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IL MIO DELITTO Manoscritti trovati fra le carte del defunto avvocato Enrico Anselmi

Dal carcere cellulare di Milano.

ALL’AVVOCATO ENRICO ANSELMI.

“ Mio ottimo amico, Quel giorno che la mia mamma mi mostrò a voi per la prima volta, addormentata tranquillamente in una culla adorna di trine, non avreste certo pensato che la figlia della vostra amica d’infanzia e del prode generale di San Martino, incolpata d’un orribile delitto, si sarebbe quest’oggi rivolta a voi, per implorare il vostro patrocinio. Capisco che nel tempo febbrile in cui viviamo, non possiamo dominare nè dirigere gli avvenimenti, ma sono essi che s’impongono a noi con una fatalità inesorabile. In queste eterno ore di prigionia, desiderosa di dimenticare l’ orribile presente e tremando per l’avvenire, ho rifatta passo passo la mia vita passata e scrissi le memorie che vi unisco, affinché possiate conoscere tutto intero il mio cuore e la mia vita di questi ultimi anni. Ed ora vi supplico, per l’affetto che avete sempre avuto per la mia famiglia, per la santa memoria della mia povera mamma, di rinunciare per qualche giorno alla vita tranquilla, alla solitudine dei campi per venire a difendermi colla vostra eloquenza. Ho bisogno piú d’un amico che d’un avvocato, ed ho fede che la vostra presenza mi darà coraggio quando sarò là, dove non avrei mai creduto di metter piede, sul banco degli accusati, alla presenza dei giudici, dardeggiata dagli sguardi dei curiosi, fatta segno a mille commenti da una folla avida d’emozioni e di scandali. Leggete le pagine che vi unisco e ricordatevi che affido a voi la mia salvezza e quella di mia figlia. Pensate alla nostra vecchia amicizia e non rifiutatemi quest’ultimo favore. Ormai non spera che in voi la vostra

ILDA MANFREDI DI SAN MARTINO” I.

Ricordo pochissimo i miei primi anni di vita; so che non mi dovea mancar nulla di ciò che può rendere piacevole l’esistenza, perchè sentivo sempre risuonarmi nell’orecchio l’eco di queste parole che dicevano ai miei genilori gli amici di casa: “ Ecco una bimba fortunata.” “ E’ proprio nata vestita.”. “ Non le manca nulla ed è per giunta tanto carina.” Io rammento soltanto una bella camera coi parati di damasco, un lettino col baldacchino baldacchino di trina ed una sala grande, illuminata, con un bel tappeto turchino a fiori rossi, sul quale stavo seduta quasi tutto il giorno, circondata da una quantità di balocchi che aumentavano a vista d’occhio. Delle persone che mi circondavano, ricordo la mamma come in un sogno. Era una bella signora, elegante, dallo sguardo dolce e la voce carezzevole; essa mi teneva delle lunghe ore sulle ginocchia, mi baciava spesso e accarezzava i riccioli biondi che contornavano la mia fronte. II babbo lo ricordo meglio e mi pare ancora di vederlo col suo aspetto imponente, marziale, di udire quella sua voce imperiosa e abituata al comando, che in casa faceva tremar tutti, eccetto la mamma, per la quale avea sempre parole gentili, affettuose, e; quando si rivolgeva a lei, anche la sua voce prendeva una intonazione più mite e quasi carezzevole. Io so che avevo un gran timore di lui e quando mi accarezzava, nascondevo spesso la faccia nel seno della mamma, non osavo parlare alla sua presenza, e tanto meno piangere, perché andava sulle furie e diceva che la figlia d’un militare non doveva pianger mai. Ma, ripeto, di tutte queste cose mi ricordo come di un sogno; so che vi fu un periodo di tempo in cui non vedevo più la mamma e nessuno pensava a me; potevo insudiciarmi, rompere i balocchi, mettere a soqquadro la casa, piangere e strillare a mio piacere; nessuno mi rimproverava, e me ne stavo tutto il giorno colla mia bambinaia svizzera, una fanciullona, colla faccia rossa e tonda come una mela, che non avrebbe fatto altro che passeggiare per la città e giocare come una bimba. Qualche volta chiedevo della mamma, ma mi rispondevano ch’era ammalata e non ci pensavo più. Un giorno fui sorpresa di vedere la mia bambinaia triste e svogliata ed udire in tutta la casa dei rumori insoliti che non mi sapevo spiegare. Ora suonavano tutti i campanelli elettrici, sbattevano gli usci, e c’era un andirivieni di persone che si muovevano come fantasmi, non osando alzare la voce. Io era triste, perchè nessuno si occupava di me e mi pareva d’ esser dimenticata in un canto, come il mio gattino bianco, che ormai era il mio solo compagno di giuoco. Ad un certo punto, nella stanza dove stavo annoiata e triste, entrò impetuosamente la vecchia cameriera di casa, quella che aveva veduto nascere la mamma, avea gli occhi pieni di lagrime e non potea parlare; mi prese fra le braccia e mi portò via singhiozzando. Ero tutta sgomentata, non sapendo dove mi conducesse, mi fece passare per una lunga fila di camere, finché mi trovai nello studio del babbo; in quella stanza dove non avevo mai posto piede e che in casa si riguardava come un santuario. Appena volsi intorno lo sguardo e potei distinguere qualche cosa, vidi mio padre sdraiato sopra un seggiolone, colla faccia sconvolta e uno sguardo che ricordo ancora con grande spavento. — Ilda, dà un bacio al babbo, — disse la cameriera, mettendomi nelle braccia di lui. Se non fossi stata molto sorpresa da quella cosa insolita, avrei pianto, ma in quel momento mi sentivo come una macchina e non avevo la forza che di ubbidire. Appoggiai tremante la mia testina bionda sulla spalla del babbo; egli mi guardò cogli occhi inebetiti come se non capisse nulla, poi parve riconoscermi, strinse la mia faccia contro la sua, e diede in uno scoppio di pianto. Quell’istante non lo dimenticherò mai, se vivessi cent’anni; non solo non avevo mai veduto piangere mio padre, ma non avrei mai creduto che fosse capace di versare una lagrima; dovea essere accaduto qualche cosa di molto grave perché un militare come lui, che non permetteva di piangere nemmeno ai bambini, singhiozzasse a quel modo Il suo, era un pianto convulso, a scatti, quasi feroce; piangevo anch’io senza saperne la ragione, e non osando chiederla. Sentivo ch’era avvenuto in casa uno di quei fatti terribili e senza rimedio, che spargono il lutto e la desolazione su tutto quello che ne circonda. Ad un tratto annunciarono la visita d’un antico compagno d’armi di mio padre; egli mi pose in fretta per terra, ricompose con uno sforzo la faccia lagrimosa, si rizzò in piedi tutto d’un pezzo a ricevere l’amico, che al primo momento non seppe che abbracciarlo, dicendo: — Che sventura! Che sventura! povero amico; — poi, accorgendosi di me, soggiunse: — Possa quella piccina consolarti della perdita che hai fatto! Coraggio! ed ora che non c’è più quell’angelo, vivi per lei. Dunque era morta la mia mamma; avevo capito, senza poter misurare colla mia mente bambina tutta la gravità della mia sventura. II.

Addio sale dai parati di damasco, dai soffici tappeti, e culla coperta di trine. Addio ninnoli eleganti, bambole dagli occhi azzurri, balocchi divertenti; addio gattino bianco e bambinaia svizzera; non so come mi foste rapiti tutt’ a un tratto, nè so come fui trasportata in quei vasti stanzoni bianchi e disadorni, con una fila di letti allineati come tanti reggimenti di soldati, oppure con delle panche di legno e delle tavole lunghe lunghe interminabili. E nulla, nulla che mi rammentasse la mia casa! Ah si; trovai in mezzo alla mia roba un ritrattino della mamma. Chi ve l’avea posto? Forse la nostra vecchia cameriera? Forse il babbo? Non l’ ho mai saputo e non l’ ho mai domandato; ho sempre voluto immaginare che fosse venuto dal cielo a ricordarmi la mia casa. Non descriverò tutta la mia vita di collegio; quella vita monotona, uguale, è stata troppo descritta nei romanzi e nelle novelle sentimentali e ve ne faccio grazia; parlerò solo delle mie impressioni e dell’influenza che quegli anni possono aver avuto sul mio carattere e sulla mia vita. Io la vedo distinta in tre periodi; il primo, che chiamerei infantile, è composto di quell’età che si suol chiamare la più bella, ma che io chiamerei la più sciocca. Infatti, che cosa sappiamo noi della vita a quell’età? Si è più cose che persone, si vegeta, ma non si vive, si ha l’allegria dell’uccello che canta perché vede la luce, ma la vita la si apprezza assai poco e ci contentiamo facilmente, un dolce o un balocco ci rende felici, si studia per obbedienza, senza conoscere il valore del sapere, si piange per delle inezie, di dolori veri non si conoscono che quelli fisici, e specialmente in collegio s’è trattati come un gregge di pecore. Il gregge va al passeggio, a tavola, allo studio; l’individuo non esiste, è abolito. Si dovrebbe essere senza desiderii, senza volontà, senza aspirazioni, ma questi sentimenti si sentono repressi fremere dentro di noi, pronti a scattare alla prima occasione. Per me l’occasione fu quando nel 1866 venne dichiarata la guerra all’Austria e che mio padre, in quel tempo colonnello, mi venne a salutare prima di partire per il campo. - Senti, — mi disse, — ora vado alla guerra e tu devi essere molto e molto buona e in ogni caso devi essere forte, coraggiosa, ricordati che sei la figlia d’un militare. Egli aveva la voce dolce, come una volta quando parlava alla mamma, ed io mi sentivo salire le lagrime agli occhi. Parve accorgersene perché la sua voce prese un’intonazione imperiosa e disse: — No, guai! sai bene che certe cose non mi piacciono. Ricacciai con uno sforzo le lagrime, anzi le nascosi sotto ad un sorriso e dissi con voce supplichevole: — E’ che vorrei venire anch’io con te. — Sciocchina ! non vedi che mi fai dispiacere dicendo di queste cose impossibili, — e mi lasciò bruscamente, forse per non mostrarsi commosso, mentre sotto a quella ruvida scorza palpitava un cuore femminile. Da quel momento incominciai ad essere inquieta, nervosa e a ribellarmi alla disciplina del collegio. Mio padre era al campo, forse in pericolo di vita, ed io non poteva sapere nulla di lui, perché i regolamenti vietavano che si leggessero i giornali politici: era proprio una crudeltà. Da quel giorno divenni una piccola rivoluzionaria, gridavo, strepitavo, volevo i giornali, ma non riuscivo ad ottener nulla, anzi pigliavo dei castighi che io sopportavo pazientemente con una fierezza assai superiore alla mia età. Vedendo che colla prepotenza non potevo ottener nulla, divenni diplomatica, e mi cambiai tutt’ a un tratto in piccolo Macchiavelli. La necessità rende ingegnosi, e vi assicuro che avreste ammirato l’arte finissima con cui cercavo d’impietosire gl’ inservienti del collegio. Infine che cosa chiedevo? Semplicemente un giornaletto che mi recasse notizie di mio padre, avrei dato tutto quello che possedevo per averlo e non avrei detto niente a nessuno; pregavo, supplicavo, mi facevo buona, gentile, carezzevole, e regalavo i quattrini che m’ avea lasciato il babbo prima di partire. Non so qual buona fata siasi impietosita di me; so soltanto che tutte le sere trovavo sotto al mio guanciale il giornale tanto desiderato. Non vi fu mai cosa che mi recasse tanto piacere come quel pezzo di carta stampata, e i sotterfugi che facevo per leggerla di nascosto. Non leggevo, divoravo cogli occhi le notizie della guerra; sempre cercandovi un nome che non sapevo se desiderare o temere che vi fosse riportato. Era stata dichiarata la guerra e le truppe si avanzavano e si dovevano incontrare fra pochi giorni ed io ero colla mia mente assai lontana dal collegio, e il cicaleccio delle mie compagne mi faceva l’effetto del ronzio di mille zanzare e non ci badavo. Esse dicevano che ero superba, ma avevo altro pel capo che curarmi di loro. Un giorno mentre spiegavo il mio giornale, mi saltò agli occhi il nome di mio padre fra la lista dei feriti, si diceva pure che aveva combattuto valorosamente e ch’ era stato trasportato a Brescia. Non pensai più a nulla e corsi impetuosamente dalla direttrice col giornale in mano dicendo: — Il babbo è ferito, voglio andare a vederlo. — Come hai potuto avere quel giornale? — chiese severamente la direttrice. — Non so, l’ ho trovato, — risposi, — ma so che voglio vedere mio padre, — e mi posi a battere i piedi e a strillare come una forsennata. — Ora calmati; domanderemo notizie e vedremo quello che sarà più conveniente di fare. — No, voglio andare, voglio andare, — gridavo, — non aspetto nulla. — Mettetela in cella, — disse la direttrice, — qui nessuno deve dir voglio. Così fui messa nel camerino che ci serviva di prigione. Cambiai sistema e rifiutai il cibo. Non credevano alla mia fermezza e dicevano che quando avessi avuto proprio fame mi sarei risolta a mangiare. Mi misero davanti i cibi più squisiti, mi fecero andar a tavola colle mie compagne, ma io tenevo fermo, sentivo dei stiracchiamenti di stomaco, mi vacillava la vista, ma nulla entrava dalla mia bocca; nemmeno una goccia d’acqua. — Voglio andare dal babbo, —e non c’era verso di farmi mangiare né con preghiere né con minacce. Finalmente vedendo il mio carattere inflessibile e pensando che sarei stata capace di lasciarmi morire di fame, la direttrice pensò di contentarmi. — Andate pure, — disse, — ma sono molto in collera con voi. M’affidò ad una signora di sua conoscenza che dovea pure recarsi a Brescia per vedere, un suo figliuolo e consegnandomi una lettera per mio padre mi lasciò partire. Trovai mio padre con una palla in una gamba, e molto abbattutto moralmente. Il suo orgoglio militare avea ricevuto una ferita assai più crudele di quella fattagli dalla palla nemica. Nel giorno della battaglia di Custoza era riuscito ad occupare col suo reggimento una bellissima posizione strategica, sperava di andare avanti e cooperare ad una vittoria, invece nel più bello, gli venne l’ordine di ritirarsi e avea dovuto ubbidire suo malgrado. — E’ un dolore che mi condurrà alla tomba, — mi disse colle lagrime agli occhi, — tu sei una bimba e non capisci quanto sia forte il dolore di doversi ritirare sul punto di vincere! e i miei poveri soldati tanto coraggiosi e pieni d’entusiasmo’ E’ stato proprio una cosa crudele. Ebbe, un istante di soddisfazione quando lesse la lettera della direttrice nella quale narrava la mia fermezza nel volere andare a vederlo, e per giustificarsi raccontava il modo con cui ottenni il mio scopo. — Tanto piccina ed hai tanta forza di volontà ? Sei proprio mia figlia! — esclamò col volto illuminato da un sorriso. Fu il solo lampo di gioia che vidi quel giorno sulla sua faccia, poi non fece che lamentare la vittoria perduta e volle assolutamente ch’io lasciassi quel luogo di tristezza. Infatti era uno strazio per me vedere quei valorosi colla testa bendata, colle membra fasciate e sanguinose, udir continuamente dei lamenti, dei gridi di dolore senza poter dare alcun aiuto; mi sentivo venir i brividi, ma volevo esser forte. — Parti, — mi diceva mio padre, — questo non é luogo per te. — Sono forte, — rispondevo, — non son per nulla la figlia d’un militare. Mi fece ancora accostare al suo letto, mi tenne stretta al suo seno e mi baciò come non mi aveva mai baciato. — Addio, — disse, — ci rivedremo presto, ma non piangere, sai. — No, — diss ’io, — vedi? sorrido, — e mi lasciai trascinare quasi mio malgrado lontano da lui. Quando ritornai in collegio mi sentivo tutta cambiata; in apparenza ero sempre la fanciulla di nove anni, ma nel mio cuore mi sentivo più donna, ed ero tutta orgogliosa d’essere la figlia d’un prode che avea versato il sangue per la patria. Tutto quello che avevo udito narrare del suo coraggio e valore aveva tanto esaltato la mia fantasia che non parlavo che di battaglie, di mosse strategiche, come se fossi io stessa un generale. Che cosa m’importava che le grandi mi guardassero con aria sprezzante e che le fanciulle più ricche mi parlassero dei loro palazzi sontuosi, di equipaggi e di ville? Io era la figlia d’un eroe, il mio nome correva sulla bocca di tutti ed era ripetuto tutti i giorni, accompagnato da insiti elogi, sui giornali politici. Come mi pareva tutto piccino, in confronto dell’aureola di gloria che circondava il mio nome! La promozione poi di mio padre al grado di generale, servì ad aumentare ancora il mio orgoglio, ed è certo che in quel periodo di tempo dovevo essere insopportabile colla mia aria di superiorità e coi miei discorsi sempre esaltati. Le mie compagne mi burlavano e mi chiamavano ironicamente a “ la generalessa ” , e dicevano che ero montata tanto in superbia, come se fossi stata io stessa sul campo di battaglia. Confesso che ne avevano tutte le ragioni. Mi calmai quando rividi mio padre; era talmente accasciato, avvilito, che non era più riconoscibile; la sua ritirata forzata dal campo era divenuta la sua idea fissa e non se ne potea dar pace. Le poche volte che mi trovavo con lui, cercavo di distrarlo, di raccontargli i piccoli avvenimenti del collegio, d’intrattenerlo con discorsi allegri: tutto era inutile, non potea pensare che a quel tatto, il quale era come una lima che gli rodeva l’esistenza. Fu un amico di mio padre che mi recò la notizia della sua morte. Una sera, dopo aver parlato coi suoi amici, sempre dello stesso argomento, era caduto come una quercia colpita dal fulmine, senza proferire una parola, senza mandarmi la sua ultima volontà. Tutti sanno il colpo tremendo che fu quello per me; non valsero per molto tempo a consolarmi nella mia sventura nè le parole degli amici, nè gli elogi che leggevo di lui in tutti i giornali e nemmeno una lettera che mi scrisse il re di suo pugno, rimpiangendo la perdita d’un amico sincero e d’un valoroso soldato. Fu questo il primo grande dolore che provassi nella mia vita. Mi trovai tutt’ ad un tratto sola al mondo , senza amici, dopo aver veduto crollare quel raggio di gloria che negli ultimi tempi era stato il mio orgoglio, la mia consolazione. III.

La piccola Ilda era proprio degna di compianto; povera generalessa degradata! Si trovava sola a quattordici anni senza un amico, senza uno sguardo di simpatia; anzi le pareva di leggere negli occhi delle compagne queste parole: “ Brava ! ti credevi superiore a noi, avevi delle arie da regina; ed ora eccoti punita, il castigo è giusto! ” E le vedevo uscire liete nei giorni di vacanza e ritornare la sera piene di notizie raccolte, di divertimenti goduti in quelle ore di libertà. Dopo quella boccata d’aria libera avevano gli occhi più scintillanti e la faccia più fresca e sorridente e le loro chiacchiere erano più allegre e vivaci. Negli altri giorni erano di tratto in tratto chiamate in parlatorio, ricevevano dei regali dai parenti e facevano sempre progetti per l’avvenire quando sarebbero uscite dal collegio. Uscire da quelle mura che m’ opprimevano era un pensiero che spesso passava per la mia mente. Ma in che modo sarei uscita? con chi? Dove sarei andata? Ecco le questioni che si affacciavano sempre al mio pensiero, e l’idea di dover passare tutta la mia vita là dentro mi rendeva malata, nervosa, e mi riempiva di sgomento. Avrei preferito la morte; ma intanto la mia vita era infelice e le passeggiate fatte in comune come un gregge di pecore erano un vero supplizio per me. Pure, in mezzo a quel tempo tanto triste, vedo risplendere un bel raggio di sole. Una sera, ero malata moralmente e fisicamente, mi trovavo in quell’ età in cui c’è uno squilibrio in tutto il nostro sistema nervoso e pure avendo visceri sani si soffrono mali incredibili, si sprezza la vita prima ancora d’aver vissuto, s’ ha il cuore riboccante d’amore e s’odia tutto il genere umano, si ha bisogno di compagnia e la si sfugge, vengono le lagrime agli occhi senza saperne la ragione, e la vita diviene insopportabile se non si ha un cuore fidato in cui appoggiarsi. Era un giorno di primavera e d’uscita. Le mie compagne erano andate tutte coi parenti e cogli amici a respirare l’aria dei campi rivestiti di nuovi fiori, a inebbriarsi di libertà, a far provvista di gioia per un mese. Io sola ero rimasta a passeggiare per quelle immense sale abbandonate. Verso sera dissi di non sentirmi bene e ottenni il permesso di coricarmi prima che le altre ritornassero. Non volevo sentire il loro allegro cicaleccio, il racconto dei divertimenti goduti. Ma quando rientrarono la loro gioia era così rumorosa e avea tanto bisogno di espandersi, che avevo un bel nascondere la mia testa fra i guanciali: era come un ronzio di zanzare che sentivo intorno alle mie orecchie. — Proprio noiose come zanzare, — dicevo fra me, mentre sentivo parlare di merende sull’erba, di gite, di scarrozzate, di fiori, di giardini incantati, d’un mondo insomma che non avrei forse riveduto più mai. Ma chi è che viene a turbare i miei pensieri? Non vi basta tormentarmi colla vostra voce, che, mi venite anche a toccare! via, zanzare, via! Credo d’aver dato un piccolo schiaffo a quella cosa ch’io sentivo accanto a me, ma quella cosa si fece più vicina ed ebbi il senso come di due braccia che circondassero il mio collo. Fu la sensazione che ricordavo come in sogno d’aver provato quando era ancor viva la mamma. Alzai il capo e vidi due begli occhi neri, luminosi, fissarsi nei miei, e udii una voce dolce come una musica dire: — Sai, Ilda; il babbo m’ ha promesso di farti uscire con me la prossima volta, avevo bisogno di dirtelo subito. Addio, buona notte; — e via scappò nel suo lettuccio senza ch’io potessi nella mia sorpresa profferire una sola parola. — Margherita, Margherita! — chiamai, ma vidi i suoi occhietti neri che mi facevano cenno di star zitta e per quella notte dovetti tener dentro di me la voglia che avevo di prendere quella testina bruna e mangiarla di baci. Dunque qualcuno aveva pensato a me !I E questa persona era la buona Margherita Arvedi, una fanciulla timida colla faccia da madonnina, che non era molto considerata in collegio perché non avea nè molto ingegno nè molto spirito, e la direttrice parlando di lei diceva sempre: “ Quella fanciulla è tutto cuore, non le resta posto per altro.” Quella sera fui proprio convinta della verità di queste parole, e la fanciulla della quale prima m’ero accorta appena, divenne la mia più cara amica e la mia sola consolazione. Quando mi sentivo sola, infelice, abbandonata, mi bastava rivolgermi dalla sua parte e vedevo sempre quegli occhi profondi fissi sopra di me, quei begli occhi che mi leggevano in cuore e si offuscavano o si rischiaravano secondo l’espressione della mia fisonomia. Erano due punti luminosi nell’oscurità della mia esistenza e finchè erano là a consolarmi non mi sentivo affatto sola. Tutte le mie compagne lasciavano ad una ad una il collegio ed io le vedevo passeggiare cento volte più belle nelle loro vesti eleganti, ma mi restavano i miei fidi occhi eloquenti e non le invidiavo. Un giorno quei begli occhi vennero a me tutti lagrimosi. — Coraggio, Ilda, — mi disse, — bisogna lasciarci. Sentii una stilettata al cuore. — Come! — gridai, — tu esci? che sarà di me? — Il babbo lo vuole, — rispose, e sentii le due braccia morbide stringersi intorno al mio collo e la voce soave che diceva: — Coraggio! Verrà quel giorno anche per te. Anche per me! Ma in che modo sarebbe venuto quel giorno? Chi mai avrebbe aperto il mio carcere? Come intanto avrei potuto vivere senza il mio bel raggio di sole? Perché, o alte mura del collegio, mi sembraste da quel giorno più soffocanti? Perchè mi parve più goffa la divisa che si vestiva sempre, bigia l’estate e turchina l’inverno? Perché desideravo la morte come una liberazione? Qualche volta la mia mente fantasticava e mi pareva d’essere una principessa dei racconti delle fate imprigionata in un castello incantato e aspettavo un principe che venisse a liberarmi. Ma passavano i giorni, i mesi e gli anni, e il principe tanto desiderato non veniva; doveva essere ben crudele o aver altre faccende pel capo, se non ascoltava le invocazioni d’una fanciulla di diciott ’anni. Qualche volta nel silenzio della notte altre idee strane mi passavano per la testa, ora mi veniva una voglia prepotente di fare una corda colle lenzuola e fuggire dalla finestra e poi correre alla ventura per l’aperta campagna, oppure pensavo ad un incendio, ad un terremoto che facesse crollare quelle mura divenute odiose per me e mi fosse possibile trovare fra quelle rovine la morte o la libertà. Erano tutte fantasticherie che si dileguavano colla luce del sole ed io allora m’immergevo nello studio per non pensare più a nulla. E’ inutile ch’io ripensi a quello che ho sofferto in un’ età che dovrebbe assere per tutti un sorriso. E’ certo che se avessi continuato per un pezzo a vivere fra quelle quattro mura sarei impazzita o intisichita; intanto m’inselvatichivo ogni giorno di più e diventavo irascibile e stizzosa. Una mattina fui molto sorpresa di sentire che c’erano in parlatorio persone che chiedevano di me. Non poteva essere Margherita, perchè era come di casa e veniva a sorprendermi in qualunque posto mi fossi trovata, e poi, la sua istitutrice la lasciava venire molto raramente. Dopo molti anni che nessuno veniva a vedermi, a quella chiamata mi sentii battere forte forte il cuore come se scoppiasse e pensai al principe dei miei sogni. Fui molto sorpresa di trovare la zia Paolina, una sorella di mio padre, che non s’era mai curata di me, dedita com’era ad una vita tutta mondana. — Zia ! — esclamai tutta confusa. — Ti sorprende la mia visita? — mi disse, — ma tutti questi anni ho viaggiato, sono stata tanto occupata che non ho potuto venire a vederti, del resto sapevo che stavi bene. Me ne stavo tutta imbarazzata perchè non avevo in lei molta confidenza avendola veduta soltanto un paio di volte molti anni prima. — Andiamo, via, coraggio, — disse aprendomi le braccia, — dammi un bel bacio e ricordati che ora dobbiamo essere amiche; — poi continuò colla sua usata volubilità guardandomi in faccia. — Ma sai che ti sei fatta carina? e come sei cresciuta! ora non permetto più che tu stia camuffata a quel modo, nè che tu rimanga in quest’orribile collegio; io se fossi stata ne tuoi panni a quest’ora sarei scappata chissà dove. Alla tua età star rinchiusa con quel visino? Non lo posso permettere. — E perché non mi conduci via subito, — diss’ io. — Non posso, domani verrò a prenderti, intanto avvertirò la direttrice. — No, no, domani, — diss’ io colle lagrime agli occhi, — subito, ti prego, domani non ti ricorderai più di me, sei stata tanto tempo senza venire. - Che sciocca! allora eri una bimba e m’annoiavo a parlare con te, e poi i bimbi non mi piacciono, strillano, toccano tutto, sono irrequieti, ma ora sta tranquilla che non ti abbandonerò più, mi piaci tanto tanto e sarai la mia compagna, ci ameremo come due sorelle. Addio, a rivederci domani, trovati pronta, porche non ho pazienza d’aspettare, — e scomparve come una bella visione. Dunque era vero, finalmente si schiudevano come per incanto le porte della mia prigione! Quel giorno vissi come in un sogno, e come in un sogno udii le parole che mi andava dicendo la direttrice. — Ero proprio fortunata, — diceva, — infine andar colla zia era la miglior cosa che mi potesse capitare; la zia, è vero, non passava per una donna molta seria, anzi avea fama d’esser piuttosto volubile, ma avea cuore e non m’avrebbe certo abbandonata, poi era la sola guida conveniente per fare i primi passi nel mondo, in questo mondo pieno di pericoli. Poi mi raccomandò di ricorrere a lei se avessi bisogno di qualche consiglio e terminò con una specie di sermone che non mancava mai di fare alle fanciulle che uscivano dal collegio. Ma perchè, al momento tanto desiderato di lasciare quel luogo dove avevo passato dodici anni, perchè, pure avendo il cuore riboccante di gioia, ebbi un momento di debolezza, io, la figlia d’un militare e mentre la carrozza mi trasportava volando attraverso la città, perchè dovetti nascondere la faccia sulla spalla della zia per ricacciare una lagrima che mi spuntava in un angolo delle ciglia? Era forse in causa dei luoghi lasciati, forse per l’ignoto a cui andavo incontro, non so! E’ un enigma al quale ho pensato spesso e non sono mai riuscita a spiegarlo. IV.

Ecco un altro cambiamento di scena e questa volta mi par proprio d’essere nel palazzo incantato dei miei sogni. Che stupore al vedermi in casa della zia, in mezzo a una fila di sale grandi, immense, adorne di specchi e oggetti d’arte! Che felicità al sentirmi sotto i piedi dei morbidi tappeti e d’esser circondata da tante belle cose ! C’e troppa roba e forse troppo accatastata in questa casa della zia, ma intanto mi diverto a girare di qua e di là per ammirare i ninnoli che sono sparsi sui tavolini e sulle mensole, tocco le belle stoffe morbide di seta e mi fermo in ammirazione in una sala medioevale. — Questa voglio cambiarla, — dice la zia, — é troppo triste, voglio qualche cosa di più gaio. Eppure erano tanto belli quei mobili dai contorni severi, quei seggioloni di cuoio e coll’ ampio camino che pareva invitare tutta la famiglia a raccogliervisi intorno! Ma è nel carattere della zia Paolina di cambiar tutto e continuamente, me n’accorsi poi. In casa c’era sempre una rivoluzione, sparivano dei mobili, ne comparivano dei nuovi, e quasi tutti i giorni la zia alla direzione d’una schiera di operai facea cambiar disposizione ai mobili delle stanze. In questa cosa m’ accorgo che non andiamo punto d’accordo, io e la zia, lei vuol cambiar sempre ed io invece m’ affeziono ai luoghi e alle cose che mi circondano, tanto che la mia camera azzurra, la bella cameretta che mi destinò la zia, rimase sempre la stessa per tutto il tempo che vi dimorai. Il mio letto col baldacchino bianco lungo la parete, il tavolino da lavoro con una poltroncina accanto alla finestra, uno stipetto in faccia al letto e poi delle mensoline con dei ninnoli lungo le pareti, un mucchio di fotografie delle mie compagne di collegio e quella della mamma e del babbo in una medesima cornice nera, sul comodino presso al letto; ecco l’ordine e l’arredo della mia cameretta. E’ bello la mattina quando s’apre gli occhi rivedere tutte al loro posto le proprie cose che sono come dei vecchi amici. Io l’amavo, la mia stanzetta azzurra, e avrei desiderato rimanervi gran parte della giornata, ma la zia mi chiamava sempre vicino a lei e diceva ch’ero un piccolo orso che bisognava addomesticare. I primi giorni fui mostrata a tutti come una bestia rara; Dio mio! quanta gente veniva in quella casa ! Una vera lanterna magica, ed io dovevo presentarmi a tutte quelle signore che mi guardavano da capo a piedi, mi analizzavano; discutevano sul colore dei miei capelli e della mia carnagione, e poi non mancavano mai di dire alla zia: — Avete proprio fatto una bella azione, è una fanciulla fortunata. E la zia gongolava di questa nuova aureola di bontà di cui si andava adornando. Essa era sempre stata d’un carattere piuttosto originale, il babbo la chiamava la pazzerella di casa; da bimba era stata guastata dai genitori, più tardi dal marito che non le sapeva negar nulla. Infatti essa avea un fare grazioso di chiedere chiedere e certe moine, che sarebbe stato difficile negarle qualche cosa. Però il suo carattere era molto volubile, andava a scatti, aveva dei subiti entusiasmi per delle cose e delle persone che sparivano colla stessa facilità con cui erano sorte, era buona, ma non sapea esserlo interamente e costantemente, e ciò le guastava la reputazione, il suo pensiero costante era di fuggire la noia per cui era sempre in moto come un uccello irrequieto. Dev’essere stato un momento di noia quello che la fece pensare a me, in ogni modo io non poteva lagnarmi della vita che facevo, soltanto mi annoiava la continua esposizione che facea della mia persona. Quando penso a quel tempo mi pare d’aver vissuto come in uno stato febbrile, era la febbre dei divertimenti, dei viaggi, della società. Prima di tutto fu una grande occupazione per vestirmi con eleganza, e ad ogni vesta nuova che indossavo o ad ogni nuovo cappellino la zia batteva le mani dalla contentezza come una bimba che vede la sua bambola ben vestita, ed esclamava: — Come sei bella ! sembri proprio un’altra persona, peccato che tu abbia quegli occhi serii, cupi come se avessi sessant’anni. Essa non poteva perdonarmi i miei occhi bigi, profondi, gli occhi del babbo di cui andavo tanto superba. Ma nel mio sguardo freddo, tagliente come una lama, per ripetere le parole della zia, si rifletteva la fierezza del mio carattere, la forza della mia volontà. Pure, malgrado i miei occhi che non le andavano a genio, essa mi amava, a suo modo, non era l’affetto della mia mamma e nemmeno quello della mia amica Margherita, Margherita, ma era abbastanza; su questo rapporto non ero stata molto guastata. Mi teneva come una compagna di quelle dei giorni lieti che si amano finché servono a far passare il tempo ; e intanto si correva per la città, sempre in moto, sempre irrequiete, si andava nelle botteghe e si faceva mandare a casa una quantità di cose, e la zia comperava sempre con quella sua mania di cose nuove. Io non so davvero dove trovasse tanti quattrini per far tutte quelle spese; dovea averne un pozzo, non avrei mai creduto che fosse così ricca. Poi c’ erano le visite, le feste, i teatri. Dio mio! che fantasmagoria! non so come la zia potesse reggere a quella vita che mi stancava. E in mezzo a tutto quel tramestio mi ricordo la faccia tranquilla e serena dello zio sempre calmo e sorridente, innamorato della moglie come nel primo giorno del matrimonio, sempre intento a farla divertire, occupato a guadagnar quattrini perchè essa potesse spenderli. Ed egli era felice di tutto quel movimento, di tutta quella baraonda, di tutta quella gente che vedeva intorno a sè senza prendervi una parte attiva, facendo quasi da spettatore. Quando penso a quel tempo mi rivedo al mio primo ballo tutta vestita di velo bianco con dei fiori azzurri nei capelli. Vi andai col cuor trepidante, ma non credo d’ aver fatto molta impressione; ero semplice, timida, specialmente coi miei ballerini dai quali mi facevo condurre, appena finito un ballo, in un angolo nascosto da gruppi di piante verdi, e là mi mettevo a chiacchierare colla mia amica Margherita, che non mancava mai di precedermi o di raggiungermi. Ah si! appena uscita dal collegio andai a cercare i miei occhi neri lucenti ed eravamo divenute amiche inseparabili; essa che era uscita un anno prima di me mi serviva di guida, mi narrava tutte le chiacchiere della città o mi diceva il nome di tutte lo signore che passavano innanzi a noi. Il maggiore divertimento che provavo in società era di trovarmi colla mia amica. Appena entrate in sala, ci si cercava reciprocamente, e mi pareva un deserto se non vedevo i begli occhi lucenti risplendere in qualche angolo nascosto. Margherita non aveva che il babbo, e la zia faceva da mamma a tutte e due. Quel primo anno zia Paolina ebbe l’ammirazione di tutta la società. Vestiva seriamente da mamma, non ballava che le contraddanze e s’occupava di noi con tutto l’affetto, facendo egregiamente la sua parte. Bisognava sentire quello che di lei si diceva intorno a noi. Quante volte dal nostro angolo nascosto abbiamo udito ripetere queste parole: — Che vi pare della signora Paolina? — Mah, non si sarebbe creduto che fosse così seria ! — Temo che non durerà, ha cambiato tante volte! — Forse non cambierà più. — Perché? — Perché gli anni sono passati anche per lei ed ora sentirà il bisogno di far da mamma e d’aver qualche cosa di giovane intorno a sé. — Infine non è cattiva e questa volta ha fatto proprio una buona azione. La zia pareva elle indovinasse i discorsi che si facevano sul suo conto, e tutta contenta e trionfante della nuova parte che sosteneva in società, mi colmava di ogni maniera di cortesie, ostentando un affetto che forse non sentiva. Diceva a tutti che ero la sua cara nipotina, il suo pensiero, il suo affetto, la sola memoria che le rimaneva del suo povero fratello, un eroe d’altri tempi; — ed io intanto ne godevo i vantaggi, mi abituavo ad una vita di lusso e dispendiosa, e il mio gusto innato per le cose belle si raffinava sempre di più, andavo perdendo della mia selvatichezza e in mezzo a quella vita animata e libera la mia salute rifioriva, mi facevo più forte e più bella, le mie idee prendevano una forma più concreta; non vedevo soltanto cogli occhi, ma anche il cervello lavorava e la fanciulla timida e ingenua s’andava trasformando in un essere più completo, più gentile e più elegante. V.

Passai un mese delizioso viaggiando assieme alla zia. Quando ci ripenso mi pare che sia fuggito in un lampo, eppure mi lasciò delle impressioni che mi dureranno per tutta la vita. Roma, Napoli, Firenze, Venezia mi passarono davanti agli occhi come in un sogno delizioso. Ho solo il rammarico d’esser passata davanti a tante bellezze artistiche senza potermi fermare quanto avrei voluto. La zia ha decisamente gusti diversi dai miei; visita i musei, le gallerie dove stanno raccolti tanti tesori d’arte dei secoli passati, di volo, a passo di corsa; non si ferma davanti ad un quadro se non è firmato almeno da Tiziano o da Raffaello, non capisce come io mi diverta tanto con delle anticaglie e preferisce fermarsi delle ore davanti ai negozii di mode e gingilli. Io invece starei delle ore ad osservare un bel quadro e mi piace riceverne l’ impressione direttamente senza prevenzione e senza pensare all’autore; del resto ho quasi un istinto che in arte mi fa fermare davanti alle cose belle e queste m’impressionano fortemente. Mi pare che s’io fossi infelice la vista d’una bella opera d’arte trasportandomi in un mondo più elevato mi consolerebbe e mi farebbe del bene. . Spesso la zia mi sorprendeva in estasi a contemplare un quadro rappresentante delle Madonne dagli occhi soavi o degli angioli biondi che pareva mi trasportassero in cielo; allora veniva a scuotermi dicendo: - Andiamo! che fai? Dormi? Sono stanca. Ed io la seguivo come un automa lasciando in quelle sale la miglior parte di me stessa. Eravamo a Venezia e fu la prima volta che vidi passare una nube sulla fronte della zia, quando sulla lista dei viaggiatori trovò il suo nome coll’ aggiunta e figlia. — Imbecilli, — disse, — nipote non figlia, — e non ebbe pace finchè non fece correggere un errore che le sembrava enorme, eppure aveva vent’anni più di me e avrebbe potuto essere mia madre. Pareva proprio che a Venezia si fossero dati la parola per farla stizzire, perchè i venditori le offrivano degli oggetti per sua figlia, i gondolieri la gondola per mostrare a sua figlia la città, insomma era una noia anche per me mentre ciò la teneva di cattivo umore. — Non capite che non è mia figlia? — andava dicendo ; e poi rivolgendosi a me: — Sai che sono molto pettegoli questi veneziani, mi sono proprio antipatici. — A me invece piacevano tanto colla loro cordialità e festività. Mi piacevano tutti e gondolieri e popolani colle loro argute osservazioni e il linguaggio carezzevole, e la città co’ suoi palazzi, le sue chiese, un vero incanto. Non so se Venezia faccia sempre e in tutti la medesima impressione, so che è la città che sogna sempre a diciott’ anni una fanciulla. La zia ne aveva trent’otto e su lei non esercitava il medesimo fascino; tanto che volle lasciarla in fretta tutt’ a un tratto, e le venne uno sfrenato desiderio della sua villa sul lago, della tranquillità della campagna, della pace e del riposo. Meno male che se la scena cambiava non era certo meno bella e meno imponente, e se mi esaltavo con facilità alle bellezze artistiche, ero altrettanto sensibile a quelle della natura. Perdonatemi se vi trattengo a narrarvi troppo minutamente di quel tempo, ma fu forse il più bello della mia vita e quando la mente mi trasporta a quegli anni e in quei luoghi non me ne stancherei mai. La villa della zia Paolina era sopra un bel poggio che dominava il Lago Maggiore, la casa era graziosa ed elegante, il giardino pieno di fiori con un immenso terrazzo dal quale si vedeva un paesaggio incantevole. In generale la zia s’annoiava in villa e non ci stava che un mese d’autunno quando in città si sarebbe annoiata anche di più. Essa non poteva raccogliersi ad ammirare le bellezze della natura, avea bisogno sempre e costantemente di società, e che anche questa fosse variata e divertente. Io ormai non le bastavo più; ero stata parla di politica, di elezioni, di crisi ministeriali o finanziarie; tutte cose assai poco divertenti per la cara nipotina. Ma la cara nipotina alquanto dimenticata non se ne lagna, non vien più chiamata, nè mostrata come una bestia rara, e in compenso può correre per il giardino, nascondersi sotto ai capanni di verdura e cogliere dei fiori da riempirne tutte le sale e da adornarne la sua persona. Mentre la zia sta parlando con qualche senatore della pace o della guerra, la nipote segue collo sguardo il piroscafo che passa sul lago tranquillo, le barchette colle vele bianche che sembrano ali di cigno e contempla in distanza le isole lambite dalle onde e indorate dal sole. Sta spesso delle ore seduta all’ombra d’un platano gigantesco e legge qualche poeta favorito; ma ci sono anche dei momenti in cui s’annoia di sentirsi sola, e desidera d’avere vicina la sua amica; poi non la desidera soltanto, ma ne ha di bisogno, la vuole assolutamente, e un giorno che vede la zia di buon umore le salta al collo e le chiede d’invitare Margherita. Zia Paolina, malgrado la sua nuova mania per la politica, procura sempre di contentare la sua nipotina e le dà il permesso tanto desiderato. Che felicità ! Avere la sua amica sul lago, in campagna, tutta per sé! Scrive subito ed attende con impazienza il suo arrivo. Ne ha già ricevuto l’ annuncio e le par d’essere una regina, non vede il momento d’abbracciare la sua amica e freme d’ ansietà ; non sa perché le corse sieno sempre in ritardo; va un’ora prima dell’arrivo ad attenderla all’approdo, s’inquieta perché il battello non arriva mai, finalmente vede una striscia di fumo, qualche cosa di nero che solca il lago e mano mano che s’avvicina si fa più grande; su quella cosa nera vede un cappellino di paglia, un fazzoletto bianco che vola; non aspetta nemmeno che il piroscafo tocchi la riva e a rischio di cadere nel lago, fa un salto, e si trova nelle braccia di Margherita. VI.

Ad Ilda non manca più nulla. Ha il giardino, il lago e la sua amica. Che le importa se gli uomini gravi, i personaggi illustri si riuniscono nel salotto o sulla terrazza assieme alla zia? Il regno delle due fanciulle è il giardino; lo scorazzano per dritto e per traverso, s’arrampicano sui rialzi di terreno, colgono i fiori a piene mani e si siedono a chiacchierare all’ombra del platano, che se potesse parlare racconterebbe i loro discorsi ingenui, le loro simpatie, le loro aspirazioni; ma sono cose che non interessano ed è meglio non le possa ridire. I discorsi interessanti si fanno invece nel salotto e non può essere diversamente colla varietà e qualità di persone che lo frequentano. Spesso avviene qualche cambiamento; parte un deputato e arriva un professore, oppure un senatore dà il cambio ad un ministro; sono tutti personaggi che contano nel mondo, ma che devono contare anche un bel numero d’anni; sono quasi tutti calvi e bianchi, alcuni divertenti, ma altri, anche un pochino noiosi. La zia è felice in mezzo a loro che le fanno una corte rispettosa, tanto che si crede anche lei un personaggio importante e va dicendo che non potrebbe più trovarsi bene in un’ altra società dacche s’ è abituata ad avere intorno a sè delle persone intelligenti e parla con disprezzo delle conversazioni scipite dei giovanotti alla moda. Noi ragazze ci troviamo con quei personaggi, personaggi, che a dir vero ci danno un po’ di soggezione, soltanto all’ora della colazione o del pranzo, essi sono graziosi con noi, scherzano, ma ci trattano troppo da bimbe. C’ è fra gli altri un commendatore che ci vuol far sempre dei complimenti; un giorno mentre si entrava ci disse: — Ecco la primavera.... La zia si ribellò: — Che ? Intende forse che gli altri siano l’autunno o l’inverno? — No, — rispose galantemente il commendatore, — noi siamo l’ autunno e lei una splendida estate. La zia sorrise, ma non fu malcontenta. Qualche volta però quei signori si lasciavano trascinare a certi discorsi che non erano convenienti per noi ragazze, noi si fingeva di non capire, ma c’imbarazzavano. La zia faceva dei cenni e mostrava che c’eravamo noi e spesso riusciva ad interrompere qualche discorso che non si sa dove sarebbe andato a finire. Noi, terminato il pranzo o la colazione, si correva subito in giardino come uccelli usciti di gabbia, e si capiva benissimo dalle risate che echeggiavano in casa, che in sala continuavano i discorsi interrotti per noi e che la zia ci trovava gusto. — Come sono indecenti quegli uomini maturi! — osservava Margherita. — Anche gli amici che vengono dal babbo dicono certe cose e credono che io non capisca... però mi pare che anche tua zia ci si diverta. — E’ naturale, è anche lei matura. — Zitto, che non ti senta! — E’ impossibile. — Ma in campagna parlano anche gli alberi. Infatti qualche volta pareva proprio che parlassero e attraverso i loro rami udii certi discorsi che mi fecero molto soffrire. Quante volte udii la voce della zia ripetere : — Come sono imbarazzanti queste ragazze ! ed io che non ne avevo sono andata a prendermi un simile impiccio. Sono stata troppo buona. Pensavo che se la passione degli uomini politici le fosse venuta un anno prima io sarei stata destinata a rimaner chiusa in un collegio per tutta la vita; a qual filo è attaccato qualche volta il destino delle ragazze! Però intanto capivo chiaramente d’essere d’imbarazzo alla zia e ciò offuscava la mia felicità. Un giorno lavoravo con Margherita sotto al platano quando la zia mi chiamò. Dovea certo dirmi qualche cosa di molto grave, mentre da quando s’ era data alla politica e alle scienze, non si occupava più di quella sciocchina di sua nipote e non avrebbe trovato nessun gusto a parlare con lei. Corsi ubbidiente alla sua chiamata ed essa prendendomi a braccetto mi fece passeggiare su e giù per il giardino dicendomi con dolcezza: — Sai, Ilda, ho pensato che presto la villeggiatura è terminata e bisogna pensar seriamente al tuo avvenire. — Quanto sei buona, zia mia! — diss’ io dandole un bacio. — Lasciamo stare le chiacchiere inutili, quello che ho fatto lo feci volentieri e sono contenta, però mi sento invecchiata.... Rimasi sorpresa di udir una cosa simile dalla sua bocca, e stavo per oppormi a questa sua affermazione, ma essa non me ne lasciò il tempo, e soggiunse: — Capisco, non sono proprio vecchia, ma non mi sento più la forza di passare le notti intere nelle sale da ballo, ho bisogno d’una vita tranquilla; qualche pranzetto con degli amici seri e intelligenti (i suoi uomini politici), qualche trottata all’aria aperta; un clima temperato nella stagione fredda; insomma capisco che non potrò più dedicarmi a te per molto tempo, perciò ti condurrò ancora nel prossimo inverno in società e ti consiglio di andarvi col fermo proposito di trovarti marito. Io feci una faccia sorpresa, come cadessi dalle nuvole. — Via! non ti sarà poi tanto difficile con quel visino, un’altra al mio posto l’avrebbe pensato senza dirtelo, io sono più franca; infine, se vi si conduce in società, è con questo scopo e devi pensarci anche tu invece di star sempre fra le nuvole con Margherita. Dunque le sale da ballo non erano che un’esposizione di ragazze, e le signore maritate che cosa ci andavano a fare? Questo era un problema al quale avrei forse trovato la soluzione quando fossi stata maritata. Perchè ormai ero certa che questo giorno sarebbe venuto anche per me. Corsi da Margherita e mi confidai a lei. — Hai mai pensato, — dissi, — a prender marito? Rispose colla sua calma: — Finora no, ma ci penserò una volta o l’altra, non è bello restar zitelle per tutta la vita, pare che nessuno abbia pensato a noi; poi deve esser piacevole avere una casa proprio sua. — E magari un marito che fa il tiranno! — diss’ io. — Speriamo di no; infine se troviamo un buon marito tanto meglio, altrimenti staremo staremo assieme noi due e saremo felici lo stesso, — disse dandomi un bacio. — E se una di noi trovasse marito e l’altra rimanesse zitella ? — Questo non può essere, — disse Margherita, — facciamo un patto: o tutte e due o nessuna. — Bene, patto fatto. E in memoria del nostro patto ci scambiammo uno dei cinque cerchietti d’argento che ciascuna di noi aveva intorno al braccio, tanto che in mezzo al mio braccialetto d’argento opaco vedevo risplendere il cerchietto sfaccettato di Margherita a rammentare la nostra promessa. VII.

Trovare un marito; ecco la consegna per l’anno 1875. Quante risate con Margherita per questa nostra missione! E’ un segreto che abbiamo fra noi, un argomento serio di discorso e ce la godiamo un mondo. Del resto sul principio mi pare un’ impresa molto facile: ogni volta che mi guardo nello specchio mi trovo più compita, più elegante, più seducente. Non sono veramente una bellezza, ma, via! non sono poi tale da far fuggire i giovinotti. Basterà che mi metta di proposito e credo che non resisteranno. Con queste idee per la testa faccio al cominciar dell’inverno il mio ingresso in società colla massima disinvoltura, vestita alla perfezione. Le sale illuminate non mi abbagliano più, non tengo più gli occhi bassi come una collegiale, anzi guardo in faccia i giovanotti senza confondermi, ma capisco subito che non é la cosa più facile di questo mondo attirare la loro attenzione; essi resistono tutti, e tanto bene che continuano a non curarsi di noi fanciulle, ma fanno circolo intorno alle signore maritate. E’ una vera disperazione, e noi ci sentiamo avvilite, al vedere che non ci rimangono che i giovanetti di primo pelo, quelli che non sarebbero mariti possibili per noi e che servono appena per ballare. Noi ragazze li chiamiamo piedi e quando abbiamo finito il nostro giro di ballo, si fa un bell’inchino e tutto finisce lì. Si capisce che si farà fiasco riguardo al marito, non basta esser nella medesima sala, non basta esser carine e piene di freschezza e gioventù quando gli uomini si curano delle fanciulle come se fossero delle bambole; ma ancora questo sarebbe il minor male se non avessi la noia di sentirmi al ritorno da ogni ballo ripetere dalla zia il solito ritornello: — Dunque, Ilda, nessuno in vista? — Nessuno. — Siete le gran sciocchine voi ragazze del giorno d’oggi; siete tante marmotte, — dice la zia, e si strappa rabbiosamente il mantello e i diamanti che le adornano l’acconciatura. — Ma. zia, un po’ di pazienza, non si può andar a dire ad uno “ sposami ” ; vedrai che verrà anche per me quel giorno. - Si, si, pazienza, — andava borbottando, — intanto passa un tempo prezioso ed io sono stanca e sento che non posso continuar più questa vita. Voi avete fatto tutto il possibile per sgomentare gli uomini; capisco che se non mi ci metterò io non riescirai certo a trovarti un marito. Erano sempre gli stessi discorsi ed io soffrivo tanto nell’accorgermi di esser di peso alla zia che desideravo seriamente di trovare una persona che mi sposasse e v’ assicuro che non avrei badato tanto pel sottile. Una sera vi fu una grande emozione nel circolo delle fanciulle! Un giovane — però non dei soliti giovanetti — si fa presentare e si mette nel nostro circolo. E’ il barone Ruggeri, appena arrivato dal Giappone. Bisogna proprio venire così di lontano per occuparsi di noi fanciulle. Questo fatto ci parea tanto strano, che sul principio lo si accolse con molta diffidenza, ma quando ci accorgemmo che era persona assai superiore a tutti gli altri bellimbusti che ci disprezzavano, la nostra ammirazione per lui non ebbe più limiti, e si andò all’entusiasmo, anzi direi quasi al fanatismo. Però era un’ammirazione collettiva come quella che si ha alla scuola per il professore preferito o nella vita per un personaggio illustre; i nostri cuori battevano tutti più forte quando egli s’avvicinava e ci commoveva tutte egualmente colla narrazione dei suoi viaggi perché aveva fatto due volte il giro del mondo e la sua vena di raccontatore era inesauribile. Il barone Ruggeri non era bello ma avea una figura imponente, marziale, che piaceva a tutti, e specialmente alle signore, portava la barba intera di color fulvo e l’accarezzava l’accarezzava spesso con una mano candida e quasi femminile, ma il suo aspetto non avea nulla di singolare in confronto della sua voce, la quale era carezzevole, melodiosa, affascinante come una musica. Colla nostra fantasia giovanile ci pareva che nessuna donna avrebbe potuto resistere ad una dichiarazione d’amore fatta con quella voce dolce e insinuante. A dire il vero non mostrava di preferire alcuna di noi, e si accontentava di adoperare la sua voce per narrarci le sue avventure di viaggio. Non parlava molto di sè, nè raccontava avvenimenti meravigliosi o incredibili, ma parlava delle sue avventure con molta semplicità, si fermava specialmente sui costumi degli altri popoli, descriveva con parole efficaci i paesi veduti e ci mostrava spesso le fotografie che aveva recate in memoria di quei luoghi e di quei costumi. Mostrò subito di preferire la nostra compagnia a quella delle signore e quando vedeva in un angolo un gruppo di vesti azzurre, bianche e rosee, si dirigeva verso quel punto, dicendo con una espressione orientale che avea veduto un lembo d’azzurro sparso di rose e perle, o meglio un angolo primaverile. Era divenuto tanto popolare fra noi ragazze che era spesso l’argomento dei nostri discorsi e si pensava a lui tutte le volte che eravamo riunite nel nostro angolo e ci domandavamo reciprocamente: — Verrà il barone Ruggeri? I nostri sguardi spesso erano fissi all’uscio e quando si vedeva spuntare la sua barba i nostri cuori palpitavano e si temeva sempre di vederlo dirigersi là dove si dirigevano gli altri uomini della sua età. Una sera una ragazza un po’ sfacciatella gli chiese la ragione della sua preferenza per le ragazze. Rispose che dopo aver vissuto per tanto tempo in mezzo alla natura selvaggia, trovava le signore troppo artificiali e sperava che le ragazze lo fossero meno, e qualche volta sorridendo, diceva: — Quei giovanotti hanno paura avvicinandosi alle signorine di cadere nelle reti del matrimonio; io che sono stato in mezzo alle bestie feroci sono più coraggioso. E noi allora a tenergli il broncio perchè ci metteva assieme alle bestie feroci, ma la nostra stizza passava presto perchè temevamo che ci scappasse. E come ci si divertiva a vedere gli sforzi che facevano le signore per rapircelo. Figuriamoci! Ruggeri era in quel tempo l’eroe del giorno, il giovane alla moda, quello di cui si occupavano tutti i giornali. Quante volte qualche signora passando a noi vicina gli diceva: — Ruggieri, perché non venite a raccontare anche a noi le vostre avventure? Dite, sono belle le donne selvagge? Egli rispondeva galantemente, qualche momento andava anche nel loro circolo per non essere scortese, ma poi ritornava in mezzo all’innocenza, al suo lembo di cielo come soleva chiamarci. Noi ci si divertiva di quella preferenza come ci si diverte di tutto alla nostra età, e se non fosse stata l’insistenza della zia perché mi trovassi marito non ci avrei proprio pensato godendomi di quella vita spensierata ed allegra. Ma la zia era impaziente di liberarsi di me ed io mi stizzivo, vedendo la difficoltà che avevo di appagare questo suo desiderio e intanto anche per mia propria esperienza mi persuadevo sempre più della difficoltà che esiste al giorno d’oggi per una fanciulla di trovare marito. Stentavo tanto io che infine non ero brutta, ero ricca, e non mi pareva d’esser difficile da accontentare. VIII

Da qualche giorno non capivo Margherita; ell’ era preoccupata, pensierosa, parea che volesse dirmi qualche cosa e gliene mancasse il coraggio. E’ vero che avevamo poco tempo per l’intimità; colle feste del carnevale, quantunque ci incontrassimo spesso, eravamo sempre in mezzo alla gente e in divertimenti e mancava il tempo per dirci due parole e farci delle confidenze. Una sera ci troviamo per caso sole nel vano d’una finestra; Margherita si china al mio orecchio e dice: - Il carnevale è presto passato e a proposito di quello che t’ avea detto la zia c’è niente di nuovo? hai nessuno in vista? — Anche tu, Margherita! non basta la zia che è un vero tormento; se continuate così finirò per mettere un annunzio nei giornali. “ Una signorina di famiglia distinta desidera prender marito. Scrivere alle iniziali I. S. ferma in posta. ” Va bene? — Via, non dir così, Ilda mia, non andare in collera, — e intanto sentivo le sue braccia circondarmi il collo come quando eravamo in collegio. Ma che cosa vidi in fondo ai suoi begli occhioni neri? Qualche cosa di scintillante, un’allegrezza insolita! Fu come un lampo, e — Sei tu che hai qualche cosa da dirmi? — esclamai. — Sei felice, lo vedo dai tuoi occhi, presto il suo nome, sono impaziente. di saperlo. - Se tu non ti sposi, non mi sposerò nemmen io, l’ ho promesso e mantengo la mia parola. — Sciocchezze, cose da bimbe! Fuori il suo nome; hai pur promesso di non aver segreti per me. — E’ inutile, già per ora non ci penso, dipenderà da te. — Via, te ne prego, dimmelo. — Indovina. — No, Ilda, non farmi morire dalla curiosità. — Ebbene, già che lo vuoi proprio sapere, è il barone Ruggeri. Confesso che ebbi un momento di dispetto, ma me ne pentii subito. Perché non dovevo godere della fortuna che toccava alla mia amica, alla mia consolatrice, a quell’angelo di bontà? — Ma aspetterò, sai, — mi andava dicendo dicendo colla sua voce dolcissima, — aspetterò finche tu abbia trovato uno sposo; mantengo la mia promessa. — Sciocchina — diss’ io, — è stato uno scherzo, poi è ben giusto che tu ti sposi prima, hai un anno più di me. In questa frase sfumò tutto il mio dispetto, e tutte le altre furono per rallegrarmi della sua fortuna; la tenni per un pezzo stretta, abbracciata, perchè mi pareva che mi sfuggisse qualche cosa di lei e mi sentivo gelosa del barone Ruggeri. — Se ci potessimo sposare noi due, — diceva Margherita nella sua ingenuità, — si sarebbe state completamente felici. — Ma e non lo sarai con una persona simile ? — Vedi, è troppo per me, egli andrebbe meglio a te che sei d’un ingegno molto superiore al mio; non mi so ancora persuadere persuadere di quello che accade.... e non lo sa nessuno, intendi. — Neppur io me ne sono mai accorta. — Non lo potevi, è stata una sorpresa anche per me. Egli veniva qualche volta a pranzare con noi, ma parlava sempre col babbo ed io lo stavo ad ascoltare, senza dir parola; mi metteva soggezione e temevo di dire delle sciocchezze. Era molto gentile con me, mi portava dei dolci come ad una bimba, ma non avrei mai pensato ad una cosa simile; fu il babbo che un giorno gli chiese se non pensava ad accasarsi, a prender moglie. Rispose che ci aveva pensato, ma temeva che la fanciulla ch’egli preferiva lo trovasse troppo vecchio. In quel momento io sentivo i suoi occhi fissi sopra di me, mi pareva di essere ipnotizzata, di non poter fare un movimento, soffrivo come quando in sogno si vede vicino un precipizio e non si può evitare. Il mio nome pronunciato da lui ruppe l’incanto, quando mi chiese se non lo trovavo troppo vecchio. Mi misi a ridere e dissi che lo trovava giovanissimo. — Ma i suoi ballerini allora che cosa sono? — Quelli sono piedi, — risposi, — non sono uomini. Egli rise di cuore a quella mia risposta; e la sua ilarità si comunicò a tutti noi; poi la conclusione fu che il giorno appresso chiese al babbo la mia mano. Egli voleva proprio sposare una bimba come me per poterla proteggere, e un’ ignorantella per istruirla, ma io risposi che se non si sposava anche la mia amica Ilda, era inutile il parlarmene; e non mi disdico, sai, ora tutto dipende da te. — Sei un angelo, — diss’ io, e in quel momento ero contenta di me perché mi sentivo felice della felicità della mia amica. Ed aggiunse: — Ruggeri ha fretta che tu ti trovi marito, perchè dice che ha trentadue anni e non ha troppo tempo da perdere. Che vecchione ! E bada che devi trovarti un marito come Ruggeri. — Ormai per me pensa la zia e vedrai che riuscirà a trovarlo. — No, non dev ’ essere così. Devi pensarci tu stessa. — Tutte le vie son buone, pur d’arrivare; tu hai trovato la strada più bella, più diretta, io forse ne farò una più difficile e contorta, ma ci arriverò lo stesso, vedrai. - Mi fa pena sentirti parlare cosi; alla tua età devi avere più poesia e più illusioni. Essa, si, le aveva le illusioni e mi chiudeva la bocca a furia di baci, per non udire le brutte cose che andavo dicendo. IX.

La zia Paolina pensava seriamente al mio matrimonio, non mi tormentava più colle sue domande, ma appunto per questo capivo che andava maturando qualche progetto. Infatti aveva molti colloqui misteriosi con una sua amica, una signora ch’io vedevo poco perché ai suoi ricevimenti del venerdì sera riceveva molti uomini, poche signore e punto ragazze; fra lei e la zia correvano anche dei bigliettini diplomatici e capivo benissimo che ci doveva esser sotto qualche cosa per me. Io me ne stavo impassibile come non si fosse trattato del mio avvenire, e ormai riguardavo il matrimonio come una fine che devono fare tutte le ragazze e avrei accettato chiunque purchè non antipatico Ero troppo impaziente di liberare la zia della mia presenza e mi trovavo a diciotto anni senza illusioni, come se ne avessi avuto già trenta. Intanto s’avvicinava a gran passi il momento decisivo, lo capivo all’agitazione della zia, alle occhiate tenere che mi dava di tratto in tratto. Una sera ebbe luogo fra noi il seguente dialogo. Disse la zia : — Domani sera verrai con me dalla signora Aureggi. — Come! se le ragazze non ci vanno mai? — E’ una serata eccezionale, canta una signorina, anzi ci sarà più gente del solito, procura di essere carina, dovresti metterti il vestito azzurro che ti sta tanto bene. — E ci sarà anche Margherita? - Non so; può darsi. Non disse o non volle dire di più, ma io avevo capito abbastanza, avevo capito che forse la sera dopo dovea decidersi della mia sorte; però questa scoperta non mi produsse nessuna emozione, ormai stavo per diventare fatalista. Ecco il famoso venerdì sera: mi vesto colla massima cura, il vestito azzurro mi sta a pennello e me n’accorgo dallo sguardo soddisfatto della zia. Ci si avvia silenziose tutte e due; si capisce che abbiamo i nostri pensieri che ci preoccupano e assorbono tutta la nostra mente; si arriva abbastanza presto; si scende dalla carrozza ed eccoci in una bella sala illuminata. Mi sento un po’ confusa, è la prima volta che mi trovo in una società cosi seria, di gente piuttosto matura. Pochi colori chiari e molte giubbe nere, di signore credo di essere la più giovane e mi sento subito dardeggiata da una quantità di sguardi maschili curiosi. Dove sarà l’amico o il nemico? Deve essere in un certo gruppo laggiù accanto al pianoforte; mi faccio coraggio e guardo da quella parte; vi sono parecchi giovani, ma non posso indovinare quale sarà il preferito. Faccio un inchino alla padrona di casa e mi metto a sedere accanto alla zia. Si fanno intorno a me delle chiacchiere che non m’interessano, guardo sempre le giubbe nere per vedere se vi sono due occhi che mi guardino con maggiore insistenza; ce ne sono più di due e sento che m’ammirano tutti. Sono contenta: sentirsi ammirati è sempre una cosa che fa piacere, anche dalle persone che interessano meno. Si suona, si canta, ma non sento nulla, sono molto distratta, ci si alza per ringraziare gli artisti, nella confusione che succede fra un pezzo e l’altro ci si trova un po’ amalgamati cogli abiti neri, si fanno delle presentazioni, la padrona di casa viene verso di noi con una giubba nera di taglio perfetto ed una gardenia all’occhiello, e presenta: — Il conte Manfredi. Il cuore mi battè un po’ più forte, dovrebbe esser lui. Alzo gli occhi mentre egli s’inchina e parla alla zia, lo guardo in faccia: è un bel giovane, statura media, baffi biondi, viso regolare, carnagione bianca e un sorriso proprio seducente. C’è negli occhi qualche cosa che non capisco, ma il complesso non mi dispiace e poi ha modi da vero gentiluomo; se è lui, sento che non dirò di no. Non si fecero discorsi molto interessanti, si parlò di musica ed egli colse tutte le occasioni per farmi dei complimenti ed esser gentile, anche colla zia fu perfetto e chiese il permesso di venirci a vedere; ma per quella, sera si rimase a quel punto. Appena fummo in carrozza per ritornare a casa, la zia chiese col suo solito impeto: — Dunque! ti piace? Un’altra ragazza avrebbe simulato un po’ di sorpresa, ma io che odio ogni finzione dissi subito: — E’ un bel giovane. — E di famiglia distinta, — soggiunse la zia, — poi intelligente; insomma saresti fortunata se ti sposasse e mi pare che non sia difficile; ti dava certe occhiate piene d’ammirazione! Speriamo. Quando la signora Aureggi m’ ha detto che aveva intenzione di prender moglie ho pensato subito a te. Ho fatto bene? — Non tanta fretta, zia mia, sei dunque stanca di me? Prima di decidermi voglio conoscerlo un po’ meglio, e poi si vedrà. — Hai ragione, ma non conviene esagerare; esagerare; le buone occasioni al giorno d’oggi non bisogna lasciarle scappare. La zia poteva parlare a suo piacere, ma io avevo il mio piano: o un amore addirittura romantico, oppure andare col calzare di piombo, non far cose avventate. Della zia non mi potevo fidar troppo, era parte troppo interessata nella faccenda, perciò mi rivolsi alla direttrice del collegio dove avevo passati tanti anni, la quale conosceva molta gente, sapeva tutte le chiacchiere della città ed era felice se una sua antica allieva si rivolgeva a lei per chiederle consiglio in qualche caso difficile o delicato. Le chiesi informazioni del conte Manfredi. — E’ un giovane di famiglia distinta, - rispose, — ma gli piace la vita scapigliata, poi ha un punto nero. — Quale? — La passione del gioco, anzi per questa passione deve esser molto diminuita la sua sostanza e tu devi badare che non ti sposi per interesse. — Non le pare ch’io possa interessare abbastanza un giovane? — diss’ io un po’ offesa. — Non dico questo, ma non conosci gli uomini, e prima di fare un passo che può decidere della felicità di tutta la vita devi pensarci. La ringraziai e da quel giorno cominciai a pensare seriamente ai casi miei. E’ vero; ero abbastanza ricca, mio padre aveva affidato il suo avere in buone mani e possedevo senza che nemmeno lo sapessi un mezzo milione di lire; però studiavo il conte Manfredi che si mostrava molto franco e generoso, tanto che mi pareva impossibile fosse stato spinto al matrimonio soltanto da mire interessate. Egli veniva spesso in casa e mi diceva delle cose graziose ed era proprio bello col suo sorriso seducente, e poi quando si è ancor nuovi alla vita, fanno sempre effetto certe parole susurrate all’orecchio, certe strette di mano eloquenti. Egli mi faceva capire in tutti i modi come sarebbe stato felice di unire la sua sorte alla mia; io chiedevo tempo per rispondere, volevo conoscerlo meglio. Un giorno mi arrischiai anche a dirgli ch’ero gelosissima, che sapevo come avesse una grande passione per il gioco e ch’io sarei stata gelosa anche del tappeto verde. Mi promise di non giocar più. E prese tanto alla lettera la sua promessa che anche quando lo pregavano nell’intimità di fare il quarto al whist o in qualche altro gioco rispondeva invariabilmente: Ho fatto voto di non toccar più una carta. Ero orgogliosa di questo mio trionfo e fu quello che decise della mia sorte. Uno che mi sacrificava una sua passione dovea amarmi sul serio; cominciai anch’io ad amarlo e lo accettai come fidanzato con grande gioia della zia e di Margherita, e per non disgiungere la mia sorte da quella della mia unica amica si combinò che i nostri matrimoni si farebbero nel medesimo giorno. X.

Ecco un altro bel quadretto. Ilda e Margherita accompagnate dalla zia Paolina corrono per la città onde preparare il loro nido. Deve esser bello, elegante, attraente, tanto che i loro mariti non possano trovarne di migliori e siano invogliati a trattenervisi il maggior tempo possibile; le due fanciulle innamorate si formano delle illusioni sul potere dei mobilie delle cose per trattenere a casa i mariti Ognuna ha un gusto speciale per cui non si fanno concorrenza; Ilda vuol ammobigliare il suo appartamento in modo classico, ogni stanza deve aver l’impronta d’un’epoca; a questo questo scopo fa degli studii archeologici e consulta dei libroni sull’arte dell’ammobigliamento. Margherita si dà invece al genere fantastico, vuoi collocare dei mobili e degli oggetti orientali portati da Ruggeri a ricordo dei suoi viaggi. Intanto le botteghe sono saccheggiate di ciò che v’è di più bello e la zia ci s’interessa, si diverte e consiglia le fanciulle coll’esperienza della sua età. Poi vengono le preoccupazioni per il corredo, tutto deve esser bello, fine, distinto: la biancheria, una nube di batista e di trina; i vestiti, un’armonia di stoffe e di colori. Tutte le volte che le fanciulle si mirano nello specchio con un nuovo abbigliamento che la sarta aggiusta con arte sapiente intorno alla loro persona, si trovano più seducenti e più belle; pensano alla sorpresa dei loro fidanzati e studiano nuove raffinatezze, nuove eleganze per rendersi sempre più belle e interessanti. Tutta la giornata è una febbre di comperare cose nuove e belle, poi la sera si riuniscono ad ammirare e discutere le compere fatte; i due fidanzati sono d’una galanteria perfetta, approvano tutto quello che fanno le loto sposine, non pensano che a contentarle e a renderle felici, poi portano ogni tanto doni preziosi, i diamanti s’ammucchiano negli scrigni, i fiori nei vasi di porcellana e i ninnoli sui tavolini. Se le fanciulle s’arrischiano ad esprimere un desiderio, poche ore dopo vien soddisfatto come per incanto. Esse sono felici perchè sentono d’essere amate e d’aver una persona che s’occupa costantemente di loro, vivono come in sogno e vedono avanzarsi troppo rapidamente il giorno in cui l’incanto potrebbe esser rotto, ma non ci pensano e sperano che la loro felicità durerà per tutta la vita. Poi la zia è impaziente, vuol andare a passar l’inverno a Roma in mezzo ai suoi uomini politici, perciò affretta le nozze; sotto la sua direzione il moto diventa febbrile, vertiginoso, si fanno preparativi d’ogni sorta, inviti, partecipazioni, gli appartamenti degli sposi devono essere presto allestiti, il corredo pronto; la vita non è più un sogno, ma una fantasmagoria, un vortice che trascina, non si contano più i giorni, ma le ore, il tempo vola e viene anche la gran giornata. Mi vedo trasportata in chiesa, al Municipio, vedo intorno a me una quantità di persone, vi sono delle facce amiche e di quelle sconosciute, vedo sguardi curiosi, la zia mi susurra delle raccomandazioni che non ricordo, abbraccio piangendo Margherita. I nostri mariti devono usare un po’ di violenza per separarci e staccarci l’una dall’altra, poi mi sveglio come da un sogno e mi trovo per la prima volta sola con mio marito in un cupè della ferrovia e si viaggia lontano lontano verso l’ignoto, fidenti nell’avvenire. XI.

In poche parole voglio dipingervi l’ambiente in cui ho passato i primi anni di matrimonio, quegli anni che precedettero il dramma che mi ha trascinato in questo luogo di miseria. Malgrado il mio studio per avere un complesso classico ed intonato, non volli la monotonia di un solo genere per tutto l’appartamento; ogni stanza ha un’impronta speciale, v’è tutta l’arte e la raffinatezza moderna ispirate al gusto dei secoli passati in modo che le varie epoche armonizzando fra loro formino un nido simpatico e piacevole. La stanza che preferivo era un salottino ammobigliato sul gusto del tempo di Luigi XV, tutto imbottito come una bomboniera, coi mobili piccini a curve graziose, ricoperti di raso color perla a fiorellini rosa. Mi par di vedere nella parete di mezzo un mobile color bronzo dipinto a fiori che mi serviva di scrivania e sul quale tenevo i miei ninnoli preferiti, quelli che desideravo aver davanti agli occhi e accarezzare nei momenti di ozio. Dalla parte opposta rivedo un bellissimo stipo dello stesso genere con degli amorini dipinti che mi sorridevano in mezzo ai fiori. Presso la finestra c’era il mio tavolino da lavoro ed una poltroncina dove stavo seduta una gran parte della giornata, accanto un divano uguale per le mie amiche. Dalla parte opposta spiccava un vaso di Sèvres con un camaerops gigantesco che mi riposava la vista colle sue foglie sempre verdi, poi un camino CORDELIA

IL MIO DELITTO

ROMANZO

MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI

Ottavo migliaio. IL MIO DELITTO. OPERE di CORDELIA. RACCONTI E BOZZETTI.

Dopo le nozze L. 4 -- I nostri figli, in formato bijou a colori 4 -- Prime Battaglie 3 -- Vita intima 3 50 Racconti di Natale 5 -- - - Edizione illustrata da Dalbono. 4 -- Alla ventura, illustrato da Amato 5 -- Casa altrui, illustrato da Matania 6 -- - - Edizione economica 3 50 All’aperto, illustrato da Ferraguti e Amto 5 -- Nel Regno delle chimere ill. da G. Amato, A. Ferraguti – E. Dalbono 10 -- - - Edizione economica in 16 4 -- Verso il mistero 5 -- Le donne che lavorano 4 --

ROMANZI.

Catene 3 50 - - Edizione ill.da Bonamore 8 -- Per la gloria 5 -- Forza irresistibile 5 -- Il mio delitto 3 50 - - Edizione illustrata da Colantoni 6 -- Per vendetta 3 50 - - Ediz. ill. da Armenise e Ferraguti 8 -- L’Incomprensibile 3 50

LIBRI PER RAGAZZI.

Piccoli Eroi 6 -- - - Ediz.in 8 ill. da A. Ferraguti 12 -- Mondo Piccino, illustrato 2 -- Mentre nevica 4 -- Nel regno delle Fate, ill. da Dalbono 8 -- Il castello di Barbanera, ill. da Paolocci 6 -- I nipoti di Barbabianca, ill. da Matania 6 --

Teatro in famiglia, commedie per i giovani, illustrate da G. Amato, Sophie Browne e A. Ferraguti 3 50 Gringoire, opera in un atto,musica di Scontrino 6 50 CORDELIA

IL MIO DELITTO

ROMANZO

MILANO

Ottavo migliaio. PROPRIETA' LETTERARIA

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Scozia, la Norvegia e l’Olanda.

Tip. Fratelli Treves - 1925 Il nome vero di questa scrittrice, tanto cara specialmente alla gioventù, Virginia Treves Tedeschi, vedova di Giuseppe Treves. fratello di Emilio, il grande editore che edificò la rinomanza e la prosperità della sua casa. Nacque a Verona nel 1849, e morì a Milano nel 1916. Era sorella di Achille Tedeschi, scrittore anch’egli e de ’ più apprezzati fra quanti, negli ultimi anni del secolo scorso e nei primi di questo, indirizzarono la letteratura alle esigenze dell’educazione dei fanciulli. Il De. Gubernatis le attribuì giustamente - come scrittrice - il pregio di essere morale senza bigottismo e senza pedanteria. Ella s’inchina, è vero, a tutte le autorità spirituali costituite, ma quando l’ingiustizia le appare crudele, non esita a levar la sua voce, mite e dolce voce di rassegnazione, ma capace di aprirsi la via ai cuori e di destarvi i migliori sentimenti. Si comprende benissimo ch’ella non vuol uscire dalle vie battute e schiudere - come si dice - nuovi orizzonti alla morale infantile e femminile (sebbene in uno de ’ suoi ultimi libri abbia giustificato e difeso le moderna tendenza della donna a cercar lavoro anche fuori di casa, per aiutare il marito a sostenere il peso della famiglia), perché il suo cuore ha bisogno di credere che va tutto per il meglio, meglio, o almeno che il male e l’errore son riparabili, se no, cesserebbe di battere. Por questo il suo ottimismo non ha nulla di convenzionale, ma è un bisogno della sua stessa natura. Chi la conobbe giovane afferma che il suo leggiadro visino di orientale rifletteva questo suo ottimismo e che tutta la sua gentile persona apparisse circonfusa della medesima luce mite, blanda, carezzevole che emana da tutti i suoi scritti. I quali furono molti e molto letti, e lo saranno ancora chi sa per quanto tempo. Crediamo che non vi sia un solo suo libro rimasto alla prima edizione. Piccoli eroi viene - per ampiezza di diffusione - subito dopo i due capolavori delle letteratura giovanile italiana: Cuore e Pinocchio. Ai fanciulli italiani essa donò inoltre Mondo piccino, Mentre nevica, Racconti di Natale, I nipoti di Barbabianca, Il castello di Barbanero ,Nel regno delle fate, L’ultima fata, ed altro. Alle donne italiane e a tatti i lettori di buon senso, buon cuore e buon gusto, parecchi romanzi e volumi di novelle, e qualche libro d’idee, fra i quali sono da ricordare: Il regno della donna, Dopo le nozze, Vita intima, Casa altrui, I nostri figli, Nel regno delle chimere, Catene, Per la gloria, Il mio delitto, Per vendetta, L’incomprensibile, ecc.

E. F. camino molto civettuolo, con uno specchio, e intorno altre poltroncine. Sulle pareti avevo soltanto i ritratti dei miei genitori e sopra un cavalletto circondato da una stoffa di broccato che cadeva a pieghe, un ritratto di Margherita che m’avea regalato in cambio del mio il giorno delle nostre nozze. Cosi i begli occhi neri profondi mi sorridevano sempre e mi consolavano quando gli altri, quelli veri, non erano la ad illuminare il mio salottino. Per molto tempo sul tavolino di quel mio angolo tranquillo passarono i romanzi più alla moda e le riviste più apprezzate; poi cedettero il posto a dei lavori d’ago molto interessanti. Quante chiacchiere con Margherita mentre le nostre dita facevano correr l’ago sopra delle stoffe vaporose e leggere come nubi ed eravamo tutte intente a fabbricare camicie che parevano dover servire per la bambola, e delle cuffiettine tutte trine e leggere come piume! Eravamo tanto contente in quell’occupazione, Si chiacchierava senza tregua e colla nostra fervida fantasia si vestivano con quegli oggetti lillipuziani dei braccetti bianchi e grassottelli, delle testine bionde e ricciute, degli angioletti insomma di là da venire, ai quali erano rivolti tutti i nostri pensieri come a personaggi molto importanti. L’arrivo dei signorini che aspettavamo tutte e due a breve distanza una dall’altra era un argomento inesauribile di discorsi, e quella nostra comunanza di sorte e di pensieri serviva a stringere di più quel vincolo d’affetto che ci legava da tanto tempo. Quanti progetti facevamo per l’avvenire! Quanti castelli in aria sul conto dei nostri figliuoli! Prima di tutto, nella nostra vanità di mammine novizie, si volevano belli; buoni e saggi sarebbero divenuti in seguito, e si correva la città, si comperavano tutti i ritratti di cherubini e di bamboline belle che si potevano trovare per averle sempre davanti agli occhi; in breve i nostri salotti erano divenuti delle vere esposizioni di ritratti di bimbi che si ammucchiavano sui nostri tavolini, al punto da scacciarne tutti gli altri oggetti. E come ci divertivamo in quelle occupazioni! Si compiangevano i nostri mariti che non vi s’interessavano quanto noi, e pareva ci calcolassero come bimbe. Anch’essi erano spesso l’ argomento dei nostri discorsi, e in quei primi tempi non avevamo occhi che per le loro buone qualità, mentre eravamo cieche pei loro difetti. Ruggeri era molto superiore per intelligenza e serietà a mio marito, tanto che Margherita lo trovava troppo superiore a si e diceva che non era degna d’uomo simile, e aveva paura della sua felicità. Mio marito in casa parlava poco, ma aveva lo spirito facile e leggero, una certa prontezza di risposte, una certa disinvoltura nei movimenti, si che in società figurava molto meglio di Ruggeri ed io mi compiacevo di vederlo apprezzato tanto dagli altri e gioivo dei suoi trionfi; con me era buono, gentile e compiacente e ciò mi bastava, non avevo allora molte esigenze, assorbita com’ero dal pensiero del mio bimbo. In quel tempo tanto io che Margherita frequentavamo poco la società; ci dava noia quel cambiar continuamente d’abbigliamento e ci si divertiva meglio a stare insieme noi due e fare una vita tranquilla. I nostri mariti, specialmente il mio, non erano tanto casalinghi, ma andavano per loro conto al teatro o in società, ed eravamo felici quando ci regalavano qualcuna delle loro serate. Ruggeri però stava più spesso con noi, tanto che Manfredi diceva che ci guastava e che non era di buon genere lo star sempre vicino alle gonnelle della moglie. Di tratto in tratto si faceva qualche comparsa in società, perché Margherita, troppo buona, non voleva rifiutare un invito un po’ insistente, ma si finiva poi col trovarci sempre insieme, nel nostro angolo, come due amanti, e si andava tanto d’accordo che la fonte dei nostri discorsi era inesauribile. Giunse però il momento in cui il vivere ritirate divenne una necessità e si passavano le sere ora nel mio salottino, Luigi XV, ora nel gabinetto orientale di Margherita ammucchiando le camicine e le cuffiettine nelle nostre ceste da lavoro. A furia di farne eravamo diventate maestre nell’arte di foggiare quegli oggetti, che si perfezionavano ogni giorno, poi si facevano trine finissime per adornare dei lettini soffici come piume e copertine copertine ricamate per riparare dal freddo quei corpicini morbidi e delicati di là da venire, e si lavorava sempre senza stancarci mai. Era una gara a chi faceva meglio e più in fretta; ormai n’erano ingombri i nostri salottini. Qualche volta veniva a Margherita una delle sue buone ispirazioni. — Senti, — diceva, — se si facesse una scelta, se si regalasse ai poveri le cose che abbiamo fatte nel principio quando le nostre mani erano ancora inesperte e non sono riuscite degne dei nostri figli? Che ne dici di questo mio capriccio? Pensiamo che certe mamme non hanno tempo per simili cose e nemmeno danari per comperarle, e poi mi pare che ciò porterà fortuna ai nostri figli. Naturalmente io acconsentivo subito e la lasciavo seguire la sua ispirazione: allora era un gran da fare per scegliere gli oggetti più semplici e combinare dei corredini per i poveri che sarebbero stati degni di vestire dei principi. Poi si raddoppiava di lena per riempire i vuoti lasciati nelle nostre ceste. Un giorno Margherita non venne e mi mandò a dire che non si sentiva bene. Era giunto il momento tanto aspettato e corsi da lei. Mi accolse col suo sorriso angelico, ma avea la faccia contratta e si vedeva che soffriva molto. Ruggeri era assai inquieto; girava per la casa come un fantasma, pareva pazzo. Io cercavo di calmarlo e infondergli un coraggio che non avevo. I medici non erano contenti, perchè pareva che le cose non andassero lisce come avrebbero desiderato; Margherita soffriva molto, mi teneva le mani strette come in una morsa di ferro e i suoi occhi neri guardavano con una certa espressione che mi straziava il cuore. Quando il dolore le lasciava un po’ di tregua e le permetteva di parlare diceva: — Se sapessi come si soffre! Poi, secondo il suo solito, anche in mezzo a quelle crudeli sofferenze, dimenticava il proprio dolore per pensare a me e mi diceva: — Ritirati; mi fa piacere averti vicina, ma ti potrebbe nuocere, pensa al tuo bambino; non dobbiamo pensare che a noi in certi momenti. Io procuravo d’esser forte, ma soffrivo troppo vedendola in quello stato e per amore dell’essere ch’io sentivo agitarmisi in seno, mi lasciai trascinare in un’altra stanza. Era un vero tormento per me esser là e non poterla aiutare, ero agitata, irrequieta, ad ogni istante mi avvicinavo all’uscio per sentire quello che accadeva nella sua camera e per chiedere notizie. Seppi che era nato un bambino, ma troppo grosso e forte per una donnina delicata come Margherita; essa avea avuto un momento di sollievo poi era sopraggiunta un’emorragia e si temeva di perderla. A quella notizia non mi fu possibile restare tranquilla, entrai in camera e m’accostai al suo letto. Essa mi strinse la faccia contro la sua e mormorò con un filo di voce: — Mi sento morire, lo sapevo, ero troppo felice, ti raccomando il mio bambino, lo alleverai insieme col tuo, ti raccomando anche il suo babbo, cerca di consolarlo.... Ruggeri in quel momento stava in contemplazione del suo bimbo e non imaginava la sventura che gli si preparava; i medici non avevano coraggio di dirgli la verità e togliergli ogni speranza. Chi spera s’illude facilmente. Procuravo anch’io di sperare per dominare il mio dolore, col pensiero costante del mio stato, e contemplavo la faccia serena della mia amica quasi invidiandola. A un certo punto mi disse: - Va, ora pensa al tuo bambino, ed anche al mio, devi serbarti per tutt’e due, gli parlerai di me. Poi mi diede un bacio nel quale parve esalare tutta la sua vita. Fu l’ultimo: m’allontanai dal letto, ma non lasciai la camera finché non vidi spento per sempre il raggio di quei begli occhi che m’avevano consolato nei momenti più tristi della mia vita. Ormai non mi rimaneva che la missione di consolare gli altri; ma che cosa sarei divenuta senza la benigna influenza di quegli occhi che mi rendevano migliore e mi spronavano al bene? Sono ancora sorpresa che quella scossa non portasse alcun danno al mio organismo; però dopo quel giorno mi sono sentita più vecchia di dieci anni e la vita mi parve senza scopo e senza sorrisi. Se la cornice è la stessa, il quadro é molto cambiato. Il salottino Luigi XV non risuona più di allegre risate e di progetti per l’avvenire, e al posto consueto non sorridono più i begli occhi che mi facevano tanto bene. Sento intorno a me un vuoto come quando ho perduto mio padre e mi par d’ essere un’altra volta sola nel mondo. So che non ritroverò più la spensierata vivacità che mi facea correre con entusiasmo alle feste ed ai teatri; mi danno noia i colori vivaci e mi rincresce lasciare il lutto che ho adottato dopo la morte della mia amica. Guai se non avessi il sorriso d’un’ altra Margherita, la mia figlia. e quello d’Albertino, il figlio della mia povera amica! Mi dedico ad essi interamente: ho, è vero, questa missione nella vita che mi sostiene, ma sono ancor giovane e avrei io stessa tanto bisogno d’appoggio e di protezione! Ho un grande aiuto nel barone Ruggeri, ma egli è troppo compreso dei suoi doveri verso il proprio figliuolo per occuparsi molto di me. In ogni modo quando siamo riuniti coi nostri figli nel solito salottino, passiamo dei momenti meno tristi. Ci sforziamo a sorridere per i nostri bimbi e qualche momento diventiamo bimbi anche noi per giocare con loro. La nostra gioia è seguire attentamente il risvegliarsi di quelle intelligenze bambine, di scoprire ogni giorno nuovi progressi e di raccontarci reciprocamente le nostre scoperte. Quando son venute le bambinaie a portarli via per metterli a letto e restiamo soli, facciamo dei serii discorsi sul modo di educarli e sul loro avvenire, e ci par di sentire aleggiare intorno a noi lo spirito buono di Margherita che ci approvi e sorrida. Non è più il dolore profondo dei primi giorni, ma la sua memoria è sempre viva in noi, e se di lei non parliamo per non rattristarci a vicenda, essa è spesso il soggetto dei nostri pensieri. Qualche volta vien anche mio marito a partecipare ai nostri discorsi e a giocare coi bimbi, ma quella vita tranquilla non è fatta per il suo spirito irrequieto; dopo mezz’ora, i bimbi lo annoiano e sente il bisogno di allontanarsi in cerca di altre emozioni. La società è il suo elemento e quando ha tentato di trascinarmi nuovamente nel suo ingranaggio se ne va dicendo: - La miglior cosa è seguire il proprio gusto, a te piace stare a casa come una reclusa: buon divertimento! io me ne vado. E’ un fatto che la società mi annoia: se da ragazza rimanevo abbagliata dallo splendore delle sale illuminate, dalle signore vestite elegantemente e coperte di gemme cogli sguardi affascinanti, ormai sotto a tutto quello scintillio non vedo che menzogna e mi fanno stizza quei ritrovi dove si apprezza di più un vestito elegante che un cuore sincero. Ma le mie amiche non mi lasciano in pace e cominciano a bersagliarmi: dicono che è una posa la mia, che non s’ è mai visto ritirarsi dal mondo per la morte d’una amica, e portarne il lutto per anni, e che devo avere il cervello poco equilibrato per andare a simili esagerazioni. Quelle che mi sono rimaste più fedeli vengono di tanto in tanto a tentarmi di riprendere la mia vita di prima. Amelia Gandini, figlia d’ un avvocato di provincia, alla quale non par vero d’esser stata balzata, causa un ricco matrimonio, nell’alta società, dove si diverte un mondo col suo carattere allegro, viene spesso ad esortarmi a lasciare la mia vita tranquilla, dicendo: — Proprio non ti posso permettere di stare rinchiusa fra quattro mura, voglio che tu venga con me al prossimo ballo; alla tua età e nella tua condizione è un dovere prender parte alla vita mondana, e poi quella vita piace a tuo marito e lo sai l’articolo del codice: la moglie deve, ecc. — Se tu lasci la società, essa si dimenticherà di te, — mi susurra Ida Silvani. — Perché si nasconde quando potrebbe regnare? — diceva il capitano Roberti; — badi che se lascia libero il campo mormoreranno di lei. La baronessa Sanvitale, una bella bruna dagli occhi sentimentali, è la sola che mi dà ragione. Essa capita spesso a vedermi nella mia solitudine ed ha tentato inutilmente di occupare nel mio cuore il posto rimasto vuoto dalla morte di Margherita, essa mi approva dicendomi: — Come fai bene a non dar retta alle chiacchiere e a startene tranquilla! Non c’è di vero che le gioie e gli affetti di famiglia. Che cos’è mai la società? Un’unione di gente che s’annoia insieme, un impasto d’invidiuzze, di pettegolezzi, di maldicenza. Te beata che hai avuto il coraggio di rinunciarvi! Ella così predicava, ma intanto era di tutte le feste; non c’era pericolo che ne lasciasse una, e vi andava facendo la vittima. Io non la poteva soffrire, mi pareva ipocrita, quantunque tutti la dicessero una perfezione, un modello di bontà e di virtù. Io resisto per molto tempo a tutte le preghiere e a tutte le tentazioni e non so decidermi ad abbandonare la mia vita tranquilla. Però è qualche tempo che anche Ruggeri mi consiglia a riprendere la vita mondana; io non lo capisco, forse teme che io mi sacrifichi per lui e per i bimbi, e vuol gareggiare in generosità. E’ certo che se non dò retta alle chiacchiere delle amiche, la sua insistenza mi fa pensare. Una sera abbiamo avuto su questo argomento un lungo discorso. Avevamo mandati a letto i bambini e si parlava delle feste e degli spettacoli del prossimo carnevale; tutt’a un tratto egli disse: — Ma è proprio vero che volete vivere ritirata anche quest’anno? Vi confesso che fate molto male e se volete un consiglio sincero, da amico, è di riprendere la vita di società. — Ma se non mi diverto più, se m’annoio? — Vi annoiate perchè ne avete perduta l’abitudine; ma date retta a me, face uno sforzo, ritornate in società e vi troverete contenta. Io crollavo il capo con incredula e non capivo perchè mettesse tanta insistenza a farmi uscire dal mio guscio. — Guardate, — soggiunsi io, — non saprei davvero che andarci a fare.... Far tappezzeria è troppo presto, ballare non ne ho più voglia. — E perchè avete perduta l’abitudine; poi c’è la musica. — Dio mio! non mi parlate di musica, — replicai, — è la cosa per me più sublime, sublime, ma anche la più terribile: la buona musica non si sente tanto spesso, e l’altra è uno strazio, un inferno dal quale non ci si può salvare; si può fuggire da un seccatore alzandosi e andando in un’ altra sala, ma per la musica non c’è scampo, ci perseguita, ci insegue, ci strazia, e poi per giunta bisogna applaudire e ringraziare. Chi ci salva al giorno d’oggi dagli strimpellatori di note? No, no, preferisco la mia casa e la vostra compagnia. Egli fece un inchino, e rispose: — Vi sono molto obbligato per quello che mi risguarda, ma mi rincresce vedervi così disillusa e stanca della vita alla vostra età. In società vi sono divertimenti per tutti i gusti; per quelli che non vogliono saperne di musica e di ballo c’è sempre la conversazione ed il gioco. — E’ vero, — diss’io, — la solita conversazione conversazione frivola e monotona, e il tavolino da gioco. Capisco, quello è almeno un porto di salvezza, un rifugio per quanti hanno qualche cosa da dimenticare: i vecchi, le gioie della gioventù; gli uomini d’affari, i fastidi della giornata. Intorno al tavolino da gioco non c’è bisogno di parlare, né d’aver dello spirito, il gioco é un modo pei ricchi di vuotare le tasche, e pei poveri una speranza di riempirle, è un’occupazione, è un divertimento, ci si può trovare l’obblio e delle emozioni; ma io ho la disgrazia che se prendo in mano le carte muoio dal sonno. — Avrete anche ragione, ma una signora come voi ha dei doveri verso la società e non può privarla della sua presenza, poi a Manfredi piace quella vita, avete una figlia da condurvi un giorno o l’altro, e non sta bene a questo mondo far diversamente da quello che fanno gli altri. - Ecco, sempre sacrificarsi e mai poter fare quello che piace. E’ una schiavitù. una vera noia! — esclamai. — E poi, — soggiunse ripigliando il filo del suo discorso, — che cosa sapete voi del mondo e della società che avete appena intravveduta o vista come la può vedere una ragazza o una sposa di diciott’ anni? Siete ancora troppo giovane e vi assicuro che non è permesso ad una donna della vostra età ritirarsi dal mondo senza una ragione potente. Ci fu qualche minuto di silenzio, ma le parole di Ruggeri mi fecero pensare. Forse temeva ch’io volessi far quella vita per lui e per i bimbi, come era stato il mio primo pensiero, forse invece era lui che avea desiderio di ritornare nel mondo e non osava farlo prima di me; mi balenò anche l’idea che la gente trovasse a ridire della mia vita ritirata e che ciò gli facesse dispiacere. -- Insomma, -- conclusi col dire, -- già che ci tenete tanto, voglio contentarvi; ma badate che dovete venir anche voi a farmi da cavaliere. -- Per me è differente, alla mia età se n’è già avuto abbastanza; però se vi fa piacere ci verrò, non foss ’ altro per rifugiarmi intorno al tavolino da gioco. -- Dunque siamo d’accordo, -- diss ’ io; -- nella prossima stagione i giornali potranno annunciare ai quattro venti che la contessa Ilda Manfredi è ricomparsa sulla scena del mondo e siate pur certo che le amiche poco benevole diranno che sono rimasta nascosta tutto questo tempo per fare maggior effetto. XIII.

Dopo molti anni di riposo, eccomi nuovamente slanciata nel gran mondo; lo trovo cambiato, ma non migliorato, forse sono io che sono invecchiata e la solitudine m’ ha resa più difficile da contentare. Però faccio una scoperta; se non si è più suscettibili di divertirsi in mezzo alla gente, ci si può almeno stordire, e questo è il caso mio. Per stordirmi davvero, per non pensar più a cose malinconiche, vado dappertutto come se quella vita fosse il mio ideale. Anche Ruggeri ha mantenuta la sua parola, va, viene, fa quattro chiacchiere colle signore, poi si rifugia intorno al tavolino da gioco. In società ho avuto anche una sorpresa, ho trovato mio marito tanto brillante che nol mi sarei mai immaginato. Egli è il beniamino delle signore, è molto ricercato nei loro crocchi, le intrattiene con aneddoti piacevoli e piccanti ch’egli dispensa come roba sua, ma che certo impara nei frivoli giornali francesi che legge continuamente quando è in casa. Da una parte mi dà ai nervi questa sua popolarità, e quando lo sento chiamare con tanta confidenza dalle mie amiche: o Manfredi, venga qui. — Conte, mi racconti che cosa ha fatto ieri.... — Andiamo, su, qualche bella storiella, e lo sento chiamare semplicemente Manfredi, mi pare che mi rubino qualche cosa di mio; ma d’altra parte sono orgogliosa dei suoi trionfi, e quando ha ben fatto ridere le signore e se lo sono disputato a destra e a sinistra, io me lo porto a casa tutto per me, mi sento felice ed orgogliosa. Anch’egli si mostra molto contento della sua Ilda ora che prende una parte maggiore alla sua vita ed ha i suoi medesimi gusti; la trova più bella nei suoi vestiti eleganti da società, l’ammira, ed è quasi una ripetizione della luna di miele. — Così mi piace, — egli mi dice sempre, — se continuavi come prima mi sarebbe sembrato d’aver sposato la mia nonna; non puoi credere come invecchi una donna quello starsene chiusa tutto il giorno, intristisce come un fiore che vive nell’ ombra. Ora si, sei una moglie degna di me, bisogna sentire che cosa si dice di te; è un coro d’elogi, sei bella, sei elegante, compita, seducente, ne sono quasi geloso. Confesso che questa recrudescenza d’affetto in mio marito mi fa molto piacere e ringrazio in cuor mio Ruggeri d’avermi consigliato a riprendere la mia vita di società. Quando vedo come mio marito si diverte, capisco che se io non mi fossi mostrata. egli mi sarebbe forse sfuggito e sono contenta d’aver presa questa risoluzione. Mi vado abituando di nuovo a quella fantasmagoria di cose e di gente, è una vita febbrile, vertiginosa che non lascia più tempo per il raccoglimento e l’intimità, e non vado a casa che per riposare. M’occupo un po’ meno dei bimbi e ne ho rimorso, ma in compenso m’occupo un po’ più di mio marito, siamo come duo sposi novelli: si va, si corre, ci si diverte sempre insieme e sempre contenti. Vorrei che questa vita durasse sempre, mi riconcilio quasi col mondo e colla società che mi ha procurato un aumento nell’affetto di Manfredi... ma non è che un bel sogno: anche questo periodo di felicità passa come una meteora luminosa. Mio marito decisamente ha il gusto della varietà come un fanciullo viziato e già comincia a trovare che quell’esser sempre assieme dopo tanti anni di matrimonio non è di buon genere, che una signora entrando in una sala fa miglior effetto quando non è al braccio del marito, già mi lascia andar con qualcuno dei nostri amici e mi raggiunge più tardi. Trova sempre qualche pretesto per lasciarmi la mia indipendenza e riacquistare la sua, e intanto sento che mi sfugge, mi scivola di mano; faccio ogni sforzo per trattenerlo, ma è peggio, si ribella, vuoi riprendere la sua libertà, il mio cuore soffre e pago caramente a prezzo della mia pace i giorni che ho goduto di perfetta felicità. E’ vero, mi lascia libera di circondarmi di uno stuolo d’ammiratori e certo non me ne mancano, anzi aumentano mano mano ch’ egli mi abbandona; s’io fossi un po’ più frivola e vana mi sentirei soddisfatta di tutte le dolci parole che mi susurrano all’orecchio, ma non ne faccio caso, le sto a sentire tanto per passare il tempo e poi perchè anche a non crederci certe espressioni fanno sempre piacere, ma non lasciano in me nessuna traccia profonda, tutta intenta come sono ad occuparmi di mio marito, che oramai non pensa che a corteggiare le altre signore e a rendere omaggio alle nuove stelle che sorgono sull’orizzonte. Intanto fra il profumo delle dame eleganti, tra il fumo delle sigarette salgono delle voci, dei rumori dalle sale illuminate. Ad ogni dama si affibbia un cavaliere, un corteggiatore, ogni signore sospira per qualche dama, si osservano i gesti, s’interpretano le occhiate, non sfugge nulla, non si perdona a nessuno, si ripetono nomi, si sfrondano reputazioni; è uno spiarsi reciproco, una maldicenza che invade tutto e tutto avvelena. E’ un aspetto nuovo in cui mi si presenta la società, al quale non avevo ancora badato. Per molto tempo non mi curo nè di quelle chiacchiere nè di quelle malignità che volano nell’aria e le scaccio come il ronzio di zanzare importune lasciandomi trascinare dalla corrente di quella vita frivola e oziosa per forza d’abitudine, per inerzia, per non pensare ad un altro cambiamento. Ma in mezzo a tutte quelle chiacchiere sparse al vento e susurrate tra le figure d’una contraddanza un none mi ferma, quello di mio marito. Egli si diverte, conosce perfettamente l’arte di sedurre le signore, è molto fortunato, nessuna sa resistergli. Non sono che vaghe parole lanciate con leggerezza, pure mi penetrano nel cuore e nel cervello e mi fanno sorgere un dubbio che mi avvelena l’esistenza. Sono divenuta incredula, sospettosa, osservo attentamente mio marito, conto le ore che rimane lontano, in casa, osservo la sua fisonomia, noto le sue parole. Egli si accorge della mia vigilanza e mi fa capire che lo annoio; un giorno perde la pazienza, e mi dice : — Si può sapere perchè mi vorresti ora tener legato alla catena come un cagnolino? Io che odio le finzioni non posso tacere e dico: — Sono gelosa; ecco. Egli si mette a ridere e dice che sono una bimba e che certo dò ascolto alle chiacchiere della gente. — E’ vero, — io dico, — sono una sciocca, ma non c’è fumo senza fuoco, e un po’ di vero ci dev’ essere anche nelle chiacchiere della gente. — Ebbene, allora anch’io, se dovessi dar retta a quello che si dice, dovrei essere geloso di Ruggeri e proibirti di riceverlo; ma ho fede in lui e in te e non dò retta alle voci che corrono. — Perdono, sono una sciocca, — diss’ io, convinta da quell’argomento e felice di poterci credere. Infatti anch’egli mi ripeteva quello che sentii ronzare nell’aria intorno a me; il mondo era tanto cattivo da trovare a ridire sulle cose più innocenti. Poiché avevo un amico che veniva spesso a passar qualche ora in casa mia, col quale m’intrattenevo dei nostri figli, quest’amico doveva avere un secondo fine. Ma nell’istessa guisa potevano aver calunniato anche Manfredi. Però s’ ha un bel dire: una volta entrato in cuore un sospetto non si può scacciarlo tanto facilmente, e quantunque fossi in apparenza più calma, pure al mio occhio sospettoso ed indagatore non isfuggiva la più piccola cosa, e mi bastava veder mio marito distratto e irrequieto perchè il dubbio sorgesse nuovamente a turbare la mia esistenza. Nel mio cuore intanto disprezzavo il mondo ciarliero che s’occupava degli altri inventando calunnie, e mi meravigliavo come avesse potuto trovar a ridire sulle mie relazioni con Ruggeri, mentre facea mostra di non badare alle assiduità del conte Ariberti il quale mi seguiva come la mia ombra, mi perseguitava colle sue dichiarazioni, e per quanto mi fosse indifferente non riescivo a liberarmene. Una sera mi raggiunse mentre me ne stavo nel vano di una finestra sola coi miei pensieri. — A che pensate, qui tutta sola? — mi disse. - A nulla e a nessuno. — Non credo che una signora così bella e sensibile non pensi ad alcuno, non abbia una immagine nel cuore che lo riempia e riscaldi. — Ebbene, si, penso a mio marito.

— E’ impossibile, — disse con un riso beffardo.

— Perché? — chiesi indignata. — Perché non lo merita. — Che ne sapete voi? — So quello che tutti sanno. — Chiacchiere. — Fatti; non chiacchiere soltanto. A quelle parole la mia mente piuttosto distratta si concentra, la mia attenzione si fa più intensa e dico: — Sentiamo questi fatti. Egli voleva schermirsi, voleva andarsene, ma il mio sguardo si posò nel suo quasi ipnotizzandolo, e aggiunsi: - Parlate. — E sia; già che lo volete, forse dopo sarete meno crudele. E mi narrò a bassa voce come mio marito avesse degli appuntamenti con una signora in una casa sospetta in via Torino e mi disse anche il numero. — E chi è questa donna? — diss’ io. — E’ un mistero, perchè è troppo impellicciata e porta il velo troppo fitto. — E’ alta, bassa, grassa, snella? suvvia ditemi tutto. — E’ alta, snella, elegante. Io ormai non lo udivo più e guardavo mio marito che stava scherzando con la signora Nardi, la quale era piuttosto matura, ma alta e snella. — Non è certo quella, — disse il conte, — vostro marito si diverte e scherza con lei e poi ride delle sue velleità giovanili; ma non ci pensi, vede, tutti fanno così, anche il conte Orlandi con una moglie tanto bella, il Sanvitale con una moglie così virtuosa. Perché del resto crucciarsi la vita? si vendichi e sarà molto meglio. Io m’alzai indignata e non volli ascoltarlo più oltre, e quando una signora che corrispondeva ai connotati datimi da Ariberti mi si avvicinò per invitarmi ad una serata in casa sua, le risposi sgarbatamente, tanto che essa fece un gesto come se volesse dire: — E’ pazza. Un momento mi parve di vedere un cenno d’intelligenza fra mio marito e la baronessa Sanvitale e mi avvicinai a loro, ma la baronessa era tanto infervorata a biasimare ogni colpa ed ogni leggerezza, lo faceva con parole così sinceramente convinte, che tutti i miei sospetti sparirono e fui con lei più gentile del solito. Avevo la tempesta nel cuore, ma mi facevo facevo forza nella speranza che qualche parola, qualche gesto, mi mettesse sulle traccie della mia rivale, perchè sentivo che esisteva davvero, che non c’era più dubbio. Ascoltavo intanto i discorsi che si facevano intorno a me. Si parlava di infedeltà coniugali, un discorso che m’ interessava, ma m’ accorgevo che su questo punto nessuno la pensava come me, anche con Ruggeri ero agli antipodi. Egli sosteneva che certi fatti sono una necessità della vita, la quale sarebbe altrimenti troppo monotona. Io gli dissi se avesse trovato una necessità della vita che sua moglie lo tradisse. Rispose che avrebbe fatto il possibile per non meritarlo. Poi si venne a parlare di quelli che in simili casi fanno degli scandali, delle pubblicità. Mio marito disapprovava e diceva che quando ci sono figliuoli, non si deve far troppo chiasso; io m’irritai e dissi un po’ vivacemente: — S’io scoprissi d’esser tradita farei davvero uno scandalo. — Così dicendo osservavo mio marito e abbracciavo nel mio odio tutte quelle signore che si dicevano mie amiche. Più tardi egli mi rimproverò dicendo che la mia condotta non era stata degna d’una signora par mia, che m’ero lasciata trasportar troppo dalla mia vivacità. Io alzai le spalle con indifferenza per mostrare che non mi curavo nè della sua disapprovazione, nè delle chiacchiere del mondo, di quella gente egoista che la pensava tanto diversamente da me. Ero troppo infelice, e in quelle sale dorate, in mezzo a tutta quella gente così spensierata mi trovavo sola come in un deserto. XIV.

Se qualche volta mi stordivo in mezzo alle feste, avevo anche delle ore di reazione, nelle quali mi racchiudevo nella solitudine della mia casa e non volevo vedere nessuno. In quelle eterne ore d’isolamento sognavo, fantasticavo, rifacevo la mia vita passata e pensavo al sogno di felicità che avevo tanto accarezzato nella mia mente e che mi si dileguava per sempre. Ormai non avevo più illusioni, e la fede in mio marito era scossa nel punto stesso che il mio amore per lui si era fatto più vivo. Come ciò era avvenuto? Non sapevo spiegarmelo. L’avevo sposato per riflessione e senza entusiasmo, l’avevo amato con calma, tranquillamente, come una buona moglie, poi tutt’a un tratto il mio amore s’ era cambiato in una vera passione, proprio nel punto ch’egli mi abbandonava. Capisco, era una cosa irregolare, tutto l’opposto di quello che avviene ogni giorno, e questo fatto che avrebbe potuto essere origine d’una immensa felicità si cambiava invece per me in un vero martirio. Ma qual n’era la causa? Forse fu il vederlo tanto apprezzato e disputato dalle altre signore, forse fu causa quel periodo d’ammirazione, di devozione ch’ebbe per me e che passò con troppa rapidità; ma che strazio il sentire di amarlo di più! appunto quando stava per sfuggirmi e il dover sopportare la sua indifferenza che mi penetrava nel cuore come la lama di un pugnale! Nei momenti di maggior calma pensavo di mostrarmi a lui sotto un aspetto più seducente, studiavo nuove eleganze e raffinatezze per riafferrarlo; come il naufrago, mi attaccavo all’ ultima tavola di salvezza. Non ho certo il rimorso di non aver tentato ogni mezzo per farlo ritornare a me. Nelle poche ore che stava in casa, procuravo di fargli le migliori accoglienze, di indovinare i suoi desiderii per appagarli, invitavo i suoi amici preferiti tanto per trattenerlo più a lungo presso di me; ma tutto era inutile, egli in casa s’annoiava e non tentava nemmeno di nasconderlo. La mia era una lenta agonia alla quale avrei preferito mille morti. Ero ridotta al punto d’essere contenta quando lo vedevo di cattivo umore. Erano talvolta giornate terribili, nelle quali sgridava i domestici, rimproverava Margherita, metteva la casa a soqquadro; ma in quei momenti la mia faccia si rischiarava, mi sentivo come sollevata e quasi felice, già che la sua felicità non dipendeva più da me. Succedeva tutto l’opposto quando lo vedevo ilare , contento e felice; allora ero io che diventava nervosa, irascibile, di cattivo umore. Rinuncio a descrivere tutta la mia vita in quel periodo di tempo, soltanto a pensarci sento rinnovarsi in me l’agitazione e il dolore di quei momenti pieni d’agitazione. Ero pazza di amar tanto un uomo come lui ed invidiavo quelle donne che in casi simili, scacciano dalla mente i tristi pensieri, non si curano di scoprir nulla e s’immergono nella calma e nella pace della vita domestica. Ma io sono di tutt’altro carattere, ho sempre odiato le mezze misure, le cose incerte, per cui ero decisa di andare sino in fondo, di scoprire la mia rivale e ingoiare fin l’ultima goccia del veleno che amareggiava la mia esistenza. Un giorno vedo mio marito più allegro del solito, la mattina aveva ricevuto un vigliettino, l’avevo saputo dalla mia cameriera; durante la colazione chiacchiera ed è di buonissimo umore come non era più stato da molto tempo, è gentile e grazioso con me, affettuoso con Margherita; poi va nella sua camera ed esce tutto elegante e profumato, fa attaccare il cavallo al cupè e se ne va canterellando, allegro come un uccelletto. Io soffrivo di quella sua allegria insolita, tanto più che nei giorni passati l’avevo veduto un po’ preoccupato, e gli chiesi dove andasse, ma ebbi la solita risposta: — Degli affari urgenti da sbrigare che non mi interessavano. Baje! ero certa che andava ad un appuntamento colla bella incognita. Quando udii il rumore della carrozza che rientrava feci chiamare il cocchiere per interrogarlo. Non era degno di me quello che facevo, ma ormai non badavo più ai mezzi per giungere al mio scopo. Quando il cocchiere entrò nel salotto stavo lavorando seduta nella mia poltroncina. Non sapevo come cominciare ad interrogarlo e mi sentivo la faccia in fiamme; cercai però di assumere un’aria disinvolta e dissi senza alzar però gli occhi dal ricamo — Come siete ritornato presto! e fin dove l’avete accompagnato? — Fino in via Torino al numero 55. — Ah si, ho capito, e non v’ ha fatto aspettare? - II signor conte ha detto che per oggi non aveva più bisogno di me. — Va bene, — diss’io congedandolo, — se avrò bisogno della carrozza vi farò avvertire. Appena fui sola, gettai via il lavoro con atto nervoso e mi misi a passeggiare su e giù per la stanza onde calmare i miei nervi agitati. Dunque non v’era più dubbio: quell’indirizzo che mi aveva susurrato Ariberti, che mi era stato indicato da una lettera anonima alla quale non avevo voluto credere, mi veniva confermato dal mio domestico. In quel primo impeto avrei voluto farmi condurre in quel luogo e sorprendere mio marito , e scoprire la mia rivale, ma ero troppo agitata, era meglio differire a un altro giorno. Frattanto avrei potuto calmarmi e maturare pazientemente la mia vendetta. Ciò non toglie che non mi vi recassi coll’immaginazione, e mi parea di vederlo felice assieme alla mia rivale dimenticarsi di me e del mondo intero e passare rapidamente quelle ore che a me sembravano eterne. Mi pareva di udire le sue parole dolci, insinuanti, che sapevo per prova come andavano dritte al cuore, lo vedevo gentile, grazioso come sapeva esser lui quando ci si metteva di buona voglia, mi pareva di udire la sua voce, di vederlo col volto illuminato di felicità, cogli occhi che mandavano lampi e il sorriso affascinante. lo fremevo, quei pensieri erano per me un nuovo strazio; ma c’è una voluttà anche nel dolore, e in quel momento godevo quasi di rendere più profonda e più dolorosa la mia ferita. Giravo su e giù per il mio salottino come una belva in gabbia, mi fermavo distrattamente davanti agli oggetti senza vederli, aprivo un libro, provavo a leggere, ma nulla serviva a togliermi ai miei pensieri. Sentivo che il cervello mi si scombuiava. Non avevo più coscienza del tempo, ogni minuto che passava era una nuova agitazione, un nuovo dolore, la testa mi scoppiava e mi pareva di diventar pazza. Doveva esser l’ora del tramonto perchè le cose intorno a me prendevano dèi contorni indecisi e i colori si fondevano insieme nella tinta grigia di quell’ora. Le mie forze erano esauste e me ne stavo accasciata nella mia poltroncina, accanto al foco, la sola cosa che mettesse una nota gaia in quell’ambiente di tristezza, accresciuta anche da una giornata nebbiosa d’inverno. Ero stanca e non pensavo più a nulla quando mi venne annunciata la visita di Ruggeri. Egli era sempre il mio amico fedele e in quel momento l'accolsi come un salvatore. Egli veniva infatti ad interrompere il corso dei miei tristi pensieri, e portarmi forse il conforto d’una parola amica. Non gli sfuggì la mia agitazione e ei chiese se io fossi ammalata. Il mio cuore traboccava, ero in un punto in cui mi sarebbe stato difficile sopportare da sola tutto il peso dei miei dolori, e mi confidai a lui, e gli apersi il mio cuore, gli raccontai le mie pene come ad un amico, ad un padre, ad un confessore. Era tanto tempo che soffrivo, mio marito non mi amava più, non si curava più di me; peggio ancora, egli mi tradiva, non avevo più dubbi, ne ero certa, ed anche quella mattina.... forse in quel momento.... Oh era un pensiero terribile! soffrivo troppo e volevo morire. Le parole mi uscivano di bocca mio malgrado, ero confusa, balbettavo, deliravo come se avessi la febbre. Egli si era avvicinato e mi parlava dolcemente, con calma, ragionando. Non dovevo poi andare all’esagerazione, dovevo pensare un po’ meno a mio marito e un po’ più alla mia salute tanto preziosa; anche se fosse stato vero, erano cose che succedevano tutti i giorni e io non doveva crucciarmene oltremisura. Il mio cuore era pieno di amarezza, mi veniva meno la parola, mormoravo solo frasi interrotte. Egli continuava a susurrarmi nell’orecchio parole di conforto. Facevo male, lo amavo troppo mio marito, non lo meritava; se me ne fossi curata un po’ meno sarei stata più felice. No, egli non voleva vedermi soffrire a quel modo, i miei occhi non erano fatti per le lagrime; e intanto mi si avvicinava sempre più, mi prendeva la mano ardente fra la sua e mi accarezzava come fossi stata una bimba. Io lo lasciava dire e fare, non avevo la forza di reagire. Intorno tutto era silenzio; mano mano che le ombre aumentavano, gli oggetti si facevano più confusi, le idee nel mio cervello si confondevano ancora di più, — quando sentii come in un sogno la voce di Ruggeri farsi più dolce e le sue mani più carezzevoli, egli teneva la mia testa appoggiata sulla sua spalla e parlava, parlava sempre colla sua voce lenta, melodiosa. Voleva consolarmi, valeva farmi felice lui; era tanto tempo che pensava a me, ma s’io fossi stata felice avrebbe soffocato il suo affetto e non avrebbe turbata la mia felicità, mentre ora invece.... Io ero nata per le gioie della vita, avea sofferto tanto anche lui, e mentre parlava così a scatti, mi veniva accarezzando la testa, i capelli, gli occhi, colla sua mano sempre più agitata e tremante. Fu come un lampo; compresi, mi riscossi e m’allontanai impetuosamente. Era dunque vero! Non era più concesso fidarsi di nessuno, non esisteva l’amore, non si potea credere all’amicizia, che disillusione! e caddi sulla poltrona dando in uno scoppio di pianto. Vi fu un momento di silenzio; fra le mie lagrime e il mio turbamento, sentivo il suo respiro affannoso, lo indovinavo agitato, confuso, tremante, poi lo udii fare alcuni passi per avvicinarsi a me; ebbi paura, mi alzai con impeto e toccai il bottone del campanello elettrico. Egli fece per andarsene, gli feci cenno di rimanere un minuto, non volevo infliggergli quell’umiliazione davanti al mio domestico, al quale ordinai di accendere il lume sgridandolo d’averci lasciati al buio. Avevo bisogno di sfogarmi, e quella sgridata mi fece bene. Quando un raggio di luce rischiarò il mio salottino e tutti gli oggetti ripresero forma e colore e vidi Ruggeri in piedi, confuso come un delinquente, colla testa bassa, provai un sentimento di compassione. Infine non era peggio degli altri. I miei sguardi si fermarono sul ritratto di Margherita, ebbi quasi un’allucinazione, mi parve di vederla viva in mezzo a noi e che ci guardasse con aria di rimprovero. Quella luce ci avea posti entrambi in una situazione incomoda, bisognava rompere il silenzio, mi feci coraggio. Addio — dissi, — compiangetemi, tutto è crollato intorno a me, una vera rovina! Egli tentò di balbettare qualche parola, mi parve d’udire la parola perdono; poi la porta si richiuse dietro di lui, udii un rumore di passi che si perdevano in distanza, poi più nulla, la solitudine, l’abbandono, e sempre il peso dei miei pensieri, l’ansia del mio povero cuore. Non so quanto tempo rimasi sulla poltrona accasciata accanto al fuoco colla testa che pareva mi volesse scoppiare. Le tempie mi martellavano, e un dolore forte, terribile mi toglieva ogni sentimento, e quasi benedivo quel dolore che mi annientava la facoltà di pensare. Il male fisico vinse; ebbi appena la forza di andare in camera mia, gettarmi sul letto e seppellire il mio capo ardente in mezzo ai guanciali; il mondo poteva ormai capovolgersi, mio marito tradirmi, non sentivo che la mia forte emicrania. La tortura fisica avea in quel momento preso il sopravvento, ed io non avevo fatto altro che cambiar sofferenza. XV.

Quando mi svegliai la mattina appresso mi parve d’esser stata vittima d’ un sogno opprimente; ma mi richiamò alla realtà della vita una lettera di Ruggeri, nella quale mi chiedeva umilmente perdono d’un momento d’obblio. Dunque non era stato un sogno: anche lui come tutti gli altri! e intanto per me un altro ideale crollato. Gettai nel cestino la lettera, non sentendomi la voglia di rispondere in quel momento. Mi sentivo troppo affranta. Gli avvenimenti del giorno prima mi apparvero in tutta la loro luce, mi sentivo infelice, abbandonata, non credevo più a nulla. Nella vita m’ero formata due ideali, che mi facevano sembrare meno dolorosa l’ esistenza. e li vedevo crollare tutti e due ad un tratto precipitosamente. Avevo creduto nell’amore e nell’amicizia e pensavo che se uno di questi sentimenti m’avesse tradita; avrei trovato nell’altro speranza e conforto: ed ecco che mi abbandonavano tutt’e due contemporaneamente. Mio marito mi tradiva, ne ero certa, il suo tradimento lo sentivo nell’aria, negli sguardi degli amici e perfino nel contegno dei domestici, ma più di tutto nella sua indifferenza per me. Avevo creduto nell’amicizia ed ora comprendevo chiaramente che una donna giovane non può aver degli amici, le altre donne diventano in breve delle rivali, e gli uomini degli amanti; in quel momento ne conoscevo per prova tutta la terribile verità. Che cosa potevo fare, sola, senza un cuore fidato a cui chiedere consiglio e conforto? Come sarei stata felice di non poter pensare a nulla, e come invidiavo quelli che scacciano i tristi pensieri e sopportano con indifferenza le più crudeli delusioni ! Come invidiavo in quel momento gli egoisti, quelli che pensano che la vita è breve e non val la pena di crucciarsi troppo! Come avrei voluto imitarli! ma non si può comandare al proprio carattere, non si può frenare la propria fantasia e la mia correva, correva senza concluder nulla. Il peggio si è che tutt’intorno a me aumentava il mio dolore; e neppur la mia figlia Margherita avea virtù di cambiare un tal ambiente: la sua vocina che una volta mi andava dritta al cuore, non mi commoveva più; mi faceva delle domande alle quali rispondevo a sproposito. Anche lei era infelice, poverina! Da qualche giorno non veniva più Alberto a giocare con lei, e mi andava dicendo colla sua vocina e colle lagrime agli occhi: — Senti, mamma, se Alberto non viene e tu non mi dai retta, mi annoio e faccio dei capricci; ma io non le badavo, nessuna cosa avea il potere di togliermi ai miei tristi pensieri, alle divagazioni della mia fantasia. Quella vita non poteva continuare, avevo bisogno di far qualche cosa; e visto che la gioia e la felicità m’avevano abbandonata, volevo immergermi tutta nel mio dolore, e colla simulazione scoprire tutt’intero il tradimento di mio marito, e poi vendicarmi in un modo o nell’altro. Ero risoluta di tentare qualunque mezzo per giungere al mio intento; non avevo, è vero, delle idee chiare nè un piano prestabilito, ma mi sarei lasciata governare dagli avvenimenti; ero divenuta fatalista. Non avendo più amici, non mi confidavo a nessuno ed ero sola a sopportare tutto il peso del mio dolore. I mici conoscenti quando mi vedevano cupa e distratta mi chiedevano che cosa avessi. — Sono i nervi — rispondevo ; e continuavo la mia vita calma in apparenza, ma agitata, tempestosa nelle intime fibre dell’anima mia. Prima di tutto volevo conoscer la mia rivale; dovea esser molto astuta se sapea nascondersi così bene che nessuno avea osato pronunciare un nome. Ma ci sarebbe caduta nelle mie mani; allora mi sarei vendicata e le avrei inflitto una parte almeno delle mie sofferenze. E’ certo che non avrei perdonato; ammiro quelle che in simili casi perdonano, ma non mi sentivo d’imitarle. Amata, sarei stata buona, dolce, paziente, come la mia mamma; tradita, mi sentivo fiera, terribile come mio padre in certi momenti. Nella solitudine delle lunghe serate, che ormai passavo sola nel mio salottino, inventavo mille modi di vendetta, ai quali rinunciavo vedendo la impossibilità di effettuarli. Ora speravo che la mia rivale avesse un marito e mi proponevo di rivelargli la sua infedeltà in modo che mi potesse vendicare; qualche altra volta sognavo di sorprenderla insieme con Manfredi e di fare uno scandalo. Ma chi era poi questa mia rivale? Forse una che si diceva mia amica? Le passavo tutte in rivista senza potermi fermare su alcuna, ma abbracciandole tutte nel mio disprezzo all’idea che colei che mi tradiva fosse nel loro numero. Volevo sapere, saper tutto fino alla fine; ormai la mia curiosità era irresistibile; volevo far chinare il capo a quella che mi avea rubato l’amore di mio marito, la mia felicità. Avevo saputo il luogo dove si trovavano, e per molti giorni ho girato intorno a quella casa, come una pazza, senza scoprir nulla. Era un fabbricato immenso a molti piani, dove in ogni appartamento abitava una quantità d’inquilini d’ogni specie. Una di quelle case dove, nelle grandi città, si trova la sarta accanto all’artista, l’operaia vicino al negoziante, una specie di Babilonia dove si va e , si viene passando inosservati. Dirimpetto scopersi un offelleria, e pensai di farne il mio posto d’osservazione. Appena mio marito usciva di casa andavo in quel posto, mi sedevo presso l’invetriata e tranquillamente, mangiando pasticcini, stavo cogli occhi fissi alla casa dirimpetto. La signora Angiolina padrona dell’ offelleria dovea esser contenta della mia assiduità al suo negozio e del consumo di paste ch’io facevo continuamente. Ero già una vecchia conoscenza per lei e mi accoglieva sempre col grazioso dei suoi sorrisi e fra un avventore e l’altro mi faceva dei racconti più o meno interessanti ch’io ascoltavo molto distrattamente, immersa com’ero nei miei pensieri e in osservare la gente che passava per via. Avrà creduto che fossi una signora molto golosa, oppure che avessi una preferenza speciale per i suoi pasticcini, ma è certo che era contenta di vedere il suo negozio tanto apprezzato da una signora elegante, e non sapeva come mostrarmi la sua gratitudine. Per molti giorni mi riempii lo stomaco di pasticcini o ascoltai inutilmente le chiacchiere della signora Angiolina, che mi confidava i suoi dispiaceri domestici e mi narrava di un suo figliuolo che non avea voglia di studiare. A furia di osservare la casa di faccia avevo imparato a memoria tutte le ditte commerciali di quel tratto di contrada, ma nulla che fermasse la mia attenzione e confermasse i miei sospetti. Un giorno però, mentre osservavo per la centesima volta la ditta della signora Rosa Labbè guantaia che occupava tutto il balcone centrale della casa che non perdevo mai di vista, vidi fermarsi appunto la mia carrozza davanti alla porta, e scendere proprio lui mio marito, ed entrare con passo affrettato dopo aver fatto cenno alla carrozza d’ andarsene. Mi sentii venir le fiamme alla faccia. il cuore mi batteva forte forte. Certe cose per quanto aspettate non mancano mai di fare un certo effetto. - Si sente male? — mi chiese la signora Angiolina. — No, — risposi, — non è nulla, é passato. Volle ad ogni costo versarmi un bicchierino di menta glaciale dicendo: — Prenda, le farà bene, forse avrà preso un po’ di freddo; è una giornata tanto umida! Infatti il cielo era grigio e cominciava a scendere un’acquerugiola che penetrava nelle ossa. Io non staccavo gli occhi dalla porta della casa dirimpetto osservando attentamente quelli che entravano ed uscivano. Era un viavai di gente in quella casa da non potersi raccapezzare. Entravano molte signore, ma nessuna avea l’apparenza di qualche cosa di sospetto. Io pensavo: — No, il mio cuore mi dice che non è quella. Dopo qualche minuto, che mi parve eterno, si fermò là davanti una carrozza di piazza; mi pare ancora di vederla, dipinta in verde cupo, col cavallo grigio, magro, segnata col numero 24. Lo sportello s’aperse in fretta e ne scese una signora alta, snella, elegante, vestita di lana color turchino con un velo fitto intorno alla faccia, tanto che era impossibile vedere la sua fisonomia. Il mio cuore ebbe un sussulto e parve che mi dicesse: —E’ lei. La mia faccia dovette apparire quasi sconvolta, perché la signora Angiolina mi disse: — Ma deve sentirsi proprio male; vuole che le mandi a prendere una carrozza? — No, non è nulla, — diss’ io; è il liquore che m’ è andato alla testa. Se non vi dispiace, resterò qui tranquilla a riposarmi. - Faccia il suo comodo, signora, e se crede di prendere qualche cosa.... — No, grazie, non ho bisogno di nulla. Così, cogli occhi socchiusi, in quell’angolo nascosto accanto all’invetriata stetti non so quanto tempo col cuore che pareva dovesse scoppiarmi, poi mi parve vedere, come in un sogno, il vestito turchino uscire a piedi dal portone della casa dirimpetto e dirigersi verso la piazza del Duomo, e poco dopo mio marito colla sua aria tranquilla dirigersi verso la stessa parte. Io rimasi ancora un po’ di tempo quasi inchiodata al mio posto, poi feci uno sforzo, mi alzai e dissi: — Ora posso andarmene, mi sento meglio, — e uscii in mezzo alla strada fangosa colla pioggia che cadeva più forte, senza ombrello, non badando a quell’umidità che m’avvolgeva tutta nella tristezza di quella giornata uggiosa. Avevo bisogno di muovermi per calmare i miei nervi in sussulto. Quando giunsi a casa mi ritirai nella mia camera e non mi feci vedere col pretesto della mia emicrania; non avrei potuto sopportare la presenza di mio marito senza fargli una scena violenta; del resto egli si sarà facilmente consolato della mia mancanza pensando alle emozioni della giornata. Quando lo vidi il giorno appresso chiedermi tutto affettuoso notizie della mia salute, quasi credevo d’aver sognato e d’aver avuto le traveggole; tanto pareva impossibile al mio carattere franco e sincero una simile finzione. Ma ritornai al mio posto d’osservazione: ormai era un’abitudine; uscivo di casa e mi trovavo quasi senza saperlo davanti all’offelleria della signora Angiolina, la quale, se mancavo un giorno, era inquieta e temeva che fossi ammalata. Ritornai a contare i barattoli barattoli dei dolci, le insegne delle botteghe. Rividi parecchie volte mio marito entrare come nulla fosse nella casa dirimpetto, e la signora incognita, sulla quale ormai non avevo più alcun dubbio, — la riconoscevo alla figura snella e slanciata, quantunque non avessi mai potuto vederla in faccia, — entrare anche lei, venire ora in carrozza ora a piedi, ora vestita color turchino, ora color verde cupo, ora di nero ma sempre con un velo fitto sul volto e impelliciata in modo da non potersi riconoscere. Fremo e piango ancora pensando a tutto quello che ho sofferto in quel periodo di tempo; era come se avessi continuato a cacciare un pugnale in una sanguinosa ferita. Il tradimento di mio marito era la mia idea fissa e credo che se non avessi preso una risoluzione sarei divenuta pazza. Non v’era nulla che potesse distrarmi o distogliermi dai miei pensieri; anche Ruggeri mi mancava nella mia triste solitudine. Quasi mi pentivo di non essere stata più indulgente con lui, forse avrebbe potuto darmi un consiglio in quel frangente, ma che cosa poteva fare una povera donna sola senza una guida o un conforto? Stavo tutto il giorno arrovellandomi il cervello, pensando chi potesse essere quella signora che sapeva conservare tanto bene l’incognito! Eppure quella signora alta e slanciata, quei movimenti, quel modo di camminare non mi riuscivano nuovi, ma ero incerta a darle un nome. Speravo che la mia insistenza avrebbe vinto e sarei riuscita a scoprirla, ma doveva aver un’abilità speciale, perchè passavano i giorni, gli appuntamenti si moltiplicavano, ma per me era sempre come il primo giorno. No, c’era una piccola differenza ora, da certi piccoli indizi ero riuscita a scoprire il giorno che si trovavano, l’ora poi, era sempre dopo la colazione. In quei giorni egli era più ilare, più elegante, più ciarliero. Mi faceva tanta rabbia che non so come avessi la forza di trattenermi e non dirgli che sapevo tutto. Tacevo perché la mia vendetta fosse più clamorosa. Ormai la mia idea fissa era di scoprirli insieme e ucciderli. Per molti giorni, invece di recarmi all’offelleria, andai direttamente nella casa dirimpetto coll’intenzione d’interrogare la portinaia. Le portinaie hanno fama di essere molto ciarliere, ma nel mio caso mi pareva una fama usurpata; non ci fu verso di farla parlare. Era proprio discreta quella portinaia, aveva da occuparsi dei suoi bimbi e non poteva badare a tutti quelli che passavano; poi c’ erano tante signore che andavano dalla guantaia del secondo piallo, dalla sarta del terzo e lei non poteva conoscer tutti. — E ci sono anche stanze che affittano ammobigliate ? — chiesi un giorno. — Si, è vero, — mi rispose, — ma cambiano tanto spesso inquilini in quelle stanze che non so nemmeno chi ci sia. — Come! non conoscete tutti gli abitanti della casa? — Di una casa come questa? Ci vuol altro. E non c’era verso di ricavarne di più. Cominciai a frequentare anch’ io quella casa, andai dalla guantaia e dalla sarta con qualche pretesto, mi fermavo ad accarezzare i bimbi della portinaia e tutto per incontrarmi faccia a faccia colla signora misteriosa. Ma che cosa avrei fatto? Non lo sapevo nemmen io; e certo che quella vita non la potevo continuare, soffrivo troppo e moralmente e fisicamente, sentivo che non avrei potuto più reggermi in piedi, anche quella forza tutta dipendente dai nervi mi avrebbe abbandonata. Era una bella giornata luminosa piena di sole; mio marito era allegro, felice tanto che riempiva della sua allegria tutta la casa e non badava a me, come se non esistessi. Egli dovea andare a vederla, lo capivo al lampo dei suoi occhi, all’ allegria che gli usciva da tutta la persona. Quel giorno gli avevo detto, se io fossi certa che tu mi tradisci, ti ammazzerei. Egli s’era burlato di me e della mia aria tragica. Ero irritata. Risoluta di vendicarmi, la mia idea era di sorprenderlo colla mia rivale e ucciderli ambedue. Presi la rivoltella che teneva sempre nel mio tavolino. Era un ricordo di mio padre e la riguardavo sempre come una cosa che mi avrebbe potuto rendere dei grandi servigi; in ogni modo era per me un’arma di sicurezza. Appena uscito mio marito corsi al mio solito posto d’osservazione, mangiavo il terzo pasticcino, quando lo vidi venire da lontano ed entrare nella solita casa. Più tardi vi entrò la solita figura snella, ma questa volta vestita di color verde-bottiglia. Ormai non potevo sbagliarmi, era lei, l’avrei conosciuta fra mille al portamento altero, al modo di camminare e ad uno sguardo sospettoso che dava sempre in giro. S’ ha un bell’essere sfacciati e disinvolti, s’ ha un bell’aver l’abitudine a certe cose, vi sono dei movimenti istintivi ai quali non si può comandare. Uscii subito e attraversai la strada. — Dov’è andata quella signora che è entrata cinque minuti fa ? — chiesi alla portinaia. — Non so, forse dalla sarta. Le avrei dato degli schiaffi. Salii anch’ io le scale e andai fino al quinto piano, c’erano tanti usci che non potevo indovinare qual fosse quello che s’era richiuso sui passi della mia rivale. Discesi e risalii ancora in preda ad una forte agitazione. Entrai dalla guantaia per comperarmi dei guanti tanto per passare il tempo. I minuti mi parevano eterni, mi fermavo sui pianerottoli a spiare gli usci che si aprivano e si richiudevano, pensai di coglierli tutti e due sul limitare di qualche uscio, mentre forse egli l’avrebbe accompagnata. Ma non potei restare a lungo in quel posto, la gente che passava continuamente, mi osservava come se fossi stata una bestia feroce. Scesi in portineria e per darmi un contegno incominciai a chiacchierare coi bambini della portinaia, diedi loro dei dolci, mentre tendevo l’orecchio perchè non mi sfuggissero i rumori che venivano dalla scala. Finalmente sentii un uscio richiudersi adagio, e poi un fruscio di vesti che scendevano le scale. Doveva esser lei, perché il cuore mi batteva forte forte. Infatti non m’ingannai, era il vestito verde-bottiglia. Mi nascosi nell’ andito quasi buio che precedeva di poco lo stanzino della portinaia, avevo un tremito in tutta la persona e mi pareva che il cuore mi saltasse in gola e mi soffocasse; poi parve che il vestito verde mi sfuggisse ancora una volta. Perdetti il lume degli occhi e in quel momento ero come spinta da una forza sovrumana, non mi comandavo più. Tirai fuori dal manicotto la rivoltella e feci scattare il grilletto. Rimbombò un colpo, accompagnato da un lampo e un po’ di fumo, s’intese un grido, uno sbattere d’usci, un accorrer di gente. Avevo mirato bene; quella signora barcollò e disse agli accorsi a sorreggerla: — A casa, e diede un indirizzo coprendosi quasi istintivamente con un fazzoletto la faccia sanguinosa. Ma i suoi movimenti non furono abbastanza rapidi, e attraverso il velo tutto lacero potei distinguere il viso d’una persona che non avrei mai supposto, la baronessa di Sanvitale, quella che era da tutti riguardata come un modello di virtù. Intanto fui circondata dalla folla che imprecava contro di me e mi soffocava. Vennero due guardie e fecero per trascinarmi, ma ripresi la mia presenza di spirito e dissi: - Non c’è bisogno di farmi violenza, verrò io stessa alla questura a giustificarmi, lasciate almeno avvicinare una carrozza e mandate via tutti questi curiosi. Così fui condotta alla questura; però non sentivo nè rimorso, nè pentimento, bensì una specie di sollievo d’essermi vendicata, mentre colla mente fantasticavo sulla scoperta che avevo fatta. Dunque era la baronessa di Sanvitale! Se non l’avessi veduta coi miei occhi non l’avrei creduto: era dunque lei, quella donna che si diceva mia amica, che passava per una santa e che nessuno avrebbe preso in sospetto! Quando mi ricordavo i discorsi fatti con lei, i consigli saggi che mi dava, l’odio che mostrava per tutti i tradimenti, per tutte le colpe, mi sentivo scoppiar dalla rabbia, e provavo quel ribrezzo che si ha all’idea d’aver accarezzato un serpe velenoso. Era morta? Ferita? Non ne sapevo nulla. Avrei avuto piacere che non fosse morta, non per compassione di lei ma perché soffrisse a lungo come io avevo sofferto e perchè sopportasse tutta la pena del suo tradimento e fosse smascherata la sua ipocrisia. Quando fui alla presenza del magistrato che m’interrogò piuttosto severamente, non nascosi nulla, fui sincera, confessai il mio delitto e la causa che mi ci avea spinta. Forse in quel momento non avrò avuto abbastanza calma; la mia mente era forse esaltata e confusa per la scoperta che avevo fatta. Avrò imprecato un po’ troppo contro la donna che m’avea rubato l’affetto di mio marito e la felicità di tutta la mia vita. So che mi licenziò dicendomi, calmatevi; domani v’ interrogherò nuovamente e spero che mi risponderete con maggior calma. XVI.

Sono già quattro settimane che mi trovo chiusa in questa triste prigione ed ora vedo le cose sotto il loro vero aspetto, e la realtà mi si presenta davanti alla mente in tutto il suo orrore. Speravo che il mio parlare franco e sincero sarebbe creduto e non si avrebbe avuto alcun dubbio sulla ragione che mi aveva spinta al delitto e finalmente che la colpa della mia rivale avrebbe giustificato la mia azione. Invece come mi sono ingannata! Come ho veduto cadere anche quest’ultima illusione! Tutti tutti mi sono avversi ed ormai non spero che nella vostra amicizia. Fino dai primi giorni ho capito che si congiurava qualche cosa contro di me e si voleva far comparire senza macchia la mia rivale, che ferita gravemente lotta ancora fra la vita e la morte. Non mi sapevo spiegare alcune visite di medici, le domande che mi facevano sulla mia vita passata e meno ancora certe occhiate d’intelligenza che si davano, se per caso ero incerta e confusa nelle mie risposte. Finalmente, a furia di pensarci, si squarciò il velo che annebbiava la mia mente e vidi chiaramente il gioco dei miei avversari. Mi si vuol far passare per pazza, per salvare la mia rivale: e tutti sono in questa congiura cominciando da mio marito. Io capisco quello che pensano tutti, quello che dicono nelle loro conversazioni, mi par di sentirli. La baronessa Sanvitale è una santa donna sulla cui condotta nessuno ha mai detto nulla, essa era andata dalla guantaia, e scendeva le scale quando fu ferita. Da chi? Dalla contessa Manfredi, una signora della miglior società che non doveva aver nessuna ragione di odiarla; ma questo fatto deve esser accaduto in un accesso di pazzia furiosa; cosa spiegabilissima, perché, vedete, tutti sostengono ch’io ho dato in tutta la vita segni manifesti di pazzia o almeno di originalità, cosa che le è molto vicina. Capisco che con un poco di buona volontà si può trovar tutti pazzi a questo mondo; ma ditemi se é pazzia piangere e sentire un dolore profondo per la morte d’una carissima amica, preferire la propria casa alla società, la solitudine alle chiacchiere cittadine, odiare la cattiva musica, annoiarsi al gioco e amare la franchezza. Ebbene trovano che tutte queste queste cose sono chiari indizii della mia pazzia, e si vuol rifare la mia vita svisandola e si va intanto a rivangare nel mio passato. Si dice che la mia mamma, quella santa donna che voi avete conosciuto ed apprezzato, aveva delle originalità, e ne è una prova una bambola che le si rinvenne in un cassetto : era la mia prima bambola. Anche mio padre si vuole che abbia avuto qualche mania e si parla della sua fissazione di non voler dimenticare che fu richiamato proprio sul punto d’ottenere la vittoria. Lo so: questi sono i discorsi che si fanno nei crocchi eleganti e queste saranno le testimonianze che verranno ripetute davanti ai giudici nel giorno dei dibattimenti. Insomma per loro tutto è prova di pazzia nella mia famiglia, la dolcezza della mia mamma, la fierezza di mio padre e la volubilità della zia Paolina; capisco che in questo questo modo credono di salvarmi , ma più di tutto vedo che procurano di salvare la fama della mia rivale, o meglio della vittima, come hanno ora il vezzo di chiamarla. Per me la mia vita è spezzata; poco mi importa esser tenuta in prigione o rinchiusa in un manicomio, ma ho mia figlia, è il solo affetto che mi rimane, la sola cosa che mi renda ancora la vita. Per lei sola, per lei non voglio assolutamente esser creduta pazza. Non devo lasciarle questo triste retaggio, ho bisogno che la luce sia fatta e che la verità esca più luminosa dopo tante menzogne. In mezzo a tanta rovina m’ era balenata l’idea di uccidermi, ma il pensiero di mia figlia m’ ha salvato. V’assicuro che in certi momenti la vita è un fardello tanto pesante che senza una forza sovrannaturale una povera donna non la potrebbe potrebbe sopportare. A voi dissi tutta la verità come se fossi sul letto di morte, venite dunque a difendermi, e se potete, salvatemi; in ogni caso vi raccomando mia figlia. Il mio solo conforto in queste lunghe ore di prigionia fu di poter scrivere queste mie memorie e dimenticare il presente pensando al passato. E’ certo che fui trattata ingiustamente dalla sorte, che pagai le poche ore di gioia con crudeli dolori; eppure sento che ancora sarei contenta se vedessi chinare la fronte della superba baronessa di Sanvitale. Quando penso all’aria di bontà e protezione con cui mi parlava, al suo sorriso benevolo, mi sento ancora fremere d’indignazione e non posso perdonare. So che soffre molto per la mia ferita, non è ben certo che possa salvarsi; ma intanto è fatta segno a mille dimostrazioni di affetto e di simpatia, ell ’ è un angelo, una santa, una vittima. La sua arte d’ingannare deve certo avere delle raffinatezze ignorate, se, colpevole, si fa credere innocente, e perversa, si fa credere una santa. Ma non voglio annoiarvi di più colle mie considerazioni, rimetto la mia causa nelle vostre mani e in queste ore di attesa mediterò sull’ingiustizia del mondo, sulla bizzarria della sorte che può trascinare alla Corte d’Assise, dinanzi ai giudici, anche le persone che parevano destinate a passare una vita tranquilla e felice. Non so che cosa mi prepari l’avvenire, so che non aspetto nulla, non chiedo nulla, ma spero che mi sarà fatta giustizia; e in questo momento di terribile prova rimpiango amaramente di non aver abbastanza fede per credere ad una giustizia al di là della nostra vita. Come invidio quelli che credono, pregano e piegano rassegnati il capo a ’ colpi della sventura! Io non sono pentita di quello che ho fatto, accetto la mia sorte qualunque essa sia, ma ho un solo desiderio: che almeno la mia Margherita possa esser felice......................... ........................................................................ Qui terminava il manoscritto, ma impaziente di sapere come fosse andata a finire la povera Ilda, frugai con ansia febbrile in tutti i cassetti finchè rinvenni, oltre ad un foglio scritto collo stesso carattere del manoscritto, alcuni giornali che parlavano del processo Manfredi, dai quali trascrivo i brani che possono interessare pei miei lettori che hanno avuto la pazienza di seguirmi fino a questo punto.

Da una corrispondenza ad un giornale di Roma: Milano,20 novembre 1850.

Non si parla d’altro a Milano che del processo Manfredi, di cui vi tenni parola nella mia ultima corrispondenza. Ieri ebbero principio i dibattimenti; la sala era affollata, vi predominavano le signore della miglior società, era il pubblico delle grandi occasioni, pareva d’assistere ad una prima rappresentazione aspettata da tanto tempo. L’imputata, la contessa Manfredi, è una bella signora di circa trent’anni dal portamento fiero e dallo sguardo penetrante. Veste con perfetta eleganza, e durante la seduta di ieri ebbe un contegno calmo e dignitoso, quale si conveniva ad una signora della migliore società. Fra gli avvocati viene notato l’avvocato Anselmi, un vecchio dall’aspetto venerando, un antico campione del foro che ritiratosi da qualche tempo dalla vita attiva acconsentì per amicizia di venire a difendere l’accusata. Letto l’atto che accusa la contessa Manfredi di omicidio tentato verso la baronessa Sancitale, si ascoltano i testimoni della parte civile. Dicono quasi tutti la stessa cosa, cioè che la Sanvitale è una santa donna, di una condotta irreprensibile, e nessuno capisce come vi potesse esser ragione di odio fra lei e la Manfredi. Si legge la relazione dei periti i quali dichiarano che nella famiglia della Manfredi esiste un nervosismo che s’ avvicina alla pazzia. La madre, una donna rispettabile, era d’indole malinconica, aveva dei periodi di mali nervosi così strani, durante i quali non si faceva vedere da nessuno. Suo padre, il generale di San Martino, prima di morire, era in preda alla mania della persecuzione e ne è prova la sua idea fissa d’esser stato tradito nel giorno d’una battaglia; anche anche una sorella del generale, Donna Paolina Aureggi, è di carattere strano, irrequieto, nervoso ; dunque era probabile che nata in questa famiglia la contessa Manfredi avesse. ereditato un germe di pazzia; infatti nella sua pupilla c’è qualche cosa di anormale e non si potrebbe spiegare altrimenti l’ultimo fatto, d’aver assalito una sua amica mentre usciva tranquillamente da una casa dove era stata a far degli acquisti e averle sparato contro un colpo di pistola: L’ accusata si agita e chiede che venga letta la sua deposizione. Le viene accordato, e in essa dichiara che la Sanvitale era l’amante di suo marito e che quel giorno li aveva veduti entrare tutti e due nella medesima casa. — Dunque vedete, essa dice, che avevo le mie buone ragioni per uccidere la mia rivale. I periti dichiarano una fissazione anche questa gelosia di una donna che non ha mai fatto parlare di sè. — E’ un’ipocrita, — dice l’accusata. A queste parole si sente un mormorio di disapprovazione nella folla, poi vista l’ora tarda la seduta è rinviata a quest’oggi. Vado dunque ad assistervi e questa sera vi darò relazioni in proposito.............................................................. .......................................................................

22 novembre.

Quest’oggi la seduta fu molto interessante. Nella sala sempre la stessa folla elegante, attenta, curiosa. Da principio vengono citati come testimoni molte signore appartenenti alla miglior società che si dicono amiche dell’imputata, ma che viceversa tutte sono d’ accordo nel dichiararla bizzarra, eccentrica, capricciosa ; poi viene la testimonianza della signora Rosa Labbè, guantaia la quale riconosce riconosce come suoi clienti le signore Manfredi, Sanvitale e specialmente il conte Manfredi, ma non si ricorda se proprio il giorno del delitto fossero stati da lei. — La mia casa è tanto frequentata, sono così occupata che non posso ricordarmi precisamente di quelli che vanno e vengono, — essa conclude. In questo modo lascia il tempo che trova. L’interesse comincia a farsi più vivo durante la testimonianza della signora Alberti e del barone Ruggeri; ma voglio descrivervi per intero la scena perchè ne vale la pena. La signora Alberti è una donnina leggera, irrequieta, che frequenta molto la società, ha dei movimenti da uccellino e pare che si compiaccia di trovarsi in evidenza e vedere quel pubblico attento alle sue parole. Il presidente le domanda: - E’ vero che avete detto che l’accusata doveva esser pazza? — Non dissi precisamente così, ma, via, era molto eccentrica, originale. — E in che cosa facevate consistere quest ’ originalità? — Mio Dio! in una quantità di piccole cose: ora aveva la smania della società, e la si vedeva dappertutto, ora si rinchiudeva in casa e non volta veder nessuno, eccettuato il barone Ruggeri, quello era il privilegiato. Poi quando le morì una sua amica stette degli anni senza veder nessuno. — E chi era questa amica? — La baronessa Ruggeri. La difesa chiede che s’interroghi subito il barone Ruggeri. E’ presente e si alza senza farsi pregare. E’ un bell’uomo di mezza età dalla voce chiara e squillante, parla bene con eleganza, egli dice di conoscere assai bene l’accusata che fu l’amica migliore di sua moglie, poi soggiunge: — Tutti la dicono originale, perciò è superiore alle altre donne che non possono comprendere i suoi gusti elevati, la delicatezza del suo sentire; è sempre stata una buona madre e una buona moglie, anzi credo che il troppo amore per suo marito l’abbia perduta. A queste parole dette con entusiasmo seguì un mormorio nella folla, e il presidente fece notare alla signora Alberti che il barone aveva detto tutto l’ opposto di quello che aveva detto lei. — E’ naturale, — rispose, — non può essere altrimenti; il signore é sempre stato il paladino della contessa. L’accusata all’udire queste parole non potè trattenere la calma e pregò il presidente di fare che la signora Alberti si spiegasse meglio. La signora dice: — Per me non ho mai dato retta alle chiacchiere, ma nei nostri crocchi si diceva ch’egli era troppo assiduo, e che fra loro due esistevano dei rapporti molto intimi.... Il barone s’alzò indignato, chiese il permesso di parlare e con accento sicuro disse: — Quantunque questa cosa non riguardi la ragione per cui fummo qui chiamati, pure desidero che si sappia l’indole dei rapporti che ho avuto coll ’ accusata per far tacere, non solo le calunnie, ma le perfide insinuazioni, e giuro che dico tutta intera la verità. “ Frequentavo casa Manfredi per amicizia che avevo per la contessa e perché essa si prendeva molta cura del mio figliuolo che aveva in lei una seconda madre. Ammiravo, è vero, l’ingegno, la bontà ed anche la bellezza della signora, ma la stimavo altamente ed ero orgoglioso della sua preferenza ed amicizia che mi mostrava. “ Lo confesso; un giorno che la seppi infelice, che mi avea confidato i suoi dolori, ebbi un momento di debolezza e arrischiai qualche parola d’ amore. Essa mi respinse, tanto è vero che non l’ ho più riveduta che quest’oggi; se non mi credete domandate ai suoi domestici, s’io ho mai più posto piede in casa sua. ” A quelle parole si sentì una corrente di simpatia per l’accusata fra quella folla curiosa, e d’ammirazione per la franchezza di Ruggeri. Per quanto una società sia corrotta, l’ onestà e la sincerità hanno sempre il potere d’imporsi. Le parole del barone vennero più tardi confermate dai domestici che affermarono essere molto tempo che il barone non andava più in casa Manfredi. Domani vi narrerò il seguito che va diventando ogni giorno più interessante. Milano. 23 novembre.

Quest’ oggi avvenne un nuovo incidente nel processo Manfredi. Quando dopo aver intesi tutti i testimoni il pubblico riguardava l’ accusata come una povera infelice affetta dalla mania della persecuzione, ecco che la difesa domanda che sia sentito un nuovo testimonio, una ex cameriera della Sanvitale. Al presentarsi di quella donna vestita bene ma d’aspetto alquanto volgare, vi fu un mormorio di curiosità nella folla, poi nella sala si fece un silenzio cosa assoluto che si sarebbe sentita volare una mosca. Dopo le solite formalità il presidente chiese al testimonio Maria Fantini d’anni 35, quanto tempo fosse stata in casa Sanvitale. Rispose: — Ci fui tre anni. — Che opinione avevate della vostra padrona? — Che fosse come tutte le altre signore; anzi piuttosto peggio. — E perché ci siete stata tanto tempo? — Perché essa non aveva coraggio di mandarmi via, e mi doveva usar per forza dei riguardi perché avevo scoperto certe cose che la mettevano nelle mie mani. — Raccontate dunque quello che sapete; aveva degli amanti la vostra padrona? Qui avviene un’interruzione dell’avvocato della parte civile, il quale dice che siamo qui per fare il processo alla contessa Manfredi e non alla baronessa Sanvitale che è la vittima. Il presidente dice che si devono ascoltare tutti i testimoni e che le sue osservazioni le farà il giorno della sua arringa. Viene ristabilita la calma e il presidente ripete al testimonio la sua domanda. — Dunque la vostra padrona non era quel fior di virtú come sembrava. - Sapeva darla ad intendere, ma vi dico che era peggio delle altre. — E ditemi qualche fatto positivo.

— Ne avrei tanti di fatti, quantunque facesse le cose con molta prudenza. Io confesso il mio peccato: appena sono in una casa cerco di scoprire il lato debole delle signore; ognuno procura di fare il proprio interesse.

— Andiamo, non divaghiamo. Adducete qualche fatto, — disse il presidente. — Subito, signore. — Un anno eravamo in uno stabilimento di bagni ; vicino alla stanza della mia padrona c’era una stanza ove abitava un signore. Naturalmente l’uscio di comunicazione rimaneva sempre chiuso, io almeno lo credevo, quando un giorno arriva improvvisamente il signor barone. Io corro ad avvertire la signora e trovo l’uscio di comunicazione delle due camere aperto e la signora in conversazione molto intima col signore, ch’io non credevo nemmeno in relazione con lei. Al mio annunzio corre nella sua camera, si chiude in fretta l’uscio di comunicazione e quando entra il barone la signora gli va incontro con un sorriso calmo e tranquillo, lo bacia e gli dà il benvenuto come se nulla fosse. — Continuaste a rimanere in quella casa? — Che vuole! Mi ha pregato tanto, e anzi cominciai a trovarmici bene, facevo quello che volevo, avevo le mie ore di libertà, ero trattata in modo che in casa mi chiamavano la seconda padrona. — E come siete andata poi via? — Sono combinazioni: era gelosa di me, perché le pareva che il precettore del suo bambino mi facesse la corte, e ritengo che ella avesse un debole anche per lui: già, a lei piacevano tutti gli uomini, divenne stizzosa e trovò un pretesto per licenziarmi. — E voi non, vi siete ribellata? — Dirò, ero un po’ stanca dei suoi capricci, e quantunque in apparenza tutti la stimassero per una signora rispettabile, temevo che una volta o l’altra venisse scoperta e ch’io mi trovassi involta in qualche intrigo che avrebbe danneggiato il mio avvenire. Volevo andare in una casa onesta e prender marito alla prima occasione che mi fosse capitata come in realtà ho fatto. — Ed essa non aveva paura che parlaste? — Mi ha minacciata di non dare buone informazioni di me se parlavo; del resto non avrei avuto alcun interesse a farlo. — E veniva spesso in casa il conte Manfredi ? — Aveva incominciato a venirci appunto quando mi sono licenziata da quella casa, e non ne so più nulla. — Non sapete se fosse il suo amante in questi ultimi tempi? — Non so nulla, ma del resto ne ha avuti tanti che uno più uno meno non conta. Quando venne lasciata libera vi furono mormorii e commenti in mezzo a quella folla eccitata e curiosa. Venne poi la parlata dell’avvocato della parte civile che fece poca impressione. Domani parlerà la difesa e ci sarà la requisitoria del pubblico ministero e forse nella settimana vi scriverò la sentenza. L’accusata oggi avea la faccia illuminata da un sorriso, pare che abbia qualche speranza. Per conto mio, una cosa mi sembra molto strana, ed è che ora si faccia il processo alla vittima invece che al delinquente. 26 novembre.

La difesa dell’ avvocato Anselmi fu sublime; quel vecchio bianco e cadente seppe trovar parole da commuovere tutto l’uditorio. Prima parlò della famiglia della Manfredi, dipinse la madre come una santa donna, il padre come un eroe, e disse che se si volevano ritenere pazze simili egregie persone, si poteva rinchiudere tutto il genere umano in un manicomio. Poi dipinse l’amore della contessa pel marito, lo strazio nel sapersi tradita. Descrisse con tinte calde e vivaci la scena in cui sapendo suo marito con un’altra donna, smarrisce la testa, prende un’arma che avea nel cassetto, non sapendo bene a qual uso l’avrebbe adoperata; là prima idea è di scoprire il marito infedele e forse uccider sè stessa, poi il pensiero della figlia la trattiene, non sa più quello che si faccia; ma quando s’incontra faccia a faccia colla donna che le ha rubato il marito, che lo ha rapito all’affetto della famiglia, non sa più trattenersi, e spinta quasi da forza sovrumana, impugna l’arma e lascia partire il colpo fatale. Poi si scaglia contro le moderne Messaline, che assai peggio dell’antica fanno le cose ipocritamente; vogliono esser credute sante e poi rubano i mariti alle amiche, i padri ai loro figliuoli e portano la divisione e la discordia nelle famiglie. Finisce col dire che sarebbe una vera infamia condannare chi non ha fatto altro che difendere la propria tranquillità e felicità domestica, togliere una madre innocente all’affetto dell’unica figlia. Poi parlò d’un fatto accaduto qualche giorno prima in cui i giurati avevano assolto un marito che aveva ucciso la moglie adultera; terminò col dire che la legge doveva essere uguale per tutti, per l’uomo come per la donna, la quale era abbastanza vittima della società, e dei suoi pregiudizii, per avere il diritto di non esserlo davanti alla legge. Dopo un discorso tanto efficace ed eloquente ho sentito dall’approvazione del pubblico che qualunque fosse il verdetto dei giurati egli aveva assolto l’accusata in anticipazione. La requisitoria del pubblico ministero fa breve e non fece molta impressione. Egli disse che non era permesso ad una persona assalire improvvisamente con mano armata una signora che s’incontra per via, e domandava la si condannasse e rinchiudesse in prigione come pericolosa alla società. La seduta fu sospesa per formulare il verdetto, e quando, alla dimanda se l’ accusata avesse assalito con premeditazione a mano armata la baronessa Sanvitale, se fosse responsabile della sua azione e se le si accordavano le circostanze attenuanti, i giurati risposero con un no alle due prime domande, il verdetto d’assoluzione pronunciato nella sala fu accolto con un applauso fragoroso, e l’accusata all’uscire fu quasi portata in trionfo. Ecco finito anche un processo di cui si è parlato forse un po’ troppo; ora mi domando che cosa farà la baronessa Sanvitale che pare guarisca della ferita dopo tutta la pubblicità che s’è fatta delle sue gesta? Che cosa ne penserà il marito? Davvero non posso che deplorare la facilità con cui al giorno d’oggi si rivelano certi fatti che dovrebbero rimanere nascosti, e la curiosità malsana che hanno le signore d’assistere a certi processi che non sono certo una scuola di moralità.

All’avvocato Enrico Anselni.

“ Mi pare ancora un sogno d’essere uscita dalla mia triste prigione e poter in grazia vostra esser libera come un uccello dei campi. Nella confusione del primo momento, nell’impazienza di abbracciare mia figlia non ho potuto dirvi tutto quello che avevo nel cuore, ma sento che la nostra amicizia si è rinvigorita con nuovi legami e che la mia riconoscenza durerà quanto la mia vita, e vi assicuro che sono felice, nella rovina di tutte le mie illusioni, d’aver trovato in voi un amico sincero, quello che si ritrova nei giorni del dolore. Non posso descrivervi l’ impressione che provai il primo giorno trovandomi nella gabbia degli accusati, cogli occhi curiosi della folla rivolti sa di me, e fra quella folla conohbi tutti i miei conoscenti dei giorni migliori e le signore che mi si dicevano amiche coi volti sorridenti, come se assistessero ad uno spettacolo piacevole ed interessante. Guai se non avessi veduto il vostro volto amico incoraggiarmi dal banco degli avvocati! Guai se il vostro sguardo non mi avesse fatta intravvedere un barlume di speranza ! Non potete credere quanto soffersi nell’udire tutta quella serie di testimoni che assolutamente volevano vedere nelle mie azioni più semplici qualche cosa d’eccentrico e d’anormale. Carine quelle mie amiche! Quante considerazioni! Quanti commenti benevoli! V’assicuro che non c’è cosa migliore per conoscere bene il mondo quanta lo stare per quindici giorni sul banco degli accusati. E Ruggeri? Almeno lui mi si è mostrato un vero amico; come è stato franco e sincero nella sua testimonianza! L’avrei abbracciato! E anche voi, mio buon amico; la vostra difesa fu proprio sublime; parlaste di me, di mia madre, della mia famiglia con quell’accento cha viene dal cuore. Ho sentito nelle vostre parole l’affetto che avete sempre avuto per noi. Vi assicuro che vi ascoltai colle lagrime agli occhi, e sento che soltanto a voi debbo la mia salvezza e che non potrò mai pagare il debito di riconoscenza che a voi mi lega. E’ certo che le vostre parole decisero quelli che erano ancora tentennanti nell’incertezza, e quando rientrò la Corte ed il verdetto di assoluzione fu pronunciato in mezzo agli applausi, provai una tal gioia e tant’ emozione che la maggiore non avevo provata mai. Non vi descrivo la felicità nel riabbracciare la mia figlia, vi sono certe gioie che non si possono descrivere, come certi dolori che non si possono comprendere se non si sono provati. Invece della condanna ebbi quasi un trionfo; è vero che i giornali hanno criticato il verdetto dei giurati ed hanno detto che si è finito col fare il processo alla vittima e non m’ hanno lasciato gustare tutta intera la gioia della mia assoluzione: in ogni modo sono libera e non voglio più soffrire per le chiacchiere del mondo; l’ ho conosciuto abbastanza per disprezzarlo. Ora abbandonerò questo mondo ciarliero per sempre e mi ritirerò in campagna e vedremo se mi lasceranno vivere in pace. Non credo più in nulla. Ho soltanto fede nell’ amore materno perchè lo credo il più santo, il più vero e quello che mai non tradisce. Ho appena trent’anni e la mia vita è spezzata, guai se non mi restasse il conforto della mia figliuola! Voglio dunque vivere per lei, per il suo avvenire, per la sua felicità. Non ho più veduto mio marito, ma egli tenta di riavvicinarsi a me, mi scrive facendomi un mondo di promesse. Pare che l’aureola di popolarità che s’è fatta intorno alla mia persona gli abbia fatto sorgere un’altra volta l’affetto per me, ma io non l’amo più e per il momento non mi sento di perdonare; in quanto a dimenticare non lo potrò mai. Ho veduto Ruggeri; è stato a salutarmi e ad affidarmi il suo figliuolo. Egli ritorna agli antichi amori; parte per un lungo viaggio di esplorazione. — Se ritornerò, — mi disse colle lagrime agli occhi, — saremo allora più vecchi tutti e due e potremo essere amici, nient’ altro che amici; in ogni caso vi affido mio figlio, spero che voi non lo abbandonerete. Fui sul punto di trattenerlo , mi sentivo straziare all’idea ch’egli andasse incontro ai pericoli d’una vita avventurosa per causa mia, ebbi paura di amarlo, feci uno sforzo per scacciare la preghiera che mi veniva spontanea sulle labbra, e lo lasciai partire pregandolo soltanto di mandarini spesso sue notizie. — Le vostre lettere saranno come sprazzi di luce nella mia vita triste e solitaria, — gli dissi stringendogli la mano. — Vi lascio mio figlio, il mio solo tesoro. Ciò vi è pegno che col cuore sarò sempre qui presente e che ve ne chiederò frequentemente notizie. Così ci lasciammo molto commossi. Ora il mio pensiero saranno i due fanciulli Alberto e Margherita, tutti e due del pari cari al mio cuore. Non vivrò che per esser madre, non vivrò che delle loro gioie, non soffrirò che pei loro dolori. Ormai non ho che un desiderio, quello di viver tanto per vederli felici. Ricordatevi qualche volta anche voi della vostra

ILDA MANFREDI. un anno con lei, mi conosceva a fondo, m’ aveva sfruttato in tutti i modi, e come nipote e come compagna di viaggio e come protetta, e capivo che avevo finito il mio regno. Poi il suo cervello sempre in moto per trovare da distrarsi cercava qualche cosa di nuovo. Villeggiavano allora sul lago parecchi uomini politici ed essa pensò subito ad aprir loro la sua casa ed a formarsi un circolo di personaggi, di quelli nominati sempre sui giornali, e a darsi una posa di donna seria. Ecco dunque un altro cambiamento di scena. Non più ragazze per la sua nipotina nè gite campestri, nè festino da ballo, nè merende sull’erba. Pranzi serii di uomini politici, persone gravi e mature, discorsi ancora più serii, si