guancia, ora l'altro che serrava le pugna e faceva una smorfia che doveva essere il riassunto dell'impotenza. Ora l'uno che improvviso balzava dal giaciglio e misurava a larghi passi l'angusto spazio, maledicendo, ingiuriando, minacciando, e ricadeva sfinito sulla paglia popolata dagli argentei insetti ; ora l'altro che con gli occhi dilatati s'aggrappava all'inferriata, quasi volesse schiantarla... Infelici ! Resi passivi, strappati alla madre, al padre, alla moglie, all'amante, ai figli, all'aria, al sole, a tutto ciò che è vita, che diverranno essi? Resi balocchi come le odalische del sultano, sordi ad ogni nobile sentimento, dopo di aver loro spezzato il cuore, spento ogni legame che li univa alla terra, maledetti, respinti, che diverranno essi? - Tu ? Come stai ? Era il mio amico " avvocat di pover " che mi chiedeva la solita palanchetta per toeu el sellin. Quell'uomo che sapevo ridisceso come Maxim, le jeune homme pauvre di Feuillet, dal trono dell'agiatezza, per percorrere tutti gli stadii della miseria fino all'ablativo assoluto ; che avevo veduto imperturbabile nei suoi cenci, di notte e di giorno, d'estate e d'inverno, sfidare il destino coll'indivisibile bacca sottobraccio, mi faceva rincorrere il sangue più caldo nelle vene. Vale la pena di darne il ritratto, caso mai il mio editore volesse illustrarlo. Ha perennemente sul capo - lucido come una palla d'avorio - un cappello a cilindro gualcito e a gobbe, dalla cui tesa, che gli serve di grondaia nei di piovosi, gli sfuggono rimasugli di capelli biondi. Una fronte alta, rugosa e terrea che si spiana e si increspa come i cavalloni del mare. L'occhio piccino, vivido come goccia di diamante, il viso butterato e scarno, le labbra grosse e protuberanti e una barba incolta alla nazarena. La sua toletta di oggi sarà quella dell'anno venturo. Indossa una redingote che non lascia da otto anni, forata, crivellata come se avesse ricevuto il battesimo di fuoco, rossa, slabbrata, untuosa, e un paio di calzoni idem, che gli accarezzano le gambe spolpate e gli ricadono a pieghe sulle scarpe scalcagnate, dalle quali non è difficile vedere i ditoni che battono il marciapiede. Talvolta ha un gessino in bocca e tal altra un sellino, a seconda del listino di borsa. Ha circa quarant'anni, è diviso dalla moglie, è fratello di un celebre alienista, è alto centoquarantotto centimetri compreso il tubo, quasi laureato in legge, ed è celebre per la sua bacca ricurva dalla quale non si separerà che estinto. Questo l'uomo. Come vive? È spesso un problema, una sciarada, un logogrifo, un rebus. Vive come l'insetto che si aggira e si nutre di sole, come la farfalla che va, delibando, di fiore in fiore, come la passera che pipilando trova becchìme da per tutto. - Hai difeso qualche cittadino, oggi ? - Non uno! Non ho scritto un'istanza, un pro-memoria, una citazione. Corrono tempi birboni ! - Dopo la lega della pace non ci sono dunque più liti... - Tutt'altro ! Ma quando si è vecchi, sai, è affare finito, non si è più buoni a nulla. Neppure per far da copista a quegli imberbi avvocatucoli, ai quali, inorgogliosisci o mio maestro, devo spesso spiegare i termini legali. A un socialista.... Ah, sì, questi socialisti dei miei stivali. Ho dovuto, ridi ! ho dovuto insegnargli che cosa si intenda per proprietà. È il diritto, gli dissi, di disporre del modo più assoluto di una cosa. Questo bastone è mio, sissignori, è mio e non può essere di Giovanni. Sanno di tutto, fuorchè di pandette... - Tu calunni i tuoi colleghi, gli risposi sorridendo. - Calunnio! Ah, io calunnio ! Va là, damm el cinq centesim che goda andà a bey la branda (acquavite). - Non sono forse essi che difendono la pitoccaglia gratuitamente? Che sciupano il loro tempo e il loro ingegno a pro di una classe vilipesa, oltraggiata. - Tu credi dunque alla sensibilità degli avvocati... Che fanciullone ! Non sei mai stato in prigione, tu? Domandalo ai carce- rati, come difendono gratuitamente. Prima ti fanno chiamare in parlatorio, poi ti dicono che l'accusa è grave, che le spese sono molte, che bisognerebbe metter fuori almeno qualche cosa... - Ma se il prevenuto non ha quattrini? - Allora l'arringa del difensore gratuito è così formulata, salvo le varianti adatte alla circostanza : " Signori ! " Ho udito la lettura dell'atto d'accusa e la splendida requisitoria del mio amico rappresentante la legge. Io non ho che una sola parola a dire. Raccomandare alla esperimentata bontà vostra il mio cliente. „ Dopo questa succosa e stringente difesa, l'avvocato insaccoccia gravemente i due codici, va a stringere la mano ai tre togati e poi il Tribunale si ritira. Fosse almeno per sempre! riprese l' " avvocat di pover ". Credi tu che l'infelice venga assolto o gli venga diminuita la pena proposta dal pubblico ministero, che qui, alla Pretura, non è altro che un accusatore poliziotto dei tempi austriaci? Neppur per sogno. Il meschino si alza dalla panca dei rei e ritorna in carcere a filare il resto della condanna. - La difesa gratuita non è dunque che un gioco per cattivarsi l'animo e la stima degli sciocchi, eh? - Conosci l'avvocato Rocchini, quello che parla italianizzando il dialetto, che va per la strada con la tuba indietro, con le carte avvocatesche sotto il braccio e col bastone che trascina sul selciato per imbestialire coloro che passano ? Un giorno lo si chiamava l'avvocat del Verzee. Adesso, qualcuno, per solleticargli i precordii, lo mette nelle colonne dei giornali come l'avvocat di poveritt. Buf- foni! Sì, è l'avvocato dei poveri, come io sono l'avvocato dei ricchi. Buffoni ! Se c'è uno che sappia farsi pagare, è lui. E che asino ! Se quello lì è stato a scuola, mi lascio recidere la lingua. Chi sa chi diavolo lo ha mai laureato! Quando mi parlano di lui perdo la mia caratteristica che è di essere buono tutta la vita (1). "Andem donca a bev el grappin, sangu... ! - Se lo permetti vengo anch'io. - Figurati ! Anzi è un onore. - Lasciamo i complimenti. Qual è il tuo buco prediletto? - Una volta, lo sai, era il Pasquee di gaijnn. E sospirò. - Nessun maggior dolore... - Non è questo, credilo. Ma che vuoi, in quell'ambiente parlamentare io mi ci trovavo come in casa mia. La mia voce era rispettata come quella di Jules Favre prima della Comune e di Gambetta a Versailles. Là in mezzo a quelle facce sinistre, a quelle gole infiammate dall'alcool, si discuteva di tutto e di tutti. Era la fornace donde si sprigionavano idee, dalle più balzane alle più. assennate. Si passava dal suffragio universale all'abolizione di tutte le tasse, dall'espropriazione dei beni immobili alla distruzione dei monopolii, dall'abolizione dell'eredità alla rottura del nodo matrimoniale, e tutto si svolgeva con una dialettica da far spaventare i Minghetti, i Sella e la compagnia brusca. - Eravate anarchici? - Rivoluzionarli ! Ma intendiamoci : di quelli che rispettano i pronomi possessivi. Guardai in faccia al mio amico " avvocat „ come per scoprire se si divertiva alle mie spalle; ma non una traccia che lo tradisse. Aveva l'abitudine di passare dal serio al faceto e di gettare dei razzi.

Infine dove mi conduci ?

(1) É morto poche settimane sono. - Ove meglio ti garba. Ma se ti preme di vedere uno di quei baccalin, ove pullulano gli avanzi di tutti i bagni e dei peggiori postriboli, seguimi. Il nevischio infieriva. E i battuffoletti trasportati dal vento venivano gelati a batterci sul viso. - Che giornata d'inferno ! diss'io. - Ne ho viste delle peggiori. E si tacque. Io lo seguivo come il cane il padrone. Lo vedevo camminare eroicamente nel cuore dell'inverno, in mezzo alla neve, senza camicia, con in dosso due chilogrammi di cenci e quasi a piedi nudi. Povero amico ! E dire ch'egli ha studiato legge! Arrivati in via Arena, dinanzi allo stabilimento Sessa, l' " avvocat " si alzò il bavero della redingote. - Siamo giunti ? - Si. Difatti, proprio di fronte al vicolo Arena, c'è un cicchettaio " con vendita di vino, liquori e gasosa „. Io che ero stato in uno degli uffici dello stabilimento Sessa per dei mesi, che andavo in via Arena tutte le mattine, non sapevo o non avevo mai visto una tana uguale. La " rea, la vile, l'affamata canaglia „, come l'ha sanguinosamente oltraggiata Mario Rapisardi, era là, nell'amplesso alcoolico, che beveva per dimenticare di essere povera. Ci trovavamo in un casaldiavolo, in una bolgia infernale, in mezzo a un covo che avrebbe fatto la fortuna di un pittore di tipo sociali. Chi prorompeva in urli, chi sghignazzava, chi faceva gesti osceni, e chi cantava:

A foj d'on ciel beato A bev el vin me tacca, G'hoo nanca 'na palanchetta Non appena ebbero veduto il mio amico " avvocat " la ...... disumana Turba che il morso del digiun sentia, proruppe in esclamazioni di gioia. - Mezza saina, porco el gess! -E l'acquavita mara! - Ovej, damm minga della raccagna loffia (acquavite non buona) neh? - Te smorfii (mangiato), te smorfii, el me car avvocat!... di caus pers? - A di' la veritaa... - T'ho capii in di ceucc che te ghee una sgajosa (fame) malarbetta. Sgalisa, va a toeu des ghej de mul (cotechino) e ona misturina. Quand ghe n'è per mi, ghe n'è per tucc. Il. mio amico " avvocat „ a quelle dimostrazioni d'affetto, si sentiva commosso fino nel profondo delle viscere. -Tceu, avvocat, smorfis, e sta su alegher. - Viva nun, e porchi i sciori. - E morte ai formigh! (questurini). Poi s'alzò un coro che mi molceva l'anima. Perché, perché si rapida Dagli occhi miei sparì, sparì; Ohnè, oimè, sognai, mia madre, Mia madre morì, morì. Oimè sognai, mia madre morì . Non mi pareva vero che " l'ingorda plebe „ che non imparò mai l'arte dei trilli, potesse ispirarsi e suscitare tanta tenerezza. Che cadenze ! che modulazioni ! La Patti e Niccolini erano enfoncés ! Io ero stanco e pieno di sonno. - Ciao, " avvocat ". - Dove vai? - A casa. - Hai ancora una casa? Mi rincresce. Voleva condurti a dormire colla canaglia... - Dove ? - Qui a due passi. Vuoi salire? Era già buio pesto. Non si vedeva che il turbinare delle falde di neve, che cadevano proiettate dalla pallida luce delle lampade. Il mio amico mi precedeva. Giunti al numero 1-3 in via Arena, entriamo in un cortile, poi scantoniamo in un altro cortile, infiliamo una scala di legno e dopo 22 gradini siamo sulla " lobbia ". Al terzo uscio il mio amico " avvocat " si ferma e bussa. Nessuno risponde. Ribussa. Finalmente ci viene aperto. Un lucignolo rischiara a mala pena un vasto stanzone dove si vedevano quattro pagliericci. - Mamma, avete alloggio? - Quanti siete ? - Io solo. - Non siete in due? — No, il mio amico va alla sua locanda. - Venti centesimi. - Qual è il mio letto ? - Il 36. L' " avvocat " paga, e la vecchia spalanca un uscio. Un acre odore pestifero mi diede le vertigini. Era un dormitorio zeppo di cinquanta letti, l'uno a ridosso dell'altro, su ciascuno dei quali russavano in due... In quella immensa necropoli, io vedevo il mio amico " avvocat " come un'ombra che s'agitasse e discendesse nella squallente fogna. - Ciao " avvocat ". - Ciao, el me car, mi risponde una voce come dal fondo di una foresta. Il cielo era rincupito. Percorro la via Arena, do una sbirciata alla famosa " Cantinozza della Conca ", dove i più famigerati bevono le " acque calde " a centesimi 10, e costeggio silenziosamente il Naviglio. Giunto in via Olocati, odo come un bisbiglio. Mi volgo e veggo pel vano di un uscio a pianterreno (N. 4) una testa che si dondola. - Chi sarà mai? Mi avvicino. - Ven chi, beli biondin. - Quanto mi fai pagare? - Venticinque centesimi... Aggrotto le ciglia e prendo furiosamente il largo. - Ej, allora lu el pò andò. Mi voltai. Era una specie di Tecoppa seduto sul gradino di una casa vicina al postribolo che mi dava la baia col risolino di chi vi sa senza denari. - Ej, allora lu el pò andò.

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El Tecoppa.

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 25. XXIII. In mattonaia

Lo vedevo giù nella cinta della casa Candiani, in margine al bastione di porta Magenta, da due anni. Alto, secco, terreo come la palta del suo mestiere. Alle tre di ogni mattina egli mi risvegliava col cic ciac della pala che immergeva nell'argilla. Non appena sull'aia, Antonio calava il secchio nel pozzo a livello del terreno, lo tirava alla superfice con la stanga in cima alla quale era infissa la fune con l'uncino, versava l'acqua nel largo del cumulo e gliela faceva assorbire rimestandolo coll'asta lunga di legno. Nessuno dei vicini che guardano nello spazio del casamento l'ha mai veduto perdere la calma o sentito rompere la monotonia del lavoro con un'arietta sottovoce o una zuffolata. Sembrava un uomo che non avesse pensieri che per i mattoni. Metodico fino alla noia, i suoi movimenti di un giorno erano i movimenti della settimana scorsa, dell'altro mese, di tutto l'anno.

Entrava nella cinta col gessino in bocca, si svestiva del frustagno dietro l'altura dei mattoni che stagionavano, riponeva la pipa nella giacca e andava per lo spazio a piedi nudi, con i calzoncini di cotone azzurrognolo che gli giungevano al ginocchio, con le maniche della camicia fatte su fino al gomito e con lo sparato che gli lasciava all'aria i peli dello stomaco.

Quando l'argilla era divenuta pieghevole, pastosa, capace di adattarsi alla forma, Antonio se ne caricava una carriuolata sulla spianatoia e incominciava, senza indugio e senza sollecitudine, il lavoro di fabbricazione. La fabbricazione del mattone è così sem- plice che chiunque può diventare, in due giorni, uno dei più abili fornaciai d'Italia. L'ordigno del mestiere è una cassetta di forma quadrangolare senza fondo. Antonio la prendeva, la tuffava nell'acqua, la scuoteva e vi passava le dita internamente per pulirla dalle pillacchere assecchite. Adagiata sul tavolino del banco, vi faceva correr sopra l'argilla, ve la comprimeva, ve la lisciava, riprendeva la forma per i due angoli e la vuotava, con garbo, sul terreno al sole. Nessuna cosa lo distraeva. Nè la campana degli stabilimenti dei dintorni, nè gli operai che gli passavano al dorso della tettoia per salire nell'istituto della meccanica ottica, nè la venuta dei suoi di casa che l'aiutavano nel lavoro della giornata. Beppino era figlio di suo padre. A dieci anni aveva la regolarità dell'orario e dei movimenti dell'uomo fatto. Arrivava in mattonaia alle sette, rovesciava dei secchi d'acqua sull'argilla per mantenerla molle, portava del materiale fresco al padre, quando vedeva la spianatoia mezzo vuota, e riempiva gli intervalli togliendo le tettoie di paglia che coprivano i mattoni messi gli uni sugli altri, a coltello e a spinapesce, dalla madre il giorno prima. Senza orologio, sentivano le ótto e mezzo nello stomaco. Antonio andava dietro l'altura dei mattoni ove s'era svestito, tirava fuori dal canestro un fettone di polenta con un pezzaccio di formaggio giallo, prendeva per il collo l'orciuolo dell'acqua e sedeva con la testa all'ombra e le gambe al sole. Beppino lo imitava. Filava con la sua colazione dalla parte opposta in fondo e se la divorava annegato nella luminosità della zona calda. La diversità tra padre e figlio era che il primo non poteva mangiare senza bere. Dopo tre o quattro bocconi Antonio dava mano all'orciuolo, se lo metteva alla bocca, beveva con moderazione e si asciugava, len- tamente, le labbra col rovescio della mano. Il lusso della pipata non era che del pranzo. A mezzogiorno, inghiottiva il desinare, circondato dalla famigliuola. La moglie, seduta sul terreno, svolgeva dal tovagliolo delle rotelle di mistura, ne dava una al marito con una aringa e qualche grappolo d'uva, mezza a Beppino con una coda dello stesso pesce salato e divideva il resto tra lei e le cinque bimbe, la maggiore delle quali ballonzetava tra i dieci e gli undici anni. Il mutismo doveva essere ereditario in famiglia. Nessuno fiatava. Inaffiato il pasto con un'ultima golata d'acqua, Antonio calcava il gessino di tabacco, se l'accendeva con un fiammifero di legno che sfregava sul derma squamoso del piatto del piede, faceva del fumo a boccate regolari e rimaneva immobile, con gli occhi fissi sulla terra, con le ginocchia in alto, con le braccia imbracciate. La piccina, la Mariuccia, gli passava, talvolta, rasente la schiena, strisciando la manina sulle sue spalle e sui suoi capelli senza farlo trasalire o mettergli la vivezza della compiacenza paterna negli occhi. Consumato. il tabacco, si rovesciava sul fianco con la stessa indolenza con cui si era acculato 'e pisolava via fino al tocco. Al tocco ritornava alla spianatoia. La madre era una donna sui trentacinque, ossuta, coi capelli neri ravviati dietro le orecchie per l'attorcigliamento rialzato sulla nuca, vestita da contadina, gravida tutto l'anno. A vederla, non la si sarebbe creduta dello stesso legno del marito. Ma era anch'essa tutta di rovere. Gagliarda,, resistente, sana come un corno. La massaia che lava i piatti, che fa i letti, che vestisce i figli e mette in ordine l'abitazione di nove persone, ha qualche minuto di sosta. Di tanto in tanto si abbandóna sulla seggiola e tira il fiato con il gomito sul tavolo e la faccia nel cavo della mano. Carolina non ci pensava neanche. Terminate le faccenduole di casa, dava il catenaccio alle due stanze, si faceva precedere dalle ragazze e compariva sull'aia con la corba del mangiare. Il suo lavoro era di raccogliere i mattoni asciutti e di ammonticchiarli come tante muraglie traforate per le correnti d'aria. Subito che i raggi li avevano arrostiti ben bene, questa donna che aveva il ventre sempre per aria, andava da una muraglia all'altra a raschiarli dalla polvere e dalle escrescenze di pastone rappreso e, li portava, a due o a quattro alla volta, dall'altra parte, ove dovevano completare la stagionatura. Le funzioni di madre le adempiva, si può dire, tra un mattone e l'altro. L'anno scorso si era sgravata quattro ore dopo che aveva lasciato la cinta del marito e non era stata assente che la giornata dopo il parto. Il martedì della stessa settimana tutti noi, dell'ultima casa di S. Vittore, facevamo le meraviglie di rivederla a raccogliere i mattoni come prima. Era un po' più pallida e piegava, col peso nelle mani, un zinzino sul fianco destro. Ma persisteva nel lavoro di spostamento come nelle giornate della gravidanza. L'allattamento avveniva quando la Mariuccia dava fuori a


[didascalia immagine:] adagiata sul tavolino del banco,vi faceva correr sopra l'argilla,ve la comprimeva (pag.95) piangere. Allora, la madre, andava vicino al canestrone, ne toglieva il cuscino sul quale era fasciata, se la metteva in grembo colla testa sul braccio sinistro, si slacciava la veste dalla quale irrompeva una lunga mammella gonfia di latte, ne prendeva il capezzolo e lo nascondeva tra le gengive della piccina. Dissetata che l'aveva, la riponeva nel canestrone ove rimaneva assopita per delle ore e ripigliava il lavoro del raschietto. Per otto mesi dell'anno, verso sera, radunava le ragazze come la donna di campagna le oche, si metteva sul braccio la neonata, dava il canestrone alla maggiore e ritornava a casa, preceduta dalle figlie, a preparare la minestra per la cena del babbo e di Beppino che rincasavano quasi a notte fatta. La figliuolanzà non sentiva degli abbracci delle persone stracche morte. Veduta scorrazzare sull'aia, traduceva la sobrietà dei coniugi e l'amplesso fresco e pieno d'espansione. Lucia e Margherita, anche nella poverezza della vestuccia di cotone smunto, colla ricchezza dei capelli intrecciati o sciolti per la schiena, sembravano il risultato di un incrociamento superiore. La prima cresceva slanciata, con degli occhioni imbambolati nella chiarezza lattiginosa, con un seno che dava già le eminenze al sole. La seconda si sviluppava come un'orgia femminile. Con la testa che usciva netta dal collo largo, con la bocca sanguigna, con le braccia poderose, con i fianchi pronunciati, ti sembrava di essere dinanzi l'infanzia matura per la conflagrazione dei sensi. Adriana, la penultima, era un'edizione mioliorata della madre. Ritta come un fuso, con la faccia maschia e malinconica, coperta da una pelle bronzata dai raggi solari, con le sopracciglia che adombravano il cerchio delle occhiaie piene di seduzione fosforescente. Il suo corpo correva per l'aia come una grazia che diffondeva profumi. La conoscenza tra me e Antonio andò scaldandosi, adagio adagio, fino all'amicizia sentita. La prima volta che gli diedi il buon giorno fu sgarbato. Guardò in aria e ricacciò le mani nell'argilla senza punto rispondere. Un mese dopo gli tirai nell'aia un bicchierino di metallo, col coperchio a vite, quasi raso di grappa. Lo raccolse mentre gli presentavo il mio dal balcone come un' " alla vostra salute! " - Bevetela, Antonio, che è buona. Fu lì lì per buttarla via. Ma la mattinata era rigida e un grappino non poteva fargli male. Vuotai il mio e gridai: - Bevetela, che è buona. Antonio si decise. L'assaggiò colla punta della lingua e se la versò in gola d'un fiato. - Buona, mi rispose versandosi l'ultima goccia sulle grosse mani per riscaldarsele strofinandole. Grazie. Ritirai il bicchierino con la cordicella e me ne andai senz'altro. Una sera lo incontrai che usciva dal recinto, infilandosi le maniche della giacca. Gli domandai come stava e gli strinsi la mano. Non mi riconobbe per l'uomo che gli aveva gettato la grappa dal balcone, ma mi rispose: - Bene, grazie. Mi feci conoscere e mi rispose col ricambiarmi la stretta. Pareva tuttavia impacciato di trovarsi negli abiti di lavoro con uno che aveva l'aria d'essere in giro ad ammazzare il tempo. Ma gli feci dimenticare il sentimento della ritrosia naturale, mettendomi al suo fianco e dicendogli che avevo sgobbato anch'io tutto il giorno. Strada facendo, mi diceva che andava a casa a cena. Antonio non abitava lontano, ma aveva una mezz'ora buona di cammino. - Sapete, gli domandai, dello sciopero dei muratori? No, lui non ne sapeva nulla. Non aveva mai letto un giornale e non si occupava che della sua famiglia. Un galantuomo, per il mattoniero, non si mischiava di queste cose. Aveva altro da pensare. A mantenere nove persone non ci voleva poco. - Poi, diceva, non tocca a noi. Noi siamo nati poveri e i ricchi saranno sempre ricchi. Le teste calde vogliono scalzare i padroni. Ma è il vino che fa loro travedere o è l'osso nella schiena che li induce a mettersi sul lastrico dei fannulloni. Degli scioperi ce n'erano anche ai tempi di mio padre, buon'anima. Ma mio padre, buon'anima, non cessò mai di alzarsi alle tre del mattino e di vendere le sue quindici o sedici ore allo stesso padrone. I Candiani, per noi, sono sempre stati buoni diavolacci. Il Candiani padre voleva del bene al mio genitore. Se lo vedeva sull'aia gli metteva la mano sulla spalla e gli diceva: " in gamba, Giovannino! " Il Candiani, figlio; mi usa le stesse gentilezze. - Vedetelo che passa in carrozza. - Vi sono dei prepotenti che gli vogliono male e fanno della maldicenza. Ma, credetelo, che non è un cagnaccio. Fossero tutti come lui, i padroni. A vent'anni, quando c'era ancora mio padre, guadagnavo una e cinquanta al giorno. Ora che ne ho quarantadue lavoro a cottimo e non mi riesce difficile guadagnarne quattro. Se non avessi tanti figli, io e la mia donna potremmo dirci agiati. - E durante la morta stagione che cosa guadagnate? - La ci andrebbe troppo bene se non ci fosse la morta stagione ! Lo salutai e non gli parlai che parecchie settimane più tardi, una domenica, all'osteria di via Ochette, ove vanno a rifocillarsi lo stomaco gli infermieri dei Fatebenefratelli. Non fu meno sordo e meno cieco dell'altra volta. La bufera sociale aveva muggito alle sue orecchie senza che gli germogliassero le speranze dei lavoratori che vogliono sgiogarsi dall'oppressione capitalista. La rivolta della fame era una menzogna. Lavoro ce n'era per tutti. Nè lui, nè suo padre avevano mai avuto un giorno di riposo. Neppure la domenica si era mai lasciata loro, perchè il padrone, nell'estate, immagazzinava mattoni e tegole anche per i bisogni dell'inverno. Coi Candiani si ammattonava otto mesi all'anno e non si respirava che durante gli acquazzoni. - Il padrone guadagna più degli operai? Grazie tante. È lui che arrischia tutto. Senza di lui potremmo avere l'aia, l'argilla, i cavalli e i carri per asportare il materiale fabbricato, le fornaci per cuocerlo e gli edifici per allogare quello invenduto? E quando piove per due, tre, quattro mesi, come una maledizione di Dio, e quando le giornate nevose e rigide si prolungano e impediscono ai muratori di' riprendere i lavori, chi pérde, o chiacchieroni, sono loro, sono i Candiani. Uno degli infermieri, che aveva accettato di aiutarci a bere il mezzo litro, non capiva l'agitazione 'moderna più di Antonio. Ma diceva: - Intanto loro, i padroni, vanno in carrozza e mangiano a suon di campanino, e noi andiamo a piedi e la vediamo lunga anche nelle giornate di abbondanza.... Voi siete un brav' uomo, vero; ma voi non siete infermiere. Lasciate dire a noi quanta miseria vediamo entrare ogni giorno nelle nostre infermerie. Metà della gente che mettiamo in letto sta più bene ammalata all'ospedale, che sana fuori dell'ospedale. Credetelo.Lo sciopero si era ingrossato colla solidarietà che si era estesa da una costruzione all'altra come un incendio che passa dalle finestre del cotonificio in quelle del deposito di petrolio. Non c'era più cazzuola in moto. Anche i manovalini che portavano in alto la calcina, avevano sbattuto negli angoli del truogolo della calce viva i secchi di ferro e ripresi la giacca e il berretto per la campagna contro il, salario dell'insufficienza. I capimastri, abituati alla sommissione perpetua, si tappavano le orecchie, se si parlava loro di aumento di salario e di riduzione di ore di lavoro. La loro risposta era sullo stendardo padronale che sventolava dalle alture delle fabbriche. Nessuna concessione. Nessuna parola che non fosse quella della resa generale.


[didascalia immagine:] ...Inghiottiva il desinare,circondato dalla famigliola (pag. 195).

Milano sconosciuta e Milano moderna. -- Puntata 26. I muratori non si scompigliavano. Non si erano mai veduti così tranquilli come sul lastrico dello sciopero. Essi sapevano che un semplice sfogo poteva costar loro la simpatia dell'opinione pubblica rappresentata dai giornali. Quando i capi avevano detto silenzio ! „ non c'era muratore che avrebbe osato aprir bocca. " - I padroni hanno per materiale di combattimento i vostri digiuni. Ma voi avete dalla vostra il numero. Non abbandonatevi ai colpi di testa. Rimanete inerti. L'inerzia è la vostra forza. È un'arme capace di curvare la cervìce dei nemici più ostinati del benessere operaio. Intanto, ciaramellando, il loro cervello si snebbiava. Incominciavano a veder chiaro che le case non potevano sorgere senza la loro cooperazione. I capimastri sono ricchi fino a quando noi diamo loro le nostre ore di lavoro un tanto per settimana. Ma domani, ma il giorno in cui noi ci mettessimo in lega per assumere i lavori per nostro conto, il loro regno sarebbe finito. Non sarebbero più che dei nostri dipendenti o dei nostri uguali nella ripartizione dei guadagni. - Quest'ideale, diceva Giustino, che pare uscito dalla testa , di un bambino, tanto è semplice, e che ha già emancipato milioni di operai inglesi, non ci è mai venuto in mente. Ci voleva proprio un po' d'ozio per darci tempo di pensare a noi stessi. Se adesso. i milioni del Loria mettono in piedi l'Umanitaria, Milano è nostra. Coll'aiuto di questa cassa forte ogni mestiere può prendere il posto dei padroni. Noi, per esempio, potremo prenderci gli appalti delle costruzioni governative, municipali, private. Lorenzo sorrise, come chi trova che l'oratore lascia la porta aperta per l'invasione dei nemici. - I capimastri, che non saranno tutti delle bestie, faranno come noi. Metteranno assieme i loro capitali e il nostro, anche coll'aiuto dell'Umanitaria, rimarrà sepolto sotto la valanga del loro oro. - È vero, rispose Giustino, se non si trattasse che di denaro. Ma tu hai dimenticato che noi abbiamo con noi le braccia. Sul mercato del lavoro le nostre centomila lire valgono assai più del loro miliardo. Senza di noi, senza il nostro concorso, le loro ingenti somme equivalgono a dei cocci di una pignatta rotta. Le approvazioni vennero consolate dall'annuncio di Giuseppe, venuto dalla Camera del Lavoro, il quale assicurava che era giunta la notizia della solidarietà dei mattonai. I mattonai, malgrado si fosse in piena stagione di lavoro, avevano votato di fare comunella cogli scioperanti. Dopodomani abbandoneranno tutti i lavori per impedire agli speculatori di ottenere il materiale di costruzione, caso mai riuscissero ad assoldare gli affamati impotenti a sostenere la causa degli sfruttati. Antonio fu il solo a rimanere sull'aia. Egli non aveva mai fatto parte di alcuna associazione, non aveva mai partecipato alle loro discussioni e non intendeva di parteciparvi. Egli era libero, completamente libero e il diritto al lavoro era di tutti. - Se voi avete voglia di far nulla, nessuno ve lo impedisce. Ma io, Antonio, sono un lavoratore che ha sempre fatto buona figura, che mantiene la mia famiglia senza cavare il cappello a nessuno, e che ha del rispetto per il padrone che mi tratta con giustizia. Ma poi, mentre passavano i mesi senza che gli uni cedessero agli altri, si sentiva vergognoso dell'isolamento in cui veniva lasciato dalla sua classe. Sovente, quando andava al lavoro o ritornava a casa, gli pareva di essere inseguito dai rimproveri dei lavoratori che attraversavano delle giornate negre per impedire al salario di curvare la fronte. Io gli dicevo : Voi, Antonio, siete un cuor d'oro. Ma la fatica eccessiva non vi dà tempo di orientarvi e di pensare che c' è qualche cosa al di sopra dell'individuo e della famiglia. E sono i compagni. Ed è l'umanità, o Antonio. I muratori e i mattonai non sono, no, degli avventati capaci di condannare i padri e le madri, i bimbi e le mogli a delle astinenze crudeli pel gusto di fare della rivolta. No, Antonio. Sono degli onesti operai esagitati o commossi dal lievito della emancipazione economica, o affascinati dall'idea grandiosa di vedere un giorno una società senza pitocchi, senza padroni, senza salariati, senza gente che gavazza della fatica altrui. Io vedo che voi siete commosso. Ve lo giuro, Antonio. Il vostro isolamento mi fa male. Non posso vedere voi, così buono, così mansueto, così cosciente dei doveri di padre e di marito, nell'aia del reietto, nell'aia del lebbroso, nell'aia del rinnegato. Oh Antonio, per il bene che vi voglio , io preferirei accompagnarvi al patibolo e vedervi morire strangolato dal boia per avere difeso gli uomini che hanno lavorato e patito, che sapervi nelle mani dei carnefici della vostra classe. Non date retta alle mie parole, o Antonio, perchè io sono uno dei convinti della vittoria dei lavoratori del mondo. Ma consultate voi stesso, ma mettete la testa nei tugurii delle famiglie dei vostri compagni, ma volgetevi indietro, ove è l'esercito dei disoccupati che si stringe, ogni giorno, la cigna di cuoio dei calzoni di un occhiello senza neanche un lamento, pronto a cadere estenuato per la conquista di un miserabile aumento di mercede ! Fate bene, Antonio. Mettete pure la vostra mano nella mia. Il coraggio vi verrà dal coraggio. Ma non ce n'è bisogno. Voi dovunque potete trovare documenti padronali che incitano alla sommossa operaia. Oggi piove dirottamente. Oggi voi non lavorate. Venite con me. Non andremo molto lontano. Eccoci a S. Vittore, all'Ospedale dei Fatebenefratelli, nella sala Terzaghi, ove sono due' filate di letti equidistanti. Non abbiate paura. Conosco tutti gli ammalati perchè mi hanno avuto tra loro. Venite al loro capezzale. Voi sentirete la loro storia. Sono tutti caduti sul campo del lavoro. Chi è precipitato da un impalcato e chi ha lasciato un piede sotto il mortaio. Chi ha perduto le dita e chi si è lasciato divorare qualche parte di sè stesso dalle ruote implacabili. Vedete, qui, al numero trentadue, questo ragazzo di tredici anni? Il suo luogo doveva essere la scuola. L'esistenza ladra dei genitòri gli ha anticipato la fatica per il pane quotidiano di qualche anno. Egli è muratore. Poche settimane sono, uscendo dalla fabbrica, gli capitò sulla testa un mattone. Veime qui con la calotta orribilmente schiacciata. L'alta chirurgia del prof. Fàvaro gliel'ha aggiustata. Può guarire completamente o può risentirne per tutta la vita. -Ti ha mandato qualche cosa il tuo padrone ? -Sì. Mi ha pagato tutta la settimana, mentre mancavano ancora due giorni. Tre e settantacinque. - È venuto a vederti? - Sì, una volta. Passiamo a un altro numero. Il numero 36 è un adulto. Tremesi sono egli era più forte di noi. Egli era pulitore in una fabbrica di oreficeria. Un giorno, distratto, fece per buttar giù il cintone di corame dalla ruota. Il cintone gli premette la punta delle dita e la ruota, girando, gli tirò sotto la mano e il braccio fin su quasi all'ascella. Egli è stato portato nel teatro chirurgico col braccio frantumato. Urlava e ci schiantava il cuore. È nell'ospedale da tre mesi. È quasi guarito. Ma il suo braccio non è più il braccio di un operaio. È il braccio di un mendicante. - Quanto vi ha dato il vostro padrone ? - Madonna santa! Non me ne parlino. Diede due o tre cinque lire a mia moglie. Ecco tutto. Lui crede di esser stato generoso, perchè la disgrazia, mi ha fatto dire, è dovuta alla mia incuria. L'ho fatto pregare di darmi, uscendo, il posto di spazzino di fabbrica. Con questo braccio mi contenterei di andare a far bagnare le zuppe dei miei compagni. Ma lui, pare, non voglia saperne.

[didascalia immagine.] Antonio, sedete al suo letto (pag. 207). -È venuto a trovarvi? -Neppure una volta! Non piangete, o Antonio. C'è del tempo. Io non ho finito. Io voglio che voi andiate fino in fondo a questo strazio, ove è la pietà. padronale e la rivolta che incalza a romperla col sistema che lascia frantumare le ossa dei lavoratori senza punto pagarne il prezzo. Se una macchina si sfascia, non c' è rimedio. Il padrone, se non vuol chiudere, deve mettere mano alla borsa e rimetterla allo stato di prima o sostituirla con una nuova. Se si sfascia o si schianta il corpo dell'operaio, il principale lo fa caricare sul veicolo per l'ospedale o magari sulla portantina, e non se ne parla altro. Il lavoro non ha gli identici diritti del capitale. La maggioranza dei mutilati va ad aumentare i pelottoni degli accattoni. Gli altri riescono ad avere della miseria e passano tra gli invalidi della famiglia. Sentite questa, Antonio. Eravamo alla vigilia di Natale. La monaca andava di letto in letto a distribuire i pani e il vino a chi aveva il permesso di mangiare. Gli ammalati pensavano forse a nulla o forse pensavano che l'indomani nessuno di loro avrebbe fatto il Natale in famiglia. In un momento, l'infermeria venne messa sottosopra. Gli infermieri entravano, colla carriuola sulla quale era un uomo che gridava : - Oh la mia gent! Oh el mé car Signor ! Cossa la dirà la mia povera miee! Oh Signor, oh el mé Signor, femm mori e s'ciavo! Mi sont on omm rovinaa! Sont pu bon de fà nagott! Sont mort! Signor, jutemm! Noi tutti dell'infermeria eravamo inteneriti. Avevamo anche noi i nostri malanni, ma, via, non eravamo più tormentati dal dolore e dall'infortunio ancora tepido. - Fatevi coraggio,buon uomo. - Coraggio, quando si è morti! quando si è perduto un braccio! Oh el mé car Signor!, Gh'aveva l'ispirazion che me doveva succed ona disgrazia! Oh la mia povera miee, i mé pover bagaj, piangii tua! El vost pà l'é mori! Gh'aveva là on bell panatton.... Oh la mia geni, scusee, la mia bona gent! - Coraggio! siamo stati anche noi nei vostri panni. Vedrete che forse sarà nulla. E in uno scoppio di pianto ci disse che era pastaio e che la macchina rotatoria gli aveva gramolato il braccio. - Per me non c'è più speranza. La monaca gli diceva che Iddio non abbandona alcuno. " Raccomandatevi al Signore. Qualcheduno provvederà anche per voi. Non disperatevi. C'è un Dio. Vedrete che i vostri figli non morranno di fame. " L'infelice continuò a piangere delle ore e dei giorni. Antonio, sedete al suo letto. Il suo padrone è un grosso pastaio di Porta Genova. Nel giorno più affaccendato dell'anno, chiamato a destra e a sinistra, perdette la testa e con la testa il braccio, che l'illustre avaro dovrà recidergli domani. Interrogatelo, fate come ho fatto io e poi ritornate al lavoro. È venuto il padrone a vedervi il giorno di Natale? - El mé car scior! El mè padron el g'ha alter per la testa ! No, non è venuto. - Da quanti giorni siete qui all'ospedale ? - Diciotto. - E non è venuto ancora ? - No, non è ancora venuto. - Ha mandato qualcheduno a domandare di voi? - No, non ha mandato alcuno. - Domani, dunque, subirete il sacrificio del braccio! - Domani! E voltò la faccia sul guanciale per nascondere le lacrime e soffocare i singulti. Antonio avrebbe voluto votarsi il portafoglio. Ma non aveva in tasca che una inezia. Gli strinse la mano come per frenare la commozione di entrambi. - Quando uscite, ricordatevi che avete un fratello. Venite a trovarci. Questo è il mio indirizzo. I singhiozzi mal soffocati del pastaio andavano sul cuore di Antonio come tanti rintocchi di agonia. Egli non sapeva più che piangere. Piangeva per l'uomo che era maritato come lui, che aveva, come lui, dei figli e al quale, domani, il coltello anatomico avrebbe salvata la vita segandogli via l'ordigno che aveva aiutato ad arricchire un padrone ingrato. Si alzò colla gola e gli occhi pieni, sorretto dal mio braccio, e uscimmo entrambi dall'infermeria degli infortunii del lavoro, socialisti. Egli aveva superato ipregiudizii. Il luogo di dolore gli aveva portato via l'ultima parvenza del nemico di classe. Staccandosi dal pastaio vedeva chiaro che anche lui, con tutti i suoi anni di lavoro, avrebbe potuto, in un giorno malaugurato, cadere negli stessi guai. Che anche lui, che anche sua moglie, che anche i suoi figli.... No, no. È finita. Io sono stato un imbecille. Addio. E all'indomani sugli avvisi che convocavamo il comizio dei muratori e dei mattonai all'Arena trionfava il nome del mio amico Antonio Luraghi. XXIV. I tranisti del Verziere.

La Città di Trani dei fratelli Carola in Verziere è una scuola affollata di documenti umani per gli ambientisti senza immaginazione. È una miniera ricca di materiale vivo per le penne e per i pennelli alla ricerca dei naufraghi della vita. Nessuno dovrebbe scrivere o dipingere o sceneggiare l'esistenza tribolata del nostro tempo senza bere molto vino meridionale sulle panche di questo emporio di disperati. È a volte il teatro delle disuguaglianze anatomiche e a volte una camerata di tipi che si sono malamente ingrassati di minestra penale e di rifiuti di cucine pitocche. A date ore è un ricovero di vecchioni e di vecchione che si consolano raccontandosi gli avvenimenti di un passato senza ritorno e a date altre è una miscela di gente discesa a gradino a gradino nel bassofondo sociale, con la illusione eterna di risalire domani allo

Milano sconosciuta e Milano moderna. -Puntata 27.

[didascalia immagine:] Cerini. strato superiore. Di sera, è una cava dove si rifugiano i battuti di tutte le classi ad annegare le umiliazioni e i patimenti quotidiani in un po' di trani. I vecchi si distinguono per la mestizia e per la fodera che penzola dalle loro tasche divenute sboccacciate a furia di cacciarvi dentro tutto il diavolo che si dà loro o che raccattano per la strada. Quando frugano per il morsello di pane secco da mettere nel vino, è una pena. Tirano fuori dei chiodi, della carta bisunta, della cordicella aggruppata con dei lembi di pezze di piedi, dei pettini sdentati caduti dalle finestre e delle croste di formaggio di grana gettate dalle donne che non vogliono grattugiarsi le dita. La loro tristezza è naturale. Si sentono abbandonati. Si vedono alla mercè del caldo e del freddo senza che un cristiano si commuova. Sono disprezzati, evitati, perseguitati. Ce lo diceva Tognone, una sera che pioveva dirottamente. - Se un questurino o un cappellone ci sorprende a sporgere la mano per impietosire il passante, non abbiamo più pace. Cani, due volte cani ! Non appena hanno indosso uno straccio di montura diventano più crudeli dei signori. Lo sappiamo che è proibito mendicare. Ma coloro che hanno fatto questa legge birbona si sono dimenticati che la vecchiaia non ci ha fatto perdere il diritto di mangiare. Che cosa facciamo a domandare un soldo a chi ne ha molti? Invecchiate come noi senza un'anima che vi soccorra e vedrete che ci darete ragione. In questo secolo senza fede tutti sono contro di noi. Anche i giornali. I giornali ci trattano come mosche importune. Ci allontanano dal pubblico a frascate. Hanno fatto nascere la lega contro l'accattonaggio per dimostrare che Milano è la capitale morale d'Italia. Mucchio di lenoni! Voi potete nuocerci, ma non pótete sopprimerci. Noi ci siamo e ci resteremo fino al giorno in cui la società avrà dato ai vecchi quello che ogni popolo incivilito deve loro. Dateci un'esistenza che non sia un castigo, una vita che non sia la vitaccia del recluso e nessuno di noi andrà per le vie a seccare la gente che sta bene. Ah sì, o si- gnori pennivendoli che fate pancia, si fa presto a gridare: al mendicante ! al mendicante! È una piaga, lo sappiamo. Ma non siamo noi che l'abbiamo creata. È il vostro sistema birichino. Si lavora, si lavora e si passa dalla povertà molesta alla indigenza senza nome. Guardatemi, o signori che non mancate di pane. Sono vicino ai 69. Ho fatto scarpe tutta la vita. Perdute le forze, mezzo orbo, con le mani che tremano, sono stato messo fuori dal lavoro. Non ho più nessuno. Mia moglie è morta prima delle giornate negre. Ho dormito sui sassi d'inverno, ho fatto della fame in tutte le stagioni e non porto più abiti fatti sul mio dorso da non so più quanti anni. Adesso sono un mendico. La colpa è vostra. Tognone ci diceva tutto questo con eloquenza naturale. Egli parlava con noi, come con tutti quelli della tavolata che ascolta- vano a bocca aperta. Quando parlava lui, nessuno lo interrompeva. Non veniva interrotto che da' suoi colpi di tosse ché-' gli laceravano lo stomaco e dal catarro che tirava su con fracasso e sbatteva in terra con collera. Fisicamente è antipatico. È bassotto, ha un cranio rotondo e spelato, delle occhiaie che perdono marcia giù per le, pieghe della pelle vizza, un colore di carne frusta e una bocca che insudicia la barba pepe e sale che gli nasconde il collo. - Ho letto, ci diceva l'ultima volta che vuotavamo un mezzo litro di trani assieme, qualche libro. Non sono un analfabeta. È per questo che ho qualche idea. Io non esigo tanto. Muoio convinto che ai vecchi si deve la pensione come agli impiegati di Stato. Abbiamo prodotto, abbiamo dato tutto ciò che avevamo, non ci siamo macchiati di brutture, abbiamo rispettato le leggi e ci si deve mantenere. Ricco, non vorrei essere della società che tratta i suoi vecchi a pedate o a condanne, o a trafiletti giornalistici che ci mettono tra il cellulare e il suicidio. Vedete là in fondo al tavolo dell'ultima parete, dietro un gruppo di spettinati, il buon Cerini che ci saluta, diremmo quasi, com- mosso. La nostra presenza gli rialza il morale. Gli pare, ci dice, di ritornare ai bei tempi in cui si occupava del commercio librario, quando noi perdevamo il tempo a sfogliare i libri usati della sua carretta. Ultimamente, il capitale di questo librivendolo disgustato della vita, si era ridotto a una bracciata di volumi sfatti, polverosi, tarlati, coi margini delle opere state in saccoccia, ch'egli sciorinava sul fianco esterno dell'ufficio telegrafico di piazza Mercanti, verso il portico della Galleria. Agiato e povero, ebbe sempre una ripugnanza indicibile per tutte le pubblicazioni moderne. Egli si dice cresciuto tra i classici. Tra Carducci e Orazio Fiacco non ha da scegliere. Vi darà venti soldi per le odi dell'adulatore di Augusto e non un centesimo per l'ode alla regina d'Italia. Una volta che eravamo al verde gli abbiamo offerto i Rangon-Macquart e il Genio del Cristianesimo. Ci respinse Zola con una manata. - Non mi fate vedere questo sudicione di scrittore francese. Sotto un Governo come dico io sarebbe già in galera. Il Chateaubriand piagnoloso, il Chàteaubriand fade et sucré che fu il fossoveur della monarchia e l'ultimo trovatore del cattolicismo, è nell'elenco dei suoi prediletti. Parlando, non manca mai di farvi capire che è in lui qualcosa del letterato. Di tanto in tanto lascia cadere del latino. - Ho trascritto verbatim et literatim -parola per parola gli epigrammi di Marziale. Si sa, quando ero giovane. Profanum vulgus - il volgo profano non può capirlo. Adesso che è cencioso fatto e che non si taglia più i capelli e la barba che una volta all'anno col coltello che gli presta qualche collega, ha l'aria di un Aronne del vescovado. La capigliatura abbondante gli strascica sul bavero di una giacca rossiccia e disorlata che lo stringe da tutte le parti e la barba fluente ch'egli si accarezza e s'attorciglia in trecce con compiacenza, è mossa a ondate dalle correnti che producono i cantinieri e i camerieri che passano in fretta. I suoi occhi luminosi sono sotto una tettoia sormontata da un arco di peli spioventi e la ridondanza carnosa delle guance gli sopprime la forma del naso grosso alle pinne. È spalluto e forte come un torello e mangia a tre ganasce come se non avesse crepacuori. Tiene la sua famiglia fotografata sul cuore come in un sacrario. " È tutto ciò che mi resta ! „ ci disse una di queste sere mostrandocela. La prima delle due mogli è bellissima. - Questi poveri miei quattro figli sono tutti morti. Dio non volle darmi la consolazione di lasciarmene almeno uno per la vecchiaia. No, credano, non sarei in questi abiti. Vadano a Belgirate a domandare della famiglia Calandra e vedranno che mia madre non era una stracciona come questo suo disgraziato figlio andato in l'ultima malora. Cerini è il nome del padre. Nessuno, nè a Belgirate, nè a Pavia, dove ho incominciato a fare il libraio e dove ho conosciuto Achille Bizzoni, il famoso perduto del Gazzettino Rosa, nè a Milano, ove ho consumato gran parte della mia esistenza come librivendolo, avrebbe mai supposto che io, Luigi Cerini, a settant'anni suonati, avrei dormito sulle panche, delle piazze. Non ho vergogna a dirlo, o signori. Da tredici o quattordici mesi non dormo in letto che a rari intervalli. Ormai non mi ricordo più quando mi cavo le scarpe. Queste che vedono squinternate, me le hanno regalate oggi. Le altre, che perdevano i piedi da tutte le parti, le ho tenute su più di ottanta giorni di seguito. Cristo, che vita che facevo con quelle malandate ciabatte! Sia ringraziato il Signore che mi ha fatto incontrare un'anima pietosa. Adesso, se non altro, cammino. Il suo dolore supremo è di non avere più libri da vendere. Con dei libri stravecchi non faceva delle scorpacciate, ma tirava innanzi. La sua catastrofe libraria è dovuta a una malattia crudele che l'ha mandato all'Ospedale maggiore, ove avrebbe voluto morire. - Un parente, al quale avevo consegnato tutta la mia roba, mi ha mangiato tutto. Ma Iddio, spero, non lo lascerà impunito. Noi cercavamo di attutire le sue desolazioni con dei bicchieri di trani e delle parole tenere. - Grazie, ci diceva, e cacciava nel vino del pane stantìo che divorava col piacere spasmodico del pitocco che ha sempre fame. -Se Dio non mi aiuta, ho giurato di finirla con una rasoiata alla gola. Morrò sulla tomba di questa donna, la mia seconda moglie, per la quale ho speso 97,25 per il monumento. Leggano se non è vero. E ci diede una lettera di otto facciate piena di perdoni e di voglia di morire. - È inutile vivere a questo modo. Questa non è vita. I galeotti hanno assicurato il letto e la zuppa. Noi, poveri vecchi.... Ma che non ci sia qualcheduno che pensi a noi che siamo precipitati negli orrori della miseria? L'uomo che andava vestito come una cartina di Francia si è ridotto in questa guisa. Un cencioso che fa schifo. Pieno.... Non abbiano paura. Mi sono cambiato ieri l'altro la camicia che mi ha dato un frate che piangeva delle mie disgrazie. Sono loro, sono i frati del viale Monforte, che mi tengono in piedi. A mezzogiorno io sono il caporale di un pelottone di spiantati e di spiantate che ci vanno a mangiare la minestra. Pensare che ci sono degli imbecilli che odiano i frati e che se comandassero loro li brucerebbero come Giordano Bruno' ! Io faccio loro di cappello e bacio le mani del priore tutti i giorni con trasporto. Senza queste persone di cuore parecchi di noi saremmo ugolinescamente morti. Ci vengano a vedermi caporale dei miserabili. Io separo gli uomini dalle donne.... È una vergogna che ci siano le donne. La società le lascia sommergere a oncia a oncia fino al giorno in cui sono letteralmente consunte dalle febbri delle astinenze. Separati i pezzenti dalle pezzenti, li metto in fila e 'do a ciascuno una scodella di minestra con un tozzo di pane, se sono i privilegiati del pane. Non faccio per dire, ma è una minestra di brodo eccellente che può mangiare anche un cristiano abituato alla tovaglia. Se non fossi disabituato alla penna e se la miseria desse della tregua, potrei compiacerli a descrivere loro scene da intenerire an- che un ebreo. D'inverno poi quando si sgelano la faccia mettendola sul fumo della tazzina e le mani premendola religiosamente, potrei dar loro delle tragedie inzuppate di lacrime. Ci vorrebbe del tempo e della pace. Non credo che si possa scrivere sprofondati nel cesso sociale. Si manca di tutto. Preferisco dir loro a voce come vivono i poveri cristi che hanno tragittato dalla povertà nell'inferno di tutte le privazioni. Il loro appetito non è una ipocrisia. Sembrano sempre digiuni da una settimana. Non si lavano una volta l'anno. Neppure nel santo giorno di Natale. L'acqua per noi è un lusso. Ci vorrebbero la salvietta, il sapone, un catino, una stanza. E siamo tutti senza casa. I nostri abiti sono i rifiuti di due o tre generazioni. Sono infarciti di pidocchi. I pidocchi ci si attaccano alla pelle e diventano parte di noi stessi. Perchè non mi piace andare all'asilo Sonzogno ? Prima non vi si può andar tutti i giorni, poi preferisco la strada. All'asilo ci si mette tutti nella camerata del fetore e ci si cacciano gli abiti aggruppati assieme, in un armadio a caselle. I miei insetti possono discendere nei cenci del mio vicino disotto. Capisco che pidocchio più pidocchio meno, importa poco. Ma sento ancora della ripugnanza. Alla sera qui mi guadagno una tazza di vino mettendo le panche sui tavoli e scopando la bottega.

Angiolino è il san-souci del luogo. Nella sua testa di trentatrè anni non è germogliato un problema. Egli prende le cose come Dio le manda. Tanto e tanto la fame non la patisce, O di riffe o di raffe i suoi denti devono masticare tutti i giorni. Se non sa più a qual santo votarsi, ci sono i frati del viale Monforte. Costoro non gli negano mai un litro di minestra ovverossia una fetta di polenta di mezzo chilogrammo o veramente del pane bianco . L'ingiustizia della distribuzione fratesca che indemonia parecchi piedinudi, lascia il sangue di Angiolino tranquillo. Egli ci beve sopra due dita di trani tutte le volte che ha dei poluschi (denari). I malcontenti dicono che nella casa dell'Ente Supremo non ci dovrebbero essere privilegi. I privilegi guastano la santità della fede e distruggono il concetto che la carità sia un pozzo d'abbondanza nel deserto della vita. Ai raccomandati e alle raccomandate si dànno la minestra, il pane e anche la polenta. E perchè no anche agli altri ? Non sono tutti figli della stessa Provvidenza ? In questi giorni il malcontento si è tramutato in una esasperazione che rasenta la rivolta. Se non ci fosse di mezzo lo stomaco , i sanculottes ci darebbero lo spettacolo di una sollevazione. Giovedì, col cambiamento del padre distributore, non mancava che la parola di un disensato per vedere in terra tutti i cucchiai d'osso biondo chiaro. Gli straccioni volevano giustizia. Col padre Benvenuto, un grandiglione magro, dalla faccia bonaria e dal ciuffo lungo di peli neri appeso al mento, c'era sempre modo di smoverlo dal regolamento. Lo straccione gli si avvicinava e gli diceva: - Padre, mi dia un boccone di pane o una sleppa di polenta che ho ancora fame. E il padre Benvenuto, che non era un plebofobo, non se lo faceva dire due volte. Con la buona grazia e con la dolcezza egli era riuscito ad ammassare anche gli impulsivi e facili a lasciarsi esaltare dalle minacce superbe o colleriche. Il padre che ha preso il suo posto è uno spilungone con le bassette all'inglese, rigido come un poliziotto, che non eccede e non viene meno agli ordini superiori. Fatta la distribuzione, come è prescritta dal priore, egli rimane un no in piedi. Rifiuta una mescolata di più di minestra anche a una poveraccia in ginocchio a mani giunte. Se ci fosse il referendum, i pitocchi lo metterebbero alla porta come un tiranno. Lo stesso Cerini- l'uomo che una volta " nuotava nell'oro „ è dimissionario. Egli non vuol più essere " caporale della miseria „ sotto un padre così inumano. Ha cominciato a lesinargli dei bocconi di pane. È una tirchieria che non sa soffrire. L'Angiolino ride di queste scenate. Egli ha un po' del bue. Il bue non leva il muso per chiamare con dei muggiti l'attenzione del buon mietitore che scevera il grano dal lollio. Ma continua ad anteporre l'erba sotto i piedi alla speranza che nutrisce gli sventurati. È, come dice lui, un uomo positivo. Gli mettono in mano la scodella piena fino all'orlo e va bene. Gliela danno tre dita sotto l'orlo e va bene ancora. Il suo mestiere è " lunatico come il tempo „.

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 23.

[didascalia immagine:] Alla"Città di Trani" Egli è facchino avventizio alla stazione centrale. Lui non può agguantare valige o mettersi sulla gobba bauli sui gradini della stazione. I gradini sono proprietà dei facchini regolari. Guai al malcreato che invade le pietre degli uomini organizzati. È uno svantaggio che non nuoce però alla tasca di Angiolillo. Egli ha quello che non hanno gli altri, delle gambe di ferro. È il Bargossi di tutti i facchini. Non c'è che lui che possa tener dietro alla vettura numero 75 o al cavallo più veloce di tutti i quadrupedi delle vetture pubbliche. Il suo modo di " lavorare „ il brougham è questo. Abbandonato dal facchino regolare che lo ha caricato del bagaglio, lo insegue fino al dazio. Al dazio, mette la faccia nel vano della portiera e offre ai viaggiatori i suoi servigi. Col permesso dei signori, egli fiancheggia il quattroruote fino agli antipodi della carta topografica. Vi arriva col cavallo, più riposato di quelli che escono dalla carrozza. Non è mai trafelato, non è mai ansante e non perde mai la lingua come i cani. È molto se vi giunge sudato. Ci sono dei forestieri che si sentono male a vederlo correre come una bestia. E a ogni costo vogliono che salga a cassetta col vetturale. Ma è proprio un peccato. Perchè lui sta più bene in terra. L'altro giorno una signora similoro lo volle assolutamente nella vittoria, coi piedi tra i suoi piedini e le ginocchia sulle ginocchia. Avrebbe peccato un sant'Antonio. Lui no. Lui non sa che farne delle donne. Preferisce un buon litro di trani. Di trani può digerirne tre litri con dieci centesimi di rostita. Sabato mangiava con noi quindici centesimi di polpettine. Noi votavamo il duequinti e lui era già al terzo litro di cinquanta centesimi. Ci diede un'idea del suo appetito dicendoci ch'egli può mettersi sullo stomaco un culo di polenta di un chilogramma di farina e una padella di lombata sur un letto di cipolle quando ha la minestra alla gola. Purchè abbia del vino. Il vino è la sua circe. I suoi denari sono tutti per il vinaio. L'altra sera era così ubbriaco che si mise a pisciare sotto il tavolo. Il cameriere lo dovette strascinare alla porta come un sacco di carne. Ne aveva bevuto nove litri Sulla pietra dorme come un papa. Il letto per lui è diventato un mobile inutile. Adesso che ci ha fatto il callo si alza dai sassi come il ricco dalle materasse. La locanda, per conto suo, può morire. Non si ricorda di avere sciupato quattro soldi per un giaciglio. In terra, all'aria aperta, sborniati, vi levate freschi come rose. Se fa freddo, non è affar suo. Egli non sente nulla di nulla. È come se fosse foderato di ferro. Una notte si è addormentato sullo stradone di Monza mentre nevicava a larghe falde. Un altro sarebbe crepato. Angiolino si risvegliò caldo come sotto una coltre. Andò dal grappista e se ne trangugiò mezza zaina e si trovò più bene di prima. In tutta la vita non ha mai avuto neppure un doloruccio di testa. La sola disgrazia della sua vita fu quando gli marcì l'occhio sinistro nell'occhiaia. Ma lui può farne senza. Egli ci vede assai bene anche con uno solo. Se vi commovete dinanzi i gruppi della gente che ha compiuta la curva della vita, evitate la Città di Trani il martedì, il giovedì e la domenica. Nelle ore pomeridiane i tavoli della prima arcata sono gremiti di vecchioni e di vecchione che si scaldano con del trani e con una conversazione che racchiude i ricordi intimi del loro passato. Sono ciarlieri, pipatori, e sentono un po' tutti, tra una presa e l'altra di tabacco, di essere stati qualche cosa. È bello adagiarsi e riadagiarsi vecchi e malandati nell'autobiografia che si porta nella testa come l'unico tesoro sopravvissuto al naufragio! Pei vecchioni è un sollievo ripetere a sè stessi e ai compagni i giorni soleggiati, i giorni in cui non si pensava al domani, i giorni degli amori che rigalleggiano, di tanto in tanto, sui guai e sulle vicissitudini di una esistenza trambasciata! Non potete scambiarli per degli altri. La società delle disuguaglianze ha voluto essere, coi poveri, comunista. Ha posto il suo bollo ufficiale sul modello che veste i ricoverati maschi e femmine di via della Signora. Gli uomini sono infagottati in un panno caffè più o meno bruciato, sotto un cappello nero, peloso e rotondo come l' ala rigida, bassotto, arieggiante la mezza tuba. Le code della marsina fatta per tutte le spalle, vanno l'una sull'altra, aizzandosi in uno sfregamento eterno. I calzoni sembrano usciti dalle mani di un falegname. Non c'è forma, non c'è grazia, non c'è disegno. Sono larghi tubi, giù a titillare i lembi superiori delle scarpe grosse, dure, enormi. Nell'uniforme del ricoverato l'uomo è scomparso. Non rimane che il vecchione. Un sacco con le appendici vicino all'imboccatura per le braccia, tagliato in due al ventre per ravvolgerne le gambe. Le donne sono anch' esse ditte ambulanti. Sono le sandwichwomen di casa Triulzio. La gente che le vede dice subito : ecco le vecchione che passano ! Indossano uno scialle di un rosso smorto che mette freddo a tutti coloro che si ricordano che la loro quantità di calorico è discesa alla temperatura patologica. La veste color pulce nutrita di sangue pitocco, ti immalinconisce. Ti passa via come una campana che diffonde i rintocchi della gente che muore. È un funerale. La loro testa te lo completa. È una cuffia nera marginata di uno zinzino di pizzo bianco incannettato, una cuffia che ti ricorda i pedoni della compagnia della morte o la beghina che piange sui peccati altrui. La caratteristica notevole è che la popolazione dei mantenuti e delle mantenute di via della Signora, è composta di persone piccine, al disotto dell'altezza media. In una comunanza di persone regolari, sono dei nani. È che invecchiando nei patimenti ci si calca su noi stessi o è che il regolamento esclude tutti coloro che hanno raggiunto la misura del soldato di fanteria ? Il solo dei tranisti monturati che faccia eccezione è l'ex cavallerizzo del Tattetsal, il

buon De Luigi, conosciuto lippis et tonsoribus, seduto, per noi, sulla panca dell'osteria, come una interiezione ingrossata. Per quarant'anni egli ha insegnato alla borghesia milanese gli esercizi di equitazione e la borghesia milanese, ingrata, gli lascia mangiare il pane della carità che sopprime dal consorzio e rinchiude nell'ergastolo degli straccioni !

L'ambiente di via della Signora non è riuscito a distruggere in De Luigi tutte le abitudini signorili di quando passava sul corso con gli speroni e col frustino o quando caracollava sui bastioni in mezzo alle sue scolare. Egli è rimasto il gentleman di una volta. Quando esce dal ricovero, il suo solino è alto, candido, lucido come il plastron della sua camicia candidissima ed è circondato dal cravattino nero degli anni in cui torreggiava al maneggio. Le sue guance hanno conservato il colore virato di una volta, ma la pelle ha perduto della carne e va sempre più pieghettandosi. Fuma nella pipa tabacco del moro ed è socievole. Giovedì della settimana scorsa egli era a cavalcioni di una pànca, al tavolo con cinque o sei colleghi della stessa via che approvava o disapprovava con dei movimenti di testa. Il soggetto delle loro chiacchiere era politico. Uno di essi l'aveva su a morte con Napoleone, l'assassino frantumato da Vittore Hugo. - Se non c'era la Russia, l'Austria l'era bella e andada. Napoleone è un traditore, ha tradito tutti. Ci ha battuti a Roma. Me regordi mi come s' el f uss adess. Nel '59 non è venuto spontaneamente. È venuto in Italia per una congiura delle potenze. Egli ha fatto ammazzare Orsini. E tutti sanno che è stato lui a farlo scappare dal forte.... come se ciamavel ?.... dal forte.... el savii anche vialter.... vestito da muratore con un'asse sulla spalla. Ch'el lassen, al Senato. Ch'el tiren minga faura, per amor di Dio! Perché ben e vegg come sont, voo là mi a tiragh ona sassada ! [didascalia immagine:] Angiolino. Un altro si lamentava che in via della Signora ci fossero dei ladri. -Sfido io! Un tempo non si ammettevano che le persone cadute in miseria per un disastro o per un altro. Ora si accettano i primm ballabiott che capita. Per quij de san March gh'era su el gatt. Adess ghe n'è insci denten. E qui de san March hin rattatoja, credili, lader se ghe n'é mai staa! Rubarien a sò pader! -Quando rientro, io metto tutto nel mio cassetto. Non mi arrischierei a lasciare attorno neppure il mio fazzoletto da naso! - Che è il tuo credo politico! - Sigura! Un altro vecchione non sapeva mandar giù l'accusa atroce contro l'autore del Due Dicembre. Egli diceva che era un'ingiustizia per un veggion di averla su con Napoleone. - Perchè i Napoleoni ci hanno sempre voluto del bene. Napoleone primo aveva obbligato il vicerè, suo fratello, a farsi lavare i piedi una volta all'anno da dodici vecchioni. Allora si stava bene tutti, caro mio. Ogni tanto c'era qualche allegria. Adesso non è rimasta che la miseria. El ricovero di quei tempi è sparito. Il repubblicano del luogo è un uomo venuto all'età di ottantatrè anni coi suoi principii intatti. Ha degli sputi per i Rabagas che si sono venduti al Governo per il solito piatto di lenti. Meglio morire d'inedia ai piedi dell'albero della libertà che ingrassare alla cucina monarchica. Egli ha sofferto per la causa ed è pronto, oggi e sempre, a immolare sul suo altare le quattro ossa che gli rimangono. Sa che essere repubblicano è cosa pericolosa. Ma lui rimarrà fedele alle idee di Garibaldi, il divino, e di Mazzini, il superbo, anche se dovessero sottoporlo alla tortura. Hanno già fatto di tutto per schiacciarlo. Frotte di questurini lo pedinavano quando era giovine. E forse lo è anche adesso, perchè il Governo ha sempre avuto paura di lui. Esso non ignora che con Perego Achille non si scherza. Achille Perego è tutto di un pezzo. Ha fatto le campagne del '60 e del '61, con diritto di fregiarsi delle medaglie commemorative ed è l'oratore rosso che salì sui gradini del Cimitero monuméntale dopo l'illustre Cavallotti, il poeta, al quale egli fa tanto di cappello e di Stefano Canzio, un generale che ha sposato una figlia del duce divino. È una impressione, questa del Cimitero, ch'egli porta calda nella mente, perchè è impossibile dimenticare la folla immensa portata in alto dalla sua eloquenza che si rompeva sul cielo come una pioggia di maledizioni. A tanti anni di distanza, egli ne è ancora commosso e ne sente ancora il battimano fragoroso che lo infuturava e ha ancora rintronate le orecchie dei viva Perego! bravo Perego! grida che lo hanno consolato anche in questi anni di pasti irregolari. - Ah, sì ! questa è una consolazione. Digiuno, scalzo e senza un centesimo, vado a rifugiarmi nel mio discorso ove trovo l'oblio dei miei dolori. Sentitelo : " Miei cari fratelli ! Ora che voi vi ritrovate qui intorno a questo recinto feretro, se mi permettete, voglio dire due parole sopra questo tumulo. Salve, o duce e divin maestro, che sei un secondo Dio in terra. È vero che tu sei morto, ma il tuo spirito penètra ancora di nuovo nel cuore dei tuoi figli. Salve, o duce e divin maestro, che tu accompagnasti i tuoi figli sul campo della gloria, a spargere il sangue onde discacciare il perfido inemico. Salve, o duce e divin maestro, che hai deliberato i due nuovi mondi. Salve, o duce e divin maestro, che tu accompagnasti il perfido inemico dalle Alpi all'Andreatico. Salve, o duce e divin maestro, che tu fosti vittima di Mentana e poi anche di Aspromonte. Salve, o duce e divin maestro, che tu penetrerai nei nostri cuori di secolo in secolo. Salve, o duce e divin maestro, se tu fossi quaggiù ancora, di bel nuovo, qui con noi immortale, dove non si muore... Salve ! Salve! " Perego, conosciuto alla Città di Trani per il Buscaja, è convinto che se il Governo fosse riuscito a mettergli le mani addosso, non gli avrebbe dato meno di cinque cocomeri (anni). Se poi avesse saputo ch'egli custodiva nel baule dei " docu- menti importanti ", glie ne avrebbe dato dieci o lo avrebbe fatto impiccare come il Boggia. I documenti importanti sono degli avvisi stampati ch'egli volle regalarci perchè un giorno o l'altro deve morire e non vuole che vadano perduti. Uno è del Governo provvisorio della Lombardia, per istituire un comitato e aprire sottoscrizioni e collette in favore dei profughi veneti; un altro è di Radetzky agli abitanti di Milano, per avvertirli, che egli " parte alla testa del mio esercito per respingere un novello, perfido attacco e trasportare il teatro della guerra sul territorio nemico „. Un terzo è del generale d'artiglieria, Francesco conte Gyulai, per notificare ai milanesi ch'egli " ha riassunto il comando militare della Lombardia ". E l'ultimo è " la nuova dottrina di Giuseppe Garibaldi " dedicata al popolo. È alto, magro come un denutrito. La sua faccia è una rovina o un capolavoro per l'artista incaricato di appendere la ditta all'entratatrata del ricovero dei mendichi di S. Marco. È una faccia tutta crespe, solcata qua e là di fossette e di buche sotto i rialzi degli zigomi, con un naso i cui orli delle nari si sono come rattratti, mentre la punta si è prolungata verso la bocca smisurata. Veduto con le orecchie alte, coi sacchettini gonfi delle occhiaie in decomposizione, con le sporgenze facciali che danno più risalto ai solchi biancastri di una pelle che si smaglia, con le sue mani lunghe, ischeletrite, ti pare il consummatunt est della sua classe. È povero come Giobbe. Per trent'anni ha fatto il sarto. Ma le agucchiate notturne gli hanno indebolito la vista. A quarantatrè anni è stato obbligato a cambiare carriera e a divenire, lui, l'autore del discorso sui gradini del Cimitero monumentale, garzone salsamentario. Per quarant'anni ha tirato il carretto, ha caricato il cuore e i quarti di maiale, ha lavato il suolo della stanza del porcaio, ha pulito i coltelli degli sgozzamenti, ha tritato carne e insaccate tante salsicce da esserne sazio anche ora che gli farebbero tanto bene. [didascalia immagine:]

Milano sconosciuta e Milano moderna. — Puntala 29. Dal Verziere all'abitazione di Achille Perego, in S. Pietro all'Orto, non ci sono che pochi minuti. Ma Perego, sdruscito e malandato, andava innanzi come poteva. Si strascinava dietro i piedi cotti come un peso e si reggeva col bastone o si appoggiava alla muraglia. In mezzo alla strada pareva l'apoteosi della miseria o una accumulazione ereditaria di tutte le privazioni. Ci sembrava di avere tra noi una bestia umana che scalcagnava in un modo da far piangere, o uno scheletro uscito dalla sepoltura cogli indumenti marciti nel terreno verminoso. Io e Cantinotti- un artista socialista che si prepara, con le illustrazioni della Milano sconosciuta e Milano moderna, un avvenire pieno di gloria e di agiatezza - giunti in via S. Zeno ci guardavamo negli occhi come trasecolati di vedere le persone vestite bene che passavano senza un pensiero per questo disastro sociale. In nome della pagina oggettiva, taci o inchiostro sedizioso che vorresti ululare per le vie e chiamar gente intorno al senzapane. Noi vogliamo essere di pietra. Noi non vogliamo che le nostre emozioni cadano dalla penna a turbare la serenità della descrizione. Così, invece di prendere questa società svergognata nei quattro angoli del lenzuolo e trascinarla dinanzi i giudici della Corte d'Assisi come ladra e affamatrice, continuammo per la nostra via rituffati nel futuro della gente nuova. S. Pietro all'Orto è un lungo budello che lambisce il corso massimo della capitale lombarda. È di un interesse sommo perchè rigurgita di problemi scandalosi. Noi ci ritorneremo per occuparci del véritable Eden ove esumeremo il Porta, il proprietario della casa, per presentarlo ai lettori come un filantropo che non lasciava passare anno senza inviare il suo contributo all'albero di Natale del Secolo. Ci ritorneremo per portare in pubblico la pagina rumorosa degli strilloni che l'abbandonano a pancia a terra colle bracciate di quotidiani e per rivelare lo svaccamento che si consuma giorno e notte in questa via annegata nella quiete e ammantata di decenza. Il numero 4, ove è l'abitazione del nostro repubblicano, è come un casone che non tradisce la sua vita intima. L'entrata vi dà l'idea di passare per il portone degli inquilini che vanno a pranzo tutti i giorni senza il grattacapo del domani. Levando gli occhi prima di svoltare la portineria, vi sentite consolati di non essere nella proprietà di un Marescot italiano che sginocchia per le chiese e vi mette sul marciapiedi con le suppellettili e col cadavere, se ne avete uno, se non siete puntuali a Pasqua e a S. Michele. Il conte Porro, il proprietario di questa casa numero 4, è un altro uomo. Egli deve essere un artista o uno scienziato o un protettore dell'arte. Non c'è da dubitarne. Ve ne compiacete guardando i sei medaglioni che illustrano l'arcata di mezzo del passaggio e le pareti opposte del cortile. Achille Perego è sicuro come due e due fanno quattro che il rilievo del medaglione rappresenta un generale austriaco del '48, mentre il portinaio, che si crede informato assai più di Perego, giura che la faccia di quel signore con tanto di baffi non è altri che il primo padrone della casa. Ve lo hanno fatto incastrare gli inquilini per memoria. Noi ridevamo perchè il medaglione è come la ditta in bronzo dell'autore. È il Carlo Cattaneo del Troubetzkoy. Il portinaio, veduto da tutte le parti, non solleva sospetti. Si vede benissimo che egli è l'onestà in persona. È un uomo che si rispetta, rispettando. Se gli domandano se il tale o la tale è in casa, risponde con una grazia che mette il cuore in pace. Se passano invece gli ineducati, senza dirgli nulla, fingendo magari di non vederlo, padroni. Chi non lo vuole non lo desidera. Non è affar suo. Il suo dovere di portinaio lo sa e bene. Gli inquilini della casa numero 4 sono obbligati ad essere onesti. Se non lo fossero, il padrone che è scrupolosissimo, non li avrebbe accettati. E i portinai non devono saperne più dei padroni. Se poi qualcuno avesse sul dorso delle taccherelle, peggio per lui. Non tocca a chi sta in portineria a svestirlo o a domandargli la fedina criminale. Biso- gnerebbe essere matti di andare a cercarsi un processo per diffamazione. Gli agenti di P. S. non ci sono per niente. È il loro mestiere di guardarsi attorno. C'è la maldicenza. Ma lui di questa lingua sacrilega se ne infischia. È la rabbia che la fa parlare. Un posto come questo non lo si trova per la strada e tutti i giorni. Il viavai delle donne e degli uomini è cosa comune a tutte le case. Vorrebbe vedere chi sarebbe quel tomo di portinaio capace di domandare all'inquilina chi è il signore che l'accompagna di sopra. Il locatario è libero di andare e venire quando gli pare e piace. Qui poi è impossibile conoscere tutta la gente. Ci sono delle camere ammobiliate, e le camere ammobiliate sono delle stazioni ferroviarie. Tutte le volte che vi date una capatina, vi trovate degli sconosciuti. Di notte? Vadano in malora i ciarloni che lo accusano di ignorare la prostituzione. Il povero portinaio non è di ferro. Egli è stato in piedi tutto il giorno e alle dieci è stracco con tanto di testa. A letto si addormenta come un ghiro. La gente può sbattere lo sportello non una ma mille volte. Perchè si dà all'inquilino la chiave ? È anche troppo alzarsi quando qualche smemorato se la dimentica. Non sono che le spie che aspettano in agguato le persone che rientrano o escono dalla casa. Il portinaio non deve spiare che coloro che non pagano la pigione. E al numero 4, in S. Pietro all'Orto, grazie a dio, di gentaglia che va via in punta di piedi non ce n'è. Il cortile è un quadrato di facciate di finestre che s'inseguono fino al quinto piano. Dappertutto dove volti il naso fiuti l'odore di femmina vendereccia. La scopri, la senti, la intuisci. Sui davanzali asciugano le salviette, come se le inquiline avessero le mani nel catino tutto il giorno., Sostando, con gli occhi in alto, vedi l'ombra delle ragazze che allungano l'occhio a ogni pedata che viene su dal cortile. Salendo e mettendoti nei vani delle finestre delle scale vedi quel che bolle nella pentola degli appartamenti che le fiancheggiano. Mangiano modestamente. Si capisce che a farsi gualcire la carne dagli ubbriachi e dagli indemoniati della foia, non c'è sugo. Si guadagna quel che può guadagnare la serva di grosso o la cameriera che si nutrisce degli avanzi dei padroni. E pazienza se ci fosse modo di cavarsi la fame tutti i giorni. Ma a fare il mestieraccio di soddisfare la libidine degli altri ci sono dei giorni senza pietanza e delle sere senza cena. Provatevi quando piove dirottamente o quando c'è sul terreno il moticchio che fa sdrucciolare e che il Municipio pare lasci giù a posta per farla alle donne intorno a stomaco vuoto, a non dire che è una vitaccia da galera. Non c'è che la delinquenza o la malvivenza inestirpabile o la sicurezza di sapersi bloccate tutte le vie della riabilitazione che possa tenere sul selciato a svaccare per l'esistenza. Mentre una delle tante maciullava una sleppa di carnaccia rossa sul tagliere, le domandammo perchè non ci invitava a pranzo. - Eh, perchè non ho che questo pezzo di carne. - Manda a prenderne dell'altra che ti terremo compagnia. - L'andasse bene ! Ma la va male, proprio male! - A chi attribuisci questa specie di morta stagione ? - Chi ve lo può dire ? Alla fortuna e alla sfortuna. Le donne aumentano e gli uomini diminuiscono o non ne hanno da spendere. È dunque necessario che qualcuna di noi soffra. Questa settimana è stato il mio turno. Mangio gli spiccioli della settimana scorsa. All'altra in faccia facemmo di cappello ed essa ci rispose con un sorriso e un inchino. - Esci che ti offriremo la bibita! Riprendendo la salita per il secondo piano, fummo obbligati a ritirarci per far largo a due signorine che montavano i gradini col fru fru delle balzane insaldate. Ci rasentarono impacciate come vergini sorprese di trovarsi a tu per tu con degli estranei. Credevamo di avere preso un granchio. Ma l'illusione non durò che un attimo. Svoltando da un piano all'altro ci sorrisero con la boccuccia rossa come la carne della sorella al piano inferiore. In cima al casamento a sinistra percorrete dieci passi di ammattonato, voltate a destra e vi trovate in un corridoio di tre metri senza sfogo. L'uscio a destra è quello della stiratrice Giulia Soncini, la quale lavora con delle ragazze che chiacchierano e allegrano lo spazio coi movimenti dei ferri che vanno e vengono dai fornelli e coi colpi sordi che passano e ripassano sulla biancheria. L'uscio a sinistra è quello di Achille Perego. - Aspettino un momento, ci disse mettendo la chiave nella toppa. Voglio aprire la finestra perchè loro non saranno abituati agli odori. Io ho dovuto abituarmici. Spalancato l'uscio, fummo investiti da una folata pestifera. Sembravamo al limitare di una stanza che racchiude la buca di una cisterna ove si raccolgono le materie fecali di tutta la popolazione. Il primo a entrarvi fu il Cantinotti. - Perdio, si muore ! E si riebbe dallo stordimento cloacale ricacciando la testa nel corridoio con una tosse convulsionaria. Noi credevamo che la stamberga del pitocco avesse più nulla da insegnarci. Invece ! Invece quella di Achille Perego ci convinse che non eravamo che all'a b c del nostro studio. - È una stanza, dissi al Cantinotti, che può fare la fortuna di un artista capace di mandare il documento delittuoso ai posteri. Non è possibile che la fantasia produca un ambiente così terribilmente tragico. In esso senti il naufragio lento e inesorabile della persona spossata in balia dei digiuni. Tutto si sfascia e si scompone. Tu ti trovi nel ricettacolo di una carogna che imputridisce coi mobili sopravvissuti ai giorni meno scellerati. Non c'è nulla che non rappresenti il singhiozzo del proprietario. Il letto è una disperazione. È un saccone di paglia fetente sur un fusto marcio tenuto assieme dalla corda. Achille Perego, con la pelle incrostata dalle trasudazioni melmose, si sdraia sulla fodera del canile puzzolente chi sa da quanti anni! Non ci sono più lenzuola. Le lenzuola son finite in pezze di piedi e i guanciali sono andati dal pignoratario, in un giorno d'insurrezione ventricolare, per poche palanche. Ora il re- pubblicano che non ha perduto la speranza di rotolare una testa reale ai piedi dei sovrani come una sfida, adagia la testa in un mucchio di abiti cenciosi che lo straccivendolo ha rifiutato e ravvolge la carcassa in un coltroncino infracidito e appesantito dai pidocchi che fanno pancia e dalle sudicerie che invecchiano. Il camino del tribuno del Cimitero Monumentale annerisce il dramma che si svolge tra le pareti lugubri dell'ultima stanza dell'ultimo piano in fondo a sinistra. Vi sono due avanzi di spazzola, una cassetta arrugginita senza sardine, tre bottiglie di gasosa, due bottigliette che esalano i miasmi delle medicine divenute poltiglia e qualche rottame. Nell'angolo, vicino alla seggiola immarcita sotto uno strato di muffa, è un secchiolino di latta ammaccata come ne vedi sovente sui mucchi di macerie. A destra dei piedi del letto è un cumò che non puoi muovere per paura di mandarlo in frantumi. È uno sfacelo. - Aprano pure i cassettoni, o signori. Vedranno che sono Vuoti. Non ci sono più che quattro biglietti di pegni e un paio di mutande rammendate che mi diede un altro pezzente. - Pagate la pigione per questa stanza ? - Sissignori. La pago da dieci anni. Sono dieci anni che vivo in questo buco. Adesso non so più come fare. - Che cosa pagate, avete detto ? - Settanta lire l'anno. Marescot, tu sei un cuore nobile ! Tu che vai nell'abitazione di Gervaise con la larga decorazione sul pettorale della redingote a pregare ai piedi della mamma morta di Coupeau per rialzarti padrone di casa e minacciare la povera donna di mettere tutti sulla strada se domani non gli si danno i due semestri arretrati, tu sei un cuore generoso. Qua la mano. Noi ti abbiamo creduto fino a ieri sera un tipo ignobile, un tipaccio che cava la pelle all'inquilino. Ti domandiamo scusa e proclamiamo che sei un galantuomo. Sul cumò ha ancora la cappelliera con la tuba che portava al Cimitero Monumentale quando parlava al popolo dall'alto dei gra- dini. È un cilindro che ha perduto i peli, con delle padelle d'untume alla fronte e divorato dalle larve. Il baule schiantato, sotto la finestra, è vuoto. Non vi sono che gli insetti che lo percorrono in lungo e in largo senza che il Perego se ne offenda. Dall'imposta della finestra pende una camicia più sporca della parete ove sono appesi, ai chiodi, tre stracci di cappelli nascosti sotto la polvere. Il suolo è lastricato di sputi e di catarro che il vecchio repubblicano sbatte dappertutto. Ah, è qui, chiuso in questo bugigattolo, cogli occhi aperti nella notte buia, che il Perego rovescia i pensieri sui tempi antirepubblicani e pensa che ci vorrebbe un po' di Marat per risuscitare l'audacia di Danton. - Tutti i nostri malanni, ci diceva, sono di questo periodo cacone. La gioventù è infrollita. I sagrificii sono sconosciuti. Il disfaCimento sociale è incominciato. Gli prendemmo la mano nella mano e gli domandammo se potevamo fare qualche cosa per lui. - Noi siamo poveri e odiamo la carità sotto qualunque forma. Ma siamó pronti a raccomandarvi a chiunque. Volete entrare nel ricovero dei Vecchioni dell'Annunciata ? - Indossare la divisa del pitocco e chiudermi in un carcere? - Volete che vi si raccomandi alla Congregazione di Carità ? - Per amor di Dio ! Già non mi darebbe nulla. Non dà nulla ai repubblicani. I repubblicani non sono nella zona dei suoi protetti. - Allora permetteteci di offrirvi le bibite di stasera. - Fate. Con voi è un altro paio di maniche. Voi siete dei bravi giovani.

Alla Città di Trani ritrovammo il Proverbi, conosciuto in Verziere come l'erba bettonica, per il suo faccione pieno di carne sotto il cappello di paglia e per la sua megalomania. Egli ha sempre un progetto grandioso che metterà in pratica domani. Beve raccontandovi ch'egli ha perduto tutto per fare onore alla sua firma. Un giorno un amico andò a dirgli che non gli rimaneva che il disonore o il suicidio, se non trovava una firma di favore per una cambiale di 37.000 lire. Un amico non se lo fa dire due volte. Proverbi lo salva e va in malora lieto di avere compiuto una buona azione. La seconda vanteria è di essere stato il primo a inaugurare questa osteria di tranisti il 29 giugno 1890.

CAMERIERE. Volete dire il 10 di giugno. - Voglio dire il 29. - Ma se c'è qui ancora l'avviso a farci da testimonio! - L'avviso è una cosa. Io ero presente. Domandatelo al padrone, lui che mi offerse il primo bicchiere. Vi aggiungerò un particolare. Gliene domandai un altro perchè era proprio di quello che dico io. Intanto che el Pacciasass e il suo amico Mangiastoppa " eser-

Milano sconosciuta e Milano moderna. -Puntata 30. citano la loro professione di intrattenere il pubblico " coi piedi sulle panche, noi interroghiamo uno dei camerieri, il più vecchio, quello sbarbato. - Quanto vino vendete, in media, in un giorno ? - Vuotiamo ogni giorno una di quelle botti che vedete a sinistra dell'entrata. Vale a dire che vendiamo a stampe (bicchieri), a quinti, a mezzolitri e a litri sedici brente di trani al giorno. Di rado ci si domanda il vino in bottiglia. Si sa, il nostro pubblico è un pubblico di pitocchi. Noi non si serve alcuno senza mettere i denari sul tavolo. Chi entra non è obbligato a bere. Può sedere senza essere disturbato. Ma quando ordina deve pagare. Il nostro vino costa cinquanta al litro. Ma ne abbiamo anche da sessanta. Il piatto preferito dai nostri avventori è la rostita. Un uomo con dieci centesimi può star bene. Di minestra ne diamo una tazzina di un boccale per quindici centesimi. La trippa è vivanda che abbiamo tutti i giorni. Ne diamo via una caldaia immensa. Piace perchè è buona. Con essa la gente si sazia e si scalda. PROVERBI. Io però preferisco la pasta al sugo del Trani sull'angolo di via Durini. Per dieci centesimi ne dànno un piattone. Qui costa quindici e la ghe tira nanca dree i sciavatt. È una pasta superiore alla vostra. Credo che la facciano venire direttamente da Napoli. Le donne che frequentano la Città di Trani sono rivendugliole, operaie che cenano coi mariti, trappe, vecchie che aprono i cancelli dei postriboli, ricoverate, prostitute che non hanno più nulla da prostituire e mendìche che sostano negli angoli delle vie o vicino alle chiese colla mano che aspetta. Prima di uscire diamo un'occhiata al " Tavolo dei signori ". Ah i " signori " del Trani come sono superbi! Non vogliono accorgersi che la pittocaglia dà loro di gomito. PROVERBI. Voi mi avete pagato un bicchiere di vino. Io vi invito a mangiare la pasta al sugo dall'altro Trani. Voglio provarvi che non ho mentito. XXV. I nemici della legge.

Il signor Paolo Locatelli, vecchio ispettore di Pubblica Sicurezza, nel suo libro Sorveglianti e Sorvegliati, ha scritto un lungo capitolo, per venirci a dire che gli agenti di Pubblica Sicurezza sono male organizzati e pessimamente retribuiti ; ma nel mostrarsi tenero per i suoi fidi, ha lasciato una lacuna. Imperdonabile in chi si dice addentro alle segrete cose e ha la pretesa di dirsi studioso dei problemi sociali. Ripareremo alla meglio noi con questo breve capitolo. Prima di prendere in mano la penna, ci siamo rivolte alcune domande. Gli agenti di Pubblica Sicurezza non escono quasi tutti dalle file della " porca plebe " ? Se sì, non meritano anch'essi quell'indulgenza che concediamo al ladro che ha rubato per satollarsi di pane? Gli agenti di P. S. sono o no anch'essi vittime di una società che li ha ciecamente trascinati a percuotere il proprio fratello di sventura? E se lo sono, perchè li malediremo e li additeremo all'esecrazione generale? Ed abbiamo subito risposto: Possiamo compiangere la loro sorte: possiamo perdonar loro domani se svestiti dell'uggiosa divisa, e anche stringer loro la mano. Ma oggi, oggi in cui, consci delle loro gesta, sono armati per ingiustamente nuocerci ; oggi in cui ci fredderebbero lungo la via, se lo comandassero i loro superiori, non possiamo, non dobbiamo che odiarli. Talvolta anche l'odio è una virtù. La plebe, senza aver letto Feuerbach, è atea, profondamente atea : perciò odia il dio venerato dai gaudenti, e non sa volgere la guancia sinistra al percuotitore della destra. È leale al punto che non sa dissimulare i suoi sentimenti, come non dissimula che non avrà mai della simpatia per i poliziotti, se non allorquando, contriti, rientreranno nel seno donde sono usciti o nel girone della legge. La legge non ci fa paura. Sono i pugni, i cazzotti, le strappate d'orecchio e le pedate dove capitano che ci fanno paura. Elevatevi al policeman e vi considereremo guardie necessarie alla vita cittadina. Nessuno in Inghilterra odia il policeman e il policeman non odia alcuno. Egli non è che l'esecutore degli ordini superiori - i quali sono ordini stampati. Chi li viola, paga. Supponete, per un momento, ch'egli venga in casa mia ad arrestarmi senza mandato. Credete ch'egli, anche se desiste, non venga punito ? Accidenti, la Grandebretagna sarebbe tutta sulla piattaforma a domandare giustizia se non lo si punisse. Chi avesse tentato di proteggerlo sarebbe destituito e cacciato sul banco degli accusati dalla opinione pubblica. Dunque si parlava della plebe. È logica? è coerente ? Non abbiamo mai visto mercenario più sleale e ributtante, cagnotto più feroce, sbirro, più sfrontato, sgherro più insolente, aguzzino più implacabile dell'agente di Pubblica Sicurezza. Gli è come l'alano : una volta sguinzagliato, si avventa sulla preda e non lo lascia che scorticata o semiviva nelle mani del padrone. Triste comparazione, ma vera! I poliziotti sono altrettanto feroci contro l'impotente, quanto pusilli verso chi può nuocer loro. Hanno qualcosa di comune col rettile: strisciano bavosamente ai piedi dei padroni, per riversare tutto il loro fiele su coloro che una stolta giustizia abbandona nelle loro mani. Ah! sono Veri eroi contro il pezzente! Con colui che domani può far udire la sua voce là ove tutto si puote, non fiatano; anzi, riverenti curvano la fronte non più atta al rossore, per spiegare poscia l'adunco artiglio sull'inerme, sul miserabile, sull'affamato ; su colui ' che cade miseramente sotto i colpi spietati senza punto querelarsi, anzi chiedendo spesso scusa. Querelarsi, abbiam detto ? Ma e con chi, se il ciencioso non è creduto ? Con chi, se monna giustizia gli ride satanicamente in faccia? Con chi, se vergognosamente lo si abbandona alla mercè magari di quelli stessi che lo hanno prima percosso, per farne poi il bersaglio delle loro ire codarde? Quante volte là, tre le mute pareti di una guardina, o nell'andito buio di un camerotto, hanno percosso un povero diavolo di giovane, solo perchè " noto " vagabondo ! Quante volte gli hanno vomitato sulla testa innocente le loro ingiurie, per il solo peccato di essere scamiciato!... Quante volte gli hanno soffocato in gola la parola che li accusava! Quante volte han fatto uso perfino dei ceppi (1) per macerargli la carne e strappargli, tra gli spasimi di un dolore eccessivo, confessioni di delitti che forse non aveva neppur sognato di commettere ! Il sangue ci si rimescola solo al pensarlo! Delitti impuniti e innocenti castigati ! Due pesi e due misure. Ecco la giustizia! Ma chi si cura di queste anomalie, di queste aperte e sfacciate violazioni? Chi mai si dà pensiero dei maltrattamenti fatti.... a chi? alla zavorra sociale !... I giudici, direte voi. Ah, sì! i giudici ! Sicuro, gli uomini della legge!... I centomila e più processi sono là a testimoniarlo. Ingenui ! Andate a udirli:Li vedrete accendersi, smaniarsi, buttar fuori parole da farvi rabbrividire, contro... chi?... contro i poveri pezzenti. È in quegli uomini lì, voi credete di aver trovato il giusto e gridate eureka! Vi siete ingannati. Le loro viscere sono verghe di ferro, il loro cuore non è che un pezzo di sughero, il loro sangue non è che acqua sporca che insudicia le vene. Il miserabile può stemperarsi in lagrime, genuflettersi, protestare, pregare, maledire, giurare.... Il codice ha sempre il sopravvento. È una storia dolorosa, piena di codardie per gli uni e di magnanimità per gli altri, che meriterebbe d'essere anch'essa svelata al popolo e sopratutto agli imbecilli che battono le mani ogni qualvolta la Giustizia ordina di staccare la testa dal busto di qualche " miserabile " o di inchiodargli la catena del galeotto.

(1) Leggansi i giornali di Sicilia e segnatamente quelli del mese di settembre 1878. Se il figlio di un Creso riceve per avventura uno sfregio da un questurino, tutto il mondo è a soqquadro : la stampa grida che è una vergogna ; il pubblico borghese si sbizzarrisce e schiamazza : " Le nostre vite saranno dunque d'ora innanzi in pericolo, e malconce dalle mani di un poliziotto! " E lì il questore a destituire il trasgressore della legge e i giudici a condannarlo. Muore invece nell'infermeria delle carceri un va-nu-pied, un ammonito, a sputi di sangue, per i pugni assestatigli dagli agenti di P. S.? È gran cosa se si viene a sapere " che quel tal miserabile, condannato quattordici volte dai tribunali per vagabondaggio, spirava ieri senza i conforti della religione, incompianto e impenitente. La società, si aggiunge, si è così liberata da un altro pericolosissimo malvivente. " Sì! la società alfine è libera! Allargate pure i polmoni : colui se n'è andato incompianto, è vero ; ma la sua morte ne ha fecondati almeno tre altri che, se non lo vendicheranno degli sfregi e degli insulti che gli avete fatto, moltiplicheranno la specie. Guardate la statistica e vedrete che i " malviventi " crescono ogni giorno. Di chi la colpa? Chi ci sa dire quanti si sono fatti malvagi con l'ultima lagrima strappata loro dallo scapaccione di un tracotante e svergognato poliziotto? Chi ci sa dire quanti, da esseri innocui, si son fatti audaci assassini, solo perchè hanno esperimentato che innanzi alla giustizia essi hanno sempre torto, specie se hanno ragione? Il signor Locatelli nello stesso libro scrive, che " gli oziosi e i vagabondi non portano quasi mai rancore, nè agli agenti di P. S. che li traducono quasi con periodica regolarità in arresto, nè all'ufficiale di polizia che li denuncia, nè al giudice che li condanna. " Se è vero, come crediamo, perchè si percuotono o si lasciano impunemente percuotere? Perchè si commettono - o si lasciano commettere - tante sevizie sul corpo di quei poveri derelitti stremati dalla miseria ? Nè ci si venga a dire che esageriamo. Abbiamo visto coi nostri occhi ripetere queste brutalità più d'una volta ; le abbiamo apprese da molti che appartengono al novero di coloro che si lasciano tradurre senza rancore " quasi periodicamente " nella carcere; e, quando non bastasse, abbiamo noi pure, che scriviamo, subìto alcune volte gli oltraggi dei poliziotti. Senza qui ricordare fatti che farebbero rabbrividire per il modo con cui si faceva la giustizia ai beati tempi in cui spadroneggiava la destra; senza sfogliare quello strenuo campione della democrazia, che fu il Gazzettino Rosa, il quale ci fornirebbe ampia materia per convalidare quanto diciamo; narreremo un episodio che ha in sè qualcosa del comico. Nel mese di febbraio dell'anno scorso, verso mezzanotte, un nostro amico - mezzo poeta se vogliamo, ma buon giovine - avvoltolato nel suo bismark, passeggiava lungo il bastione di Porta Romana, fumando un buonissimo londres. Immerso in non sappiamo quali pensieri, si sente a un tratto preso alle braccia colla domanda : Dove andate? - A spasso, risponde egli un po' spaventato. O chi siete ? E senz'altre interrogazioni si danno a sbottonargli il bismark e a frugargli sulla persona. - Ma infine chi siete ? - Non conoscete la nostra divisa? - Ah, respiro !... vi credevo due ladri, tanto il modo con cui agguantate i pacifici cittadini è strano. La parola ladri dette al naso ai due agenti, che, tra parentesi, erano un po' brilli. E senz'altro aggiungere gli mettono le lòro brave castagnóle, e poi lo conducono brutalmente e con parole vituperevoli alla sezione di questura di Porta Romana. Là gli si domanda nome, cognome, patria, condizione, ecc., e poi lo si lascia in libertà con delle paternali. Allora l'amico nostro indignato risponde ai marrani che l' indomani, per mezzo della stampa, avrebbe fatto sapere il contegno delle guardie. La parola stampa fece venir loro i brividi. Immaginatevi che l'appuntato, che lo aveva così bistrattato, era nientemeno che quello stesso che aveva percosso il povero mendicante fuori di Porta Magenta ! Ma qui non è tutto ! L'amico nostro - eccellente di cuore - aveva promesso di perdonare l'offesa per non nuocere alla carriera di quello sgherro della peggidr specie ; ma lui invece - incredibile a dirsi! - lo accusava la mattina dopo dinanzi al delegato nientemeno che di tentato suicidio! Figurarsi! Con quella frescura che tagliava la faccia e senz'alcun'arma nè di taglio, nè di fuoco, che voglia doveva avere quel pazzo di nostro amico di passare a miglior vita ! È un'inezia! Ma se si fa così con coloro che vestono ammodo e che non hanno mai torto un capello a un agente; che

Milano sconosciuta e Milano moderna.-Puntata 31. li hanno sempre lasciati camminare per la loro via, come tratteranno gli " oziosi, i vagabondi, ecc. "? La civiltà ha cancellato il barbaro articolo che lasciava legalmente bastonare fino a morte i delinquenti: i questori invece dovrebbero mozzare le mani nefarie che percuotono inutilmente e illegalmente coloro che muoiono di fame. È una legge di compensazione. Essi avrebbero così ben meritato della patria. Ma volete che vi documenti la nequizia dei questurini con un ricordo personale ? Una sera andai al veglione al Carcano col mio sarto e degli amici. Uscii cogli altri per la cena, e mi fermai per un bisogno urgente nel cortiluccio dell' osteria vicina, col paletot nuovo e non ancora pagato sulle spalle. Tre malandrini me lo rubarono colla minaccia di accoltellarmi. Derubato, andai alla sezione di Porta Romana e poi a quella di Santa Margherita. Dovetti smetterla. I questurini mi avevano denunciato come un finto derubato! Nè il mio sarto, nè i miei amici riuscirono a convincerli del contrario! XXVI. Alla visita.

il faut, dans quelques circonstances, voir l'espèce humaine dans tout sa laideur. PAREXT- Due II ATELET.

Mentre cadeva un'acquerugiola minuta, minuta, che penetrava fino alle ossa di chi per avventura non possedeva un ombrello, noi gironzavamo un giorno per via Lanzone, in quella stessa via dove Lanzone da Corte, nel 1042, si levava col popolo contro Ariberto e i patrizi che opprimevano la città. Stanchi di passeggiare in su e in giù entrammo nel caffè del Lauro. - Una tazza. Non avevamo ancora terminata la frase, che un'asta di fanciulla assai leggiadra si faceva innanzi accompagnata da una donna che noi, per il modesto abbigliamento, prendemmo per sua madre. - Due tazze, disse la fanciulla con una voce che ci scese in fondo all'anima. Centellinavamo il pseudo-moka e guardavamo. Aveva un bel volume di capelli biondi che le scendeva capricciosamente sulle spalle, un occhio glauco ed espressivo, una guancia tinta di un rosa pallido, due labbra che sembravano aspettassero i baci e delle bianche manine dalle dita affusolate. Curve sulla fumante bevanda avevano l'aria di due monache. Il nostro cuore palpitava... forse per quella segreta corrispondenza che c'è tra vivo e vivo... L'orologio della chiesa di Sant'Agostino suonava intanto le dieci e mezzo. Le donne a quel suono si scossero. Pagarono ed uscirono. Le seguimmo trepidanti come Alfonso Karr seguì la celebre perduta. Ah ! per tutti i demonii, avremmo voluto cadere tramortiti, fulminati ! Non potevamo credere a noi stessi. Quelle due donne erano l'una prostituta, l'altra ruffiana. La fanciulla si faceva accompagnare alla visita. Quella casa semi-circolare, un tempo ricovero di pie monachelle, che ci aveva strappati a una cara illusione, la guardavamo con occhio truce. Se in quell'istante fosse crollata e sotto le macerie avesse seppellite tutte quelle vergogne che v'abitano, noi cinicamente ci saremmo, come Mario a Cartagine, assisi sulle sue rovine a fumare un sigaro... di Brissago. In quel luogo e in quell'ora c'era da impazzire ! Vedevi il sifilicomio e la scuola femminile professionale - l'uno rimpetto all'altra. L'istruzione e la prostituzione che si davano del gomito. Le perdute scantonavano con le scolare... destinate a crescere tante Cornelie... Esempio di moralità... borghese ! Era uno spettacolo che ci faceva sentire tutto il peso della ingiustizia sociale. Ci sfilavano innanzi donne di tutte le età e di tutte le altezze. Accanto alla perduta quindicenne, la perduta di cinquant'anni. Accanto a certe linee ancora appariscenti, la faccia color mattone, su cui l'uomo sembrava avesse percosso tre volte un grosso chiodo per fare due buchi sotto la fronte ed un taglio più giù per la bocca. La vecchia e la giovane, la magra e la grassa, la bella e la brutta, la guercia e la zoppa, la gobba e la sdentata! Spaventevole quadro, ma vero ! Vedevi lo zoccolo e lo stivalino di satin, la calza candida che sapeva di bucato e il piede nudo, la veste di seta con lo strascico e quella di cotone rigato, che non copriva più in giù del ginocchio. Sono le dieci e tre quarti. Manca ancora un quarto d'ora alla visita. Entriamo nel vicino negozio di tabacco. È una bottega larga cinque metri e lunga sette, piena, stipata di donne venderecce. Il carname è quasi tutto in piedi col fatale libretto nella destra (1), che chiacchiera, fuma e trinca la deliziosa bevanda. È il campo dove quell'esercito bivaccamartedì e i venerdì d'ogni settimana. All'ingiro ci sono tre tavolini. Il primo è occupato da due giovani che divorano a due palmenti un po' di stracchino di Gorgonzola con due micchette. -Che sgajosa (fame) che gh'avii ! esclama una delle compagne che le vede manducare. -Ej lu, duu quintitt de ,scabi (vino)! grida per tutta risposta una delle amiche. L'altro è occupato da quattro donne tra le quali una in istato molto interessante. .... vediamo giungere un calesse.... - Quanti di gh'é temp, voj ? - Cinq o sés, risponde quella dall'adipe ridondante. - Gh'é chi el sur Tajetti ! si ode rimbombare in quel pandemoni uni della carne sfruttata. E tutte le donne si avviarono alla casa delle due porticine. La prima dà l'ingresso; la seconda, l'uscita. Avviene però talvolta che talune entrino senza poterne uscire... Intanto che l'Esculapio con la lente all'occhio sta scrutando in quelle orride tane, stagnate spesse volte con la pietra infernale, vediamo giungere un calesse carico di merce. Erano le tre uscite dall'antro impudico del vicolo Marcellino. Cantavano come se andassero a gozzovigliare : il colore, il taglio, la scelta dei vestiti,


(1) S'intende che per ora non si parla che delle librettate. Delle slibrettate parleremo poi. e il modo di indossarli, dicevano addirittura il loro nome. L'una di esse, la più brilla, aveva le maniche rimboccate come una lavapiatti : lasciava così scorgere sul braccio destro una bella mammola tatuata con tale una finezza artistica, come avviene di vederne sui corpi delle mongole. Mezz'ora dopo uscivano a due a tre come le pecorelle dal chiuso. E' lì in istrada si baciavano, si stringevano la mano, e petto contro petto, e si salutavano con una tenerezza che commoveva. In quell' arrivederci „ c'era lo strazio di chi sta per avventurarsi per ignoti lidi. Povere fanciulle ! Esse non hanno più un cane che pensi a loro all'infuori della legge, pronta a punirle, e del regolamento per istrappar loro il denaro dell'infame mercato ! Padri e madri hanno chiuso le braccia e le hanno respinte ; fratelli e sorelle non ricordano i loro nomi ; uomini e donne non hanno per esse che vituperio ! Oh ! chi può mai soffrire, senza turbamento e senza spavento, il generale oblìo di tutta una società, e più ancora il suo odio, il suo disprezzo e il suo disdegno ! Chi può rimanere imperturbabile in quel va e vieni di persone che guardano e sorridono e susurrano parole da far arrossire un agente di P. S. ? Amatevi dunque fra voi, o sfortunate ! Forse verrà giorno in cui potrete spezzare l'abbominevole catena che l'incivilita società del XIX secolo vi ha ribadita al piede. Forse verrà l'ora in cui potrete abbandonare per sempre gli sporchi asili ove vi hanno inesorabilmente rinchiuse per servire di sfogo alla libidine degli uomini. La generazione sofferente, in quell'ora suprema, sarà con voi ! Un caso strano avvenne mentre assistevamo a quella dolorosa processione. Dalla seconda porticina uscì una prostituta orrida che poteva avere una quarantina d'anni. Il suo occhio felino atterriva : i suoi capelli impiastricciati sulla fronte e fermati da un pettine arcuato e filettato da una striscia di pacfong, le davano l'aria d'una delle più svergognate sgualdrine. In questo mentre, due cosidette oneste passavano, sfiorando la loro sottana e bisbigliando : " l'è una v.... i Quel contatto e quella frase produssero l'effetto di un ferro rovente messo sul corpo piagato d'un paziente. La perduta buttava a terra il libretto della visita, giravoltava lo sguardo e come una tigre si scaraventava sulle disgraziate. Parent-Duchatelet, che è l'uomo più autorevole in questa materia, dice infatti che la vista delle madri e delle donne oneste è, per le prostitute insopportabile, così che talvolta si compiacciono di insultarle, per vendicarsi, in qualche maniera, del disprezzo di cui sono fatte segno. S'immagini questa che fu invece provocata a sangue ! I capelli posticci in un attimo volarono all'aria : le vesti venivano lacerate giù senza compassione: le facce graffiate, i petti irrigati da strisce di sangue. Tre corpi a terra si rotolavano, si schiacciavano e si sprofondavano le unghie nelle carni. Era una lotta disperata, disuguale, feroce : una contro due. Finalmente sbucarono dal sifilicomio due agenti di P. S: in borghese e divisero le lionesse che si addentavano. La perduta allora si mise a gridare come un'ossessa : - Lasciatemi ! lasciatemi ! Io non ho fatto nulla ; esse mi hanno atrocemente insultata : mi hanno detto v...., sapete ? lasciatemi dunque, io debbo quest'oggi lavorare, ho una figlia, lo sapete bene... E siccome non c'era punto il signor Madeleine, l'acciuffarono brutalmente per le braccia e la tradussero agli arresti. In un caso consimile, l'amico di Léon Cladel, le sergent de ville, Antoine Rouget, celui qui n'est pas méchant, diede mano al fucile e gridò : Un branlebas ! un révolution ! Approfittammo del tafferuglio e raccogliemmo il libretto lasciato cadere dalla perduta. Leggemmo : " Ufficio sanitario per la sorveglianza della prostituzione N. ***d'iscrizione. " Libretto appartenente a.... delli furono.... d'anni 25 (si noti che il libretto portava la data del 4 luglio 1866, giorno in cui fece la sua entrata nel postribolo di via Ciovasso), nativa di Milano, provincia di Milano, di condizione già tessitrice. " Connotati : " Statura ordinaria - corporatura regolare - capelli neri-ciglia nere - fronte bassa - occhi castani- naso ordinario - bocca simile - mento ovale - viso simile - colorito naturale- segni particolari un piccolo neo sulla guancia sinistra.

« Dato a Milano, il 4 luglio 1866. « Firmalo per il Direttore « BARENGHI ».

Dal 1866 al 1878 quella giovane si era metamorfosata. Essa non aveva più nulla di regolare, nulla di ovale. Era un mostruoso faccione su cui la fame e la sifilide avevano lasciato solchi profondissimi. Oh, ma che importa ? La société est vengée, la morale est satisfaite ! ! XXVII Il processo Giorio.

Una sera mi trovavo con dei signori che conoscono intimamente l'organizzazione poliziesca. Io dicevo loro che la polizia si era rivelata più nera di quello che supponevo. Il terrore è entrato in tutte le classi. La questura è considerata un'officina di delitti e il questurino un criminale. Chi è trascinato o spinto nel suo palazzo si abbandona alla disperazione come chi è alle prese con una banda di malandrini. Gli innocenti vi entrano più spaventati dei malvagi e ne escono indignati, nauseati, storditi, agitando le braccia come se fossero stati all'inferno. Vi parlano di maltrattamenti, di sputi in faccia, di calci nel ventre e nel sedere, di ditonate nei fianchi e di manrovesci che dislocano le mascelle. Una volta si credeva che gli agenti della forza pubblica non si servissero della giustizia sommaria che con la feccia e coi birboni. Adesso si è convinti che si percuotono anche i galantuomini. - La colpa massima è nel pubblico. Il pubblico, preso in generale, non simpatizza per questo sgraziato agente del servizio pubblico. Non lo può sofffire, Vede in lui un nemico implacabile. Mentalmente o sottovoce o magari sulla faccia lo carica di tutti i nomi ignominiosi, la chiama poliziotto, mardocheo, cagnotto,

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 32. aguzzino, sbirro, ciappa-ciappa, mortodifame, canaglia in montura, e che so io. Non è poi mica di stoppa. È un uomo anche lui come gli altri. Questa è una delle ragioni per cui la caserma degli agenti di P. S. è piena di razzapaglia e di feccia. - Dunque lo ammettete? - Lo ammetto. Chi volete che indossi la divisa del questurino in un ambiente così ostile ? Non è che colui che ha trovato chiuso tutti gli usci e Che non sa più cosa diavolo fare o che è così abbrutito dalla miseria e dall'ignoranza da non sapere più distinguere il pane di mistura dal pane bianco. La sua paga è un'altra ragione che tiene lontano la persona educata. Tre lire e centesimi per un uomo che deve stare in piedi dieci o dodici ore sulle ventiquattro e pattugliare di giorno e di notte, quando nevica e quando piove, quando si gela e quando si cuoce, non bastano. E poi sono tre lire e centesimi ? Domandatelo ai 330 agenti di Milano o ai 30.000 d'Italia. Essi vi diranno che pagato tutto non rimangono loro che poche palanche per qualche grappino quando sono di servizio nelle ore mattutine e per qualche quintino e qualche pipata di tabacco quando sono in caserma. Un po' l'odio cittadino e un po' la severità della disciplina hanno tòlto loro il diritto di andare a bere dove vogliono e di fumare per le vie, come qualunque altro cittadino, quando non sono di servizio ! Se aggiungete che non c'è donna la quale non sia una sfiancata della prostituzione, che vorrebbe parlare o andare assieme a un questurino, voi capirete perchè questo martire della questione sociale è qualche volta burbanzoso, villano e manesco. Non c'è che il santo che potrebbe essere migliore. - La loro condizione economica . e disciplinare è nelle loro mani. Se vogliono migliorarla devono considerarsi dei salariati e imitare i policemen. I policemen, assistendo ai meetings operai come spettatori, hanno imparato l'organizzazione nella quale lo schiavo diventa uomo. Si organizzino, domandino collettivamente e vadano sul lastrico tutti assieme ogni volta che i rifiuti superiori sembrano loro ingiusti. Il pubblico non può essere interessato nel benessere di una classe di rivoltosi, di una classe che si è sottratta al suo controllo e alla legge comune, di una classe che sembra non abbia per ideale che de vous ligoter et vous passerà tabac - come ai tempi di Camescasse e Gigot - due prefetti parigini scacciati dall'opinione pubblica come rappresentanti di una istituzione che incaricata de poursuivre les voleurs, VOLAIT ; incaricata di mantenere la morale pubblica, se livrait aux pratiques les plus immorales. La questione è più alta. Non si tratta più di individui. Il pubblico vede che il cambiamento del personale non giova alla sicurezza pubblica. Santagostino non è migliore di Ballabio e Rastelli vale Sernicoli. Un questore non è meno impotente dell'altro. È la solidarietà degli abusi e dei crimini che bisogna distruggere. E voi non potete distruggerla, diceva benissimo Yves Guyot, quando denunciava i delitti della polizia parigina nella Lanterne, che rovesciandone l'istituzione - un'istituzione inzuppata del sangue delle vittime, popolata di ricordi spaventosi, entrata nella coscienza pubblica come un edificio abbominevole. Non ho che spigolare il processo Giorio per suscitare dell'orrore anche in loro signori che la difendono. Giorio era un veronese laureato in legge, di 28 anni, che dalla Redazione dello Spettatore cattolico o dell'Iride cattolica, era passato alunno nella questura. I suoi Ricordi di questura del 1882 vennero dichiarati dal questore Rastelli " un ammasso di menzogne „. Proprio come i Carnescasse, i Gigot e gli Andrieux avevano dichiarato " ammassi di menzogne „ le rivelazioni di Guyot che hanno messo sottosopra il mondo politico e trascinato nel limaccio delle rivelazioni prefetti e ministri. Ho detto che spigolo. Dovrei ristamparlo. Ma è troppo lungo. Sentite : Entra la signora Giacinta Panighi Bonfanti, albergatrice dal 1879 al 1880. PRESIDENTE. È vero che si rubava nella sua osteria ? TESTE. Altro che vero. In casa mia si trovavano mancanti più volte bastoni, ombrelli, ombrellini ed altri oggetti di mia proprietà. I miei sospetti caddero sulla famiglia Origgi che ci stava vicino di casa. Denunziai il fatto. Il delegato Campioni, il maresciallo Ceriotti e la guardia Scarponi fecero una perquisizione nella casa degli Origgi. Io li accompagnavo. Nella camera da letto trovarono circa quaranta capi tra bastoni, ombrelle e ombrellini, tutta roba ch'era stata portata via ai miei avventori. Trovarono anche un velo che era mio. Malgrado le mie dichiarazioni non vollero sequestrare nulla. L'Origgi e la moglie vennero arrestati. La moglie fu data in custodia al maresciallo Luigi Eusebio, il quale mi disse di non andare alla questura. La Zerbi, moglie dell' Origgi, la sera di quel giorno, accompagnata dalla moglie dell'Eusebio, ritornò a casa sua. E mi avevano assicurato ch'era stata arrestata dietro mandato di cattura! Ne parlai all'ispettore Baggi ed egli mi rispose: L'è una truffai del maresciallo; ha ragione.Il maresciallo Eusebio che incontrai in via Canonica mi consigliò di non andare al Tribunale. " Il Tribunale dà sempre torto ai poveri e ragione ai ricchi. L'Origgi è ricco e il Tribunale el se volta dent in di bigliett de mila (ilarità). La si ricorda della causa della Stazione centrale ? I poveri li hanno condannati e i ricchi li hanno lasciati andare. „ PRESIDENTE. Lei dunque è proprio convinta che il maresciallo abbia preso dei denari? TESTE. Sicuro ! Gli Origgi sono ricchi; si diceva che gli avessero offerto 70.000 lire. PRESIDENTE. Oh molto meno ! La Zerbi, come avete veduto, venne condannata. TESTE. Ma gli altri sono fuori. Avv. PRATI (della difesa). Ella ebbe dei colloquii coll'ex guardia Scarponi ? TESTE. Si, lo Scarponi mi disse che i suoi superiori volevano che dichiarasse d'aver visto niente nella perquisizione. E siccome non voleva giurare il falso, venne schiaffeggiato dal maresciallo Ce- riotti. Andò a lamentarsi coi superiori e venne condannato a dodici giorni dí sala di disciplina. Protestò contro la punizione e lo si mandò in prigione per 70 giorni. Dovette, come si capisce, rinunciare alla carriera. Uscito dal corpo delle guardie si voleva che se ne andasse anche da Milano. Il maresciallo Ceriotti non aveva abbandonato la sua preda. Egli gli stava continuamente ai panni. Lo Scarponi andò dal procuratore del re a domandare protezione. La famiglia che aveva preso lo Scarponi come domestico dovette licenziarlo, per non essere più molestata dall'andirivieni degli agenti di P. S. In una parola le guardie della Sezione VII lo volevano morto o via di Milano. Dopo essere stato percosso mille volte con pugn nel venter e nel stomegh, il povero giovine è morto. AVVOCATO DELLA DIFESA. È vero che ingiunsero ai padroni dello Scarponi di mandarlo via per poterlo ammonire come ozioso e vagabondo ? TESTE. È vero. Citi, signor presidente, la sua padrona. PRESIDENTE. Che giovine era lo Scarponi? TESTE. Un ottimo giovine. AVVOCATO DELLA DIFESA. Possiede dei beni il maresciallo Eusebio ? TESTE. Una casa fuori di porta Magenta all'Isola Caprera, finita da un anno, e una casa in via Tre Alberghi ch'egli ha venduto a un suo cognato. Si dice che valgano 150.000 lire. Il questore Rastelli sa nulla di nulla. Egli risponde che non ha sentito dell'Eusebio che delle lodi. QUESTORE. Mi meraviglio che lo Scarponi non abbia mai reclamato contro i maltrattamenti. Il maresciallo Eusebio fu messo a riposo con pensione intiera per i lodevoli servigi resi allo Stato. In quanto alla sua sostanza ho sentito che ha guadagnato tre terni al lotto; (Oh ! Oh! risa). GIORIO (alla teste). Il brigadiere Rigamonti aveva per amante una certa Canetta che stava alla Cagnola. Ora sono morti am- bidue. È vero che la casa della Canetta, ricettacolo notorio di roba rubata, non venne mai perquisita? TESTE. È vero. Il Rigamonti sfoggiava orologi e catenelle d'oro, brillanti e biancheria finissima. Ercole Bonfana, ortolano, già albergatore, marito della teste, conferma la deposizione della moglie. TESTE. Nella casa dell'Origgi c'eran tanti bastoni, ombrelli, ombrellini e ventagli de mett su bottega. La moglie dell'Origgi, la Zerbi, era in arresto e il maresciallo l'ha lasciata andare. Lo Scarponi l'ha sentita offrire molte migliaia di lire per lasciarla andare, una somma spropositata. PRESIDENTE. Però la madre è stata condannata. TESTE. L'Origgi diceva: salvemm mi ! Queste parole vennero sentite dallo Scarponi 'in presenza del maresciallo e di sua moglie. In quanto ai bastoni e agli ombrelli vennero fatti scappare, tanto è vero che nel, processo non figurarono come corpo di reato. AVVOCATO DELLA DIFESA. Lo Scarponi mosse querela per questi maltrattamenti ? TESTE. Sì, al prefetto. PRESIDENTE (al questore). Ha sentito dire qualche cosa lei di queste chiacchiere ? QUESTORE. Sì, ma non ci ho creduto. Il teste Arturo Berri, ex usciere della pretura del mandamento VII di Milano, aggiunse che uscito dal corpo delle guardie, il povero Nicola Scarponi - il quale era un contadino di 28 anni, di S. Severino, Macerata, morto ai Fatebenefratelli - andò a dormire dalla donna Prada. — Gli agenti per perseguitarlo anche là, portarono via due letti della casa, dopo avere fatto aprire l'uscio con un grimaldello. Si fece il processo : il pretesto delle guardie era che il figlio e il marito della Prada volevano andar via da quella casa, ove la madre e la moglie aveva brutte relazioni collo Scarponi. Il maresciallo Ceriotti si fece dare 20 lire dal Prada per avere prestato mano a portar via i letti. Io cercai di fare il processo, ma si finì con un non luogo a procedere. Il maresciallo nega di avere preso le 20 lire. Un giorno il Berri parla col Ceriotti delle " cedole di gente che aveva gridato la festa e simili ". - Il maresciallo Ceriotti mi disse : " Ma con questi schiamazzi si è sempre da capo ! Se tutti facessero come me ! Vedete questo qui ? " Era un randello. " Io lo meno a dritta e sinistra sugli schiamazzatori e li castigo alla spiccia. Se qualcuno si rivolta, lo metto a posto con questi pugni. Un volta incontrai una compagnia di schiamazzatori in borgo degli Ortolani. Le andai in mezzo e patatic patatac. Ne diedi loro fin che ho potuto. (Rumore nel pubblico). In un minuto non c'era più nessuno. Un'altra volta trovai un resistente. Lo trascinammo in cella e gli facemmo gridare aiuti ! per un pezzo. " Io lo interruppi e gli domandai: Ma non avete paura che vi si processi ? " Oh (mi rispose ridendo) sappiamo il mestiere. Se fet on verbaletto nel quale l'arrestato riconosce che era ubriaco o che lo abbiamo sorpreso in una posizione sospetta, che non ha niente a dire e che si trova pentito di quello che ha fatto. Se firma, bene, se no, lo torniamo a metter dentro finchè firma. " Il Ceriotti nega tutto. Alessandro Crotti fece questa dichiarazione : - Una notte ritornavo a casa, alla Cagnola. Sulla strada incontrai le guardie che mi arrestarono,. ,mi misero le manette, mi condussero alla caserma di San Simpliciano, mi distesero sul tavolazzo e mi percossero col calcio del revolver. PRESIDENTE. Vi siete opposto all'arresto? TESTE. Nossignore. Non ho detto che : È forse un male ritornare alla Cagnola dopo mezzanotte ? Basso Costante di Venezia depone che il maresciallo Crescini - stato mandato via gliene fece di cotte e di crude. - Quello che ho sofferto mi per quello sgherro fa tremare il cuore. Un giorno, per una cosa da gnente, una guardia m'ha arrestato come sospetto di furto e messo in preson. Tre anni dopo mi è capitato lo stesso. Ho dovuto andar ramengo dal mio paese perchè non trovavo più lavoro. PRESIDENTE. Basta basta ! Il teste Giuseppe Giustina, redattore della Cronaca dei Tribunali che esce a Torino, disse che il libro del Giorio non aveva nè il merito della originalità, nè quello della novità. Basti accennare i processi Bignami, Cipolla, Frigeri, Curletto notorii a Torino. Dai dibattimenti emersero lampanti delitti mostruosi, concussioni, prevaricazioni, falsificazioni, associazioni di malfattori. AVVOCATO DELLA DIFESA. È vero che tre confidenti e un delegato di P. S. si dividevano tra loro il bottino ? TESTE. Sì, tutto ciò a Torino è conosciutissimo. GIORIO. Citai il signor avvocato Maccalusi perché deve riferire sulle gesta compiute dalla questura in Sicilia. Colà gli agenti di P. S. hanno dato da mangiare il braccio della madre morta, arrostito, ad un figlio. (Grida d'orrore nel pubblico). Ci fu lotta tra il presidente e gli avvocati della difesa. Il Giorio aveva narrato un fatto incredibile. Che degli agenti in Sicilia avevano arrestato un giovine distinto. Non appena nel camerotto lo svestirono, lo condussero alla latrina e là gli cacciarono la testa nell'orifizio sporco di escrementi, dandogli pugni e calci. Era citato come testimonio l'avvocato Maccalusi. Ma il presidente gli contese la parola dicendo che doveva deporre su questo e non su altri fatti. TESTE. Vi sono fatti gravissimi pubblicati da me in volumi ed esposti anche dall'onorevole Tajani in Parlamento. Ma ve ne sono di peggiori. Vi sono fatti di avere strappati pezzi di carne e di averne dati a detenuti, come fossero di parenti per farli confessare. PRESIDENTE. Basta ! basta ! Ella non deve parlare che del Lumia. Ha sentito che questo giovine sia stato ucciso ? MACCALUSI. Io ho sentito che furono uccisi in mille modi. PRESIDENTE. Un momento ! Che a questo giovine fu ficcata la testa nell'orifizio di una ritirata ? MACCALUSI. Facilissimo ! (Sensazione). PRESIDENTE. Che fu battuto e quindi morì. MACCALUSI. Altro che ! c'è di peggio. C'è stato un delegato di P. S. (l'ha detto l'onorevole Tajani alla Camera) che era accusato di 34 reati fra furti e assassinii (rumori e ribrezzo nel pubblico) il governo lo ha fatto cavaliere ! PRESIDENTE (infuriato). Non posso permetterle di dire che il governo faccia cavaliere uno che ha commesso 34 delitti ! MACCALUSI. Ma è un fatto ! Un fatto esposto anche in Parlamento. Fu fatto cavaliere. PRESIDENTE. È un'ingiuria ! PUBBLICO MINISTERO. Domando sia iscritto a verbale quanto ha detto il teste. MACCALUSI. Lo inscriva pure. Sì, aveva 34 imputazioni ! Anzi mi ricordo anche il nome. È un tale di Corleone. Si chiama Catinella. Ho qui il processo contro di lui. La scena che commosse il pubblico fu quando si vide entrare, accompagnato dai carabinieri, il teste Callura. Era un giovine sbarbato, pallido, stracciato come un ladro. Nessuno capiva perchè i regolamenti carcerarii di Girgenti non avevano permesso di buttargli addosso un pastrano qualunque per impedirgli di morire di freddo. Indossava un vestito di tela a brandelli. PRESIDENTE. Per qual motivo siete stato imprigionato ? CALLURA. Per resistenza alla forza. PRESIDENTE. A 'chi ? CALLURA. Ai carabinieri. PRESIDENTE. Siete stato condannato o siete sotto processo ? CALLURA. Sono sotto processo. PRESIDENTE. È la prima volta ? CALLURA. Sissignore.

Milano sconosciuta e Milano moderna. Puntata 33. PRESIDENTE. Siete stato maltrattato in carcere ? CALLURA. Sissignore, dalle guardie, quando m'arrestarono. PRESIDENTE. E chi sono queste guardie ? CALLURA. I carabinieri. Il teste non seppe dir altro. Egli era mezzo ebete e mezzo assiderato. Provatevi a venire da Girgenti ammanettato, con una pagnottella in tasca, coperto di otto oncie di cenci in pieno gennaio ! Nel libro del Giorio si leggeva : " Un tabaccaio, rincasando, trovò scassinato tutte le serrature della sua abitazione, rotti i mobili e portato via il bello e buono che aveva. Chi mai poteva essere il colpevole ?... Il tabaccaio corre alla questura, fa la sua denuncia e dà schiarimenti ai delegati e. alle guardie. Immaginiamoci lo zelo di questa brava gente, cui pungeva lo stimolo di gloria e desiderio di gratificazione. Si fruga, si rumina, si studia, si misura, si pena e si ripensa, e si perquisiscono tutte le abitazioni degli innocenti vicini. Nulla si trova. La questura non s'accascia al risultato negativo delle ricerche e le continua con zelo. Tutto ad un tratto cessa ogni cosa. Che era avvenuto ? Il ladro era la sullodata spia politica ! Senza denunce o prigionia, ricevette un buon gruzzolo di danaro e allontanato immediatamente. Il tabaccaio seppe la cosa, reclamò, supplicò, pregò ; ma tutto fu inutile : dovette rassegnarsi al duro fato e restar con le beffe di vedere le sue spoglie in mano d'una spia...! " Il presidente vuole sapere come il Giorio può giustificare il brano incriminato. GIORIO. Lo domandi al questore. Il questore sa tutto. PRESIDENTE. Voglio saperlo da lei ! GIORIO. La spia è certo Renzi, che si spacciava per liberale. Tutti sanno che venne mandato via da Milano con un gruzzolo di danari. Si leggono gli atti di causa sul furto del tabaccaio e si sente la deposizione del questore : " Non ho dato danaro al Renzi ne ad altri. Fu arrestato per ordine mio e tradotto a Venezia. " GIORIO. Vorrei sapere dal signor questore se è vero il fatto delle bombe. RASTELLI. Che c'entro io se è vero o non è vero ! Io ho ricevuto un ordine telegrafico di fare arrestare il Renzi e ho obbedito. FRANCESCO MARIANI, il tabaccaio vittima del furto. Io affittava una camera a certo Renzi, il quale conviveva con una donna che non mi piaceva. Il Renzi non pagava mai l'affitto. Gli dissi di andar via. Lui invece mi domandò se volevo vendergli la mobilia perchè intendeva metter casa. Mi diede appuntamento per la sera, alle 10, nella mia bottega, per discuterne. Vi giunse infatti trafelato, ma per dirmi che non aveva tempo perchè la sua donna aveva una emorragia. Non appena io e mia moglie giungiamo a casa, la vicina ci dice : " Come non erano in casa ? "" In casa? Eravamo in bottega ". Entrati capimmo subito. La nostra abitazione era tutta sossopra. Tutto era stato aperto e frugato. Mia moglie grida, la vicina corre, io m'accorgo che hanno rubato i gioielli di mia moglie. Non penso ad altro che alle guardie. Viene l'ispettore e subito dopo sale anche il Renzi, che era il ladro. Si mise a descrivere all'ispettore i gioielli, come se si fosse trattato di roba sua e a dirci parole commoventi. " Me ne dispiace tanto e poi tanto! „ Di fuori, sulla scala, diceva invece che io fingeva, che non era vero che mi avevano rubato. Io che non doveva un centesimo, ad alcuno, perché avrei finto un furto? Alla questura erano tutti persuasi che il Renzi era il ladro. Ma soggiungevano che l'aveva fatta bene ! che l'aveva fatta franca! PRESIDENTE. Non hanno cercato i ladri ? MARIANI. Non hanno cercato niente. Ci devono essere stati degli ordini superiori. PRESIDENTE. Basta, allora può andare. MARIANI. Un momento. Adesso devo dire perchè so che il Renzi era il ladro. In via Pasquirolo tutti dicevano che il furto era simulato e questo fu pubblicato anche nel giornale di via Soncino Merati, dove . il Renzi, ch'era il ladro, faceva da correttore. Mia moglie quando sentì che eravamo accusati di simulazione, disse che il ladro era il Renzi. Chiamata dall'ispettore, dichiarò che il Renzi era il ladro. L'ispettore le disse: " Lei è pregata a non parlare del suo furto. " (Sensazione). Essa rispose : " Io ne parlerò fin che avrò fiato ! " RASTELLI. Se avesse detto a me di quel furto, io avrei fatto.... MARIANI. Noi siamo povera gente ignorante e crediamo che quando si va da un'autorità si possa ottenere giustizia. (Risate). Avv. PRATI. Sa il signor questore se il Renzi era una spia della questura? RASTELLI (con ironia questurinesca). Queste sono cose che non posso dire. (Risate malcontenute). roi sono due anni che non gli parlo. I lettori non dimentichino che il Rastelli non ha negato al Renzi la qualifica di spia. MARIANI. Quando fu arrestato per l'affare delle bombe tutti i giornali hanno annunciato il Renzi come la spia del supposto complotto. Si diceva che era salariato dalla questura. Fu allora che dissi : ecco il perchè non l'hanno arrestato e il perchè io sono stato accusato di furto simulato. Moglie e inquilini ribadiscono le affermazioni del Mariani con nuovi particolari. Siamo a Udine. La vittima è Luccardi Vincenzo, impiegato all'Intendenza di Finanza e direttore del periodico umoristico il Fole. L'accusa è nel verbaletto. " I sottoscritti (questurini) incontrarono il signor Luccardi Vincenzo, il quale fingendosi ubbriaco più di quello che fosse li urtò e disse loro : Voi siete troppo imbecilli perchè io perda il mio tempo a parlare con voi. E ci veniva contro e non voleva lasciarci passare, dandoci anche del mascalzone e altri titoli offensivi. Vedendo che abusava troppo della nostra pazienza, l'abbiamo arrestato! „ Le informazioni della questura lo dipingono di carattere violento, di vita sregolata, di principii sovversivi. L'idea era di farlo destituire per poi ammonirlo. L'incaricato del delitto era lo stesso Giorio. Siccome il Luccardi venne assolto, si ingiunse a Giorio di andare in appello. PRESIDENTE. Perchè si è appellato, se era convinto che il Luccardi era innocente ? GIORIO. Per la pressione che mi faceva l'ispettore. PUBBLICO MINISTERO. Ha fatto male a fare una cosa contro la sua coscienza. GIORIO. Provi un po' lei a stare nella P. S. Non lo nascondevo ad alcuno. Dicevo a tutti: " Se rimango, divento tisico o pazzo. „ E quando portai l'appello al cancelliere, gli dissi " Guardi cosa mi fanno fare! " Il Luccardi era tanto in odio alla questura che più tardi lo arrestarono anche al confine senza motivo. AVV. PRATI. Si mettano a verbale i principii sovversivi della questura. LUCCARDI VINCENZO. Arrestato e trattenuto ' alla mattina mi condussero dall'ispettore, il quale con fare burbanzoso mi diede una paternale e mi licenziò dicendomi : " Per questa volta passi così. " Andai a protestare dal prefetto. Non c'era. Dissi quello che volevo dire al suo segretario. Tre mesi dopo mi vidi comparire una citazione per oltraggio alle guardie ! Sul mio onore non dissi alle guardie una parola che potesse essere offensiva. Se avevano dell'astio contro di me ? E come saperlo? Io non saprei trovare altro motivo se non perchè, in politica, la pensavo diversamente dall'ispettore di P. S. I miei principii non sono punto sovversivi. Io ho sempre sostenuta la politica ministeriale dal '76 in poi. Io amo la libertà coll'ordine. Non sono rivoluzionario. Non ho perduto l' impiego perchè i miei superiori mi conoscevano. Ma posso provare che si fece di tutto per farmelo perdere. GIORIO (al teste). È vero che vennero diffusi molti fogli volanti pieni di gravi accuse contro l'ispettore Giamboni ? TESTE. È vero. GIORIO. È vero che Giuseppina Oliva fu tratta a viva forza in una casa inno minabile dallo stesso ispettore ? TESTE. L'ho sentito dire. ANTONIO GALEAZZI, ispettore di P. S. Dissi al Giorio di so- stenere il verbale delle guardie. È naturale. (Grande impressione). Gli dissi anche che volevo appellarmi. Il Luccardi non lo conoscevo. Non ero in Udine che da pochi giorni. Avv. PRATI. Chi diede le informazioni ? GALEAZZI. Io. (Stupore nel pubblico). Le informazioni che era avverso all'attuale ordine di cose le ebbi da altri. Il Giorio scrisse che ogni sezione di polizia tiene un fondo proveniente dalla cassa ignobile della prostituzione per pagare le spie. Aggiunse che la questura presenta sempre i conti esageratissimi per le spie politiche. Le altre spie sono vetturali, facchini, mezzane, tenenti postriboli, pignoratarii. RASTELLI, questore. I fondi che ha ciascuna sezione sono limitatissimi e appena sufficienti per sopperire alle spese indispensabili. Io non ho mai trovato fondi esagerati in confronto dei servigi resi. GIORIO (al questore). Sarei lieto di essere chiamato diffamatore se mi portasse qui le ricevute. Le esagerazioni di conti avvengono in questo modo : il fattorino per una data commissione prende 60 centesimi e firma per due o tre lire. Biella Luigi racconta che fu vittima di un furto e che la spia gli disse chi era il ladro e dove erano il cotone, la sete, il lardo e il formaggio rubato. PRESIDENTE. Avete pagato qualche cosa all'informatore questurino ? TESTE. Quindici lire. PRESIDENTE. Ve le siete fatte rimborsare dalla questura ? BIELLA. No. Dopo non ho trovato nè lana nè seta nè cotone alla questura. Ma loro mi hanno fatto fare la ricevuta. GIORIO. Vorrei che il testimone dicesse se non è vero che . io sequestrai mezza forma di formaggio di provenienza sospetta. Portata in questura venne assalita come i sorci assalgono il cacio. E' vero ? BIELLA. È verissimo. Il Ceriotto - maresciallo - per il primo si tolse di tasca il coltello e ne tagliò via un pezzo che si mise tosto a mangiare. GIOVANNI FRANCHI vetturale. Fui incaricato dal Giorio, alunno di questura, di trasportare una pazza. Convenimmo che mi si sarebbero date, 2,50. Dovetti farne così delle strade per riscuoterle ! Non riuscii a prenderle che tre mesi dopo ! GIORIO. Misero l'arrestato che prima di farsi ammanettare fugge agli agenti o cerca di sottrarsi ai loro artigli! Appena è in caserma lo si batte senza pietà. Bisogna essere negli uffici di questura a sentire le grida, i lamenti e i gemiti che escono dalle camere di custodia dei detenuti! Una guardia prende l'arrestato per la testa e gli ottura possibilmente la bocca; un altro lo tien stretto per i piedi, e due o tre altre, a seconda del bisogno che sentono di sfogare la collera e la rabbia che li divora, menan giù eroicamente pugni sul ventre e sui fianchi dell'infelice ! Costui si dibatte, cerca svincolarsi, soffre, si scuote ad ogni colpo come agitato dall'elettrico, ma tutto è inutile ! ogni resistenza è impossibile e non resta altro che pregar Dio che abbia a far presto cessare l'infame tortura.... Agli spasimi di quei meschini le guardie rispondono con delle risate saporitissime e con delle bestemmie da trivio. Se poi l'arrestato non chiude la bocca e piange e grida, è ancora più maltrattato: riceve ceffoni, tirate d'orecchie, morsicature e bastonate. Non crediate che tali maltrattamenti si vedano di cattivo occhio dagli impiegati! Spesso, anzi, intervengono egregi delegati a dare il cambio e un rinforzo alle guardie. È caso raro che un individuo venga arrestato e non lo si percuota in modo orribile. La parte del corpo preferita dagli agenti di p. S. per offendere l'infelice, sono i fianchi. Quivi si danno pugni e calci terribili, senza timore che ne vengan fuori echimosi e enfiagioni. Riguardo al fatto delle percosse per parte delle guardie è cosa ormai fuori di dubbio. Basti dire che a Caltagirone un delegato teneva nel suo ufficio un nerbo di bue per frustare gli arrestati e su quel nerbo c'era scritto : QUESTO E' LO STATUTO. RASTELLI, questore. Certo che qualche volta, qualche volta, siccome le guardie sono percosse, così si difendono. GIORIO. Non appena pubblicato il mio libro venni chiamato dal giudice istruttore, il quale mi domandò se tra i percossi della questura alludevo a cinque giovinotti stati arrestati poco tempo prima. Egli lo sapeva di già. Egli sapeva di già che il brigadiere Bonacina voleva che questi giovani fossero i feritori di una guardia. Mentre invece egli sapeva benissimo che furono battuti ripetutamente, come venne provato dalla narrazione del medico Tassani. Prima furono battuti una volta, poi cellularizzati. Più tardi tirati fuori ad uno ad uno - erano Cotta, Miasuti, Colombo - e battuti di viperina indignazione. I nobili agenti rompevano loro i bastoni sulle spalle. Fu il brigadiere Bonacina che ferì, per isbaglio, la guardia! VITTORIO ROCCHETTI, benestante. Avevo bevuto qualche bicchiere di vino. Caddi in terra. Avevo un'arme vecchia in tasca. Le guardie mi presero quanto io aveva. Chiesi di vedere subito il delegato. Mi si rispose sbattendomi l'uscio della cella in faccia. Poco dopo vennero a vedermi in tre, uno dei quali teneva la lanterna. Uno di essi, senza dirmi nulla, mi tirò un pugno ad un occhio. Se non era l'istinto lo avrei perduto. Accompagnò il pugno con un " porco birbante! " Il questurino che mi percosse era bassotto, con baffetti e moschettina. Mi parve, dall'accento, siciliano. Luigi Mussetti, avvocato, depone sui fatti di via Moscova, Sono passati degli anni. Ma il sistema di assassinare gli arrestati a pugni è sempre in vigore. AVV. MUSSETTI. Arrestato venni condotto nella caserma dei carabinieri in via Moscova. Ma appena fui tra loro venni preso a pugni. Mentre mi si malconciava con tanta violenza vedevo che guardie e carabinieri facevano a gara nel pestare i detenuti. Quando ci portarono al carcere eravamo pigiati nel carro chiuso. Domandai il permesso di metter fuori la testa per' non morire soffocato. " Crepa! " mi si rispose. MARIA MENTASTI, vedova. Abitavo in via Cerva, nella porta della sezione di questura. I vicini venivano a svegliarmi di notte e a domandarmi se avevo sentito delle grida nel camerone degli arrestati. Non era possibile non sentire. Si sentiva che rincorrevano i prigionieri a schiaffi, a pugni e a pedate. Erano urli strazianti come di persone torturate. Queste scene mi laceravano il cuore. Sloggiai. PRESIDENTE. Le ha vedute ? MENTASTI. Non potevo vederle, perchè chiudevano le impannate. Ma chiunque poteva sentire che si gridava basta! basta! oh Dio! Signore, mi ammazzano! aiuto! aiuto! GIUSEPPE MONTI, fuochista. Una sera avevo bevuto un bicchiere più del solito. Le guardie mi presero e mi condussero alla sezione di San «Simpliciano, ove giunto non ebbi tempo di contarle, le busse. Me ne hanno date! Si ricorda se si sono serviti anche del calcio del revolver? MENTASTI. Se me ne ricordo ! Coi calci del revolver mi percossero sulla testa. Uscito di prigione non potevo reggermi in piedi, mi pareva di diventare pazzo. Mi si condusse, a guarire, nella sala Macchi. (Movimento d'orrore nel pubblico). PRESIDENTE. Le guardie vi percossero per spirito di malvagità o perchè facevate della resistenza ? MENTASTI. Non feci alcuna resistenza. Mi percossero per il gusto di percuotermi. Appena fui dinanzi il delegato mi si domandò nome e cognome. Non avevo finito di dire Monti Giuseppe che costui mi aveva dato uno schiaffo da voltarmi la testa. Nel carne-rotto erano in sette a pestarmi. Certo, in questo momento, avrò tentato di difendermi. PRESIDENTE. Non avete detto tutto questo al processo?

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 34. [Didascalia immagine:] Cappa, ex comandante Milano sconosciuta e Milano moderna MONTI. Che cosa vuole che dicessi? Quando feci vedere le ammaccature e le contusioni del carcere e gli dissi che mi avevano brutalmente percosso, mi si rispose : Lascia stare di ubbriacarti e non ti farai male nel cadere. Altro che cadere! mi ubbriacarono loro del tutto con le busse ! (Secondo movimento d'orrore). (Apro una parentesi per dire che i medici che si rendono complici di questi delitti per la miserabile mercede carceraria sono mascalzoni che dovrebbero essere banditi dal collegio professionale e boycottati dagli ammalati. Io conto, tra i medici, un numero infinito d'amici carissimi. Essi sarebbero i primi a sottoscrivere, con me, l'espulsione di un medico aguzzino, di un medico che disonora la classe a cui appartiene. È la sua connivenza che salva i delinquenti monturati dal castigo penale. GIUSEPPA ACQUATI, fruttivendola. Mio figlio venne arrestato perchè aveva schiaffeggiata una portinaia. Gli agenti vennero il giorno dopo a dirmi ch'egli si era strangolato in carcere. Andiamo, io e mio marito, a vederlo. Invece di trovarlo rosso o nero o pavonazzo, come tutti coloro che si appendono, lo troviamo bianco bianco e senza i segni della strangolazione. Mio marito si mise le mani nei capelli e gridò : Questo lo avete ammazzato voi! Ma loro, gli agenti, ci misero fuori, chiusero l'uscio e felice notte. I medici constatarono che sulle spalle e sul petto del nostro figlio erano dei segni neri. LEVINO ROI3ECCHI, libraio. Ebbi la sfortuna di vedere un amico arrestato. Mi si avvicina e mi dice che le guardie lo insultavano e giuravano che aveva dato loro della spia. Io tacqui e mi astenni da qualsiasi osservazione. Due ore dopo due guardie e un brigadiere - Mattioli, Massa e Boati - mi ingiunsero di andare con loro alla questura. Non vengo. - Verrai. - Sì. - No. Non ci fu modo di resistere e andai. In questura mi si disse : " Muoviti, se no te doo on pee in del cuu. „ Poi mi spogliarono come quando ero nato e incominciarono a incrudelire. Intanto che mi si percuoteva e mi si lavorava a dito nate nei fianchi, uno di loro, col bastone piombato in alto, minacciava di fracassarmi la testa se parlavo. Non dissi una parola. Ero nelle loro mani. Se avessi fiatato avrebbero finito per uccidermi. Finita l'operazione, il brigadiere pareva indemoniato. " "Mettetelo, disse, nella stanza peggiore e non dategli da mangiare. Insegneremo noi a questi repubblicanoni! „ Nel camerotto c'era un altro arrestato che piangeva disperatamente. Gli avevano imposto il silenzio con un maledetto pugno sulla faccia. Il questore, avvertito dai miei amici, mi fece mettere in libertà all'indomani. È inutile dire che sporsi querela. Ma loro, le guardie, mi avevano già preceduto con una querela per " oltraggio alle guardie. " Il teste Domenico Cappa era, al tempo del processo, il comandante delle guardie di P. S. di Milano. Era un tipaccio nato sbirro. Forse ve lo ricordate, perchè non è andato in pensione che nel 1891, quando il nuovo regolamento poliziesco soppresse i comandanti di P. S. Era bassotto, vestito di nero, portava la tuba alla barabba, con l'ala destra sull'orecchio e non si lasciava mai vedere in borghese che con l'ombrello sotto il braccio, ch'egli teneva per il manico in una maniera minacciosa. Ti lasciava capire che egli era sempre pronto a romperti i connotati. Durante i suoi trentadue anni di servizio si è sempre - disse lui - " inspirato a Javert " l'ispettore di prima classe che Victor Hugo mise alle calcagna di Valjean. Ma il Cappa di Javert non aveva neppure l'unghia del mignolo. Javert è la vedetta dell'ordine, il servo incorruttibile della polizia, il cane provvidenziale della società parigina, che si rompe, nella lotta tragica tra l'uomo e il funzionario, mettendo sull'orlo della ripa la tuba e gettandosi dal parapetto nella Senna, dopo avere scritto, con la sua calligrafia calma e corretta, il testamento nella sezione di polizia più vicina a " vantaggio del servizio ". Il Cappa è un cagnotto che rimane cagnotto, che va in pensione a malincuore perchè crede in lui " la virtù d'opere forti " che scompare dalla scena lasciando in nessuno - neppure nei subordinati - il desiderio di rivederlo, che va in campagna sognando di acquistare dei campicelli per passarsela bene. Tu sei triviale, o Cappa. Tu mi disgusti anche dopo che hai scritto due volumi di memorie pieni della tua presunzione e della tua asineria. La mia meraviglia è che tu contadino, tu mugnaio, tu con una semplice istruzione elementare, abbia potuto andare alla sommità della carriera o del comando. Va via, ti scaccio a pedate. Crepa pure sui monti di Cintàno senza farmelo sapere. I tuoi due volumi - comperando i quali sono stato truffato di cinque lire - li butto sul fuoco fra due minuti. Perchè non sono interessanti. Perchè non ti sei sbottonato. Le memorie di un poliziotto sono i libri più ghiotti per la mia fame intellettuale. Ma a certe condizioni. Che l'autore si faccia leggere e che il narratore si sventri e vada in piazza con del materiale nuovo. S'egli poi vuol aggiungere le sue convinzioni, lo faccia, padrone. Purchè ce le dia sincere e non venga, come il Cappa, dopo 32 anni di servizio, a portarci sul tavolo delle buaggini sgrammaticate: In trentadue anni di caserma poliziesca, questo cialtrone di pensionato non ha saputo scrivere una pagina in difesa dei cittadini malmenati e brutalizzati dai suoi mastini in montura. Attraversando 763 pagine non è che per accidente che questo birro senza ingegno ti fa germinare l'idea che in questura si percuote. E anche quest'idea te la lascia germogliare in grazia della sua vanità incommensurabile. Dopo avere difeso il corpo della polizia italiana come se si fosse trattato di veri tutori dell'ordine che si guardano bene dal servirsi delle mani, dei piedi, dei bastoni e dei calci del revolver, la vanità non gli permise di resistere alla tentazione di mettere fuori il discorso ch'egli fece ai suoi 200 subalterni, prima di andare al Dal Verme, dove si doveva tenere il Comizio della Società della pace. " Amici miei, speriamo che le cose passeranno lisce e non accadrà niente di spiacevole. Per ottenere questo scopo, almeno da " parte nostra, onde non si dica che siamo noi che ci facciamo provocatori per lavorare di manette, ecco quello che assolutamente " vi impongo di fare, anche per ordine espresso dal signor questore. " Dunque, ascoltatemi bene. Tel caso siate costretti a tener indietro la folla, usate i modi più urbani che il galateo e il rispetto della libertà dei cittadini vi può suggerire. Non mettete le mani sopra di alcuno, non procedete ad alcun arresto arbitrario e improvviso, ma aspettate l'ordine dei superiori. Se qualche ingiuria, qualche parola offensiva giungerà alle vostre orecchie, chiamate a soccorso la calma e la pazienza. Pensate che spesse volte queste ingiurie gratuite, queste parole offensive sono pronunciate al vostro indirizzo da qualche farabutto, che vuol pescare nel torbido, e ve le lancia apposta per tirarvi a cimento e farvi trascendere, per poter poi dire ira di Dio contro il nostro Corpo e incolparci di tutto quello che può succedere di spiacevole. Però, siccome abbiamo il diritto di essere rispettati, tanto più quando siamo nell'esercizio delle nostre funzioni, tenete a memoria le parole offensive e le ingiurie che saranno giunte alle vostre orecchie, cercate di fissarvi in mente le fisonomie delle persone che vi avranno gratuitamente insultato: scolpitevi nella retina dei vostri occhi i connotati di esse, il loro vestiario, quei particolari indkii delle loro persone, ombrello, cappello a cilindro, a cencio, cravatta rossa, gialla, ecc., baffi o barba nera o bionda, o rossa, indizi che potranno aiutarvi al momento opportuno a riconoscerli, sempre senza pericolo di cadere in qualche equivoco disgustoso. Ciascuno di voi, e siete in duecento, fermi per conto suo l'occhio vigile e osservatore sopra cinque o sei individui nel cerchio della propria visuale, specialmente su quelli che in altre occasioni hanno già fatto del chiasso, o furono altre volte arrestati.

Una volta poi che avrete ricevuto l'ordine dai superiori di  procedere ad arresti, mettete le mani su quelli che o per le ingiurie che vi hanno lanciato in faccia, o per atti che cadono sotto  al dominio della legge, meritano di essere ammanettati, e compite  il vostro dovere. Se per caso qualcuno di voi Si lascia sfuggire  la preda, non stia ad inseguirla o a procedere ad arresto arbitrario di qualche altra persona, che c'entra come i cavoli a merenda, ma non faccia altro che prestar man forte ai compagni. Tutto ciò dovete fare per agire con piena coscienza e poter parlare francamente davanti ai giudici in tribunale. E davvero pensate un poco : Se fate un arresto senza assicurarvi che avete messo le mani sopra un colpevole, che cosa direte ai giudici ?... Suonerete l'eterna sinfonia che l'arrestato aveva provocato il disordine  e provocata la forza con insulti e minaccie. Ma se questo povero  diavolo non l'avete visto a provocare disordini, e non l'avete  udito ad insultarvi e minacciarvi, e ve lo potrà provare in faccia  con testimonianze palmari e patenti, passerete per spergiuri, per abu- santi del vostro potere, e correrete rischio di essere condannati per falsa dichiarazione. Se poi il povero accusato è innocente,  e non può pur troppo, come spesso succede in queste agitazioni  popolari, provarlo, egli verrà condannato ingiustamente e peserà  sulla vostra coscienza un reato assai grave, poichè 1a libertà dell'uomo è la cosa più preziosa che ci sia in terra, e voi sulla terra  non avrete più pace. 

Debbo dirlo ? Malgrado il mio sermoncino, che credeva penetrasse dolcemente negli uno sconsigliato che uscì fuori con questa osservazione :

- E se perdiamo di. vista quel ch'emm tegnuu d'ceucc ,  dobbiamo ritornare in questura a mani vuote? Chi non vuol essere  arrestato stia a casa sua e non venga a cacciarsi in mezzo alla folla !

- Io ti rispondo, sconsigliato ed ignorante tarlarucch, che è meglio lasciar liberi cento anarchici e socialisti e tutti quanti i repubblicani, anzichè arrestare un innocente. Sei troppo giovane per fare il dottore. Pensa a fare il tuo dovere nei limiti e nei modi che ti ho insegnato. Prendi esempio da me, che sono vecchio, e che con le teorie che ti ho esposte e che ho sempre praticato, mi son ognora trovato bene ; la cittadinanza mi ama e mi stima, e gli stessi operai che qualche volta ho mio malgrado dovuto " arrestare mi rispettano. " Ritorniamo al processo. PRESIDENTE. È vero, signor Cappa che le guardie sono delle smanaccione che schiaffeggiano a destra e a sinistra ? TESTE. Nossignore, non è vero. Io almeno non ne so nulla. GIORIO. È vero che minaccia le guardie se alla fine di ogni mese non provano di aver fatto degli arresti ? TESTE. Minaccio di metterli dentro se non riescono a scoprire i ladri, gli assassini, è naturale. GIORIO. E le guardie, per non andar dentro, arrestano, in mancanza di rei, gl'innocenti. Un pretore urbano fu arrestato due volte in poco tempo. Paolo Ranza, facchino, parla in dialetto. PRESIDENTE. Cosa sa lei ? TESTE. Ne so tante ! Ho provato tanti dispiaceri ! I guardi dann via i bott e ciapen i danee de bev. L'amante di mia moglie è d'accordo colla questura. Io sono divenuto il materasso di tutti. G'hoo anmò i dolor nella s'cena e nel stomegh, quando cambia il tempo. Io non ho fatto nulla. mi sont on omm che lavora e lor me disen: Tàs assassin ! Oreste Adrua convince sempre più il pubblico che si percuote e maledettamente. - Sono stato battuto a sangue, col calcio del revolver. L'ispettore Turri - (ora in pensione) - mi ha dato del vigliacco. Mi trovavo in un bordello di via Bergamini. Si faceva del baccano. Venni arrestato mentre dormivo. Mi misero le castagnole ai polsi e al collo, in un modo che pareva volessero strangolarmi. Quanto più mi lamentavo tanto più mi stringevano. Mi diedero sulla testa col calcio del revolver. Maltrattarono mia madre con parole indecenti. Mi tennero in carcere quattro giorni. GIORIO. Per dimostrare il servizio che fanno in quelle tali case, dica quante guardie lo accompagnarono a San Fedele. TESTE. Sei. (Rumori). Ripeto che il Turri mi caricò di insolenze. DOMENICO ALBERA, droghiere. Un giorno denunziai che mi si aveva rubato una carrozza e i questurini invece han miss già che l'hoo venduda mi. Il rotabile era all'osteria della Polveriera, fuori di Porta Vittoria, e un delegato e delle guardie si fecero dare da me dieci lire per pagare le spie che avrebbero scoperto i ladri. Ho saputo poi che andavano a passeggio con la mia carrozza. Avv. PRATI. Per quanti giorni? TESTE. Ventotto. Mi furono sequestrate anche - non ho mai saputo perchè - tre casse di sapone, delle posate e dei bicchieri. Cose che mi vennero restituite ma non intatte. Mi mancavano del sapone, dei bicchieri e delle posate. PRESIDENTE. Dica la verità. TESTE. Lo giuro. GIORIO. Le hanno fatto firmare un foglio in bianco ? TESTE. Sissignore. Fu l'ispettore Turri. (Il quale è presente al processo, incaricato di preparare la relazione quotidiana per il Ministero). Per ringraziamento mi hanno dato un pugno sul naso. Il Turri, ripeto, mi ha dato più di una volta del vigliacco, del vigliacco a me che ho fatto tutte le campagne d'Italia! GIORIO. Narri il fatto del cavourino. TESTE. Nella sala di custodia di San Fedele avevo fame. Andai allo sportello, chiamai il ragazzo che passava, gli diedi il cavourino per comperarmi del pane. Non avevo altro in tasca. Non seppi più nulla di nulla. Reclamai. M'han traa tucc matt. (Movimento di indignaione). Ho finito e con grande piacere. Perchè la polizia non è soggetto che mi vada. Ne ho parlato e ho esumato il processo Giorio perchè i delitti polizieschi di quei tempi sono pur sempre i delitti polizieschi dei nostri tempi. Ci sono ancora gli arresti arbitrarii, le detenzioni arbitrarie, gli schiaffi arbitrarii, i calci arbitrarii, le fungate arbitrarie, i colpi di sacchetto di sabbia sullo stomaco arbitrarii e i manrovesci che sbattono la faccia dall'altra parte arbitrarii. La polizia tracassiére mi disgusta, la polizia assassina mi spa- venta. Io, voi, chiunque domani ci abbandoniamo alla gioia di un bicchiere e rispondiamo a un'interrogazione insolente con una parola vivace e siamo perduti. Ci si perde dinanzi il pretore o il giudice credulone o ci si finisce insaccandoci a pugni, a pedate e a sberlotti. Cristo, questa non è vita di popolo civile! È vitaccia di coatti, di ammoniti, di perseguitati. Io, voi, chiunque domani ci si agguanta per il collo, ci si caccia in un camerotto o in una cella qualunque di questura e ci si tortura a nerbate, a scudisciate, a strappate «orecchi o magari ci si sfracella il cranio e ci si schiantano le costole come al povero Romeo Frezzi nel carcere di San Michele di Roma o ci si ammazza barbaramente a fungate (1) come il povero Andrea Forno nelle carceri di Sant'Andrea di Genova. È troppo. Voi siete giunti al delitto che ha fatto scandalo. Bisogna finirla. È tempo che il pubblico intervenga e domandi l'abolizione


(1) Il fungo è un legno duro coperto di gomma che rovina Io stomaco o fracassa le costole senza lasciare ammaccature o solchi. È con esso che il delegato Festa - il Livraghi della questura genovese - uccise Andrea Forno. Il fanno è il cabriolet della polizia francese. È stato rilevato da Yves Guvot nella Lanterne, parlando di 'un uomo maltrattato : « Elle - la polizia - m'a ligoté! enfoncè le CABRIOLET dans les chairs! battu! elle m'a traité colme un voleur! »

Milano sconosciuta e Milano moderna. -Puntata 35. della camera di sicurezza nella questura centrale e presso le sezioni di polizia. Con voi non si è più sicuri che in una spelonca di banditi. Anche quando non uccidete voi avete l'abitudine di calunniare le vostre vittime. Qualche volta, si sa, si può incorrere in qualche inezia contraria ai vostri regolamenti. I cittadini non sono dei poliziotti e non sono dei santi. Se nessuno andasse per le vie, come dice benissimo Yves Guyot, se non vi fosse mai folla, se nessuno dicesse mai una parola più virulenta di un altro, se ciascuno conoscesse le vostre innumerevoli ordonnances e potesse vivere, agire, muoversi, uniformandovisi, il vostro cómpito sarebbe più comodo di quello di un superiore di un convento cloitré. Ma non è così. Voi colpite la gente sospetta per la loro poverezza, per la loro condizione, per la loro riputazione, per la loro vita equivoca. Le garanzie enumerate nel codice penale non sono per coloro che non saranno mai sospetti. Esse sono per gli individui che potranno essere sospetti. Le garanzie giuridiche non sano per le persone sagge che non saranno mai processate, ma per coloro che potranno esserlo. La libertà di difesa non è per la gente che non avrà bisogno di difendersi. Se si tratta di un Forno o di un Frezzi la cosa non passa liscia. I giornali gridano e costringono anche un poliziotto infame come il Costa a fare i conti con l'opinione pubblica. Ma quando si tratta dei poveri cristi nessuno se ne occupa. Domani si arresta una prostituta o un mendicante o un vagabondo o uno sconosciuto o un socialista o un anarchico e si abusa. Dove non v'è delitto la polizia deve essere estranea. Facciamola finita coi brutalacci di questura. Agitiamoci per l'habeas corpus che protegga dagli arresti arbitrarii ricchi e poveri. L'habeas corpus è il palladio della sicurezza personale. Nessuno dovrebbe essere arrestato senza comparire, nelle 24 ore, dinanzi il magistrato. XXVIII. Coi Cappuccini di piazza Monforte.

È uno studio che ci costa del tempo. I poveri, a mezzodì di ogni giorno, sono distesi lungo il muro che aspettano che si apra lo sportello della distribuzione. Sotto il pronao rustico della chiesuola, nei vani dei pilastri di mattone, sul rialzo di pietra, vedi accasciate, di solito, uno sciame di donne con gli occhi istupiditi nel vuoto. Tra le consumate e le malvestite dell'ultima volta, era una Luigia che portava sulla faccia piena i rimasugli di una bellezza sfacciata. Con il sedere voluminoso sulle calcagna, con le spalle non ancora incurvate dalle astinenze, con uri seno palpitante di carnaccia come se non avesse mai avuto fame, sembrava un blocco di pornografia in agguato d'uomini che avevano bevuto. Nel cortile dei cappuccini non ci viene che proprio quando il diavolo ci mette la coda. Si ravviava i capelli neri con le mani salivate e ci diceva che questo era l'ultimo sacrificio di una povera donna. - Mangiata di questa minestra nessuno riesce più a sgiogarsi dalla miseria. Si è in fondo e per sempre. Sono sei mesi che ci ho messo piede e in sei mesi non sono mai stata padrona di venti soldi. Pare che la gente fiuti la mangiaminestra dei cappuccini lontano un miglia. Nessuno vi tende più la mano per aiutarvi a uscire dall'abisso in cui siete caduta. La sua blusa rossa, cosparsa di rami azzurri alla sommità mammelluta, staccava i pitocchi giovani dalla muraglia e se li attirava intorno con gli occhi libidinosi. Non s'erano mai visti tanti porci di straccioni, che digiunavano chi sa da quante ore, capaci di mettersi a frignare col freddo che faceva. - E tu, brutto figlio di troia, non prenderti della confidenza, sai, perchè ci ho già la luna. Ti rompo il ghignone come vera la madonna. Vattene dall'altra parte, porcaccione ! L'entrata della " Contessa " solleva sempre il vespaio delle arguzie pitocche. La si tratta come se avesse detto una bugia. Sissignori ! Nella sua vita di 54 anni conta più di un marito e di una serva. Ci sono stati momenti in cui dormiva in un letto sprimacciato con due materasse e con tanto di elastico. Quando voleva bere una goccia di vino buono, non correva, come adesso, dal Trani, ma diceva alla donna : Va dabbasso in cantina a prendermi un po' di barbera. Le piace assai più il vino grosso. Il vino grimello le agita i nervi e non la lascia dormire. Iddio non ha voluto ch'ella vivesse nell'abbondanza. Sia fatta la volontà di Dio ! La " Contessa " è un donnone alto, coi capelli tabacco che ingrigiano, con un naso grosso alle pinne e una faccia che ha aspirato l'aria umida delle notti. Ha sulla testa un triangolo di pezzuola a maglia che si aggruppa a guisa di sottogola, al collo un fazzoletto che vorrebbe essere bianco e sul dorso una ragnatela di percallo che la stringe da tutte le parti. Le maniche le lasciano scoperto quasi tutto l'avambraccio, divenuto cotto come quello delle lavapiatti, e la rotondità dei fianchi scappa fuori a ogni attimo dal bindello del grembiale. La sottana è mendata, pezzata e padellata di larghi oleosi e non arriva a coprirle i malleoli, neanche d'inverno. Le sue ultime scarpe sono di un buon diavolo che ha avuto pietà dei suoi piedi che sanguinavano sulle zoccole. Con cinquanta anni di stivalini non ci si abitua facilmente al legno duro come il muro. La balzana della sua veste è incrostata sovente perchè da un po' di tempo batte la campagna. La città le è venuta in uggia. Non è un piacere incontrarsi con la gente che vi ha conosciuto nei giorni in cui si mangiavano vivande colla gelatina che tremolava intorno al piatto e non si finiva mai il pranzo se non con dei biscotti nel barberone. I contadini sono più umani. Hanno ancora del cuore per la povera gente. Qualche volta le danno due dita di latte appena munto con un pugno di pane giallo che fa tanto bene allo stomaco. Sere sono l'hanno accoppata di cortesia. Finito di raccontare in stalla un po' del suo benessere di una volta, le dissero che poteva andare in cascina se voleva. Ci si sta divinamente. Affondati nel fieno che scalda come una stufa e inebria di un profumo soave, dormite come in un sogno. Le madri legittime e illegittime rimescolano il sangue della stessa pitoccaglia indurata nei naufragi della vita. Vedute così, in mezzo alla moltitudine che ha fame, ti riproducono i gruppi tragici delle sopravvivute coi bimbi agli uragani spietati. Tu hai un cómpito. Tu ti premi la mano sul cuore per frenarne la pulsazione accelerata. Addio pagina impersonale ! Tu sei commosso. Il grido ti esce tuo malgrado. Tu levi il pugno come una sfida. Tu chiami tutti crudeli. O gente senza viscere ! o donne che non avete carità

[Didascalia immagine:] I pitocchi, a mezzodì d'ogni giorno,sono distesi lungo muro (pag275) per le donne ! o società matrignale che lasci morire i piccini senza voltarti indietro! Venite avanti, o madri stracciate come ladre. Eccole che entrano dinoccolate dal cancello dell'edificio, coi piccini sulle braccia come sacchetti di carne morta, o coi piccini che si strascinano dietro a mano, come gli sfaccendati il bastone. I bimbi non piangono. Non piangono da mesi. Non ne hanno più la forza. Essi sona esauriti. Sono stracchi, stremati, spolpati, anemici, biancastri che fanno andar via la voglia di vederli. Sono sporchi, sucidi, puzzolenti, colla mucidaglia che assecchisce sotto i nasucci, con le labbra smorte, con la cornea incatramata di secrezioni, con le manucce vischiose, , coi pannolini a sbrendoli che penzolano pieni di cacherie. Le madri non sono vecchie. Sono come donne state sorprese sullo stradone dalla bufera che le ha svaligiate. Non hanno più nulla. Sono facce patite, mammelle vuote, fianchi sfiancati. Il loro occhio smarrito traduce la fame. La prima tazzina di minestra calda che passa via perdendo il fumo, le commuove e le drizza su sè stesse come le signore quando si sommergono in un ambiente tepido di tartufi. Va loro giù la saliva. Ne ingoiano idealmente delle cucchiaiate e si scaldano, idealmente, lo stomaco. I cappuccini odiano la donna, origine di tutti i peccati mortali e veniali. Non le negano il soccorso, perchè è cristiano ignorare chi riceve. Ma hanno dato la preferenza al loro sesso. Tu, uomo, sarai il primo a sfamarti in casa nostra. Il Cerini, che vi abbiamo presentato al Trani del Verziere e che qui disimpegna l'ufficio di " caporale della miseria ", si lascia, più di una volta, prendere la mano dall'emozione. Non gli riesce di rimanere tranquillo quando si sente alle spalle la folla delle femmine che bubbola di freddo e assiste alla sfilata degli uomini che vanno allo sportello a prendere la mescolata di pasta in brodo o di riso colle verze. CERINI. Siate un po' gentili, o signori uomini. Voi avete diritto alle prime scodelle, ma l'umanità ha anch'essa dei diritti. Guardate a sinistra. Oggi ci sono qui delle madri con i bimbi che hanno fame. Fate loro largo. Padre Daniele, dia la minestra a queste povere donne. Un momento ! Dimenticavo l'ammalato nell'angolo dell'uscio. Non può più stare in piedi. Padre Daniele, lo scaldi con un po' di minestra. L'ammalato era un grandiglione di diciotto o diciannove anni, coi capelli chiari e baffetti incipienti. La sua pallidezza terrorizzava. Tossiva come un dannato e nella tosse si sentiva la macerazione dello stomaco. Cerini lo aveva preso per il braccio e lo aiutava a star in piedi e avvicinarsi al buco della distribuzione. Il febbrone con il battimento dei denti lo faceva tremare come una foglia. - Coraggio ! Coraggio ! tutti vedevano che la era finita per lui. Ci si trovava dinanzi un cadavere ambulante, denutrito come un Cristo schiodato dalla croce. Le sue mani erano diafane, il suo collo scarno, le sue orecchie sottili come una doppia pelle e nelle occhiaie livide e profonde era la sentenza di morte. Si pensava tutti a un modo. Che non c'era più cuore a questo mondo. Con la scodella in mano, addossato al muro dell'angolo, sembrava un paralitico. I suoi abiti gli erano indosso da otto mesi. Erano inzaccherati, sfilacciati, stracciati, sfatti. Il suo cappello a cencio che gli serviva di cappezzale tutte le notti sui gradini delle chiese o sotto il portone di qualche casa, lasciava uscire un ciuffo di capelli biondicci all'aria. Più di un miserabile gli aveva offerto il cucchiaio. Ma lui, il tisico, non sentiva nulla. Pareva uno stordito che stesse sgelandosi colla pasta che beveva su come del brodo. Le donne si succedevano le une le altre e se ne andavano nel cortile con il desinare. Le scene della prima volta sono quotidiane. Non si diventa mendicanti in cinque minuti. Nessuno si accorge di voi, perchè tutti sono nella vostra condizione. Ma voi credete che tutti gli occhi vi siano addosso per vedere come fate a trangugiare il primo cucchiaio della carità fratesca. L'ultima che abbiamo veduto piangere come una ragazza che ha del tempo da perdere, era una giovine di ventitrè o ventiquattro anni, che non aveva perduto completamente l'eleganza della persona e delle vesti. - Scusate, disse con dei singhiozzi, è la prima volta. Avrebbe voluto lasciarla nel buco del frate scodellatore, ma l'avrebbe presa un'altra. Qui non c'era da far cerimonie. Chi arriva tardi va via a ventre vuoto. Lei poi non era sola, doveva pensare alla figliuola, l'unica cosa che le era rimasta. I pitocchi,naturalmente, non si commovevano. Ci avevano fatto il callo a queste smorfie. La prima volta ! La prima volta in questo luogo ! Si vede dalla faccia che è la prima volta. ! Cerini stroncava la loro maldicenza con un : " Silenzio, sporcaccioni ! " Il frate portiere rimaneva imperturbabile come gli straccioni. Ne aveva veduto della miseria! Era anche lui un senzatutto. Se domani gli avessero detto : vattene ! si sarebbe trovato sulla strada come un accattone. Non saprebbe dove dare della testa per un boccone di pane. A fare il frate non s'impara un mestiere e non si mette da parte un centesimo. È una vita di sagrifici interminabili. CERINI. Avanti gli uomini. La popolazione maschia era mista. C'erano degli uomini sulla cinquantina e dei giovani che non ne avevano ancora diciotto. Bisogna dire che la miseria distrugga la malvivenza. Perchè non si capisce come tutta questa gioventù pitocca s'adatti alla minestra, quando potrebbe vivere assai meglio facendo l'aggressore di strada. Noi ci trovavamo in mezzo a loro e dicevamo che al loro posto avremmo strappato giù il primo paletot dalle spalle del primo passante. La rassegnazione alla volontà divina, va bene. Ma noi non vorremmo consumare i più begli anni della vita a sgretolarci le illusioni con il muso nella scodella del mendico. La barba e i capelli dei giovani e dei maturi davano ai mangiaminestra l'aria triste dei senzacasa. I maturi indossavano un tabarro vecchio, smunto, pezzato, con l'untume alto sul collo o un giacchettone colla carniera gonfia di stracci e le tasche larghe piene di cianfrusaglie e di crostini di pane. I più previdenti, quelli che non amano inzupparsi di pioggia, portavano sulla schiena, ad armacollo, un ombrellaccio di cotone mezzo marcio, stinto, passato da una parte all'altra dalle bacchette di ferro staccate. C'era un vecchio che pareva il capo di una tribù di zingari. Sedeva sullo scagnello che si portava con lui, dinanzi una corba alta di vimini colma di straccerie, con la calotta nera sulla testa e la faccia olivastra giù sul petto come un peso enorme. Lo si sarebbe detto un sognatore o un individuo con il cervello letteralmente vuoto. Qual-

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata [Didascalia immagine:] Il "padre " Daniele distribuisce la minestra che volta levava gli occhi sbarrati al cielo e ve li teneva per del tempo, come chi è perduto nella contemplazione. Venuto il suo turno presentava la gamella, usciva dalle file, risedeva, mangiava la minestra lentamente, puliva il cucchiaio col lembo del panno bigio che indossava a sacco, si caricava la sua roba sulle spalle e se ne andava senza dire addio. L'ultimo della fila era sempre un uomo che non aveva certo raggiunto i quarant'anni. Alto, con una testa artistica sotto un cappello cenerino a larga tesa, con una barbuccia brizzolata che finiva in una punta ch'egli s'attorcigliava con le dita, con gli occhi neri, grandi, luminosi. Tutto ti diceva che il cencio§o gagliardo era un uomo forte, capace di sfondare un uscio di qualche spessore con una semplice spallata. Non era stracciato. I suoi calzoni, che gli carezzavano bene la gamba, parevano nuovi, come parevano nuove le sue scarpe. Perchè veniva qui a mangiare la minestra dei frati? Egli teneva la gamella e il cucchiaio in un sacco che si avvoltolava sul braccio sinistro. Dopo che l'aveva mangiata, seduto sul macigno vicino al coronaio, risciacquava il recipiente e il cucchiaio, li asciugava con le foglie della siepe vicina alla pompa e prendeva la via del cancello con la sollecitudine di chi ha delle altre cose da fare. Il tipo del ladro consumato era un giovanottone grande, con un cappello grigiastro a cono, come quello del mugnaio, con la giacca del contrabbandiere, con i capelli castagni spettinati e dei peli più chiari che gli correvano per le guance. Forse non era un ladro. Forse non era che un poveraccio malconciato dalle tribolazioni. I questurini della squadra volante non erano cagnacci. Facevano il loro mestiere senza incrudelire. Passavano loro rasente, sbirciavano le grinte incatenate alla sorveglianza, si fermavano a domandare ai sospetti il nome, il cognome e la provenienza e se ne andavano. Se c'era qualcuno che dovevano agguantare, lo facevano con garbo. Si scambiavano delle parole sottovoce e gli si diceva che lo si sarebbe aspettato di fuori. - Hai le carte? Fammele vedere. A Luigi Magnani è toccato, un giorno, mangiarsi il pane invece della minestra. Gli domandarono le carte proprio quando era venuta la sua volta di allungare la mano sull'ultima scodella. Con la temperatura che irrigidiva, gli venivano giù le gocce del sudore. Gli avevano portata via una minestra sulla quale aveva contato fino dalla sera prima che aveva dell'aria fredda nello stomaco. Per il sorvegliato non c'è tregua. Lo si pedina da una mattina all'altra. Aveva trovato una lira al giorno dal sostraio Cola, in Verziere, ma non vi potè rimanere che poche ore. E adesso che si sgelava doveva rimandare un po' di pasta in brodo fino a domani a mezzogiorno. Noi assistevamo a tutti questi episodii della vita pitocca con il dorso alla parete in faccia allo sportello del frate. Del frate portinaio che scodellava non vedavamo che la testa che si protendeva verso l'usciuolo della distribuzione. Era una testa regolare, fitta di capelli tagliati fin quasi alla radice, sur un collo roseo che usciva netto dal largo del saio con il cappuccio. La sua barba breve, che gli correva dal mento per le guance, era corretta e pulita come quella di un uomo che vede delle signore tutti i giorni. Le sue orecchie rosseggiavano come se fossero scaldate dal vino. CERINI. Se non hai il recipiente, ti si darà la polenta come a quell'altro. Padre Daniele, costui preferisce il pane, non è vero ? POVERO a un altro povero. Bisogna lavare la tazzina, se si vuole la minestra. E i pitocchi l'asciugavano con uno straccio di fazzoletto carico di tutte le immondizie o la nettavano con le dita ammantate di sudiceria. CERINI. Chi ha finito passi la scodella agli altri. Fate presto, che non ci siete soltanto voi al mondo. UNA MADRE allo sportello. Padre, il ragazzo me l'ha mangiata quasi tutta. Me ne dia un po' ancora, pregherò per lei. L'audacia della donna col ragazzo di undici anni, incoraggiava parecchie altre che l'avevano divisa con i figli. La mescolata non sazia, vi tiene in piedi. Non arriva al mezzo litro e in due minuti la tazzina è bella e vuota. UNO DEI PEZZENTI. Scusino, loro sono delagati ? Noi. No, non siamo delegati. IL PEZZENTE. Bene, loro scrivono. Mi facciano la carità di farmi dare qualche marchetta dal signor Mazzucchetti del Secolo. Sono tanto ammalato! È un buon uomo quel signor Mazzucchetti, ma prima di arrivare a lui ci sono delle muraglie. Tutti quei portieri d'anticamera mi rispondono sempre che non ci sono più marchette. Ci vuole del fegato a mandar via a mani vuote chi ha fame ! PITOCCA. Padre, mi faccia la grazia di un boccone di polenta! A mano a mano che i pezzenti sfilavano e si sparpagliavano per il cortile dell'asceterio a mangiare, il nostro ribrezzo pei frati mendicanti si liquefaceva. Erano assai più buoni dei laici, questi fratelli in Cristo che fraternizzavano con la pitoccheria del selciato. Forse era la commozione. La commozione che ci dava il singhiozzo e ci obbligava a berci le lacrime che ci faceva versare uno spettacolo così incommensurabilmente piangevole, ci perdeva nei rapimenti della vita claustrale che abbatteva l'orgoglio e la superbia e mansuefaceva le ginocchia per la prostrazione dell' anima e la umiliazione della carne. Forse questa vostra vita neghittosa che si consuma nella solitudine e nel silenzio è una necessità per affinare i sensi alla letizia della carità fraterna. Forse queste fatiche spirituali che vi scatenano, dite, dalle passioni che incendiano la sensualità del lusso, è un lavorio necessario per purificarvi dall'egoismo umano e distruggere in voi la tigre. Curvatevi pure, o pitocchi, a questi vergini ispirati che vedono la Provvidenza in una caldaia di minestra o in un paiuolo di polenta. Baciate pure il capestro candido che cinge loro i lombi. Voi siete sovraneggiati dalla fame e loro sono immensamente più teneri delle belve che vi bloccano la via dovunque è una tavola imbandita. Il " padre " Daniele non è che un frate, giunto da un mese da Roma. È stato nel Chili tre o quattro anni, ove prese una febbre che non lo ha ancora abbandonato. È di Clusone e il suo italiano sente molto del bergamasco. - Avevate della vocazione per la tonaca ? - Se non l'avessi avuta non sarei qui ad aprire la porta. È una vita austera la nostra. Non abbiamo mai un centesimo in saccoccia. - Se, puta caso, vorreste andare fino a Porta Garibaldi in omnibus? - Se fosse per mio divertimento dovrei andarvi a piedi. Se volessi andarvi in tram sarei obbligato a cercare i dieci centesimi al padre superiore. E il padre superiore mi riderebbe sul muso. - Quanti mesi quaresimate in un anno ? - Giorno più giorno meno, quattro mesi. L'ultima è incominciata all'Epifania, festa solenne della Chiesa per l'apparizione della stella ai Magi, e continua fino a Pasqua. Sicuro che è una pena a macerarsi coi digiuni. Ma è volontà di san Francesco che vedete là coi fori delle sacre stimmate alle mani. - Ma voi, così grande e grosso, ne soffrirete ! - Ci si abitua. Siamo in trentacinque e siamo quasi tutti

[Didascalia immagine:] Nel cortile. grandi e grossi e nessuno muore. È l'ardore alle cose celesti che ci alimenta ed è lo spirito di disciplina che ci mantiene rigidi osservatori dell'ordine. Per mangiare più di quello fissato per la penitenza, bisogna ottenere la dispensa, cosa che non si concede che agli ammalati. - Dove dormite ? - Ciascheduno nella nostra cella. Dormiamo su una bracciata di paglia e due volte la settimana sul nudo terreno. Ci copriamo con la nostra tonaca, la quale è pesante. - Quanto tempo vi dura la tonaca ? - Degli anni. Questa che vedete me l'hanno data non ricordo neanche. Nessuno di noi indossa la camicia. I sandali e il saio sono tutto il nostro abbigliamento. - Vi alzate di buon'ora ? - Alle cinque. - Per gente che va a letto di buon'ora, non vi alzate tanto presto. - Non andiamo a letto che alle dieci. A mezzanotte ci alziamo tre volte alla settimana per la mortificazione della carne e tre volte la settimana per le orazioni corali. Alla una ritorniamo a coricarci. - Che cosa vuol dire la mortificazione della carne ? - Fustigarla, batterla, percuoterla, umiliarla. - E di che cosa vi servite ? - Del fustigatore. Volete vederlo ? - Ci farete un piacere sommo. Andò a preriderlo. È un lembo di correggia con sei catenelle lunghe trenta centimetri, con gli anelli ribaditi a capo della pelle e con degli anelli in fondo più grossi, più pesanti. -Vi fate male, padre, percuotendovi ? - Ce' lo hanno dato apposta. È per punirci delle insurrezioni carnali. - E dove vi battete ? - Sulla schiena nuda, sull.... - Sulle cosce, volete, dire. - E anche più vicino. - Supponiamo che vi batterete ciascheduno nella vostra cella. - Ci percuotiamo tutti assieme, alla stessa ora, nella stessa stanza. - Gridate, padre, quanto vi fate male ? - Si grida come ossessi. Le pareti dei due portici che girano il primo giardino a fianco della chiesa e il secondo giardino del refettorio e della scuola, sono illustrate di cappuccini incorniciati con la vita riassunta in una ventina di righe che servono ai santi di piedestallo. Nessuno di esso ha un atteggiamento umano. Sono frati spaventevoli; con la palma in mano, con la bocca aperta e le braccia slargate in faccia all'apparizione, con i piedi sollevati dal suolo come per dimostrare che ascendono verso il gaudio del Signore, con le ginocchia sui gradini dell'altare e le mani giunte, con la meraviglia negli occhi allegrati dal miracolo. Non abbiamo mai visto nulla di più stupido che queste rappresentazioni fratesche. Ci sono degli asini che si genuflettono dinanzi ai frati, ci sono colombe calate sulla testa di frati preganti, ci sono porci che grufolano rasente il saio e levano il muso in segno di adorazione, ci sono madonne circonfuse nell'aureola che impietriscono il frate, ci sono angeli che volano, raggi che abbagliano, Cristi che perdono il sangue dalle ferite, Gesù morti martirizzati nella sacra sindone, dei san Francesco in piedi fulminati dalla luce divina e delle Annunciazioni di Maria Vergine che fanno capolino in più di un quadro. La vita condensata in poche righe d'ogni frate è di quelle che farebbero sganasciare o piangere. Non si può essere più ridicoli. Del beato Benvenuto si dice, per esempio, che " senza veruna tintura di lettere, per istudiare nella scuola della perfezione, entrò nell'ordine dei frati minori, ove venne destinato alla cura di chi infetto era di lebbra ".Il beato Cristoforo " diede opera ad inabissarsi nella più profonda umiltà". Il beato Ruffini d'Assisi, spuntato da nobile ceppo e congiunto di sangue con santo, si era abbandonato talmente alla contemplazione " che dimenticata aveva la guisa di favellare con gli uomini, per continuare i colloquii con Dio „. Il beato Nicolò martire, in prigione, " godevasi di quella chiarissima luce che gli allumava la mente ". Il beato P. F. Lodovico da Reggio di Calabria, " castigava la sua carne con cotidiani digiuni e vestiva di cilizio tessuto di setole di maiali ; e sin d'allora era veduto in estasi, e con il corpo altresì sollevato da terra „. Il santo F. Domenico, predicatore, educatore nel santo timor di Dio, entrò nell'ordine a 20 anni. " Invitato una volta da scaltra femmina a cose turpi, riportò di lei un glorioso trionfo e sempre intatto serbò il giglio della verginità ". È inutilé dirvi come abbiamo potuto origliare e assistere alla fustigazione con gli occhi sulla toppa della sacristia che mette nel coro della chiesa. I frati, dopo una lunga genuflessione e una preghiera orale che li ubbriacava di ispirazione, levavano le mani al Dio che li protegge e alla beata Vergine che li nutrisce di speranza, e dicevano che non avrebbero mai più peccato di lussuria. Gli uni e gli altri si lasciavano cadere la tonaca con le pupille del trasognato, congiungevano le mani e schiamazzavano come se fossero stati alle prese con i diavoli. " O Vergine santissima, o Padre che sei in cielo, eccoci prosternati, raumiliati, imploranti il vostro perdono. „ Paolino, il padre superiore, tramezzo agli indemoniati, con le palpebre chiuse, delirava nelle orazioni e si segnava per la salvazione dell'anima. "Beatissimi voi che siete con gli angeli. O san Francesco, nostro patrono, prega per la purificazione del nostro sangue impuro, benedicici; amen. „ Poi, rapiti dall'idea celeste, si misero a flagellarsi, con la faccia in alto, con gli occhi imbambolati, senza remissione. Gli uni e gli altri urlavano, mandavano grida disperate e si percotevano, giurando che era il giusto castigo dovuto ai violatori della legge divina. Esasperati, rinvigorivano i colpi sulle parti più morbide, e, trasumanati, cadevano affranti sul saio, madidi di sudore e roridi di sangue. Nel secondo giardino, ove è la scuola di eloquenza, " il superiore proibisce che si tocchino i fiori senza la dovuta licenza ". Sotto il porticato, trovammo dodici frati studenti che chiacchieravano mentre noi leggevamo la vita dei fratelli beati. Tre di loro erano seduti sul parapetto e ci salutarono. Noi ci togliemmo il cappello e ci inchinammo. Erano magri, con le carni lattiginose e con gli occhi degli asceti. Il più alto aveva una testa superba di predicatore. Il più piccolo, con una barbetta bionda, era più corpulento. - Loro sono studenti ? - Siamo studenti. - E studiano ? - Teologia, eloquenza, ermeneutica. - Scusino, se siamo curiosi, sono contenti di avere indossato il saio ? - Certo. La nostra vita è di sacrifici. Ma un po' per volta ci si abitua. La campana li chiamava nell'aula della lezione di eloquenza. - Buon giorno. - Buon giorno. Ci rimettemmo a leggere le buassaggini che illustrano le pazzie dei frati sulle pareti, vicino all'uscio della scuola. Il padre dava ai novizi per tema di predicazione Gerolamo Savonarola, il frate domenicano del quindicesimo secolo che voleva infratescare e indemoniare tutti i fiorentini deliranti intorno alla croce del così detto Cristo trionfante. Ogni atto dell'incendiario che persuadeva bestialmente il popolo " a cavarsi di casa tutti i libri; così latini come volgari, lascivi e disonesti e tutte le figure e dipinture d'ogni sorta che potessero incitare le persone a cattive e disoneste cogitazioni, „ veniva magnificato dal padre con la eloquenza del fanatismo religioso che procombeva con l'odio teologico sui costumi e sulla corruttela del tempo machiavellico. A quattro secoli di distanza noi sentiamo ancora orrore di questo miserabile frate che gioiva come

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 37. un energumeno quando si gettavano tra le fiamme le opere del Boccaccio, del Morgante e, del Petrarca, i " disegni ignudi " di Baccio della Porta - il più valente pittore fiorentino d'allora - le teste di scoltura delle più belle donne antiche e moderne e i capolavori dell'arte e della letteratura nelle case dei dementi. Ma i novizi che si succedevano a dipingere il mentecatto che spauriva le moltitudini coi presagi dei castighi divini, traevano dai delitti savonarolani entusiasmo per vedere in lui " un genio che aveva succhiata la coltura celeste e l'ambrosia vera degli studii sacri. Il frate che voleva che si vivesse " a modo di Dio " e che si gridasse a ogni minuto viva Cristo! diventava, nell'aula dei novizi sovreccitati, l'eroe che " induceva la gente ai digiuni, alle processioni e alle elemosine ". Di fuori, nell'ultimo cortile, delle altre donne mangiavano la minestra e lavavano la scodella. Ce ne andammo salutando per l'ultima volta il frate portinaio, il buon Daniele, che ci aveva dato modo di saturarci di un ambiente ch'era sempre rimasto fuori dalla zona degli studii veristi. XXIX. I mentecatti.

Dopo avere squarciato in parte il velo che copre le miserie e le turpitudini delle quali è tutta piena la capitale morale, mi era impossibile passare sotto silenzio i mentecatti, i quali- incredibile a dirsi !- servono da più secoli di studio alla scienza, senza che essa abbia fino ad oggi svelato al mondo attonito 1' arcano che scombussola il cervello umano. Aristotile, Gall, Spurgheim, Lavater, Combe, Boussais, Vermont, e mille e mille altri si affaticarono dal cranio al muscolo pericardio per cercare la causa perturbatrice. Ahimè ! Essi guardarono lo spessore delle ossa, diluirono le sostanze encefaliche, osservarono la fronte, le suture del cranio, le orecchie ad ansa, gli occhi strabici, le labbra sporgenti e il mento più o men acuto ; esaminarono attentamente le sporgenze, i bitorzoli e via via senza preoccuparsi mai degli intestini. Là sì che essi avrebbero trovato il demone, la furia che agita ed intorbida la mente dell'uomo ! Sono qui nella Senavra: nella bolgia dei dementi! Sibili acuti, strida forsennate, pianti e urli, voci strane, sghignazzanti, orrende mi percuotono l'orecchio. Intanto che sono assorto in quelle grida che straziano le viscere, giunge l'egregio dottor ***, uno fra i medici più gentili che io mi abbia mai conosciuto. - Abbia pazienza, mi disse egli, visito questo nuovo arrivato e poi sono subito da lei. Il soggetto era un uomo di circa cinquant'anni, che aveva tentato più volte di suicidarsi. Percorriamo gli androni dalle pareti scialbe ; osserviamo i giardini, le stanze da bagno e poi entriamo nella calzoleria. Al nostro apparire fanno una smorfia che vorrebb'essere un inchino e domandano al medico di essere inviati alle loro case, poichè ormai, dicono essi, " siamo savii „. Poveri illusi ! - Va bene, va bene, risponde il dottore, dando a ciascuno d'essi un buffetto sulla guancia con la miglior grazia di questo mondo. Presto vi manderemo a casa... - Costui, aggiunge il sanitario, mostrandomi un uomo dallo sguardo losco, è una vittima del trasporto della capitale a Roma. Dopo quella giornata fatale non ha avuto più alcun avventore in Firenze che andasse alla sua bottega a farsi rattoppare le ciabatte. Vero ? E il pazzo a sorridere come un ebete. Si sale al primo piano. Vedo una diStesa di tavole coperte da tovaglie che mandano un grato odore di bucato. - A momenti li vedremo al pasto. Intanto apre una cella. Che squallore, che puzza ! C' erano quattro letti e quattro dementi assicurati alle ansole. Un giovinotto dagli occhi quasi fuori dall'orbita e dal volto rosso come una brace, è il primo a chiedergli il permesso di passeggiare con gli altri. - Mi prometti di non battere più i tuoi compagni ? - Semprechè mi lascino stare, sa ? - E tu come stai ? domanda il dottore a un altro dagli occhi stomachevolmente cisposi. - Come sto ? Buffoni ! starò bene quando vi avrò fatto arrostire tutti in una grande caldaia! risponde 1' interpellàto con una serietà da stordire. Nell'angolo in fondo, vedo un uomo dalla faccia scarna, dagli occhi infossati, dalla barba ispida e lunga. - Chi è colui ? domando al medico. -È un ex-impiegato di finanza, condannato a dieci anni di reclusione per prevaricazione. Quella condanna lo ha fatto impazzire. L' infelice era stato tratto a prevaricare per mantenere la moglie e sei figli ! Gli epilettici, i paralitici e gli affetti da pazzia incipiente sono seduti alla mensa comune. Un pazzo dal viso livido, coperto il capo da un berretto di seta, si fa innanzi tutto ilare, per abbracciare e baciare il dottore. - Grazie dell'amplesso, gli disse questi respingendolo. Era il celebre baritono P... di Milano. Faccio alcuni passi e mi trovo innanzi una faccia che avrei scambiata per quella di Vittorio Emanuele II, se non sapessi che questi - come 1' ultimo mortale - si consuma silenziosamente nelle cripte del Pantheon. - Ecco una vittima della prepotenza. Morta S. M., egli avrebbe dovuto salire al trono, se Umberto non glielo avesse usurpato. Guardi che perfetta rassomiglianza! Il demente si alza allora con dignità regale, mi saluta, e poi con voce concitata: - Morto mio padre, Vittorio Emanuele II, re d' Italia, fui fatto rinchiudere da mio fratello Umberto in un ospizio. Protestai energicamente contro questo atto, non nuovo del resto nella storia, e misi l'usurpatore in istato d'accusa. Ora aspetto che il mio popolo mi faccia giustizia. - Avete delle speranze? - Ne sono certo. Disse e sedette. - Dottore, ella permette che Sua Altezza, il futuro re d'Italia, mangi di quella pasta, e in quella ciotola ? - Crebbi educato alla sventura! rispose con fierezza catoniana il demente... Quella strana figura che rappresentava S. M. defunta, era una semplice guardia di finanza. Impazzì il 9 marzo, due ore dopo l'annuncio della assunzione al trono di Umberto I. Un altro commensale dalla fronte bassa e dal labbro inferiore molto sporgente, ci si avvicina e in dialetto siciliano domanda il permesso di dire al dottore una parola. - Cos' hai ? - Vorrei mi mandasse a casa. - Sarà fatta la tua volontà, disse battendogli della mano sulla spalla. Era un giovane che aveva, immerso nel cuore di un suo compagno un lungo coltello accuminato, semplicemente perchè questi lo canzonava chiamandolo " el Togn smanios „. - Ma e tutti gli altri, che sono lì mesti e muti, di qual pazzia sono essi colpiti? - Cosa vuole che le dica? La loro faccia terrea e allampanata, i loro occhi giallognoli, le loro mani scarne e chiazzate non dicono forse già troppo ? Allibii ! - La pellagra! dissi. - La pellagra! terribile flagello che miete più vite che non si creda. - E la pellagra conduce al manicomio ? - Altro ! In molti casi si manifesta la pazzia che può prorompere subitanea e vestire tutte le forme del gaio e del loquace, dall'esaltamento maniaco alla più cupa e feroce lipemania con tendenza al suicidio, all'incendio, all'omicidio; ma il più delle volte s' inizia con un ebetismo e una apatica prostrazione d' animo da rendere i pellagrosi malinconici, a trascinarli a atti di delirio persecutorio o di disperazione senza scopo. - Questa è resplicazione della malattia. Ma da che cosa è prodotta ? - Dalla miseria rurale. Si figuri che il contadino, quello così detto disobbligato, guadagna non più di una lira al giorno, quando almeno, o per gli acquazzoni o per altre ragioni, non gli è vietato recarsi alla campagna. L' altro invece, quello obbligato, non guadagna più di una sessantina di centesimi. Sì l'uno che l'altro hanno la mattina polenta e acqua, a mezzogiorno acqua e polenta e la sera polenta e acqua, dopo aver lavorato sedici ore ! Aggiunga la dimora in luoghi umidi, non ventilati e malsani per le putride emanazioni, e avrà la causa della pellagra - Secondo lei questo male endemico è prodotto... - Gliel'ho detto. Dalla miseria rurale. La rivelazione non m'era nuova. Ma in bocca a quell'egregio medico meritava qualche spiegazione. - Dottore, è lei socialista ? - Il cielo mi guardi da questa seconda pellagra. - Le idee ch'ella espresse or ora... - Sono quelle di qualunque galantuomo. Una recente e dotta statistica uscita or ora a Firenze, ci fa sapere che nella sola provincia di Milano nel 1836 si annoverarono 3075 pellagrosi; nel 1876, 5967 ; ora si può essere sicuri di non errare dicendo che sono triplicati. Nella provincia di Belluno ce n'è un finimondo. Vada a studiarvi il pellagrosario ! - Ella dunque vorrebbe concludere, che il maggiore contingente dei mentecatti, lo dà la mancanza di alimento ? - Nè più nè meno. Tanto è vero che in questo manicomio, se mai qualcuno guarisce, è in virtù del cibo, che, come lei ha potuto osservare, è sano e assai nutriente. Al secondo piano vidi una quarantina di commensali divisi in due tavolate. - La prima, mi dice il dottore, rappresenta quella degli scienziati, la seconda quella degli aristocratici. Vederli questi sapienti... che non san nulla, là, cogitabondi, con la testa fra le, palme, in preda a chi sa quali pensieri ! che sognan ora d'essere Pindaro o Raffaello, ora Dante o Buonarroti, che di- sputano di storia, di politica, di filosofia, di linguistica, di esametri, di pentametri, facendo di tutto un guazzabuglio di date e di cose, ti si stringe il cuore... Gli aristocratici invece sono più ciarlieri, e la loro manìa è quella di credersi discesi di magnanimi lombi o da personaggi che hanno occupato un'alta posizione sociale. Un uomo dalla faccia coperta quasi tutta da una folta barba ci guarda attentamente. - Cos'hai, di' ?... su, allegro. Vuoi andare in America? - No, rispose seccamente. Il poveraccio aveva veleggiato per il nuovo mondo e n' era ritornato più povero di prima. La miseria lo fece impazzire ! - Vi sono delinquenti in questo manicomio ? - Una ventina, dodici dei quali siciliani. Anzi, a proposito di delinquenti, le dirò un'idea che dopo tutto non è mia, poichè s'ebbe già il conforto d'illustri alienisti quali il Verga, il Biffi, il tarchini Bonfanti, il Tamborini, ecc. Non parrebbe a lei giusto che il mentecatto-delinquente venisse rinchiuso in apposito manicomio criminale, ove certamente la scienza potrebbe con maggior sicurezza fare le proprie indagini, rendendosi così anche giustizia a coloro, che ora sono qui confusi, amalgamati con questi grandi scellerati, il più delle volte simulanti una pazzia, di cui non sono mai stati affetti? - In massima io sono nemico di tutti i mezzi punitivi. Per me il pazzo vale il delinquente, come questi quello. Chi lo trasse al delitto ? La società, la natura, o entrambe. Si ha dunque ragione di punirlo ? Chi lo fece impazzire ? Chi gli alitò prima il reo soffio entro il cerebro? La natura, la società, o entrambe. Si ha dunque ragione di torturarlo ? Rigoletto scagliava al mondo un distico che può essere applicato a tutti i pazzi e a tutti i delinquenti della terra : Uomini e tu, natura, Vil, scellerato mi faceste voi! - Secondo lei, dunque, bisognerebbe schiudere tutte le prigioni, eh ? - Precisamente. - Ah! ah !... - Lasciamo questa discussione, caro dottore, e mi dica che cos'è questa baracca ? - È il teatrino dove convengono i più pacifici a recitare qualche commediola, dalla quale però si ha cura di togliere le frasi che potrebbero per avventura eccitare nell'attore una qualunque passione. - Questo divertimento ha fatto rinsavire qualcuno? - Lo scopo che ci siamo proposti col teatro è più semplice. È quello di far dimenticare, foss' anche per una mezz' ora, il loro stato distraendoli, cercando così di 'deviare le loro menti dall'idea fissa, percussoria, da cui sono travagliati. Un giorno mi venne il ticchio di assistere a una di quelle rappresentazioni... comiche. Non ricordo ora il titolo della commedia. So che gli attori erano sei. Alla seconda scena, uno che faceva la parte di primo amoroso, doveva dire : " Giulietta (che del resto era un uomo) mi amerai sempre ? „ Invece il pazzo gridò : " Giammai ! giammai ! „ Poi diede un pugno su una delle lucerne, e gridando come un ossesso infilò la porta. Inutile dire che la rappresentazione fu sospesa e che al commediante venne messa la camicia di forza. - A proposito di divertimenti, chiesi al dottore : hanno anche qui un giornale redatto da mentecatti, come a Pesaro, a Reggio a Siena, a Pavia ? - Lo si farà forse a Mombello, nel nuovo stabilimento. Chiacchierando, giungemmo nell'infermeria. Volti pallidi e macilenti, occhi stralunati e iniettati da strisce sanguigne. - Vede quel vecchio là in fondo, dalla cianfrogna spaventevolmente larga ? -Ebbene ? - Ha assassinato un parente perchè non volle prestarsi alle sue turpi voglie. Quello lì vicino che sembra uno scemo è un tenente dei bersaglieri impazzito per le frequenti libazioni alcooliche.

Milano sconosciuta e Milano moderna. -Puntata 38. - E quei due là che mi paiono affetti d'itterizia ? -Li consuma invece da due mesi la pellagra. -Oh, ma quel bimbo lì in mezzo, legato come un cane ? -Poveretto! Ha sette anni ed è già inguaribilmente pazzo, ed è per di più panofobo ! -Quand'è che fai giudizio, per san Gennaro ? dice l'egregio medico a un napoletano che mi pareva nè pazzo nè imbecille. - Managgia l'anima de li mortacci tui ! Quando tu mi lascerà tornà inta o paese mio... - Perchè non vuoi fare il soldato ? - Non saccio cavalcà... Il disgraziato era stato rinchiuso come pazzo alla Senavra perchè non seppe o non volle mai cavalcare. - Quando, soggiunse il dottore, la squadra doveva salire in groppa, egli si buttava a terra, si dibatteva e gridava come un forsennato. - Dottore, guardi quello là che attraversa or ora il corridoio. Chi è? L'amico medico a questa domanda si passa la mano sulla fronte, e trae un lungo sospiro. - Quegli, mi dice, è, cioè era uno scultore che avrebbe dovuto dar dei punti a tanti. Basti il dire che fu colui che preconizzò il genio di Monteverde. Finalmente ci troviamo nel reparto delle donne. Appena entrati, veggo una fanciulla svelta della persona ch' io prendo addi- rittura per una fata in atto di baciare uno di quei putti graziosi e paffutelli, come li sapeva fare il povero Cremona, o come li sa scolpire ora il Borghi. È vestita come una signorina e non ha nulla di comune con le femmine eccitate che si veggono in quel corridoio. Il volume dei suoi capelli biondo-scuri le scende negligentemente su due spalle d'avorio ; una testa mollemente inclinata che esprime un dolce abbandono ,: due labbra un po' aperte che sembrano balbettare il linguaggio tremante e incerto del piacere e due occhi natanti in un umido cristallo che ti pare versino la lacrima del desiderio.... Ah, è invero un portento di fanciulla ! Avevo in quell'istante tanto bisogno di vedere un essere sopportabile, che mi sarei gettato - se il dottore non era - ai piedi della leggiadrissima etèra. - Chi è mai quella creatura ? - Una studentessa di canto. La vollero amante di un Tizio e impazzì. Mi ricordai allora della pietosa storia di Angelica e Ciccio, descritta con penna maestra da Paul de Musset. - Ma dica, perchè non è vestita come tutte le altre ? - Per un riguardo che le usa la Direzione. È tanto buona... -E uscirà da queste spaventevoli mura ? - Forse.... Giungo in mezzo alle altre donne che stavano mangiando anch'esse la minestra: mi fermo a guardarle attentamente. Non c'è bisogno d'avere la penetrazione di Lavater per scorgere su quei visi un qualcosa di strano e di commiserevole a un tempo. Le loro pupille cilestri in campo giallo, le loro teste pelate, le loro fronti ora depresse e ora fuggitive, le loro guance cavernose, i loro nasi staccati o dilatati o pioventi in bocca, le loro labbra sformate e bavose, dicevano più che tu non volessi. Sedevano tacite alla mensa senza punto darsi per intese della nostra presenza. - Dov'è, diss'io, l'attrice del teatro Milanese? - È partita ieri per Mombello. - Passiamo nel dormitoio delle donne, dove constato che i letti sono alquanto migliori di quelli del sesso forte; e ci troviamo nello stanzone delle furibonde. Che strazio !... Vedere infelici che sbraitano e smascellano dalle risa, giù sdraiate a terra ora supine e ora bocconi, incatenate alla parete come sí farebbe con una scrofa, dilaniate forse da una fiamma che si è impadronita del loro pensiero - ti senti gli occhi molli di pianto.... - Mi dica un po', dottore, com'è che tutte le donne sono di una decrepitezza da non lasciar scorgere neppure una precoce vecchiaia ? - È la pazzia che le fa sembrar tali. Guardi, per esempio, quella là, sboccata come la ciotola che ha tra le gambe, che commette i lazzi più osceni. Non ha ancora 25 anni. Io l'avrei detta sessagenaria. - E, se è lecito, la sua pazzia da che cosa è prodotta? - Dall'abbondanza di mercurio che le venne somministrato durante le sue replicate malattie. - Era forse?... -Una prostituta del vicolo Incarnadino. - Povera tosa! - Quella lì vicino sdentata, che sembra una luna piena, ha 28 anni. Era una cucitrice. Impazzì per i frequenti digiuni a cui doveva sottostare, in grazia del lauto guadagno che le procacciava l'ago. Ultimo androne. L'androne dei pericolosi a ore fisse. Sembra una gabbia di mostri in forma umana. C'è l'epilettico, c' è quello dalla parlantina inesauribile, c'è quello affetto da nostalgia, c' è il misantropo, il catalettico, c'è il furioso, c'è quello che legge un pezzetto di giornale, c'è quello che vuole il mozzicone, c'è lo spudorato che ti dice parole da far cadere tramortito un uomo della forza di Baccio Maineri; c'è.... Insomma là dentro si condensano quante mai specie di spiriti traviati abbia prodotto la terra.

Veder l'uomo spirar che odiato avete, Tal gioia hanno gli Dei.... Ciò solo io bramo. Odiare e vendicarmi....

- Ma questi sono versi di un galeotto. - Lacenaire, mi risponde il dottore. Eppure, vede; quel demente che li pronuncia con tanta rabbia è il più mansueto dello Stabilimento. - O come si spiega dunque ? - Che vi sono delle pazzie che rincorrono eternamente; un problema, come la Verginità che ha partorito il Redentore. - Con rispetto parlando, dissi, chinando il capo. - Mi dia quel garofano! mi dice, strappandomelo dall'occhiello, un giovane dalla faccia sparuta e dalle occhiaie terribilmente dilatate. - È il più irrequieto dello Stabilimento. Era anche questi soldato di cavalleria. Impazzì dopo due anni di servizio. - E dire che il De Amicis di prima maniera, risposi, descrisse la vita militare come un idillio...campestre !... Dottore,mi saprebbe dire chi era quello in fondo alla mensa maschile che pareva terribilmente imbronciato? - Era un giornalista. Pare che abbia avuto una vita tribolata. Gli diede di volta il cervello quando un altro prese la direzione del giornale. Egli si era messo nella testa che doveva esserne lui il direttore. E ora, il poveraccio, aspetta di minuto in minuto qualcuno che gli comunichi che la sedia direttoriale è a sua disposizione. E ora addio, casa d'inferno! mura che rinchiudete i dementi ! I vostri gemiti disperati, i vostri dolori inascoltati, mi terrorizzano. Le vostre urla, i vostri latrati mi rintronano ancora nel cuore. Addio adunque e per sempre! XXX. L'affollamento alle porte del teatro massimo

Ore otto. È una mattinata russa. Si cammina come in un tessuto grigiastro. I senza guanti si soffiano sulle dita e si nascondono le mani sotto le ascelle. Le barbe passano biancheggiate di brina, i baffi piegano sotto il peso dei diacciuoli e le signore s'involano inghiottite dai mantelli con gli alti colletti di pelliccia o di tibet nero. Io vado a sgelarmi lo stomaco con un po' di grappa alla Bottiglieria Nazionale, al margine di via Case Rotte,quasi di faccia all' angolo del palazzo Marino. C' è un fumo di pipa alcoolizzato che mi va in gola come un prurito. Vi trovo parecchi reporters che, aspettando l'ora di dare un'occhiata al libro nero della questura, si sono sommersi nella conversazione teatrale. - Vai stasera al Falstaff ? - No, potessi ! Ne avessi i denari ! Il reporter, conosciuto per il suo cappello bigio alla tirolese, per le sue scarpe grosse e per quel suo modo di piegare la spalla destra quando parla, assicura i colleghi ch'egli non andrebbe neanche se avesse le tasche cariche di biglietti di banca. Non è mica per fare torto a Verdi. Lui è wagneriano, ma ha dell'ammirazione per il genio di Busseto. La sua stizza è tutta per l' impresa che permette il trionfo del bagarinaggio. Una truffa che lo stomaca. La gente è obbligata a comperarsi i biglietti di seconda mano e pagarli a peso d'oro. Se invece di essere un semplice reporter, fosse lui il direttore del giornale che gli dà da vivere, non esiterebbe un minuto a trascinare l'impresa sul banco degli accusati. È una truffa sulla quale siamo obbligati a chiudere gli occhi. I giornali sono indipendenti a parole. In verità sono pieni di obbligazioni. Non c'è avvenimento che non costi loro qualche favore. Il critico teatrale ha il suo biglietto, d'ingresso, e nessuno trova a ridire. Il quotidiano inserisce gratis 1' annuncio dello spettacolo e l' impresa invita il redattore speciale per la stagione. Ma ci sono 'anche gli altri redattori, i quali, o di riffe o di raffe, vogliono frequentare i teatri e farli frequentare ai loro parenti. Che ne nasce ? Che bisogna cercare. E a chi vi regala, voi non potete dare dei calci. Tenetelo a mente. Quello dal faccione butterato, con gli occhi cilestri e i capelli alla brutus, non è sofistico. Egli ha imparato il vivere del mondo e vede le cose da un altro punto di vista. - Voi siete bigotti che avete sempre qualche giustizia da

[Didascalia immagine:] Aspettando che si faccia porta. compiere. Ci parlate di libertà e la vostra libertà è satolla di restrizioni. Non volete la libertà di commercio ? Alla buon'ora ! L'impresa affigge su tutte le cantonate che domani, supponiamo, alle dieci, gli sportelli della Scala saranno aperti per la vendita dei biglietti. Io sono un vero speculatore e mi presento prima di voi e degli altri. Se mi riesce, li compero tutti. È un negozio questo che avviene sui mercati e nelle Borse del mondo. Dove, in qual paese l'audacia del denaro è mai stata biasimata? Io compero il frumento, le biade, l'olio, il ferro, le azioni di non importa quale intrapresa a mio rischio e pericolo. Se perdo, nessuno se ne duole. Se vinco, mi si esalta con gli aggettivi superlativi. Compero tutti i biglietti per la prima del Falstaff. Il pubblico non è obbligato ad assistervi e un accidente qualunque può trattenerlo a casa. La morte del re o della regina, un disastro nazionale, una rivoluzione politica o che so io. Vorreste forse negare che ho messo una ingente somma allo sbaraglio e che non ho diritto al compenso di alterarne i prezzi ? Credetelo: il bagarinaggio è un affare come tutti gli altri. Il terzo, col naso a punta, con la faccia picchiettata di macchioline nere, con le pupille perdute nel glauco, si dà una scrollata di spalle e sbadiglia come un animale. Lui non trova gusto a parlare con questi bigotti di redazione che lo accusano di lavorare in un giornale che combatte ogni sera i suoi principii. Nel giornalismo lui non è che un operaio intellettuale. Vende la penna al miglior offerente, come il lavoratore le braccia. Il ventre non deve essere anteposto agli ideali. Il teatro per lui è una questione risolta da quando era a scuola. È un'istituzione pubblica. Diverte, educa, istruisce ? Fate largo al pubblico. Spalancate le porte. Il popolo entra nel tempio dell'arte. Il popolo va in casa sua! Con il teatro senza impresario e senza ingresso a pagamento, voi portate sul palcoscenico la rappresentazione che è il sogno delle generazioni nuove. Vedete oggi. Milano intera vorrebbe sentire il nuovo lavoro verdiano. Siamo una popolazione di orecchianti che gode le orgie musicali cogli stessi rapimenti con cui i cromwelliani godevano le orge religiose. Una cavatina che esca da una gola illustre ci porta nelle nubi, ci dà l'estasi, ci ubriaca. Ma in questo paese non basta essere musicomani. Bisogna avere anche i quattrini per i biglietti d'ingresso. Stassera, domani sera e fino all'ultima rappresentazione, alla Scala non entreranno che i privilegiati. È un'infamia che posso capire alla entrata del Manzoni, amministrato dagli azionisti o del Lirico, nelle mani di uno sfruttatore. Ma non a quella della Scala. La Scala divora la dote del Comune e la borsa del Comune è mia, è vostra, è di tutti. È un delitto dotare il teatro della gente affondata nel benessere con il denaro dell' intera cittadinanza. Voi consiglieri che votate queste somme triennali siete dei pazzi o dei delinquenti o dei fomentatori di odio di classe. In America vi si lincerebbe al primo albero e in Inghilterra vi si accompagnerebbe a casa a colpi di uova putride. - Che cosa voglio dire con la rappresentazione sognata dalle nuove generazioni ? La rappresentazione ideale. Con il teatro dei nostri giorni tutto è adattato agli introiti e ai guadagni. Il decoratore può essere un imbianchino che ti ammucchia gli scenarii di spuma o calcina colorata per riprodurre un mare o un orizzonte agitato o dei paesaggi verdeggianti e fioriti. Egli è inconsapevole

Milano sconosciuta e Milano moderna. Puntata 39

[didascalia immagine:] Parlano come se si conoscessero da vent'anni(pag.307) che la sua scopa distrugga nel pubblico il gusto per le bellezze dell'arte. Un palazzo col porticato a colonne che lasci vedere la poverezza grigia imbrattata sul cartone, vi sfigura la scena che si sta svolgendo. Impoverisce e imbruttisce tutto. I costumi degli attori e delle attrici diventano i costumi scolorati e frusti stati appesi ai chiodi della bottega del cencivendolo. L'oro assume la sfacciataggine del similoro, i brillanti vi intristiscono gli occhi come i frantumi di un bicchiere di cristallo e le pietre preziose dé' braccialetti vi suscitano la ripugnanza. Prendiamo il vestiarista. Il vestiarista del teatro della speculazione è un imbastitore che rompe la grandiosità della figura con i tagli bislacchi del falegname. È un mestierante che con delle forbiciate e dei puntacci mette sul palcoscenico delle coriste vestite come quelle della Mignon di sere sono al Lirico (1). Avrei buttato via il canocchiale che me le aggruppava sotto gli occhi come in una fotografia istantanea. Erano degli orrori femminili coperti di infimo percallo smunto modellato e cucito assieme dalla cucitora di sacchi. Il pensiero dello spettatore davanti a questi quadri che masturbano l'arte rappresentativa, invece di elevarsi alla perfezione della forma, nabissa nelle impressioni sgradevoli, come quando si è in un cimitero popolato di statue del marmista. Il sarto artista è un professore che migliora il gusto del pubblico con delle continue lezioni di arti plastiche. Egli ti dà, se posso esprimermi in questo modo, l'armonia delle parti del corpo umano. Così si può dire dell'acconciatore o dell'acconciatrice di teste. La donna uscita dalla scuola di pettinatura conosce gli effetti delle trecce accavalciate o della dirizzatura netta dei capelli crespi o distesi o a ciocchette. Le ombre di un ciuffetto o dei capelli che sfuggono qua e là hanno per la pettinatrice artista un' importanza somma. Aggiungete che le acconciature completano la storia dei costumi. Ora il vestiarista e la pettinatrice che non avessero fatto


(1) Una nota spiegativa. L'autore, rifacendo il capitolo, infarcisce un po' del presente. un corso di arte pittorica attraverso i secoli non potrebbero mai riprodurvi, per esempio, la superba scena della grande rivoluzione francese delle guardie del corpo del re, che banchettano mettendo sotto i piedi la coccarda e delle donne capitanate da Maillard che gridano sotto le finestre dell'Hotel de Ville : Du pain ! `Des armes ! È necessario una conoscenza dei costumi del periodo eroico. In una parola, per distinguere rappresentazione da rappresentazione, vi dirò che nessun teatro del mondo può mettervi in scena la Tetralogia di Wagner con gli splendori, con gli artisti e con la esattezza degli ambienti e dei costumi come è stata messa in scena al grande teatro di Bayreuth. Perchè ? Domandatelo al re Luigi di Baviera. Non è che il mecenate reale o il Vanderbilt con la testa suggestionata dalle immagini melodiose che sia capace di aprire il forziere inesauribile per il supremo godimento della nuova filosofia musicale. E siccome l'era dei mecenati non è più dei nostri tempi, così non abbiamo che il Comune che ci possa offrire uno di questi divertimenti spirituali che modificano il concetto artistico e musicale dell'uditorio e restano indelebili nella memoria di coloro che hanno sviluppata la sensibilità per le creazioni ritmiche. Ore dieci. Il sole ha snebbiato l'orizzonte ; ma il freddo è ancora intenso. Ci sono su e giù dei capannelli. L'ingresso al lubbione è bloccato da una quarantina di persone decise a morire piuttosto che perdere il terreno occupato. È incominciata la conversazione. Parlano come se si conoscessero da vent'anni. Il vecchio bassotto, con il cappello a cilindro delle grandi occasioni, ci è venuto con l'ombrello perchè il tempo alle volte giuoca dei tiri. Per lui non fa ilfreddo che si dice. Bisognava essere stati qui alla prima dell'Otello.Cristo che giornata! Arrivò in lubbione con i piedi di ghiaccio e le orecchie gelate. Ma non se n'è pentito. Se si vogliono godere i propri comodi si prende una poltrona in platea come fece lui per la prima del Trovatore., Sissignori, lui non ha mai perduto una prima di Verdi. Nel '43, alle sette di sera, egli era allo stesso posto che aspettava si facesse porta per la prima dei Lombardi. Non ha memoria e non si ricorda neppure dei cori. Ma nessuno può suonare un pezzo di musica dell'autore del Rigoletto senza che il suo orecchio non se ne accorga. La sola cosa che non gli vada è quella notizia data dalla Terseveranza, in una appendice del Filippi. Non può capire come un uomo di genio non riesca a comporre i suoi capolavori che nella sua stanza da letto, dove c'è sempre un po' di puzza della notte. Il " sì, vendetta, tremenda vendetta „ è una ispirazione della stanza ove dorme con la moglie. I genii sono degli originali. Le melodie e i cori del Guglielmo Tell sono stati scritti da Rossini nella stanza da letto, proprio come il Barbiere di Siviglia. L'altro, il vecchio vicino, quello dagli occhiali verdi, è venuto apposta, perchè non crede che il Verdi possa scrivere un'opera buffa. Ci si è già provato e ha fatto fiasco. Verdi è un isterico. Non gli può negare nè la teatralità, nè lo stile spasmodico. Ma nessuno potrà mai convincerlo che sieno in lui la tenerezza e la nota ridanciana. Noti è lui che ha scritto il Barbiere di Siviglia. Ma è lui l'autore di quello sbadiglio sentimentale che si chiama l'aria cantata dalla Gilda prima di coricarsi a subire il grande oltraggio. Il portico dell'entrata principale è così gremito che la gente si è già ingrossata fino al binario. Il giornalivendolo respira a disagio. Non vorrebbe mai che venissero queste brutte giornate che lo stordiscono e gli sopprimono il diritto di essere in casa sua. Non gli sono mai piaciuti i tumulti. La piazza è grande e i cappelloni dovrebbero mantenere lo spazio libero. Se si trattasse di un povero girovago con quattro persone per guadagnarsi una fetta di polenta, vedreste come gli sarebbero addosso ! Una volta c'era più rispetto per la libertà individuale. Adesso vi vengono sui piedi senza domandarvi pardon. Vender Sicuro che vende. Non è mica ai quattro venti per i begli occhi della gente. Vende qualche libretto di più, ma la sua quiete vale bene qualche cosa. Tante volte si spreca il fiato per niente. Le persone prendono in mano il numero unico dell'Illustrazione Italiana, lo guardano, lo spaginano, vi lasciano le loro ditate e poi ve lo buttano lì con la scusa che è caro. Asini ! non vi si dà un'edizione principe, con degli articoli dei più famosi scrittori per cinquanta centesimi ! Maledetti carri ! Brutti boia! Mi fanno saltare in aria i nervi. Non c'è buon senso a lasciar passare i ruotabili in mezzo alla folla. Domani poi, quando vi sono delle disgrazie, ve ne pentite. Sono appena passate le dodici e i capannelli e i gruppi si sono perduti nella moltitudine che gira in San Giuseppe e s'allarga dietro l'edicola verso la birraria sotto il portico del lubbione. La comparsa della prima signora ha sollevato alle undici e mezzo il battimano come un'aria cantata che sia andata al cuore. Vi venne ravvolta in un caschemire indiano sotto una toque nera come lo scialle, illustrato dalle aigrettés che si curvano a destra e a sinistra come salici piangenti. Il signore dai cernecchi e dal pizzo mezzo grigio sotto i baffi tabacco trova stupido che si vada a teatro col cappello in testa. E un'insolenza femminile che gli uomini dovrebbero far cessare. Con delle donne in platea, addio spettacolo. Non si vedono più che le cappotte con delle ali di ciniglia o dei cappelli di feltro con la tesa larga e le quattro piume in alto come una provocazione o una sfida. Si ricorda benissimo della rabbia che prese all'ultima rappresentazione con in faccia una testa inquieta sotto il cappellone sormontato dalle quattro piume unite che nascondevano il palcoscenico. Il vicino di questo signore non è, dello stesso parere. Lui vorrebbe in teatro la testa femminile senza cappello per una ragione estetica. Quanta leggiadria in una testa piena di capelli ! Ne aspirate il profumo, la giovinezza ! Uh, come gli piacciono le testoline che gli lasciano vedere l'eleganza dell'acconciatura e la freschezza della nuca ! Le due signorine in giacchetta attillata e guarnita di astrakan alzano gli occhi con dei risolini di compassione e si voltano dal- l'altra parte. La madre, con le spalle coperte da un Mouravieff guarnito di peli di lepre, non ha ragione di prendersela coi brontoloni, perchè essa va all'opera, tutti gli anni, con un copricapo russo di lontra. Ma se dovesse dire qualche cosa di loro sarebbe sul baccano che fanno in platea. Sembrano alla bettola. Ore due. La circolazione dei veicoli è cessata. Si incomincia a sentirsi pigiati. Corre voce che una delle quattro comari del cicaleccio sia gravemente ammalata. È una notizia che commuove e fa nascere il mormorio. Stare qui otto ore per poi sentirsi dire che la prima donna è andata in letto a curarsi un raffreddore ! Ah no, signori impresarii ! Sostituitela con un'altra. Non è giusto che noi pubblico si stia qui alla mercè del capriccio di una cantante. Voi avete annunciata la rappresentazione per questa sera e noi stassera vogliamo udire il Falstaff. I vostri impicci non ci riguardano. Alcuni fanno osservare che non sta bene la prepotenza. L'impresario non è nella gola della artista scritturata. E le artiste scritturate non si sostituiscono. Voi non verrete a dirci che siete indifferenti di sentire la Melba o la Patti o la Calvé o la Bellincioni. Tra loro c'è della differenza. Sono usciti i giornali. Gli strilloni gridano come dannati e li vendono a ruba. Coloro che hanno avuto due dita di cervello si sono messi in tasca un pezzo d'arrosto o una coscia di pollo con un po' di formaggio e una mezza bottiglia di vino. Una fiammata musicale scalda i sensi, ma non si sta in piedi tutto il giorno senza mettersi qualche cosa nello stomaco. Dove non si legge si chiacchiera. Se ne sente il bisbiglio fino alle code. Ci sono qui quelli che hanno parlato con Rossini o che ne hanno raccolto gli aneddoti. Il signore addossato alla colonna non è punto meravigliato dell'arsura di melodia verdiana. Egli si ricorda del gentiluomo milanese che non seppe astenersi dalla rappresentazione rossiniana mentre gli moriva il padre. La sua lunga carriera di spettatóre al teatro dell'opera lo ha messo d'accordo con Gauthier. È un pec- cato che non si sia trovato modo di conservare queste superbe decorazioni o questi costumi che sono il risultato di uno studio profondo dell'ambiente in cui si svolge il dramma o il melodramma, di queste scene sulle quali è diffusa l'arte di un pennello illustre. Immaginatevi se si potesse avere la guardaroba shakesperiana, la scenografia shakesperiana e la bacheca delle gioie di Enrico VIII, di Amleto, di Otello, di Lady Macbeth ! Che cosa non si darebbe ora per vedere le perle nei capelli di Anna Bolena, gli abiti di vecchia del Falstaff, il costume dello spettro in ,Amleto o la palandrana dell'ebreo Shylock o il costume nero e scarlatto del conte di Gloster o quello del paggio di Anna nelle Allegre Comari di Windsor ! Terminata la stagione alla Scala scompare l'osteria della Giarrettiera, scompare l'anello di Falstaff con il quale suggella la cera delle due lettere, scompaiono gli abiti di Pistola, di Robin, della Quickly, della Ford, di tutti ! Tutte queste scene, tutto questo lusso, tutta quest'arte, tutte queste ricchezze vanno a muffire nel dietroscena e poi addio. La posterità non ne saprà mai nulla. Rimetterà in scena i capolavori lavorando sulle supposizioni. Barbari ! L'uomo in giacca che gli è da fianco non vorrebbe dargli dell'asino ma se lo meriterebbe. Se si conservassero tutti gli indumenti, i mobili, le calzature, le gioie e le scene delle rappresentazioni, non ci sarebbe più posto per i cittadini. A lui importa proprio nulla di avere i fiori appassiti della prima Ofelia o la finta barba bianca del re Lear di quel tempo. Il signore addossato alla colonna si volta dall'altra parte con un gesto nel quale è la sua punta di disprezzo e soggiunge che non si alludeva che a coloro che sentono profondamente l'arte. Ore cinque. L'allegria del sole se n'è andata e la nebbia bigia infittisce discendendo rapidamente verso i tetti. La maggioranza trova il libretto scritto in una lingua purgata, spigliata, che rende esattamente i personaggi dell'immortale creatore di drammi di una potenzialità superiore ai nostri nervi. C'è comicità, c'è eleganza, c'è finezza di cesellatore. Vi è il linguaggio parlato, caldo, libero, naturale, e vi è il linguaggio dello stilista che ammattisce sulla frase. La folla si è estesa, si è allargata. È una calca che si prolunga a destra fino al caffè dell'Accademia e a sinistra fino al caffè Martini. È una moltitudine che non si vede che alle prime rappresentazioni che chiamano un po' di spettatori del teatro di provincia e del teatro estero. C'è il collo chiuso nel solino alto fino all' arcata del mento e c' è il camiciotto a maglia dello sportsman. C'è il paletot, c'è il tabarro, c'è la giacca, c'è la redingote, c'è il soprabito con la mantellina, c'è il cappotto con il cappuccio, c'è la pelliccia, c'è il cappello molle, il cappello alla tirolese, il cappello socialista, la tuba, la berretta da viaggio e il cappello duro. È un pubblico di piccoli borghesi o di borghesi taccagni che preferiscono dieci lire in saccoccia alla dolcezza di adagiarsi in una poltrona soffice senza la noia di sciupare l'esistenza in un affollamento come questo. L'impiegato sovraneggia. Egli ci è venuto con il solino che gli sega la carnosità del mento, con la cravatta colore fuoco puntata da una pupilla fosforescente e con i guanti foderati di flanella in mano, alla inglese. Non manca il dilettante dalla faccia patita e dal sorriso blando del sognatore che muore dietro una serenatà di Schubert o un notturno di Chopin, il romantico che componeva tra uno svenimento e l'altro. Se si potesse andare a pranzo ci verrebbe anche la signora che esce dal gruppo col suo Ivanoff di lontra, chiusa nel colletto largo che le bacia il rialzo dei capelli rossicci. Ieri, a quest'ora, era a tavola in famiglia che piluccava l'ala di una quaglia parlando di Verdi. Ci è venuta perchè è la moda. Non si può stare in un salotto senza sapere certe cose. Ma non è entusiasta della musica che parla ai sensi come se fossimo tante bestie! La musica elettrizza e affascina. È capace di far danzare un cavallo o piroettare un cane. Ma lei è per le sonorità orchestrali che passano nelle orecchie come folate di pensieri. E il giovanotto maturo della conversazione le dà ragione. Di Verdi non resteranno che i titoli delle sue opere. È ancora in vita e già le sue composizioni teatrali non sono più una necessità del repertorio. L'Aida, uno dei suoi tre o quattro capolavori, non la sentiamo da non si sa quanti anni. E nessuno se ne lamenta. La ragione è che il wagnerismo fa dei passi giganteschi. Rileggeva ieri l'altro le lettere del Filippo Filippi, il critico musicale ch'egli ha 'conosciuto alla Fiaschetteria Toscana, ove soleva rifocillarsi con uno spontino prima di avviarsi a riempire la sua appendice. Qualche volta la sua penna barellava come un uomo alticcio. Era capace di lasciarsi sdrucciolare una chioma eburnea. Ma era l'unico critico milanese che sapesse di musica. I suoi giudizii venivano telegrafati e tradotti in tutte le lingue. Lo hanno conosciuto anche i due uomini attempati in tuba. Era alto, grasso, buono come un fattore di campagna dei tempi del Porta. Portava su due spalle di facchino che non piega una testa enorme coperta di capelli lunghi, neri, ravviati dietro le orecchie. Il suo faccione carnoso, sbarbato, era la negazione di quello che dicevano i suoi nemici. Che era fegatoso, parziale, capace di lasciarsi corrompere dai biglietti di banca dei tenori e delle prime donne. Per degli anni si è andato susurrando che gli anelli massicci con le pietre preziose ch'egli aveva alle dita gli erano stati dati in cambio degli aggettivi illustrativi delle sue appendici. Che colpa aveva lui se glieli regalavano? Tutti sapevano che il dia-

Milano sconosciuta e Milano moderna. -Puntata 40. [didascalia immagine:] Il giornalivendolo respira a disagio (pag. 308). mante luminoso, grosso come un chicco, confitto nel suo cravattone, era un ricordo della Patti Chi di noi lo avrebbe rifiutato ? Nessuno vorrà credere che la diva aveva bisogno di comperarsi gli elogi della Perseveranza. Ore sei. Si incomincia a essere stanchi. Di tanto in tanto si sente una risata che fa voltare la testa o la discussione vivace tra avveniristi e italianissimi. I primi buttano sulla faccia dei secondi i Lohengrin e i Maestri Cantori. Sono opere che hanno dinanzi loro, a dir poco, almeno un secolo. È una musica che fa pensare, che vi mette nel cervello del liebig intellettuale. È una fusione della musica e della poesia. La sua influenza è stata immensa. La sentite anche nell'Ocello del Verdi. Il compositore patriota ha dovuto convincersi che la musica per la musica è morta. È della musica artificiale, convenzionale, scipita, che lascia affranti, istupiditi come due bicchieri di champagne scellerato. Quella del 'Wagner è condensata di pensieri. Tu vi senti la vita, come senti il naturalismo nei romanzi zoliani. I verdiani se la cavano con delle spallate. Nessuno ha mai uguagliato il maestro italiano. Il Trovatore e la Traviata rimarranno fino a quando saranno palpiti e lacrime per le più alte bellezze musicali. I monelli, sapendoci al buio, tirano da una parte e dall' altra delle bucce di arancio e dei gusci di noce. Non c'è più rispetto. Ai tempi della signora grassa, in fondo, nessun ragazzo si sarebbe permesso di queste villanie. I padri e le madri non si occupano più dei figlioli. Li lasciano venir su come dio vuole. Beati i giorni in cui uno scaccino di sacristia ne faceva scappare delle frotte con la semplice minaccia di un'orecchiata. È già uscita la Sera. La Sera ! La Sera !! Guardate se è il modo di gridare. Non siamo mica sordi, diancine! Si ha paura che non ci si stia tutti. C' è qui tanta gente da riempire il teatro due volte. Dio sa dove ci metteranno. Almeno si facesse posto con giudizio. Se ci si lascia entrare tutti assieme finiremo per ammazzarci. Parecchie signore si trovano pentite. Il Falstaff va bene, ma quando si è morti si è morti. Gli uomini insegnano loro di tenere i gomiti puntati e di lasciarsi portare dalle ondate, senza resistenza. Si 'è sentito come a cigolare un cardine. È bastato per mettere tutto l'esercito in movimento. Il baccano cresce. La gente è sulle spine. Non mancano che pochi minuti alle sette. Ciascheduno si prepara alla lotta per la vita, toccandosi il portamonete o il portafoglio o l'orologio. Fortuna che non ci sono i ladri. Se no, potrebbero fare una giornatona. Vi sarà anche Carducci. Ma lui, dopo la strofe alcaica che gira la chioma reale con la penna che sa le tempeste, non ha bisogno di farsi schiacciare i piedi. Verso l'edicola c'è parapiglia. Si tirano dei pugni e si sacramenta con delle parolacce che fanno arrossire le donne. Silenzio ! Si è disillusi da un altro falso all'arme. Ecco che si vedono i chiari interni. Si è tutti con tanto d'ansia. Attenti! C'è ancora tempo di abbottonarsi il paletot. Ecco che si apre. La gente si rovescia alle entrate con una violenza che spaventa. Si spinge da tutte le parti. La folla vi vorrebbe entrare compatta. Le signore desiderano che si vada adagio e si sia un po' più educati. C'è 'giusto tempo da pensarci. Qui non ci sono che dei teppisti. Il più mascalzone sarà il più fortunato. Avanti! Si va avanti a spallate, tra le grida di coloro che si sentono urtati, portati, schiacciati. Dalla scala discende il grido che si muore. È come se si dicesse : su, coraggio, fate peggio ! Si sgomita. Gli uni si precipitano sugli altri come degli assassini. La confusione diventa generale. Taluni riescono a fendere, a sgruppare, sbattendo uomini e donne sulle muraglie. Aiuto ! Si imbestialisce. I portieri non hanno più fiato. Lo scompiglio è generale. Su in cima si è bloccati. Non c'è più posto. Bisogna discendere. Pare una rivolta. Coloro che sono in alto si voltano, con gli occhi spaventati, spingendo con le mani la massa che non si rompe, infuriando dovunque è la resistenza. Fate largo che una donna è svenuta! La moltitudine non trova lo sbocco e gira su sè stessa come strangolata. Finalmente si riesce a slargarci, a riacquistare la respirazione. Sotto il portico sono incominciati i tiri a due. Si sta bene in carrozza. Nessuno vi pesta i piedi e si discende all'entrata, salutati dall'inchino del guardaportone in calze bianche e scarpe scollate. Le signore nelle grandi tolette diffondono profumi e escono dalle portiere volgendosi superbamente sullo strascico sfarzoso e dispiegando i grandi ventagli piumati e i seni costellati dalla luminaria del gioielliere. I desiderii si affollano e i pensieri degli spettatori si insinuano e strisciano tra le sinuosità tepide delle mammelle commosse. La pornografia si scalda. Sfilano colli eleganti cinti di collane piene di barbagli e tesori di carne chiusi nella ricca bacheca della sarta. Ore nove. Ecco le prime note dell'orchestra. La piazza si è spopolata. I pitocchi si sdraiano sulle panche in giro al Leonardo da Vinci e russano e peteggiano maialescamente come in una locanda. Porci ! XXXI. L'Ergastolo di Porta Nuova.

Questo penitenziario, foggiato a carcere cellulare per ordine del governo di Maria Teresa, ha un secolo di vita. È un minotauro che inghiotte più di 200 condannati all'anno, i quali si succedono alternativamente per mantenere il numero costante di 500. In cento anni avrà dunque ingoiato 20.000 persone ! Ventimila persone senza avere avuto un Giugurta, un san Pietro, un Tasso, un Pellico, che facesse ricordare riverenti quelle mude o chiamasse qualche benedettino come Mabillon, o qualche poeta come Byron, in pellegrinaggio ! Oh, la sventura ! la sventura ! I cinquantamila abitanti furono tutti plebei : anzi bruti : anzi zavorra della gran nave sociale ! Solo allorquando essi caddero sotto l'ugna terribile della giustizia, la società li ha considerati uomini, per poscia schiacciarli, martirizzarli e ridurli numeri. Oggi che macellabil carne io sono, Uomini mi crete e larghi m'assentite Un pensiero, un voler, un senso, un'alma E forse un cor! Affè.... grazie ven rendo ! (1) Passati per diversi androni, ci trovammo nel cortile vicino alla fabbrica dei bottoni.


(1) Bovio, L'uomo belva. Al nostro apparire (eravamo accompagnati dal segretario della casa) il secondino della camerata batteva tre volte il palmo della mano e i condannati si alzavano in piedi, si levavano una pezzuola, detta là dentro cristiana (berretto), e portavano la mano militarmente al capo, in segno di saluto. Innanzi a quegli infelici, cui la legge ha perfino sbattezzati, ci sentivamo compresi da un profondo rispetto. La nostra testa rimaneva scoperta, malgrado le vive preghiere del segretario " di star comodi „. Guardammo con qualche attenzione i bottoni che si lavorano là dentro, e che possono rivaleggiare ormai con quelli di Francia per eleganza e finitezza, e poi c'incamminammo. I numerizzati portarono un'altra volta la mano alla fronte. Visitammo i fabbri, i calzolai, i tessitori, i falegnami, i lavoranti in mobili, gl'inverniciatori e i canestrai, i quali ultimi per lo più sono vecchi resi impotenti a un lavoro più faticoso. Un silenzio sepolcrale regna in tutta la casa. Non abbiamo udito ripercosso che l'eco delle nostre parole. Difficilmente si può distinguere la classe a cui appartiene il delinquente : le teste sono rase come quelle dei certosini ; le facce son tutte di un color terreo e sbarbate come il palmo della nostra mano. Oh, vederli là tutti vestiti a un modo, numerizzati a uno stesso braccio, senza che dalla loro bocca esca un gemito per anni e anni, ti si schianta il core ! E tuttavia come sono mansueti ! Un segno del secondino basta per farli muovere, girare e rigirare, come si vuole. E la società li punisce come belve feroci ! Ma, dite, non hanno forse là, nelle mani, mazze e martelli, e lime e coltelli e lesine, e spole e uncini, per diventare in un baleno da carcerati carcerieri?

Passiamo nell'infermeria : Quivi sospiri, pianti ed alti guai Risonavan per l'aer senza stelle, Perch'io al cominciar ne lagrimai. In quelle tre lunghe e tetre camerate, in ciascuna delle quali si potevano contare quindici letti, si respira un'aria ancor più mefitica, grazie forse ai fiati morbosi e agli escrementi che rimangono parecchie ore nelle sale. Tra i venticinque ammalati ne notammo di affetti di ostinate dissenterie, di gastriche biliose, di tisi tracheali, polmonari, intestinali. La tabella che pende sulla testa dell'ammalato N. 26 dice : a olio santo " - Signor segretario, cosa vuol dire ?.... -Che sta per fare il grande viaggio, ci rispose chinando il capo. Le palpebre del sofferente erano chiuse. Posammo la mano sulla sua, quasi per stringerla come se fossimo vecchie conoscenze.... Era gelida ! Povero vecchio ! aveva forse cessato di vivere in quell'istante.... Morire senza che almeno un pianto vi saluti, senza che un conforto vi accompagni, senza che un sospiro vi segua, oh ! è pur un grande dolore Ritorniamo nei corridoi. Le celle sono angustissime, squallenti, umide e tuttavia in ciascuna di esse dormono in tre. Quei sucidi sacconi, quei pitali scrostati, quei boccali mancanti chi dell'orecchio, e chi dell'orlo, sono indefinibili.... Ma mille volte assai meglio queste celle in cui l'aria entra a disagio per una opprimente inferriata a scacchi che quelle del carcere cellulare. In queste si morrà soffocati, ma in braccio al fratello di pena. Dall'alto del dormitoio che è di tre piani, vedevamo giù l'altare dove il cappellano dice messa ogni domenica. Quel Cristo, atteggiato a un falso dolore, ci faceva orribilmente male. Via, mettete Barabba al suo posto ! Sarete almeno logici. Vediamo la scuola di musica e per un giro tortuoso ci troviamo in cucina. Sei galeotti sono là con le maniche rimboccate e il grembiale ai fianchi. Una immensa caldaia appesa al soffitto bolle e manda un denso fumo. - Vuol assaggiare ? ci domanda il segretario. - S'ella crede.... In un attimo il cuoco portante il N. 256 trae una mestolata di pasta in brodo e ce la porge in una ciotola bianca. Ne mangiammo una cucchiaiata. - Non c'è male. Era infatti una minestra che poteva dar dei punti a quella che vendono certi bois di Milano. Non volemmo vedere più nulla. Addio. Noi avevamo ancora sotto gli occhi il penitenziario spaventevole di Civitavecchia. XXXII Il distributore del "Corriere della Sera"

Il più illustre, quello che ha fatto storia elevandosi sui compagni della sua classe è, indubbiamente, Francesco Lombardi, il distributore unico del Corriere della Sera e massimo della Lombardia. Frugando la sua esistenza fortunosa, voi ridestate tutta la vita stradaiuola o che si è consumata per le vie negli ultimi quarant'anni. Con lui passate attraverso un periodo quasi senza giornali un pubblico intontito di tedescheria - un pubblico che non sentiva il bisogno di essere informato sollecitamente neppure dei rovesci europei - un pubblico che si faceva sdentare in piazza che credeva ciecamente nei rimedii delle fattucchiere e che manteneva folle di saltimbanchi, frotte di girovaghi, eserciti di mendicanti. Con lui vi trovate in mezzo alle agitazioni politiche, agli avvenimenti più chiassosi, ai quarti d'ora memorabili e percorrete tutta la via crucis lungo la quale ha lottato disperatamente la stampa milanese. Fisicamente non ,c'è strillone che possa dirsi suo pari. Egli è alto, bello, forte. Le sue forme sono erculee e la sua forza è sansonesca. Scuote le colonne con degli abbracci e rompe le teste con un pugno. Sulle sue spalle robuste è una testa d'atleta, grossa, massiccia, capace di sfondare gli usci che resistono. Nei suoi occhioni è tutto il Lombardi. Sono i suoi trasalimenti, le sue impa-

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 41. zienze, le sue furie, la sua soddisfazione, la sua calma, la pietà che sente per coloro che si sbracciano nel lago della miseria. La sua faccia spruzzata di barabbismo, è il faccione carnoso, sbarbato e serafico di Oscar Wilde, l'esteta. È religioso come un bacchettone. Sente messa ogni domenica e la gente lo ha veduto sudare sotto il peso dell'asta che sorreggeva uno dei quattro angoli dell'ampio baldacchino delle processioni religiose. Egli crede in Dio con tutta l'anima, perchè Iddio lo ha protetto tutte le volte che lo ha pregato fervidamente. " Come avrei potuto fare, ci disse un giorno, a cavarmela con quindici figli, se il Signore che vede e provvede, non mi fosse venuto in aiuto ! Mia moglie aveva quello che avevo io, qualcosa di più di quello che avevo io. Perchè le fanciulle dell'Ospedale, come si sa, vanno a marito con settanta lire e una coperta di lana. Demmo la coperta al rigattiere per un semplice elastico, sul quale, grazie al cielo, abbiamo fatto quasi tutti i nostri figli, e con le settante lire abbiamo messo su casa e siamo stati allegri nel giorno dello sposalizio. Tanto io che la sposa, indossavamo gli abiti che mio zio e mia zia ci avevano prestati per poche ore. Adesso mia moglie attende all'edicola che ho in piazza Beccaria, in un fianco del Palazzo di Giustizia. " Sono in lui i pregiudizii delle donnicciuole che si consolano sui ballatoi delle privazioni, cercando nei sogni i numeri del lotto. In venerdì non ha desiderii e non ha interessi. In venerdì non fa contratti, non riceve appuntamenti, non presta denari e non arrischia neppure un caffè al biliardo. Nella sua botteguccia buia di via S. Pietro all'Orto - ove avviene la distribuzione dei giornali - è appesa la lista degli " sgonfio ni „ - imbroglioni. Non uno di loro ha potuto sgonfiarlo in vénerdi - la giornata che gli suscita tanta devozione e lo obbliga a sginocchiare nei luoghi sacri. La tendenza chiesaiuola non gli impedisce di essere mondano e moderno. Egli si sente sportsman fino alle radici dei capelli. Fu lui che incominciò a vendere i programmi alle corse e fu sul terreno del turf, coi turfisti, che si lasciò prendere dalla mania di puntare sui cavalli - magari al di là del biglietto da cento. È una voluttà, quella del giuoco, che trovate, più o meno sentita, in ogni distributore, venditore e strillatore di giornali. Tutti noi abbiamo conosciuto il Lorenzo Pattuzzi - il primo edicolaio di piazza del Duomo e il penultimo dei distributori unici del Corriere della Sera, quando aveva il negozio in una casa di legno di via Ugo Foscolo. La fortuna gli ha sorriso più di una volta. Con la vendita delle vedute o " ricordi" della ditta Tensi, egli faceva, giurano ancora i suoi coetanei, delle " cappellate di denari". Con la distribuzione degli almanacchi - una speculazione che incominciava allora a slargare le ali - si guadagnava delle giornate da avvocato consulente. Ma tutto andava nella voragine del lotto. Il lotto era la sua Messalina - la Messalina che gli imprometteva le ebbrezze e le vittorie del temo secco. Più le ne dava e più essa ne voleva. Per degli anni continuò a giocare cento lire la settimana. Spesso raddoppiava, triplicava, quadruplicava. Ci sono testimoni che lo hanno veduto più di una volta a mettere un biglietto da mille -su tre numeri a temo secco. Il prurito spasmodico che non lo lasciava quieto che dopo la giocata, non voleva mica dire che fosse avaro e che idolatrasse i denari come i parvenus di questa fine di secolo. No, egli giocava per il gusto di giocare. L'estrazione del lotto - il grido degli strilloni dell'estrazione, il rischio che correva il suo denaro, la speranza di vincere erano i suoi amori, i suoi rapimenti, la' sua vita. La sua bontà era perfino eccessiva. Nessuno che bussava all'usciuolo del suo cuore se ne andava via a mani vuote. Gli strilloni che lo improsavano (imbrogliavano) non riuscivano a stancarlo. Egli sapeva l'amaro (gergo) come qualunque altro del mestiere e si risovveniva troppo bene dei momenti in cui, con niente in berta - in saccoccia - doveva sciogliere il problema della cena quotidiana. È con tenerezza che ci parlava un giorno degli strilloni ch'egli soleva chiamare i suoi pattuzzini. " Ah, ci diceva. io sono stato come loro. E quando posso aiutarli non me lo faccio dire due volte." Al centenario di Donizetti e Meyerbeer se ne condusse a Bergamo una ventina. E al centenario di Ariosto a Ferrara, una diecina. Portavano il berretto della sua ditta e mangiavano e bevevano all'osteria come suoi ospiti. " Date loro - ordinava agli osti - quello che desiderano. " E alla sera, avesse o non avesse spacciati tanti numeri unici, li raccoglieva intorno alla sua mensa e diceva loro mangiate e bevete e lassee che la vaga! L'insistenza di Pattuzzi di svaligiare il lotto a colpi di terni secchi, fu la provvidenza divina che vegliava sul Lombardi, in allora facchino brevettato che posteggiava sull'angolo di San Martino. Il Pattuzzi, incalzato dai creditori, era lì per sommergere. Gli occorrevano quattro mila lire, una miseria che un facchino non trova neanche a capovolgere i cassetti del canterano. Glieli prestò il Rituali.. E la ditta assunse i nomi di Pattuzzi e Lombardi. Ma c'è voluto, sapete, prima che il Lombardi riuscisse a mettersi al sicuro dai digiuni sregolati ! Nel '59, la Perseveranza, il Pungolo e la Lombardia iniziavano la vita del giornalismo lombardo, e lui strillonava per le vie i telegrammi stantii - telegrammi che rimanevano nelle mani dei compositori una settimana! e che pubblicava la stamperia reale in piazza Santa Marta. Negli anni successivi lo abbiamo veduto sui tavolati dei teatri popolari della Stadera, del Re Nuovo e del Politeama, come bulo milanese che accettava le scommesse di atterrare i lottatori delle compagnie. La compattezza delle sue carni, la muscolatura delle sue braccia e la enorme coscia elegantizzata dalla maglia sollevavano l'ammirazione delle donne di questi ambienti. Al Crescioni di Como non appena si seppe che il " distinto signore dei dintorni di Milano che destinava la vincita a un istituto di beneficenza „ era lo strillone di piazza Mercanti, d'accordo col Goeubb, direttore della Compagnia, si voleva rompergli la schiena a bastonate. Per non essere obbligato a inviare duecento lire all'istituto era necessario che il Lombardi soccombesse. Quando cadde sul pavimento la moltitudine della platea si levò in piedi indignata, coi pugni tesi verso i mistificatori. Il Lombardi non discusse, si salvò scappando cogli abiti sotto il braccio fino alla Camerlata. Non c'è stato carnevalone che non lo abbia visto sul corso Vittorio Emanuele, nel largo che margina il principio della via S. Paolo, infarinato come un mugnaio, coi sacchi di coriandoli. Come è noto, il Gazzettino Rosa - l'ultimo dei giornali che sintetizzava un nome come l'intransigreant di Rochefort - era la béte noir della Procura e della Questura. Gli si gettavano sopra ogni settimana coi bramiti della belva che si disfoga e si disfama sulla preda. Gli spacciatori che si avventuravano a venderlo anche sequestrato o lo vendevano mentre i questurini erano alla ricerca delle copie venivano agguantati e cacciati nel camerotto dí via Santa Margherita o di S. Fedele fino all'indomani. Il Lombardi, solo per il giornale dei perduti - come si chiamavano i suoi scrittori - subì una quarantina d'arresti ! Che tempi per la stampa i tempi di Achille Bizzoni ! I giornalai che ingrigiano se ne rammentano con dei brividi o con delle vampate che incendiano loro il sangue o con l'entusiasmo di coloro che si illustrano narrando di averla fatta ai questurini che cercavano il giornale dei perduti perfino nelle loro tasche. " Non crediate però che il Lombardi sia mai stato mazziniano o radicale o repubblicano. Se lo sbottonate egli vi confesserà di essere divenuto uomo d'ordine dopo essere stato strillone impersonale, cioè che sapeva spacciare tutte le produzioni giornalistiche che gli si offrivano Senza distinzione di partito. Se aveva della preferenza, era per la Pubblicazione che gli portava in saccoccia più palanche. In mezzo alla gente che assisteva all'inaugurazione della statua a Beccaria, egli strillava, per esempio, il fac-simile della medaglia regalata al padre di Barsanti, senza punto essere barsantista o antibarsantista. Scontò il delitto con alcuni giorni di prigione, perchè era il mestiere che lo esigeva e perchè i giudici d'allora, di libertà di stampa non capivano che la censura e la sottomissione, " Chi va al mulino, si sa, s'infarina, " si diceva il Lom- bardi. Ma rimaneva impersonale come un romanziere naturalista. Senza merce da strillare, egli sapeva sempre " inventare „ qualche diavolo da far quattrini. Un giorno " inventò " una canagliata che lo mandò in prigione per due mesi. Egli " inventò " una notizia che riempì Milano di stupore. Che una povera donna di Lodi, abitante nella via tale, numero tal altro, aveva partorito due cani barboni ! Con 57.000 fogli volanti riuscì a farne parlare dappertutto e a spingere i medici milanesi a Lodi a studiare il " fenomeno! " Non è mai stato neghittoso. Se non c'era modo di mettere sottosopra la popolazione con degli stampati, egli sapeva indossare la blusa placcata del facchino o l'abito del signore che inguanta le mani. Con in testa la tuba, si metteva nella giacca di bristol nero, nel panciotto bianco e compariva in mezzo ai villani in carrozza, con due o tre musicanti, come dentista. Egli parlava alla turba rurale a capo scoperto, buttando di tanto in tanto sul bacile una manata di denari d'argento, che egli offeriva a chiunque avesse potuto constatare che lui, l'illustre allievo dei più illustri specialisti d'Europa, era un ciarlatano. " Ah no, signori, il mio specifico è conosciuto in tutto il mondo e ormai non c'è più ospedale che possa farne senza. „"Mostrava loro una larga scatola piena di medaglie adagiate e puntate sul velluto sbiadito, e aggiungeva che la sua medaglia era stata premiata da tutte le facoltà mediche. L'imperatore di Germania, venuto a Milano, volle vederlo e ringraziarlo in persona. Chi dubitava delle sue parole poteva leggere il giornale tenuto in piedi dai due legni conficcati sul sedile dél cocchiere, sul quale erano due colonne che raccontavano il suo ricevimento. " Non si butta via, diceva, una riputazione, guadagnata con tanti studii, per il gusto di un po' di denari. Il denaro che prendeva non bastava neanche per pagare lo stallaggio dei suoi cavalli. Non si era presentato loro che per bontà di cuore. Perchè lui non si sentiva felice che quando rincasava dicendo : anche oggi ho fatto del bene al mio prossimo. Ho asciugato delle lagrime, ho dato modo a dei sofferenti di ritornare ai campi a guadagnarsi il pane e la minestra col sudore della fronte. „ La sua parola non costava che cinquanta centesimi. " Chi ha tempo non aspetti tempo. Domani sarò a Parigi, mia patria, ove altri ammalati esigono il mio ritorno. Terminata la musica, il dottor Dubois cesserà la vendita. Non fatevi pregare. Essa è infallibile. Fra poche ore sarebbe troppo tardi. "Al buon Lombardi le mastici non costavano che la carta velina nella quale erano involte. Di che cosa erano composte ? Ah ! si, domandatelo a lui. Egli vi farà crepare dal ridere mettendovi la bocca sull'orecchio e buttandovi dentro una parola che fa turare il naso. In certi paesi non ha sdegnato di maneggiare la tanaglia. La tanaglia era un ferro che poteva mandarlo in gattabuia. Ma il Lombardi, a furia di cavar denti, aveva finito per convincersi che lo studio principale del dentista era la forza muscolare. E lui di forza non mancava. Strappava un dente dopo l'altro con una disinvoltura sbalorditiva. Metteva il palmo sinistro sulla testa del paziente, gli diceva apri bene la bocca, e poi con un là, là, là e là lo sdentava va e buttava in aria e lo consegnava al proprietario. Le operazioni avvenivano mentre gli strillanti (bandisti) soffiavano negli strumenti come indemoniati per confondere o non lasciar sentire le grida degli sdentati. Se gli avveniva di sguisare una gengiva o di rompere un dente o di estrarre il sano per il malato, egli acquietava il contadino col mettergli in mano un napoleone d'argento. " Voi non potete immaginare, ci diceva il Lombardi, l'effetto magico che produceva il denaro nelle mani dei paesani ai quali avevo rotte le ganasce. Uno al quale feci venire la guancia di brace e che ne avrà avuto per un pezzo e che stava per urlare come un ossesso, ebbe il coraggio di discendere dalla vettura dicendo che non gli avevo fatto male! " La testa di Lombardi fu feconda. Peccato che la vita negra non gli abbia impedito di uscire dal numero degli analfabeti prima di essere padre di nove figli. " No, non avevo vergogna, vi dice lui, di trovarmi, a 37 anni, tra la ragazzaglia della scuola serale di via Lentasio. Avevo più vergogna di confessare che ero illetterato. Saveva nanca fa l'o col cuu del bicer ! E se vi devo dire la verità, tutta quanta la verità, mi sono invece sentito assai orgoglioso il giorno che sfilai dinanzi ai ghisa (sorveglianti municipali), per andare dal sindaco a ricevere il premio della prima e della seconda classe." Che il suo cervello fosse fecondo, ce lo assicura la sua esistenza andata su e giù per tanti anni senza mai naufragare. Tra il '73 e il '74, ai tempi del processo pei furti al Monte Pietà di Palermo, lui e parecchi altri strilloni - tra i quali il Monfrini della Cooperativa dei venditori di giornali di via Sala - davano, sovente, una capatina nella sala delle udienze. Lui o uno dei colleghi aveva veduto che gli accusati in gabbia si comunicavano le domande e le risposte con le scatole dei fiammiferi unite da un conduttore che era un filo di refe. Non vogliamo giurare che il telefono debba la vita a questo semplice esperimento. Ma un pratico avrebbe potuto giovarsene. Il Lombardi, il Monfrini e un terzo strillone videro in esso una retata di palanche. Fecero fare dei " tubetti coperti di pergamena" e videro che con dei fili due individui potevano parlarsi a qualunque distanza. " Abbiamo scoperta l'America !" - si andavano sussurrando i tre soci. Il successo fu immenso. Non c'era passante di piazza del Duomo che non accorresse a mettersi il " tubetto" al padiglione auricolare per sentire che cosa discendeva dal filo attaccato all'altro " tubetto" alla bocca dello strillone che stava sul Duomo. I " portavoce" si vendevano a cinquanta centesimi e il cordoncino nero che uomini e donne scambiavano per del filo elettrico, a dieci. La vendita aumentava di giorno in giorno. Il Lombardi faceva dei discorsi che trasecolavano il pubblico. " Supponete di essere chiusi inavvertentemente in una torre. Voi avete in tasca i vostri portavoce. Ne gettate uno dalla ferriata. Il pedone lo raccoglie. Voi siete salvi. C'è un incendio. Le fiamme hanno bloccate le uscite. Voi salite sul tetto. Il tetto è pensile, troppo pensile per arrischiarsi, carpone, fino alle ultime tegole. Col tubetto non occorre essere veduti. Lo buttate nel vuoto. È raccolto. Due minuti dopo vedete spuntare dalla scala i salvatori che vi aspettano a braccia aperte. Le vostre case sono invase dai ladri. Non occorre gridare e mettere in pericolo la vostra vita. Lanciate il portavoce al questurino o a chiunque passa. I birbanti sono còlti nel laccio. I questurini bussano al vostro uscio." Per più di un mese i tre strilloni continuarono a ripartirsi un su e giù di 150 lire al giorno. In seguito il pubblico, il quale è sempre un isterico o un nevrastenico, non volle più saperne. Ne era sazio anche a dirgli che sarebbe morto ugolinescamente tra le pareti di un edificio. Pazienza. Il Lombardi non sarebbe morto di fame. Il suo cervello pullulava di trovate. Nel '75 venne a Milano l'imperatore di Germania. Vittorio Emanuele non poteva lasciarlo andar via senza dargli lo spettacolo d'una rivista militare in piazza Castello. In allora c'era ancora dell'entusiasmo per queste evoluzioni teatrali. Ma anche se non ci fosse stata, la gente si sarebbe fatta in quattro per vedere Bismark - l'uomo dai tre capelli alla sommità cranica che aveva distrutto un impero. Il Lombardi si associò a un altro strillone e tutti e due videro la speculazione in un impalcato che costruirono con del legname segato, in mezzo al sole, vicino all'arco del Sempione. L'impalcato aveva assunto la forma di tre grandi tribune a gradinate. I posti costavano cinque lire e alla vigilia dell'avvenimento non ce n'era uno a pagarlo una somma. La giornata della rivista non era afosa perchè eravamo in ottobre. Ma il sollione abbrustoliva. Gli spettatori e le spettatrici puntavano i binoccoli e non vedevano che il polverone che sollevavano i cavalli nascosti dalla muraglia umana di venti piedi di spessore. Vi fu un momento in cui i due birboni associati allibirono. Per le tribune circolava una collera che ingrossava. Ciascheduno si vedeva truffato. " Abbiano pazienza, signori, diceva loro il Lombardi. Noi siamo stati

Milano sconosciuta e Milano moderna. -Puntata 42. assicurati che la rivista non si sarebbe sciolta senza sfilare dinanzi le nostre tribune. Adesso sono ancora in piena evoluzione. Non domandiamo loro che un po' di pazienza". E la pazienza li tenne assieme fino a quando si vide che la muraglia si sfasciava e la gente scompariva nei nugoli di polvere che il sole indorava. " L'abbiamo scappata bella, ci disse il Lombardi. Non li abbiamo presi perchè al momento topico siamo scomparsi nella folla che andava e veniva da tutte le parti, ma in un'ora e mezza, a dir molto, ci siamo divisi 3300 lire. Fu per noi una rivista indimenticabile." Tutti i suoi compagni di mestiere, passati e presenti sono d'accordo che egli non sa trattenersi dal soccorrere coloro che hanno perduto il modo di star in piedi col proprio lavoro. Mentre ci parlava veniva alla nostra volta il Cornacchia, divenuto uno scheletro nella giacca di cotone, illustrata dalla fettuccia verde del ricoverato di S. Marco. Era uno dei migliori strilloni di Milano. Sapeva guadagnarli e spenderli in tanta grappa. Anche ora che è vecchio sarebbe incendiabile. Puzza d'alcool a venti passi di distanza. Lombardi gli mise qualche cosa nella mano con un ciao e sta bene. E non c'è solo il Cornacchia. Se date un'occhiata ai venditori di giornali, vedete subito che la maggioranza è composta di impotenti. Di vecchi e di vecchie, di gobbi e di nani, di sciancati e di mutilati, di storpi, di paralitici, di paranoici e di poveracci che trascinano dietro le gambe come un peso enorme di gotta o di paralisi. Non sono più quelli degli anni passati, quando il Lombardi andava per le vie con delle bracciate di Secoli e di Corrieri di Milano o di Corrieri della Sera, a sgolare i fogli che piegava " con grandi notizie !". Passava dovunque come una ventata, si animava a ogni svolto e riprendeva la corsa col grido del giornale che vendeva. " Secolo ! è uscito il Secolo ! Grandi notizie ! Corriere di Milano ! È uscito il Corriere di Milano ! Grandi notizie ! Corriere della Sera! colla caduta del ministero Cairoli !" Qualcheduno gli vede il pruscolo nell'occhio. Come sono godibili questi signori ! Si sa, nessuno è mondo. Nella sua condizione; con sedici bocche che bisognava nutrire tutti giorni, si ha proprio il tempo di essere sofistici. Non sono che gli ipocondriaci che hanno di queste malinconie. Lui del resto ha fatto quello che ha potuto. Ha cercato di aiutare i suoi figli a crescere e a imparare un mestiere. Non c'è riuscito, la colpa non è sua. Le ragazze di questi giorni prendono il volo. Ai nostri tempi aspettavano il marito. I gusti sono cambiati e il padre non è più un gerente della prole. Del resto la libertà non è mica un male. Ciascuno per sè. Fino a quando avevano bisogno di aiuto, il mio dovere l'ho fatto. Lo diceva anche l'altro giorno dal Savini, fuori del Sempione, ove pranzava col marchese innamorato di sua figlia. " Hoo lavoraci tutta la vita. N'ho faci del lavorà. E lavori anch'al di d'incerti. " Egli è moderno e i moderni in amore non sono stupidamente monogami. I monogami sono degli iprocriti e degli immorali. Il pranzo è stato squisito. Non si poteva mangiar meglio. Ma il Lombardi ha trovato che era arcicaro. " Abbiamo bevuto delle bottiglie di champagne e anche una buona bottiglia di cognac ! Ma 600 lire per un pranzo di dodici persone, sei delle quali erano ragazzi, mi paiono un po' troppe. Io al posto del marchese non avrei pagato, parola d'onore ! " Non è, in Lombardi, si dice, il bernoccolo della cooperazione. Ma lui si difende dicendo ch'egli non è così ricco da rinunciare ai suoi guadagni attuali per una giornata di cooperatore che ha per sommità le quattro lire. " Datemi, diceva all'ultimo banchetto dei giornalai cooperatori, quello che guadagno colla distribuzione del Corriere della Sera e della Lombardia, e divento uno dei vostri. Io sento la cooperazione come voialtri. Ma non sono abbastanza ricco da sacrificare tutto per un ideale. " Un giornalaio anarchico, che lo vedeva ieri l'altro addossato alla sua bottega in via S. Pietro all'Orto, 21, gli diede delle ditate sul pancione dicendo : -L'è on lader onest ! XXXIII. Leone Fortis.

Pochi hanno il coraggio di rovesciarsi sul tavolo giornalistico il cadavere ancora tepido di un uomo conosciuto per impedirgli di andare sul carro funebre se non adagiato nel letto delle sue azioni, delle sue virtù, dei suoi vizii, delle sue convinzioni, delle sue audacie, delle sue vigliaccherie, dei suoi mutamenti grandiosi o vergognosi. Forse perchè è increscioso voltarsi su le maniche e immergere le mani magari nel ventre di un amico che avete salutato o veduto l'altra sera. I giornalisti italiani, dinanzi il morto, diventano degli smemorati che piangono dirottamente. Non si ricordano più di nulla. È egli stato una canaglia o un uomo infame ? Parlate, dite, rivelate. La nostra generazione aspetta da voi, penne pubbliche, il documento che la smaghi o la riconvinca che il cadavere che passa meritava il suo immenso disgusto o la sua alta ammirazione. Chi era Leone Fortis? Via, sbottonatevi, raccontateci. Era egli un giornalista che ha amato, onorato la sua classe ? Tacciono, non ne sanno niente! Per loro non c'è che un corpo in decomposizione che bisogna sdraiare, in fretta e in furia, nell'alcool conservativo delle grandi iperboli e delle ruote che bisogna coprire di guttaperca perchè il cadavere non sussulti lungo l'itinerario e non susciti che commozione. Ce ne dispiace per voi, signori. Perchè se c'era cadavere che non dovevate lasciarvi sfuggire senza dire chiaro il vostro pensiero, era proprio quello di Leone Fortis, un giornalista che avevate conosciuto e letto per degli anni, un collega cui lo storiografo della professione non potrà negare una nicchia, fosse pure la nicchia che gli assegniamo noi, del giornalista -ventre - del tipo che rappresentava la patologia professionale. Ce ne dispiace per voi e ce ne dispiace anche per noi che non possiamo, senza il contributo del vostro calamaio, completarne la figura (1). Perchè il Fortis non è e non può essere completo che circondato dagli aneddoti di coloro che lo hanno conosciuto intimamente. Non è che Giuda che sappia scrivere biografie. E noi non abbiamo saputo scovarlo. Ma il lettore stia tranquillo. Perchè il Fortis che gli serviamo può essere qua e là arricchito ma non alterato. Leone Fortis era un pennivendolo che non sentiva il giornalismo moderno. Voleva che il giornale ubbidisse al direttore e non il direttore al giornale. Tutto ciò che capitava a lui, capitava anche al 'Pungolo. Il Pungolo doveva uscire, per esempio, alle tre d'ogni pomeriggio ? Bastava che il Fortis indugiasse per la strada a chiacchierare con un amico, o che qualcuno assistesse alla sua colazione succolenta al Cova, o che il bisogno di denaro lo trattenesse in giro a bussare agli usci, perchè il suo foglio di cinque centesimi perdesse i treni e si facesse aspettare in pubblico per delle ore. Spesso i distributori lo portavano a domicilio quando gli abbonati dormivano già della grossa e sovente gli strilloni bestemmiavano nel budello che mette nella Galleria De Cristoforis, fuori della stamperia Guglieimini, per quattro o cinque ore. Un giorno che stava scrivendo l'articolo di fondo, si andò a dirgli che la sua Joli, la cagnolina idolatrata dalla moglie, era stata perduta. Non ci pensò due volte. Si cacciò in testa la tuba e non ritornò in redazione che a notte fatta, cioè assai tardi per andare in macchina. Se il proto andava di sopra a dirgli che il treno


(1) S'intende che non teniamo conto dei zibaldoni che avete pubblicati. Erano dei raffazzonamenti fatti sui soliti dizionari biografici. tale era partito senza Pungoli o che non mancava che il suo manoscritto per raggiungerlo, egli tirava giù due righe che mandava a casa d'urgenza per sapere come stava Luigia, la sua diletta consorte. In poche ore le mandava a casa il portiere cinque o sei volte. " Va a casa a vedere come sta la mia signora. „ Venuto il telefono andava all'apparecchio ogni mezz'ora. " Luigia, parlo con te, Luigia ? Come stai, stai bene Gigia ? A pranzo ti porterò delle viole. Ciao, cara. „ L'arrivo di una celebrità del palcoscenico lirico o drammatico era per il Pungolo una vera disgrazia. La Patti, il Massenet, il Gomez, l'Ernesto Rossi, l'Alamanno Morelli, il Gayarre, il Tommaso Salvini e il Manzotti - per non nominare che alcuni - hanno tutti contribuito ad assassinare il giornale che era divenuto sinonimo di giornalista. Fin verso 1'85 i redattori di non importa quale giornale milanese venivano chiamati pungolisti. - Signor direttore, si aspetta il suo articolo. Egli era capace di ordinare al portiere di chiamargli una vettura. Al suo articolo avrebbe pensato, senza dubbio, più tardi. Non usciva che per cinque minuti. Andava a dare il benvenuto a una diva della quale avrebbe dovuto illustrare la cavatina o l'adagio o la romanza, o a Ernesto Rossi, l'interprete maiuscolo di Shakespeare, che aveva conosciuto a Padova prima che si liberasse dai vizii di pronunzia e che imitasse Modena con Modena, il Michelangelo della scuola che rappresentava il repertorio dei giganti della tragedia. Lui non era un ingrato come i giovani del realismo. A Ernesto Rossi doveva della riconoscenza. Fu il suo Camoens. Fu lui che glielo rappresentò al Re Vecchio. E come glielo aveva rappresentato ! Il successo fu entusiastico. La corda del patriottismo -scossa gagliardamente dalla recitazione calda e appassionata e dalla interpretazione altamente artistica di Ernesto Rossi - aveva vibrato, scriveva Fortis, con grande potenza nel cuore del pubblico milanese e vi aveva suscitato il ricordo di speranze, di impeti, di audacie gloriose e scottanti. Il Fortis era artista anche lui e si può dire che gli artisti li ha pedinati lungo la loro carriera con tenacia e amati, diciamo anche, con trasporto sincero. Ma le premure che gli facevano dimenticare il Pungolo per stringere la mano ai primi tenori e alle prime donne del Faust, dell'Ebrea, dell'Aida, della Gioconda e dell' Otello non erano interamente disinteressate. Egli non metteva il revolver alla gola degli artisti come Filippo Filippi - il critico musicale che tutti conoscevamo per quel suo cilindrone a larghe tese, per i suoi capelli lunghi e ravviati con cura giù per la nuca, per quella sua cravattona voyante e per gli anelli massicci dalle pietre preziose alle dita. Perchè lui, Fortis, aveva più tatto e rifuggiva dai mezzi coercitivi che potevano puzzare di ricatto. Il suo metodo era meno brutale e più moderno. Il direttore del Pungolo non domandava e non riceveva che a prestito, rilasciando magari delle cambiali a chi metteva in dubbio la sua parola. Se non restituiva, come non restituiva mai, non era colpa sua. Era colpa della politica che esigeva sacrifici enormi. Lui era uno di quelli che avevano aiutato a fare questa povera Italia e adesso bisognava tenerla in piedi e vedere di rinsanguarla. Il denaro che gli avevano prestato e che gli prestavano era sicuro. Le cose dovevano cambiare. L'orizzonte politico perdeva tutti i giorni della tetraggine di prima. Agli amici che tremavano per il loro capitale rimandava le somme. Non in contanti, perchè nel paese della carta straccia sarebbe stato uno sforzo sovrumano. Ma le restituiva in tante buone azioni da 500 lire del Pungolo, un giornale, diceva, attivo che aveva un avvenire e che avrebbe dato agli azionisti del ben di dio. Giornalista in tempi in cui il giornalismo vagiva o si reggeva colle dande, Leone Fortis era per la redazione quello che il Rossi e il Salvini erano per il palcoscenico. L'uomo indispensabile, il superuomo che irrorava le pagine di idee personali e che metteva l'io nella prosa come una marca di fabbrica. Chi diceva Pungolo diceva Leone Fortis. I suoi redattori erano dei riempitivi, dei dilettanti, degli ordigni di mestiere, dei tramagnini della penna. Tutti gli facevano comodo, nessuno gli era necessario. Versa- tile, con un dizionario abbondante, con la conoscenza degli ambienti e degli uomini degli strati superiori, sapeva, come con la politica e con la polemica, fare della alta fisiologia cittadina, riprodurre dei salotti nella grandiosità dei colori della sua tavolozza, insorgere con sbruffate di aggettivi contro il verismo pestifero che diffondeva odori malsani che turbavano lo stomaco signorile e portavano dovunque il mondezzaio delle frasi sghangherate della plebe, dare addosso alle cocottes con l'amarezza del padre desolato che vede " le donne „ sotto il cappellone impertinente invadere la vita cittadina come la muffa sull'acqua stagnante, le donne avariate, malsudate che livellano con la moda e lo sfarzo i gradi morali femminili, innalzando i bassi e abbassando gli alti, distendere, tra una colonna e l'altra, una colonna di questione sociale che impauriva i lettori e lasciava loro credere di sentirla battere alle loro porte coi sassi della rivoluzione, una colonna di rancori di classe contro il socialismo che voleva inaugurare - secondo-lui il regno del sangue e dell'incendio. Sregolato nelle ore di lavoro, era disordinatissimo negli affari amministrativi. Il suo cassiere era un subordinato al quale poteva dire : apra la cassa che la faccio pulita o mi dia fino a cassa vuota. Se i suoi redattori gli domandavano il mese o i mesi, egli rispondeva, come un banchiere che non si occupa delle minuzie, passino alla cassa! E quando gli ritornavano dinanzi umiliati perchè la cassa era nella stessa condizione cronica, diceva loro : che ci debbo fare ? Sono forse io l'amministratore ? Aspettino ! Siccome in fondo non era cattivo, così, dopo, raddolciva l'imperativo con qualche gentilezza. Era capace di far salire uno dei suoi redattori nella vettura o nel tiro a due e fargli vedere che lui, in bolletta, andava a sciupare una ventina di lire dalla fioraia ! Anche quando il Pungolo aveva la tiratura massima di venticinque mila copie con dodici mila abbonati e attraversava, diremo, il periodo dell'abbondanza, perchè il giornale in allora, e specialmente il giornale di Fortis, era fatto senza telegrammi e senza collabo- razione pagata, il Fortis, prodigo e sciupone, si trovava sovente in lite col tipografo che ingiungeva alle macchine di cessare i loro movimenti se non gli mettevano dei quattrini sul tavolo. Negli ultimi anni l'esistenza del Pungolo era minacciata ogni settimana. Ogni sabato, questo giornalista che spendeva, regolarmente, per i bisogni personali, dalle cento alle centocinquanta mila lire l'anno, si trovava disperatamente in lotta con dei miserabili biglietti da cento. Erano scene indimenticabili. Si gridava, si piantavano dei pugni sul tavolo con degli accidenti e gli si diceva sul muso che non si doveva trattare la gente che lavorava per vivere in quel modo e che agli operai non si potevano dare le dita negli occhi. Predicare la morale andava bene, ma non bisognava spingere la gente alla disperazione. In anticamera c'erano sempre dei creditori - che il Rovetta chiama, nella Baraonda, tirolesi - ostinati che non volevano andar via senza il discorso che sapeva far loro il Fortis. Il Fortis, con la voce dolce e la parola elegante, sapeva commuoverli. Dall'ingratitudine degli uomini li conduceva, adagino adagino, nei dietroscena parlamentari e dimostrava loro che li teneva in un certo conto e che li considerava degli amici capaci di capire queste cose. E i creditori andavano via con degli inchini e delle nuove ordinazioni da aggiungersi al debito vecchio. Con gli arrabbiati, con i maleducati che non si contentavano delle confidenze, sostituiva alla facezia l'ordine di uscire. Li scacciava con la penna minacciosa tra le dita, con la pancia sullo scrittoio e con la faccia che pareva una tempesta. Alla fine del mese oltre le spese di redazione si aggiungevano le seccature dei pagamenti a scadenza fissa. Più di una volta i suoi redattori e collaboratori agiati che avevano per lui dell'ammirazione, lo aiutavano, a sedare i tumulti e i rovesci con dei prestiti. In quel tempo non si aveva ancora l'ottima abitudine di pubblicare il Bollettino dei protesti. E il Fortis ignorava e dimenticava le date crudeli delle cambiali come cose fastidiose. Le portava nel suo portafogli, ma non le guardava che quando gli si presentava

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 43. il fattorino. " Me n'ero scordato ! " Erano momenti che gli facevano togliere gli occhiali come sorpreso e che lo costringevano a passare la mano sulla fronte come trasognato, ma che non lo scombuiavano. Non era il direttore del Pungolo che poteva uscire dal sistema della calma e del sangue freddo per delle cambiali. Per i debiti c'è sempre stato un dio. E per i debiti di Leone Fortis ce ne furono parecchi. Tanto più erano grossi, quanto più egli sapeva levarsi dagli impicci. Come aveva l'arte finissima di acquietare i creditori, così aveva quella sopraffina di mungere il suo pubblico speciale senza stancarlo. Nessuno ha saputo svaligiare e risvaligiare l'aristocrazia e la borghesia di Milano come Leone Fortis. Egli era un mago. Industriali, sindaci, deputati, artisti, ricchi, ricconi hanno dovuto aprire e riaprire la loro borsa e pagare profumatamente la prosa che il Giboyer scriveva per loro. Il barone Cantoni giurava e spergiurava che non gli avrebbe dato mai più un centesimo. E poi gliene ridava ancora. Il sindaco Belinzaghi ci raccontava sovente che era stufo di sovvenirlo con il suo denaro. E poi lo si rivedeva a capo degli azionisti che avevano comperato il Pungolo per la quindicesima volta. Ernesto Rossi prometteva a sè stesso e agli amici che non avrebbe mai più comperato azioni del giornale di Leone Fortis. E non sapeva passare da Milano senza lasciarsene infliggere qualcuna. Era inutile. Il Fortis era loro superiore, era un intellettuale e l'amicizia degli intellettuali, in quei giorni, andava pagata. Negli anni in cui,i1 suo nome non era ancora frustrato dai rifiuti sapeva, in pochi giorni, trovare magari cento o centocinquanta mila lire come uno di noi sul lastrico dei disoccupati può trovare due lire. Il giornale fu alternativamente suo e non suo. Se c'era di mezzo il partito conservatore, egli sapeva facilmente mettere assieme cinque o sei brave persone che gli asciugavano le passività del mastro e gli mettevano una somma ingente sulla pagina dei contanti in cassa. Le persone che gli volevano bene e che lo volevano araldo della consorteria milanese, credevano di avere messo il Pungolo al sicuro dai tempi perversi per due o tre anni. Pochi mesi dopo il Pungolo stava peggio di prima. Perchè Leone Fortis più ne aveva e più ne mangiava. Gli azionisti, compromessi, gliene ridavano, poi sostavano e il giornale ridiventava suo. Nelle giornate negre, quando il danaro era indispensabile e il pubblico speciale era altrove, o non si lasciava snidare, egli, il Fortis, si ricordava di coloro che avevano domandato al Pungolo dei favori. Li vittimizzava dicendo loro che la politica italiana attraversava un brutto quarto d'ora e che i veri patriotti dovevano stringersi sempre più a sostenere la causa per la quale avevano vissuto e vivevano. Ma tutto ha fine. Venne il giorno in cui anche i pistolotti e i discorsi eleganti di Leone Fortis non esercitavano più alcuna influenza. Il pubblico speciale rimaneva irremovibile. Non voleva più sentirne di sacrifici. Se il Pungolo non può più continuare, crepi. E il Fortis, quantunque sapesse che senza il Pungolo sarebbe stato un uomo morto, dovette lasciarlo morire e per sempre. La storia del Pungolo è stata riassunta dal suo direttore in questa lettera : " Sono nel giornalismo un invalido della vecchia guardia, che si vale del privilegio degli anni e dei malanni per seccar la gente coi racconti delle antiche gesta. " Il Pungolo nacque in duri tempi - i tempi della dominazione austriaca - i quali ebbero però un grandissimo merito quello di tener sempre vivi nei cuori nostri il culto e l'ideale della indipendenza, della libertà e di temprare i caratteri alla fucina delle audaci, generose e pericolose imprudenze. " Nacque da un giornale umoristico satirico, di Venezia : Quel che si vede e quel che non si vede, in cui scrivevano Fusinato, Nievo, Cicconi, Corinaldi (che fila di cari defunti !) ma che visse pochi mesi e morì, combattendo, sotto una proibizione austriaca, ed un processo. " Trapiantato a Milano adottò per insegna l'Adelante... si puedes, ch'era il grido di guerra dei tempi. " Visse póco - morì, come suo padre, di morte violenta, ucciso in battaglia - caso di atavismo. - Risorse subito col titolo di Panorama - non mutando che il titolo - e col grido di sfida : Frangar, non flectar. " Anche il Panorama morì della malattia ereditaria - dopo un articolo che fece un certo rumore. " Fu mandato col suo direttore a confine a Trieste - ove fondò in expectatione judicii la Ciarla, che morì quattriduana, anch'essa uccisa dall'aquila I. R. al quarto numero. " Sfuggii l'arresto già decretato - riparai in Piemonte donde venni a Milano in coda agli eserciti liberatori. " Risuscitai col vecchio e primo tipografo - Redaelli - il Pungolo - che ebbe vita lunga e agitata, con vicenda di giorni splendidi e di giorni infelici. " Tel Pungolo ebbi compagni che rammento sempre come si rammentano i vecchi camerati delle battaglie gloriose - Piolti De Bianchi, Michele Uda, Dario Papa, Sacchetti, Baseggio, Sogliani. " Lo spirito del Pungolo - aleggiante nel superstite suo direttore - ricorda - e non se ne pente - di aver inventato la parola consorteria, di cui ora si abusa - e che fu ritorta contro di lui. " Ricorda di aver pubblicato il famoso indirizzo all'imperatore d'Austria, che fece sparire come fantasmi certi patrioti dell'indomani, affaccendantisi a prendere i primi posti - molti dei quali riescirono poi colla pazienza ad impadronirsene. " Ricorda di essere stato organo di quelle Galline elettorali che tennero con onore il campo, resistendo alle due correnti troppo conservatrici e troppo rivoluzionarie. " Aiutò molti a salire - e per alcuni è contento di averlo fatto - per altri... meno. " Del bene ne fece a molti - del male a nessuno. Ispirò affetti sinceri e Costanti - provocò fiere vampate di collere -, odj non credo - certo non ne provò, e non ne serbò. " Visse trentati è anni - si assopì nel bacio del Signore con l'agosto 1880. " Molto vide - molto notò - molto confrontò - molta tacque - apprese dall'esperienza la virtù di dimenticare. " Brontolategli un requiem, perchè, tutto sommato, fu un buon diavolo. " L. FORTIS. "

Non si ubbriacava, non straviziava e non era infedele come la maggioranza dei mariti. I suoi adulterii erano tutti epistolari; Peccava con la penna, ma non peccava mai oltre il desiderio nascosto nel tumulto delle sue frasi profumate. La sua Luigia fu sempre la sua Luigia, la Luigia accarezzata, idoleggiata, il sogno unico, costante della sua vita. Repubblicano, " tenentuccio „, emigrato, autore drammatico, giornalista povero e giornalista ricco, vecchio e giovane la Luigia spendacciona, la Luigia che sciupava, la Luigia che divorava migliaia di lire in un'ora, fu sempre il pensiero signoreggiante dei suoi pensieri intimi. Legati dagli affetti e dai gusti aristocratici, gareggiavano nella spensieratezza di circondarsi di un lusso superiore alle loro entrate. E con loro era la cognata che aiutava a precipitarli nell'abisso dell'indigenza. Leone Fortis occupava il secondo piano della casa n. 2 in via Berchet. Chi l'ha veduto può dirvi che non era l'abitazione di un direttore di giornale che viveva della penna. Vi si respirava la sontuosità del ricco sfondolato che esulta nell'arte e si sdraia nello sfarzo. Era un ambiente in cui si vedevano disposate la sobrietà e l'eleganza del raffinato e in cui la fantasia più sbrigliata e più esigente si saziava di comfort. Era un appartamento di quattordici stanze abbandonato alle cure di quattro o cinque tra serve e cameriere. Il suo guardaroba sembrava quello di Giorgio IV. Rigurgitava di soprabiti, di paltò, di marsine, di stifelius, di giacche, di redingotes, di pastrani, di ulsters, di ombrelle, di calzoni, di, tube, di cappelli di tutte le fogge, di calzature alte, basse, scollate, con elastici, senza elastici, a una suola, a doppia suola e di babbucce bianche, colorate, ricamate, screziate. I suoi sarti erano i Prandoni e i Bencetti che vi correggono le anomalie fisiche e vi vestono senza farvi sentire il peso degli abiti. La sua guantaia e camiciaia era la Sala di via Santa Margherita - l'ultima delle guantaie che avesse una clientela tutta composta delle prime case della aristocrazia milanese. Quindici o venti anni sono non c'era che lei che andava a Parigi alla ricerca della moda e dell'eleganza non appariscente. Le sue cravatte, i suoi fazzoletti con le cifre sormontate dalle corone dei blasonati, i suoi solini finissimi lucidissimi elegantissimi, i quali, smessi, servivano per una generazione di domestici, le sue bretelle superbe, i suoi foulards che si potevano, per la morbidezza e la pieghevolezza della seta, ridurre a pallottoline, i suoi gilets di coltroncino inglese che aristocratizzavano anche una pancia vulgare, le sue calze che insuperbivano i piedi e affusolavano la gamba, i suoi guanti che uscivano dalla sua fabbrica duttili, che non facevano grinze, che non si scucivano mai e che non perdevano mai un bottone, le sue camicie con il plastron illeggiadrito da punte di ricami, le sue camicie di batista floscia che arrossava sulla pelle femminile - le sue camicie e i suoi mouchoirs ricamati da un nugolo di ricamatrici artiste della classe media in malora non li trovavate che da lei, che dalla Sala - la Sala che ha preparato i corredi di tutte le signorine con del sangue azzurro nelle vene che sono andate a marito nel suo tempo. Il Fortis non andava fuori di Milano senz'essere seguito da un carro dei simpaticissimi fratelli Gondrand carico di cappelliere, di plaids, di bauli calcati di cravatte, di biancheria, di abiti e di calzature. Un viaggio di tre o quattro ore di treno con l'idea fissa di ritornare la sera, metteva sottosopra la casa. Le donne dovevano preparare quattro o cinque valige, il domestico o il portiere d'ufficio doveva andare e riandare al telegrafo per avvertire l'albergatore di mandargli la carrozza privata alla stazione e qualche amico che sarebbe giunto all'ora tale. Una volta che volle andare Iseo a sentire il discorso del suo amico Zanardelli - il petofilo - partì con sei valige di cravatte, di biancheria, di vestiti e di scarpe, con tre cappelliere, tre ombrelli e due parasoli! Nessuno lo ha mai veduto in teatro che in palco. Il suo sedere non si è mai plebeizzato sulla poltrona dei moderni critici. Alla Scala non ricordiamo il suo , palco, perchè qualche volta doveva cambiarlo. Ma al Manzoni occupava sempre il numero cinque della prima fila a destra. Egli lo occupava per le premières e per qualunque rappresentazione dei lavori drammatici di Paolo Ferrari due o tre giorni prima, come un signore che si faceva precedere dalla somma che costava. Ma non lo pagava e nessuno aveva il coraggio di farglielo pagare. Quando passava, gli impresarii gli andavano incontro a stringergli le mani e lo accompagnavano fin dove c'erano delle portiere da spalancare. Il Lombardi del Manzoni non ha mai visto il becco di un quattrino di Leone Fortis. Ma veniva compensato di tanto in tanto con quattro righe di simpatia nelle COversazioni. " Il signor Lombardi non parla che nelle grandi occasioni, ma nelle circostanze ordinarie si contenta di stringere le labbra, di inarcare le ciglia e poi lasciando al suo interlocutore la cura di interpretare quelle mosse, con le due mani aperte e stese sull'ampio torace, si reca a presentare il suo omaggio di gran dignitario al marchese. Saporiti, il benemerito presidente della Società, il gran feudatario del Manzoni, che entra fra le profonde sberrettate del personale di servizio. „ Negli entr'acts andava a fare delle visite per i palchi o andava sul palcoscenico o passeggiava con qualche amico colla tuba indietro, col binoccolo in una mano o colle mani in tasca. Ambientista e osservatore, si descrisse a teatro con questo brano : Poi (viene) il Dottor Verità, il mio omonimo del Pungolo - aria, ora stanca, ora preoccupata, ciera spesso buia - un po' sonnolento - posa d'uomo politico che si distrae facendo l'artista - sempre in moto dal suo palchetto al palcoscenico e viceversa, alle prime rappresentazioni di Ferrari, nervoso, suscettibile, iracondo, stravolto. „ Abbiamo già detto, ci pare, che il Fortis andava difficilmente a piedi. Ma non abbiamo ancora spiegato come spendeva dieci e più mila lire l'anno in vetture. Andava all'ufficio? La vettura lo aspettava alla porta. Andava a far colazione ? Il brumista era giù dabbasso che ,lo aspettava da un'ora. Andava a portare la sua " Conversazione „ all'illustraione Italiana di Emilio Treves ? Ritornava da via Solferino con otto ore di brougham. Non c'è cocchiere pubblico che non abbia conosciuto questo uomo dal pancione che saliva leggermente come quello delle gravide. Un po' perchè era sempre in carrozza e un po' perchè aveva l'abitudine di lasciarvi sul cuscino il portafogli. Il tiro a due faceva salire i conti. Doveva andare ai bagni, alle acque, in campagna, non importa dove? Sembra una fandonia. Spendeva semplicemente per farsi condurre da casa alla stazione di Milano e dalla stazione di Milano a casa trecento' o quattrocento lire. Supponete che avesse voluto curarsi dalla grascia a Montecatini. Egli fissava, per esempio, la partenza per mercoledì. Fa ceva avvertire il Pasta - il suo fornitore di vetture private - di mandargli il tiro a due alla una pomeridiana. Alla una pomeridiana il tiro a due era alla porta. Lo si lasciava là per delle ore e poi riceveva l'ordine di andarsene a casa e di ritornare domani o doman l'altro. Il Fortis non aveva pensato ai denari o non era riuscito a sgelare il cuore di qualche conoscenza. All'indomani ricominciava la caccia al bisonte - cioè all'uomo che doveva prestargli i denari. Negli ultimi tempi si era obbligati a rimandare la carrozza dieci o dodici volte senza rinsavirlo e impedirgli di dare l'ordine al Pasta dopo che il bisonte era nelle sue mani. Con o senza denari, egli non andava mai che al primo HOtel. Gli è avvenuto sovente di essere alloggiato allo stesso piano con dei sovrani e dei ministri dei paesi esteri in giro. All'albergo con le sue donne, come le chiamava, spendeva e spandeva. Al conto pensava all'ultimo momento, quando il padrone insisteva per il saldo. Telegrafava alla redazione: mandate il Pasta alla stazione alle tre pome- ridiane. Alle tre pomeridiane il veicolo era là che lo attendeva. Prima di sera ritelegrafava: rimandatelo domani alla stessa ora. Egli era alla ricerca del bisonte. Mandava lettere e telegrammi agli amici, i quali o erano assenti o lo facevano aspettare o facevano il sordo. Spesso gli toccava di protrarre la partenza di sei o sette giorni. E la carrozza continuava ad andare ad aspettarlo con le sue donne alla stazione ! Fu l'ultimo dei direttori di quotidiani che avesse cura delle mani. Il Romussi non porta guanti che di rado. Il Torelli se li tiene sovente in tasca, il Gianderini incomincia ad abituarvisi e il Chiesi se li mette nelle grandi occasioni. Il Fortis in questo era invece inglese. Non andava mai per le strade a mani nude. Il colore che prediligeva per i suoi guantí era il paglierino. I suoi pranzi e le sue cene in famiglia non erano chiassosi. Ma c'era di tutto, dall'ostrica fresca allo champagne di quindici o venti lire la bottiglia. Aveva tre parrucchieri e spendeva gli occhi della testa in fiori. Non c'era giorno dell'anno che non andasse dalla Redaelli a farsi inocchiellare garofani o gardenie superbe. Anche al verde si faceva mandare a casa o si portava via lui in carrozza delle bracciate di fiori che sarebbero bastati per il pranzo di dodici famiglie che non avessero perduta l'abitudine della carne é del vino. La Teresina, che infiorettava l'aristocrazia del denaro, dell'industria e del blasone, gli puntava il mazzetto nell'occhiello tutte le volte che lo vedeva. Essa era pagata a mese o a trimestre, e lautamente pagata. Al Fortis la Teresina piaceva, come piaceva ai signori, per quella sua aria aristocratica, per quel suo sorriso fine e quel suo modo di andare via come una contessa che inocchiellava i fiori per scambiare una parola gentile e augurare il pranzo agli amici. Nessuno la insultava pagandole i fiori come si fa con le altre fioraie rimaste sugli ultimi gradini della scala sociale. Il Fortis le rimase sempre fedele anche quando il verdetto di dodici scimuniti assolvevano, nel novembre dell'81, il Viganotti - un volontario di un anno che aveva incaricato un soldato di sfregiarla - di portarle via, con un taglio

Milano sconosciuta e Milano moderna. -Puntata 44. nel viso, la sua bellezza, la sua dote, il suo avvenire. Pur considerandola un'esplosione cutanea che rivelava alcune malattie segrete che corrodono la società moderna, diceva : " Quel giovanotto - il Vigonotti - che ama per vanità, che vedendosi tradito piange come un bimbo cui abbiano tolto il balocco e si vendica con la mano altrui, freddamente, senza odio, senza collera e compera il rasoio a cui affida la sua vendetta; questo giovane, così fiacco in tutto, anche nel male, trovò strane indulgenze in un pubblico che è in generale adoratore della forza - come quella donna - usa vivere della sua bellezza - trovò strane austerità nella società (voleva dire equivoca) che suole burlarsi di tutte le autorità. " Di questa contraddizione si spiega forse il segreto. Tutte le donne virtuose non sapevano perdonare alla fioraia la falsa severità del contegno con cui pareva volesse mettersi, senza meritarlo, al loro livello - le donne galanti non le perdonavano di non aver disceso tutta la scala della loro degradazione - i vecchi libertini, che uscivano appena dalle braccia di cortigiane ben più costose, erano contenti di far pompa col loro biasimo di una severità di costumi che costava loro così poco - mentre i giovani vendicavano con la fioraia delle sue aristocratiche preferenze. " Prima del pasto i signori si contentavano, anche allora, di un vermouth al Cannetta o all'Hagy - la buvette che non è più che un ricordo dei tempi di Fortis - quando era frequentata da un gruppo di sbevazzoni che scialaquava - dalla gioventù che scriveva e si divertiva e dalla borghesia intelligente che godeva mezzo mondo di trovarsi in mezzo ai capiscarichi che illuminavano e incendiavano la conversazione con un badalucco di idee. Il Fortis sbucava da San Pietro all'Orto e andava dal Rainoldi - ove i signori della haute bevevano la bibita e si comperavano l'antipasto per il pranzo. Scomparso questo tempio di salumi riservato al ventre aristocratico, Leone Fortis prese la via del Cova e la mantenne fino alla sua partenza per Roma - chiamatovi da Giolitti ad assumere il posto di direttore aggiunto della Gazzetta Ufficiale con sei mila lire di stipendio. Achille Bizzoni, che lo chiamava " austriacante e ladro „, non avrebbe esitato a tatuargli la fronte coll'epiteto di venduto. Perchè le sei mila lire erano l'offa che il nemico aveva buttato al mastino sdentato e prezzolato del partito avversario. Al Cova comandava una mezza bottiglia di vino prelibato, della quale era molto se ne assaggiava due dita, e rincasava dopo aver dato ordine di mandargli un largo cabaret di dolci accompagnato, magari, da una sorbettiera di gelati. Leone Fortis se non era un nevrastenico, era, indubbiamente, un ipocondriaco. Anche i suoi scritti più lieti - anche le sue pagine giocondate dall'arte, sentono della paturnia del suo cervello, della sua malinconia - della sua tristezza - delle sue disillusioni — dei suoi accasciamenti — della sua stanchezza d'animo - della sua accidia - della sua tetraggine - dei suoi orrori per la scapigliatura. L'esordio delle sue conversazioni è sempre una desolazione, un rimpianto, una geremiade, un funerale, un argomento grigio, nerastro, che sfigura la fisonomia del lettore e inacetisce il temperamento di una lettrice gaia. Non ricordiamo dove egli confessava alla sua lettrice di essere stato per dei mesi chiuso in caisa dall'umore negro, dal bisogno di isolarsi dai frastuoni della vita moderna e di rimanere solo, tutto solo, intontito, istupidito, inebetito per delle ore, per delle giornate, 'per delle settimane senza scambiare una parola neppure colle sue donne di casa. Certo è ch'egli non sapeva se attribuire il malessere, lo sfinimento e l'atonia cerebrale ai " microbi delle cose o degli uomini „. Seppellito il Pungolo nel 90 per la lotta ineguale che doveva sostenere con gli altri giornali che non perdevano i treni e che abituavano i lettori alle notizie " fresche „, sprofondò nell'ipocondria cronica e nelle paure morbose. Pareva che l'itterizia morale lo avesse distrutto. Si considerava come una moneta stata messa fuori di corso perchè aveva perduta l'impronta e il valore e si teneva, spesso, la testa tra le palme come un uomo che soffriva di cefalea. Il semplice movimento d'un capello gli dava dolori acuti e gli riacutizzava gli spasimi della fronte. Era tozzo. Il suo stifelius a larghi risvolti si sformava come indosso a un corpo malfatto. Il suo testone con pochissimi peli alla sommità cranica aveva dei capelli radi che gli correvano da una, tempia all'altra per proteggerlo dalla calunnia di calvo quando aveva su il copricapo. La sua fronte spaziosa con una linea traversale leggermente rientrata, aveva delle rughettine che negli ultimi anni diventavano sempre più fitte e visibili. I suoi occhi sotto gli archi sopraccigliari pelosi perdevano di tanto in tanto la vivezza e assumevano un non so che di losco che lo intetrava e gli dava un'aria di bandito della penna. Era in questi momenti che il suo occhio rivelava il Fortis che aveva truffato il suo pubblico speciale - il Fortis gaglioffo che aveva difeso la giunta Beretta - la giunta dei ladri che comperava le case dei quartieri destinati alla demolizione per 200.000 lire in carta e le vendeva al Comune per 500.000 in oro - il Fortis vituperevole che assassinava ogni giorno i Raffaele Sonzogno, i Bizzoni e i Lobbia per sostenere la regìa cointeressata e i farabutti venduti come i Civinini, i Brenna, i Fambri, i Digny e gli altri ventri di questo obbrobrioso mercato finito nel sangue di coloro che possedevano il segreto. Il suo faccione carnoso aveva perduto la freschezza da molti anni e anche la sua pappagorgia non era più che della pelle vizza che gli titillava il solino risvoltato. Il nasone che ingrossava alle nari e i baffoni che gli andavano sotto il labbro superiore completavano la sua figura d'israelita. Qualche volta, con la tuba sbattuta indietro, e la sua canna sul dorso, pareva un cavallerizzo che portasse attorno, nell'ostensorio della sua persona - per servirci di una sua fraSe - la sua celebrità. Il fascino di Fortis - che aveva divorato e ridivorato Prati, passandogli attraverso come un ladrone - era tutto nella sdolci natura del suo stile. Il suo stile, mondo dei solecismi dei suoi colleghi che disimparavano a scrivere, era pastoso, pieghevole, colorito, sentimentale. Era uno stile che non brutalizzava, che non' aggrediva, che non sentiva degli odori di femmina o degli odori puzzolenti del verismo in panciotto rosso. Anche quando la ridondanza degli aggettivi gli prendeva la mano, la sua prosa non deragliava come un treno di pensieri lanciato nello spazio dalla fantasia in fiamme. Era sempre una prosa mansueta, sempre educata, sempre ai piedi di chi la ascoltava. Nei salotti la sua prosa non entrava mai come uno sbarazzino che sbatte gli usci. Era decente, rispettosa, sottomessa a tutti i capricci di chi la pagava. Ma la sua prosa piazzaiuola, la sua prosa del quotidiano, era a periodi, insolente e capace, strapagata, di difendere non importa quale ribalderia o quale truffatore del denaro pubblico. Abbiamo detto i suoi colleghi. Ma il Fortis non ne aveva. Giornalista intellettuale, disprezzava e vedeva di malocchio la turba dei pennaiuoli che si abbandonava " all'inchiesta giudiziaria per rubare il mestiere alla polizia e che frugava nei bassifondi cittadini per razzolarvi rottami di notizie e cenci di particolari per soddisfare la malsana voluttà dei lettori. „ Il reporter.... uh, via, indietro ! ... Egli non era per il Fortis che il rappresentante della crittogama del giornalismo, - il portato del secolo sbracato, spietato che idolatrava le indiscrezioni e i misteri dell'alcova. Odiava il verismo in redazione, in orchestra, in teatro, in libreria. Il naturalismo che fotografava lo faceva recere. Era la letteratura degli impotenti, della gente senza immaginazione, degli scrittori che avevano la pazienza dei certosini. Una letteratura schifosa che portava in piazza la clinica erotica, il tanfo delle stamberghe, le sudicerie della famiglia e le Nanà coi lembi di camicia fuori delle mutande. Così, con i pensamenti di un passato senza ritorno, con le affezioni di due generazioni morte, con la nota che sentiva la patria del 48 e del 59, con i rimpianti per tutto ciò che crollava, con la rampogna che inseguiva gli iconoclasti delle tradizioni, con un temperamento svenevole, molle, ubbidiente alle esigenze del suo pubblico speciale, con una fraseologia che sapeva riprodurre le trine, i rasi, i velluti, gli sbattimenti della luce, le languidezze delle pose, i baci pudibondi e i candori delle spalle, con una morale che ignorava i delitti della gente in auge, i vizii del mondo che aveva agguantato il potere, l'esistenza vera della pittocaglia che moriva di fame in mezzo al lusso e alla esuberanza, si può dire ch'egli sia stato il giornalista della borghesia in fiore, della borghesia che ingrassava, della borghesia che aveva iniziato il periodo delle orgie unitarie, della borghesia che si svociava e ammattiva sgolando il sempre avanti Savoia ! Ci si disse che il Fortis era di carattere mite. E noi non abbiamo alcuna difficoltà a crederlo. Lo stesso Doctor Veritas, che era il suo pseudonimo, scriveva di Leone Fortis : " Di fondo è buono, tanto che vorrei le mille volte essergli debitore piuttosto che creditore. È prodigo sebbene sempre al verde, e sempre al verde sebbene si guadagni molto denaro che il pubblico baggeo gli fa, entrare in casa in pagamento delle frottole che gli regala il Pungolo. „ Tutti sanno e lo abbiamo detto che non aveva irruenze. Le sue tempeste erano le tempeste delle montagne, che permettono la luminosità del cielo mezz'ora dopo. I suoi latrati non si facevano sentire che durante le angosce nazionali o personali - quando i Passananti attentavano alla monarchia - quando gli sembrava che i socialisti avessero la fune della campana in mano per la sollevazione generale, o quando la gioventù scapigliata, come il Lodi del Preludio, tentava di sbriciolare il suo capolavoro - il suo Paolo Ferrari - il suo idolo - la sua statua - l'opera ch'era uscita dal lungo e paziente lavorìo delle sue mani — il teatro che rinchiudeva. tutti i suoi rapimenti di artista - i suoi ideali di scrittore e di sociologo - l'altissimo concepimento del drammaturgo. Con coloro che lo hanno consolato con del denaro e quando ne aveva e quando ne era senza, il Fortis è stato più infedele di una baldracca del quadrivio. Con Paolo Ferrari non ebbe rompimenti di fede. Egli fu suo, tutto suo, di nessun altro che suo. I successi teatrali di Ferrari erano le sue gioie, i suoi trasporti, i suoi delirii. I suoi insuccessi erano le sue sventure, i suoi dolori, le sue lagrime. Nessun amico intimo e affezionato ha mai seguito le vicende della gloria di un altro con maggior trepidazione di Leone Fortis. La sua penna lo ha difeso, la sua penna lo ha esaltato anche nei giorni della débacle, anche nei giorni che gli mancava la mano che lo aiutasse a salvarsi dalla povertà che stava per inghiottirlo. Le pagine piene di lui sono le più belle, le più vigorose, le più calde, le più entusiastiche. " Addio, gli disse coll'animo straziato sulla bara, addio Paolo, caro e venerato fratello, io ti porto l'ultimo desolato bacio della tua famiglia - a cui oggi più che mai sento di appartenere, non solo pei cari ricordi di 15 anni di intimità confidente e fraterna, ma ancora e più per l'immenso schianto del cuore. - Paolo, caro e venerato fratello, addio - sei scomparso - non morto. - Vive la tua memoria - vivono le opere tue - vive l'affetto nostro. „ E si ritrasse dietro la colonna con gli occhi nel fazzoletto a piangere coi, singhiozzi della disperazione. Studiandolo ci siamo contenuti. Ma vi confessiamo che rimestando il materiale dell'uomo che se n'era andato abbiamo dovuto trasalire più di una volta e più di una volta abbiamo dovuto violentarci per non procombere su questo gaglioffo che ci si rivelava a mano a mano un abisso di nequizia. Sotto questo patriotta all'antica. che repubblicanizzava quando Alberto Mario alberteggiava, sotto il derma di questo conversazionista bonario, pieno di cascaggini e di leziosaggini, che malediva cogli isterismi del padre nobile la filosofia moderna del viver bene ad ogni costo e voltava il dorso alla generazione che non aveva fede che nel venti lire, si nascondeva una anima abietta, vulgare, un miserabile che sapeva truccarsi bene in mezzo al mondo che svaligiava salutato come un grande uomo. Forse l'ambiente gli ha sviluppato sollecitamente il bernoccolo della corruzione. Ma è indubitato che egli era costituzionalmente depravato, costituzionalmente disonesto. Erano in lui la birbanteria e la delinquenza. Con un ingegno superiore alla massa dei pennaiuoli del suo tempo, con una penna che gli produceva onori a profusione e gli scavava miniere d'oro inesauribili, questo istrione del giornalismo italiano vendeva gli aggettivi come la puttana i baci. La sua penna era la donna tollerata. Si vendeva a tutti i ministeri - a tutti gli uomini - a tutti i ministri - a tutte le cause. Il suo ventre era di tutti. Venale e insaziabile, si gettò nella putredine della corruzione con i compiacimenti della scrofa. L'autore dei capitoli intitolati crispiana - dei capitoli che scrostavano la riputazione usurpata dal Trigamo che era parso uno dei mille che aveva fatto della monarchia ci unisce e la repubblica ci divide un ponte, una scala, un passaporto, una carta di sicurezza - dell'uomo di passioni, di collere, di vendette era riuscito a credere alle virtù dell'uomo che era passato sul corpo delle donne come un carrettiere, al patriottismo di Francesco Crispi. Con la stessa penna che lo aveva perseguitato per tanti anni, con la stessa penna che lo aveva inchiodato alla croce dei Rabagas italiani - il Fortis era riuscito a ricomporre i frantumi della sua demolizione e a rimettere la statua di Ciccio sul basamento dell'uomo eminentemente pratico - dell'angelo salvatore - dell'organizzatore del piano dei Mille - dello sposo devoto alla sposa, del patriotta che aveva dedicato l'esistenza alla grandezza del paese, alla felicità degli uomini! Lo spazio ci manca per irrompere. Noi ci contentiamo di lasciarti qui appeso come uno scheletro di carogna che ha inquinato le arterie del giornalismo italiano - come un malfattore della penna pubblica che ha voluto essere malfattore - come un nemico delle classi povere, sulle quali egli riversava i suoi rancori di classe. XXXIV. I piccoli martiri.


...chi vive in mezzo all' ignoranza, alla ruvidezza, all'egoismo, prende inconsapevolmente lo stesso carattere e diventa uomo ruvido, incolto e tanto più dannoso alla società quanto più è posto fra le molteplici tentazioni di quella che ha nome vita civile.

S. SMILES.

Nella faticosa corsa attraverso Milano abbiamo avuto più volte occasione di mostrare al lettore esseri caparbi nel vizio, rotti al malfare, impenitenti, crudeli, sanguinarii : esseri ai quali è negata perfino quella vulgare compassione cui suole spesso accordare la società che è prima a delinquere. Perchè ? Domandiamo alla radice perchè ha dato un così funesto tronco e troveremo che il seminato risponde al raccolto. Non basta predicare che il figlio deve essere allattato dalla madre, che l'educazione deve essere preferita all'istruzione, perchè è quella che ingentilisce il cuore e fa 1' uomo di carattere ; non basta dire alle madri : badate che i figli sono grandi imitatori ! come li avrete educati, cresceranno ! Bisogna prima osservare se le madri sono in grado di allattare e di educare ; se la condizione sociale permette loro di curarsi dei figli. Carlo Frua, Samuele Smiles, Lessona, Jean Louis Vaìsse,

Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 45. Mantegazza e molti altri che parlarono dell'educazione del fanciullo, dissero borghesemente cose auree. Ma a che pro ? a che si riducono i precetti e i sistemi di questi uomini se non sono applicabili che alla parte minima della popolazione? Dalla madre che va a lavorare dalla mattina alla sera negli opifici per 70 o 80 centesimi al giorno, può la società esigere dei Gracchi? Ma che Gracchi! Esigere semplicemente dei cittadini comuni capaci di capire il bene e il male? Dalla madre che disperata va a prostituirsi per sfamare i bimbi che le chiedono pane, può pretendere degli Aristidi o. dei Milziadi ? Ma che Aristidi e Milziadi ! Degli uomini che capiscano i doveri e i diritti della vita in comune? Victor Hugo ci ha dato, oltre a Fantina, un tipo di madre plebea inDue discoli (pag. 359).Michelina Fléchard. Ma chi può esigere che tutte 'le donne abbiano uno sviscerato amore pei i propri figli come lei ? La Fléchard, a guisa della Mater dell'epoca pelasgica, corre giorno e notte coi piedi sanguinolenti per terre inospitali, gridando come Ecuba: " Dove sono i miei figli? oh, datemi i miei figli! „ Ma le altre - la maggioranza - è molto se versano una lagrima.... Esse non hanno neppure il tempo di piangere.... Piangere i figli quando sono un impaccio, un peso, un rimorso ! Eh via! siamo sinceri. Se se ne vanno, se scompaiono, se muoiono rendono alle madri dei servigi. L'altro giorno credevamo di trovarne una disperata sul morticino in letto. Era seduta che faceva colazione con un litro di vino e ci diceva che Cesarino sarebbe stato assai meglio in cielo ! In cielo non si patisce. Non ci sono le nostre tribolazioni. Si sta meglio, credete a me che ho fatto della fame a vent'anni. Sono sua madre, l'ho fatto io, e non mi duole che sia morto! Va, disse vuotando il bicchiere, tu non conoscerai le angustie di tua madre! Non sono tutte così. C' è anche la madre sentimentale - quella che dimentica le peripezie personali per espandersi nei tripudii materni. Ma se entrate nei tugurii voi ne uscite desolati. Vedete che la miseria ha dato dovunque un calcio all'amore materno. Che qui i bimbi si svociano per del pane e per la mamma assente. Che là si dànno orecchiate, spintoni e sculacciate e che altrove la furia materna diventa una pioggia di scappellotti. Dappertutto vi trovate in una bolgia di disperati che s'imbratta e si scalda col proprio sterco. Dunque si diceva ? È possibile infrenare o estinguere la razza dei malviventi nello stato attuale? È possibile arginare la furia se essa ingrossa sempre ? È possibile esigere moralità, dove il vizio è una necessità ineluttabile, imperiosa, assoluta? Vedete il figlio del borghese. Chi ha mai udito dire che il ragazzo di un ricco, se non per pazzia, ha rubato un pezzo di pane, una mela o una pera? Chi ha mai letto sui giornali che il figlio tale del borghese tal altro ha scassinato un cassetto, sfondato una porta, svaligiato un viandante, forzata una cassa forte, scalato un muro ? Chi ha mai veduto tra i pregiudicati, gli oziosi, i vagabondi il figlio di un milionario ? A Milano ci saranno non meno di mille tra fanciulli e fanciulle che tra i sei e i dodici anni guadagnano già da vivere per sè, e spesso per i propri genitori. - O dunque la società non è poi tanto cattiva come la dite voi... - Guadagnano, ma sapete come ? Girandolando da un crepuscolo all'altro, e più spesso nel cuore della notte, a vendere le scatole di zolfanelli, le noci dorate, i mazzolini di fiori, i libriccioli molto ameni con le relative vignette, e... dobbiam dirlo'? Lo diremo in inglese per non attirarci un'altra sassata dai moralisti: i fretich- gloves, e... dobbiamo dirlo ancora? magari a mercanteggiare la tosa, magari ad esibirti la sorella !... Ma la Questura, la Questura, direte voi, che fa, dorme ? Prima di tutto permettetemi di dire che noi non simpatizziamo nè punto nè poco per questa arcigna signora, molto più ch'essa - fatta qualche eccezione - è attorniata d'uomini dal cuore burocratico o di lapillo, insensibili, spesso brutali e più spesso villani. Ma dato e concesso ch'essa volesse immischiarsene, credete voi che ci si guadagnerebbe ? La Questura, se sono impuberi, li caccia nel serraglio dei discoli; se puberi, in una squallida muda


[didascalia immagine:] vedete i magustei seduti al dorso di un edifizio in costruzione...(vedi pag.361) di S. Vittore. Le fanciulle invece, se minorenni, le rinchiude nella casa di Nazaret ; se maggiorenni, li lascia andare. E non potrebbe fare altrimenti. Che cosa c'entra lei ? È forse la tutrice della prole cittadina ? E poi la Questura! Non è dai regolamenti polizieschi che ci dobbiamo aspettare gli insegnamenti del vivere sociale. - Ma dunque voi non avete fiducia in alcuna delle istituzioni sociali ? - Non discutiamo. Tra la carcere e le case così dette di correzione, scegliamo la prima. Il carcerato subisce in pace la sua condanna senza tante torture. Mentre il discolo e la pericolante, oltre all'essere soggetti a frequenti digiuni, subiscono le Crudezze di una disciplina spietata e le percosse e i maltrattamenti di snaturati inservienti.


[didascalia immagine:] Scolari dalla faccia che ride,vestiti dall'onore del mondo...(vedi pag.362) Cresciute, in quelle case dove hanno espiato colpe che non hanno commesse, usciranno col cuore gonfio d'odio: usciranno assetati di vendetta. Non dite di no. Potremmo convincervi con delle autobiografie di discoli autentici, di ex reclusi del riformatorio Marchionni-Spagliardi di via Quadronno. Ma non è questo il capitolo delle rivelazioni. Qui ci contentiamo di distendere sulla ringhiera dei delitti di classe, un po' delle tristi impressioni che abbiamo condensato studiando questa istituzione malvagia. Una volta scomparsi dietro la cancellata coperta di lastroni di ferro, voi vi sentite subito in una casa di pena, in un ambiente che pare una camicia di forza incaricata di misurarvi la respirazione e di regolarvi i movimenti. Non è l'edificio paterno che vi raccoglie come dei traviati o dei perversi per studiare i vostri temperamenti e riformarvi con una terapia varia e speciale. È un reclusorio con tutte le sue bruttezze, con tutti i suoi silenzii, con tutte le sue rigidezze, con tutti i suoi angoli arcigni, con tutti i suoi agguati tesi dalla vendetta religiosa. Alti e bassi, paffuti, grossi o mingherlini, stupidi o intelligenti, scellerati o buoni, gobbi o nani o storpi, vi si considera una sola persona - vi si tratta tutti con lo stesso metodo - con la stessa disciplina - con lo stesso dietario. Non c'è differenza tra chi è nato e chi è divenuto delinquente - tra chi ha tentato di essere matricida e chi si è sfamato con le mele marcie del fruttivendolo - tra il futuro assassino e la vittima della famiglia cresciuta nelle stanze a scatola, ove il bisogno è eterno. L'istruzione che vi dovrebbe veramente riformare, vi viene impartita da semianalfabeti del luogo con vera tirchieria. I giovani che hanno scritto, per noi, la loro esistenza di reclusi, ci hanno provato che dopo otto o dieci anni di reclusione sono rimasti gli idioti di prima. Nel riformatorio, ci dissero gli ex corrigendi, non c'è istruzione. Non stavamo in iscuola che un'ora al giorno e in un'ora in cui i ragazzi sono appena sdrucciolati dal letto e hanno ancora la testa ingarbugliata dal sonno. Che volevate che s'imparasse in un'ora sciupata nel dirvi attenti, al posto, silenzio, vi metterò in castigo, vi manderò in cella di rigore e altre balordaggini? Il linguaggio della vita in comune è furbesco, è gergale, come quello dei più matricolati inquilini di carceri. È un linguaggio rigurgitante di tutte le sudicerie. Cón degli insegnanti di scuola e di mestiere aguzzini voi non potete aspettarvi che una popolazione di malfattori. Vedete quei due giovanetti entrati, mentre eravamo nel reclusorio ? Usciranno fra otto o dieci anni. Non usciranno che peggiorati, con dei rancori e dell'odio per la gente che li ha soppressi per tanti anni per non avere avuto del ben di dio e che li ha puniti atrocemente con il vitto del carcerato. Voi potrete colpirli con tutti i codici divini ed umani, ma voi avrete sempre in casa dei nemici. A questi piccoli venditori ambulanti che assalgono il pasciuto borghese, come il tafano la rozza, dovete aggiungere quei tre o quattromila che vanno a consumare i loro corpicini nelle fabbriche, nelle botteghe e negli stabilimenti. Mentre i figli del borghese seggono sui panchi delle scuole, quelli della plebe si curvano sotto pesi immani. Gli umanitaristi han chiamato questo mercato la tratta dei fanciulli bianchi: noi lo diciamo lo schiacciamento fisico-morale del fanciullo. Da questi quattromila, che non hanno avuto il tempo d'apprendere l'abbecedario, può la società esigere uomini onesti ? L'Inghilterra, che è il paese che ha per divisa il tempo è denaro, impaurita per la moria dei fanciulli e per le carceri riboccanti di essi, emanava sino dal 1841 - se la memoria non ci tradisce - una legge con la quale obbligava i padroni a non tenerli presso di loro che per un limitato numero di ore, allo scopo di lasciare ad essi il tempo di frequentare la scuola. La Francia, mercè le calde perorazioni di Jules Simon, nel suo libro 1 'Ouvrier, imitò la terra d'Albione. E l'Italia ? Oh l'Italia non sa che punire ! - Con le vostre teorie lo Stato dovrebbe occuparsi perfino delle più minute, delle più futili cose, nevvero ? - Non discutiamo se lo sfruttare tante forze possa sembrare 'agli occhi vostri una cosa da nulla ; ma è certo che lo Stato se si fa vivo quando si tratta di condannare, non dovrebbe dormire neppure quando si tratta di prevenire. - Non ci sono i genitori? Li contate dunque per un fico secco ? Se non si curano essi della loro prole, dovrà curarsene lo Stato o il primo che passa ? - Ve lo abbiamo già detto : essi prima di pensare alla patria, alla morale e alla prole, pensano a pascere, le budella che soffocano in loro qualsiasi altro sentimento. È l'eterno, l'inesorabile problema di questo barbogio secolo, che gli scimmiotti della politica e i castrati della letteratura s'ostinano a chiamare il secolo dei lumi ! - O dunque, secondo voi come si dovrebbe fare ? - Se ci facessimo a scrivere anche dei volumi, voialtri non ne capireste un'acca. Bisognerebbe prima sostituire alle vostre teste venerande quelle della generazione crescente. Allora sì che si potrebbe venire a capo di qualcosa di buono. Non vedete che non è stato possibile introdurre nella vita milanese neppure quella povera cosa della refezione scolastica ? C'è qualcosa di più modesto e di più santo di quello di non lasciar patire la fame ai fanciulli in iscuola? - Voi avete il vezzo crudele di caricare le spalle sociali di tutti i delitti paterni e materni! O che colpa abbiamo noi se l'uomo A. e la donna B. sono degli ubriaconi, delle mani buche, dei senza cuore che dànno la preferenza al trani e alla grappa invece che alla educazione dei figli? La vostra società è una società di incoscienti,diirresponsabili, di mantenuti. - La vostra invece è una società di pitocchi, di ladri, di sgualdrine. Non si può fare un passo senza essere seccati da questi grandi e piccoli mendicanti che vi contendono il passo colla solita nenia, che vi rincorrono e vi pedinano coll'eterno : " fate la carità per l'amor di dio! „ È una povera donna che non mangia da ventiquattro ore ! È una povera madre che non ha pane per i suoi figli ! È un povero giovine digiuno che ha bussato a tutti i lavorerii. È un padre che non sa più dove dare della testa ! Se non fa freddo sedete al tavolino esterno dei restaurants ? Ecco che vi si contrista, ecco che vi si impedisce di gustare, di mandar giù gli intingoli con il piacere della gente che non ha rimorsi. Quei bimbi stracciati e sucidi che passano via con la mano tesa supplicandovi di dar loro il panino che avete sul tavolo, se non vi tolgono l'appetito, vi fanno pensare se non siete dei delinquenti a far colazione e a prànzare in quel modo, quando ci sono dei fanciulli e delle fanciulle sul lastrico a stomaco vuoto. Noi abbiamo dell'odio profondo per la carità. Oh, se l'odiamo ! Pure, quando ci vediamo il tavolo rasentato da questi piccini scalzi, non sappiamo fare altrimenti: diamo loro quello che ci cercano. Parlare di responsabilità a chi manca di tutto è ridicolo. Se volete che ciascuno sia responsabile delle proprie azioni, dovete incominciare con l'eguaglianza di trattamento. La responsabilità di colui che nasce circondato dalle cure materne, baciucchiato dalla mattina alla sera, ravvolto nei pannolini candidi, tirato su tra la scuola e la casa piena di benessere, non può essere, ci pare, la responsabilità del ragazzo che vagisce nella melma, che patisce le astinenze in fasce e fuori delle fasce, che si sviluppa sculacciando sull'acciottolato o sulle immondizie, che cresce tra gli sberlotti e le orecchiate dei genitori stati educati alla stessa scuola, che arriva ai quattordici anni macilento e fiacco come chi non si è mai saziato di pane e minestra. Date un'occhiata a queste fotografie che riproducono due scene della vita feriale. In una vedete i magutei (garzoni dei muratori), seduti al dorso di un edificio in costruzione, i quali aspettano che la campana li richiami in fabbrica. Sono tutti ragazzi, come vedete, tra i dieci o i dodici o i quattordici anni, vestiti malamente di frustagno, con un Milano sconosciuta e Milano moderna. - Puntata 46. Milano sconosciuta e Milano moderna

copricapo qualunque, che consumano l'ora del riposo come tutti gli sciagurati che non sanno leggere o leggono così male da non sentirsene mai invogliati. Il loro pranzo consiste di una pagnotella di mistura con cinque centesimi di tritumi del salumiere o di frutta ammaccata. Le loro facce portano le stimmate delle, violenze fatte fare ad un corpo non ancora adatto alle fatiche della secchia colma di molta. Nell'altra sono degli scolari dalla faccia che ride, vestiti all'onore del mondo, col berretto di stoffa alla marinara, col paltò, o con l'ulster, o con la casacca dall'ampio colletto rovesciato giù per le spalle, o con la giacca abbottonata fino al mento. Ciascuno di loro ha la cartella gonfia del companatico intellettuale e il canestruccio pieno di tutte le leccornie che vi ha posto la mamma sconosciuta all'ambiente della miseria. Ebbene, vorreste forse dirci che a 20 anni la responsabilità individuale dei primi è o deve essere identica a quella dei secondi? Fateci un po' il piacere ! Milano sconosciuta e Milano moderna

INDICE. 1. - Che cosa faremo 11. - Dove dormono i pezzenti III.- Via Vetraschi IV. - Un cul-de-sac V. - Studio notturno VI. - EI sciòr Dondina VII. - La locanda Berrini VIII. - Il gruppo che fa piangere VIII. - I nottivaghi IX. - Vedendo el barchett di pover X. - I sensali di carne umana XI. - I frati cavadenti . XII. - Pastelli milanesi XIII. - La via del Guast XIV. - I coscritti per istrada . XV. - Via Anfiteatro nel 1897 I . . . . XVI. - I contrabbandieri XVII. - Pagine cloacali XVIII. - I boss XIX. - Le scuole da ballo Milano sconosciuta e Milano moderna

XX. - Il birbante pagina 166 XXI. - Il Tivoli 171 XXII. - Dove incontro il mio amico l' avvocat di pover " " 184 XXIII. - In mattonaia " 194 XXIV. - Il tranisti del Verziere " XXV. - I nemici della legge " 235 XXVI. - Alla visita " 243 XXVII. - Il processo Giorio " 249 XXVIII. - Coi Cappuccini di viale Monforte " 275 XXIX. - I mentecatti " 291 XXX. - L'affollamento alla porta del teatro massimo " 302 XXXI. - L'ergastolo di Porta Nuova " XXXII. - Il distributore del Corriere della Sera " 321 XXXIII. - Leone Fortis " 332 XXXIV. - I piccoli martiri " 353


Milano, 20-4-1898.- Tip. degli Operai (Soc. Cooperativa), corso V. Eman. 12-16 v. immagine corrispondente