Wikisource:Collaborazioni/SBM/testi/Misteri del Palazzo Marino
BIBLIOTECA EBDOMATARIA TEATRALE Fasc. 792
I MISTERI DEL PALAZZO MARINO IN MILANO
DRAMMA STORICO POPOLARE
MILANO CARLO BARBINI LIBRAJO-EDITORE Via Chiaravalle, 9 1904 BIBLIOTECA EBDOMADARIA-TEATRALE OSSIA SCELTA RACCOLTA delle piu' accreditate ed usate Tragedie, Commedie, Drammi e Farse del Teatro Italiano, Francese, Inglese , Tedesco e Spagnuolo NELLA NOSTRA LINGUA VOLTATE.
Fasc. 792. Milano, Tip. C. Borroni. I MISTERI DEL PALAZZO MARINO DI MILANO OVVERO IL BARBA DEL CASTELLO dramma storico popolare diviso in un prologo e 6 atti TRATTO DA GIUSEPPE TRADICO DALLE CRONACHE MILANESI E VENEZIANE
MILANO presso CARLO BARBINI, EDITORE 1904 EX LIBRIS SEN. CONTE ALESSANDRO CASATI, DONO LEOPOLDA INCISA DELLA ROCCHETTA.1960.
Questa produzione, per quanto riguarda la stampa, è posta sotto la salvaguardia della legge 25 giugno 1865, Numero 2337, quale proprietà dell'editore
C. BARBINI. A MIA MOGLIE CHE MECO DIVISE GIOIE E DOLORI QUESTO MIO LAVORO DEDICO. Luglio 1877. LEGGENDE
I.a
Sconda sconcia Legorina Ch, el me can l'è in camerina Ch' el me can l' è incadenà; Sgura la tazza che te voeui da Sgura la tazza, sgurela ti, Dagh un pugn va via de lì.
II.a Minin Minell Barba Castell Barba Milan Tocca in la man ; Pan e Formaggin, Grattin, grattin, grattin. DIVISIONE DEGLI ATTI
PROLOGO
I due patrizii veneti. - Il padre cappuccino. - La figlia restituita. - La riconciliazione. - Gli sposi.
ATTO PRIMO. La dama benefica. - La lettera paterna. - La rassegnata. - Il conte Marino. - La provocazione. - La sfida. - Il rifiuto.
ATTO SECONDO. La villa Marino in Gaggiano. - Legorina la setajuola del Borgo degli Ortolani tolta dalle zampe del lupo. - Angelo e demonio. - Il vero servo di Dio. - L'anatéma.
ATTO TERZO. La camera dei trabocchetti nel palazzo Marino - Un'infame calunnia. - Il tiranno e la desolata. - La morte d'un angelo. - La porta segreta - La fuga. ATTO QUARTO. Una taverna in Lomellina. - La storia d' una morta. - Il supposto demonio. - Il gobbo merciajo. - La disperazione d' uno sposo. La congiura. - Il mistero svelato.
ATTO QUINTO. Il castello di Cecima. - Il barba dormiente. - Il bandito. - Il sogno celeste. - Il fantasma - I rimorsi. - Legorina la perla dei monti. - Attentato di seduzione. - Le maschere nere. - L' incendio del castello.
ATTO SESTO. I Piombi di Venezia. - Gli spasimi della tortura. - Gli agozzini. - Il padre della vittima. - Il confessore del malvagio. - La campana funebre. - Il battello della morte - Il ravvedimento. - La punizione. - La vendetta. PERSONAGGI
Conte TOMMASO MARINO. MARCO CORNARO. Padre LUCA. PAOLO GRITTI.
MOSCA FIEROTTO Bravi del conte.
PIETRO TONIO contadini.
MENICO, oste. ARA CORNARO LEGORINA. NUNCIATA. Contessa MARINO.
Bravi - Contadini - Armigeri - Cavalieri Fanciulle - Quattro mascherati. Gran Cancelliere - Agozzini - Carnefice
L'azione succede : Prologo, primo e terzo atto a Milano. Secondo atto a Gaggiano. Quarto e quinto atto a Cecima. Sesto atto a Venezia. Epoca dal 1500 al 1600.
NB. Dal prologo al primo alto passano due anni dal terzo al quarto atto passano altri due anni. PROLOGO Camera elegante con porta comune nel mezzo, altre laterali. Finestra nel fondo.
SCENA PRIMA. Nunciata che introduce Paolo Gritti. Nun. S'accomodi in questo gabinetto, messere, vado tosto ad annunciarla. Oh ! quanto sarà di sollievo al mio padrone la di lei venuta a Milano. Paolo. Va presto, mia cara, che anelo l'istante d'abbracciarlo. Nun. La servo subito. (alla porla) Oh guardi, messere, egli dorme ; il destarlo sarebbe proprio un peccato, non ha chiuso occhio in tutta la notte. Paolo. No no, guardatene bene, aspetterò che si desti da sè. Povero zio! (guardando alla porta) come deve aver sofferto! Nun. Altro che sofferto ! Da quella notte fatale in cui gli han rubata la figlia, esso non fa che struggersi di dolore e di rabbia. Oh ! è stato un gran brutto pensiero quello di venire a passare gli ultimi giorni di carnevale a Milano ! Paolo. Ma infine, come avvenne precisamente il rapimento d'Ara? Come la conobbe il conte Marino? Nun. Lo incontrammo un giorno mentre uscivamo dalla chiesa di S. Fedele; quel messere, colpito dalla di lei bellezza, e venuto a sapere esser la figlia del nobile Marco Cornaro, gliela fece chiedere in isposa. Messer Marco, che conosceva per fama il conte, gli fe' dire che non convenivansi alla virtù della nobile donzella veneziana i suoi prepotenti costumi. Il Marino non mostrossi offeso a tale rifiuto, ma avvertito che Ara doveva portarsi ad un ballo in casa Durino, esso pure vi si recò; ballò con essa più volte e la trattò coi modi più gentili e cavallereschi. Terminata la festa, messer Marco e sua figlia presero commiato dal Durino, ma giunti nel cortile, ove attendevali la carrozza, il Marino colla velocità del lampo, prese Ara fra le braccia, la pose nel suo cocchio che stava a poca distanza dal palazzo, e sferzati i cavalli disparve come un fulmine. Paolo. Infame! Nun. Messer Cornaro, al colmo dell' ira, inseguì il rapitore, ma una ventina di bravacci spianarongli contro i loro archibugi, proteggendo cosi la fuga del loro signore. Paolo. Povero zio! Oh, ma viva Dio, il nostro console non lascierà impunito un tanto oltraggio. Nun. Il console si intromise infatti , ma inutilmente, poichè il Marino è troppe protetto dal PROLOGO
governo spagnuolo ; si figuri, che mentre esso ogni giorno emana nuove grida ove punisce con multe, prigionia o bando tutti coloro che tengono al servizio quei brutti ceffi chiamati buli o bravi, il Marino no assolda di nuovi ed impunemente se ne fa un corteo quando esce dal suo palazzo ; ... quei brutti musi sono armati sino ai denti e sempre pronti a colpire chi il loro signore addita. Allorché quel demone passeggia per le vie di Milano, pone lo spavento in ogni cuore, perché guai a colui che si trova sul suo passaggio e non declina dalla dritta, guai a quel prete o frate che gli capita fra i piedi, collo scudiscio li percuote spietatamente in volto. Paolo. E le leggi di Spagna lasciano impuniti simili soprusi, perché è nobile e ricco, e non osano porre su lui le mani ? Oh ! governo debole e ignorante, ma quel ribaldo credo non sia milanese. Nun. No, egli è genovese; privo del padre a venti anni, e rimasto in possesso di non lieve fortuna, recossi colla madre a Milano ove intraprese i più lucrosi appalti, che lo arricchirono immensamente. Si racconta nientemeno che un giorno egli invitò molti suoi amici ad un sontuoso pranzo, e per isfoggiare le sue ricchezze pose loro per sedili dei sacchi ripieni d' oro. Paolo. Spavalderia veramente degna di lui, (rumore). Ma (guardando alla porta) parmi che mio zio siasi destato ; va ad annunciarmi. Nun. Egli stesso si dirige a questa camera. Paolo. E vero! Nun. Silenzio, messere, e favorite ritirarvi là in fondo, poiché voglio riservarmi il piacere di fargli una sì bella ambasciata. Paolo. Figurati, buona Nunciata. (si nasconde)
SCENA II. Marco Cornaro e detti.
Nun. Messer Marco, buon giorno ? Come si sente. Cor. Male male, come al solito; dimmi, Nunciata, non è ancor venuto padre Luca ? Nun. No, messere. Cor. Mio Dio, quanto egli tarda! Nun. Mio buon padrone, ho il piacere d' annunciarle un suo più caro parente, giunto or ora da Venezia, e che desidera d' abbracciarla. (via). Cor. Un mio parente? sarebbe vero! Ma chi è desso ? (si volge mentre Paolo s'avanza) Oh ! Paolo. (s' abbracciano) Paolo. Sì Paolo, che appena ti seppe colpito di così grave sventura non potè starsene neghittoso a Venezia e corse a te per confortarti e prestarti aiuto. Cor. Oh ! grazie, grazie, nipote mio. Paolo. A Venezia appena si seppe l' infausta notizia del rapimento di Ara, il Doge e i patrizii avvamparono di sdegno e giurarono di vendicare un simile oltraggio. Cor. Oh miei buoni concittadini, mi fosse dato di ritornare presto fra voi colla mia Ara ; ma Dio, Dio solo sa quando il potrò! Paolo. Ma non vi è dunque giustizia in questo paese ? Cor. (sorridendo) Giustizia ! ? Se tale infamia fosse avvenuta a Venezia, a quest'ora il Marino sarebbe già pasto ai pesci di Canal Orfano, ma qui è ben altra cosa; se una simile offesa fosse stata fatta ad un grande di Spagna, la cosa sarebbe stata diversa ; ma trattandosi d'un patrizio della Veneta Repubblica, sua eccellenza il governatore non se ne prese alcuna briga. Paolo. Ma il nostro console, l' ambasciatore, non presero le vostre difese ? Cor. Essi chiamarono il Marino, ma questi giurò d'affrontare l'ira di tutti anzichè cedere Ara, prima d'averla ottenuta da me in isposa. Paolo. Quale audacia! Ma sapremo ben noi strappargliela col ferro! Cor. É quanto ho deciso di fare. Paolo. Oh ! tu no, mio buon zio, tu sei valente nell'adoperare la spada, lo so , ma se la sorte ti fosse avversa, chi rimarrebbe allora a quella povera fanciulla? No, no, nemmeno idearlo! tocca a me, giovino libero, mostrare a quel messere quanto valga la spada d' un patrizio veneziano. Cor. Giovane generoso ! (abbracciandolo) tu hai una madre e non sarà mai eh' io ponga a repentaglio la tua vita ; io, io solo voglio aver il vanto di lavare col sangue del Marino una sì grave onta. Prima però ricorsi a un altro mezzo, e se questo andrà fallito, vedrai s'io non avrò il braccio abbastanza forte per abbassare l'orgoglio di quel vile. Paolo. Un altro mezzo hai detto, e sarebbe? Cor. In questa città avvii un santo uomo, un vero servo di Dio, chiamato padre Luca. Paolo. Ebbene ? Cor. Esso è l'unico che abbia qnalche ascendente sul di lui animo, essendo il confessore della contessa sua madre ; io mandai quel rispettabile uomo dal Marino con libero arbitrio di promettergli la mano di Ara, se entr' oggi la conduce fra le mie braccia. Paolo. Una simile promessa però... Cor. Lascia che Ara sia al mio fianco, e poi il Marino venga a prenderla.
SCENA III. Nunciata e detti. Nun. (introducendo padre Luca) Padre Luca Cor. Oh ! sia il benvenuto. (Nunciata via)
SCENA IV. Padre Luca, e detti. Cor. E cosi,buon padre, la mia Ara ? Luca. Rallegratevi, o messere ; fra pochi istanti vi sarà dato di stringerla al seno Cor. Sarebbe vero! .. il Marino vi promise di restituirmi la mia Ara ? Luca. Lo ha giurato, o messere. Paolo. E voi, buon padre, poteste prestar fede ai giuramenti di un simile uomo ? Luca. Lo ha giurato innanzi a sua madre che tanto egli ama. Paolo. Davvero che avete operato un gran miracolo. Luca. Nulla io ho fatto, o messere, ma bensì l'onipossente Iddio, che ricondotto vuole il Marino su quel retto sentiero che da tanto tempo aveva smarrito. Esso non voleva assolutamente ascoltarmi, ma dietro le replicate preghiere di sua madre, muto e col capo chino udì il mio sermone, tutte gli posi sott'occhio le tristi conseguenze che derivar potrebbero dalla sua malintesa ostinazione; finalmente alle mie energiche parole egli rialzò il capo, e stringendomi con affetto la destra : ritornate tosto, mi disse, da messer Cornaro, e ditegli che rassegnato mi sottometto ai suoi voleri e che entr'oggi gli sarò resa sua figlia. Cor. Credetemi, o reverendo, non le vostre parole nè la voce dell' onore e della coscienza avranno indotto quell' anima di fango a rendermi la figlia, ma bensì la promessa che a nome mio gli avete fatta, d'accordargliela in isposa. Luca. Non gli avrei fatto una tale promessa se prima non si fosse sinceramente pentito. Cor. E vostra paternità mi consiglierebbe di concedere la mano di mia figlia a colui che l' ha vilmente rapita ? Ah ! non sarà mai che essa porti quell'abborrito nome !... Luca (risentito) Che ascolto ! Ma dunque la S. V. ha ingannato la mia buona fede ! vorrebbe farmi smentire la data parola e rendermi lo zimbello del conte, e di tutta Milano ? Cor. Perdonate, reverendo, fu l'amor paterno che mi trasse del labbro una simile promessa, ma il cuore non vi ha acconsentito. Luca. Io vi compiango, o messere, ma pensate che ci va del vostro e del mio onore ; che dirà di me il Marino, la nobiltà di Milano ? A giusta ragione tutti mi tacceranno d'impostore. Pensate che da una simile smentita possono derivare gravi conseguenze, perpetuare terribili odii fra la vostra famiglia e quella del conte. Paolo. Nulla ce ne cale, reverendo. Cor. Ricuperata mia figlia, più nulla temo. Luca. Pensate, o messere, che la mia e la vostra fama ne rimarrebbero per sempre offuscate. Cor. Mio Dio ! Dovrò dunque sacrificare la mia Ara ad un uomo cosi infame ? Luca. Vostra figlia è un angelo, e potrà fare del conte tutt'altro uomo. Cor. Mia figlia l'odierà... Luca. Vostra figlia l'ama, o messere. Cor. Che dite, o padre ? Paolo. Sarebbe possibile ? PROLOGO SCENA V
Nunciata ansante, e detti. Nun. Oh, messer Marco !... messer Paolo !.. che consolazione, che gioia, che.. Cor. Che hai ? che avvenne ? parla. Nun. Oh quale contento, quale felicità! Un elegante cocchio tirato da quattro cavalli, e circondato da molti cavalieri sfarzosamente abbigliati, s'è fermato dinanzi alla porta di questa casa, ed in esso v'è una signora, e poi e poi indovinate voi, messer Marco. Cor. Mia figlia forse ? Nun. Si, vostra figlia! Cor. Essa! Dio vi ringrazio.(corre ad incontrarla) Paolo. Corriamo ad incontrarla. Luca. Il Marino ha mantenuto il suo giuramento.
SCENA VI. Ara, la contessa Marino, il conte Tommaso Marino dame e cavalieri sfarzosamente vestiti. Ara. (gettandosi nelle braccia del padre) Padre! padre mio.... Cor. Oh figlia! Qui, qui sul mio cuore. (rimangono abbracciati) Nun. (piangendo di gioia) Mia buona padroncina, io pure vorrei darle un abbraccio. Ara. (abbracciandola) Oh ! mia Nunciata ! Paolo. Cara cugina, permetti ch'io pure ti stringa la mano, e goda di vederti resa al vero amore, alla vera felicità. Ara. Paolo ! Mio buon cugino, tu pure al fianco del padre mio ? Oh ! (stringendogli la mano) da te non mi aspettava di meno. (al padre Luca) Reverendo padre, quanto vi debbo! Luca. Non a me nobile fanciulla, ma bensì a Colui che tutto regge di lassù. Cor. (abbracciando di nuovo la figlia) Povera figlia mia, quanto avrai sofferto, quante lagrime avrai sparse trovandoti cosi barbaramente strappata dalle paterne braccia. Oh! io pure veh! credeva d' impazzire dal dolore, dalla disperazione. Con. Messere, quei pochi giorni che fu da voi disgiunta, rimase sempre a me vicina, e procurai con ogni mezzo possibile di renderle meno aspro il dolore di essere da voi lontana. Ara. Oh si, padre mio, nella signora contessa Marino aveva trovato una seconda madre. (controscena di Cornaro e Paolo) Cor. (fra sé) (Una seconda madre ?) Grazie, o madonna, ma il conte vostro figlio ha commesso la più vile, la più infame delle azioni. Tom. (avanzandosi dignitoso a capo scoperto) Non l' insultate, o messere, poiché egli è pentito e vi sta dinanzi. Cor. Che ! voi qui !... voi alla mia presenza ? In nome di Dio, andate, partite all' istante, poi- ché tutto il mio furore al vedervi si riaccende. Tom. (sempre dignitoso) Messer Cornaro, perdonate un' imprudenza commessa per troppo amore. Io vidi Ara, l'amai, ve la chiesi in isposa, me la rifiutaste ; io la rapii è vero ma seppi però rispettarla come cosa santa ; poichè appena fu in mio potere la affidai a mia madre, che tutta Milano può testimoniare qual virtuosa donna ella sia. Non crediate, o messere, che con ciò voglia scusare il mio operato, no ; voglio mostrarvi che il conte Marino fu capace di commettere una inconsideratezza, non mai però una viltà. Ara.(supplichevole) Mio buon padre! Paolo (a Marco) Zio, pur troppo essa lo ama. Luca. Messere, il più bel giorno della vita è, quello in cui si perdonano le offese. Cor. Conte, l' oltraggio fattomi fu sanguinoso, ora però che mia figlia mi stà al fianco vi perdono. Tom. Grazie, o messere. (volgendosi ad Ara ed alla madre) Madre, Ara ! la mia felicità, il mio avvenire da voi dipendono. Con. Messer Cornaro, mio figlio per bocca mia vi domanda nuovamente la mano di Ara. Cor. La mano di mia figlia a lui ! (controscena di Luca e Paolo) Oh Paolo ! Reverendo ! il cuor mi dice che un tal nodo formerà la sua sventura. Luca. Ma se Iddio ha cosi decretato, volete voi opporvi ai suoi santi voleri ? Tom. Se è il mio passato che vi dà pensiero, vi giuro che divenuto sposo di vostra figlia mi riabiliterò, mi renderò degno di lei e del suo nobile casato. Cor. (dopo breve pausa) Ebbene, conte, io lascio libero arbitrio a mia figlia. Ara, tuo padre desidera vederti felice al fianco d' un uomo che t' infiori la vita coll' amarti. Tom. Non mi avete giurato, o bella Ara, che restituita al genitore avreste accettata la mia mano? Con. Perché esitate a chiamarmi col dolce nome di madre ? Ara. (dopo breve istante corre fra le braccia della contessa) Oh! si ! siate mia madre. Tom. Oh grazie ! grazie, Ara ; messere, vostra figlia mi ha reso beato, ora tocca a voi. Cor. (combattuto ed incerto, poscia facendosi forza prende la destra d'Ara e del Marino che s'inginocchiano, li unisce, quindi ponendo loro la mano sul capo, e combattuto dal dolore dice) Ara, mia creatura, che al di lui fianco tu possa essere per sempre felice.
FINE DEL PROLOGO. ATTO PRIMO Elegante gabinetto, porta comune nel fondo, altra a sinistra, finestra a destra.
SCENA PRIMA. Ara alla finestra guardando. - Suoni e canti interni.
Ara. Già il sole rischiara coi suoi raggi dorati le stanze del conte, e l'orgia non è ancora terminata ; là ancora si folleggia... là canti .. suoni e risa.... qui lagrime e disperazione ! il mio sposo, circondato dagli amici i più depravati, e dalle donne le più invereconde, nell'ebbrezza dell'orgia avrà rivolto gli sguardi a questo verone, non per un senso di pietà, ma bensì per mostrarmi ad essi rendendomi il loro ridicolo. Mio Dio, che valgono le ricchezze quando non si è riamati da chi si ama ? Oh l' amore rende pur lieta delle sue gioie la vita! ma da me pur troppo queste gioie se ne fuggirono per sempre ! Per sempre ? ! oh no, egli si stancherà di questa vita di libertinaggio, verrà il giorno del disinganno, conoscerà allora che l'amore di una sposa è il più sublime, è il sorriso di Dio. Guai a me se questa speranza dovessi perderla un solo istante. SCENA II. Nunciata e detta.
Nun. Madonna Ara, madonna Ara, una lettera da Venezia che mi ha consegnato il fido Giovanni. Ara. Una lettera da Venezia? Sarà di mio padre.. Oh si, è il suo carattere. (osservandola) Quanta gioia provo nell'aprirla! (dopo letta) Egli sa tutto. Frate Luca lo rese consapevole di tutte le augoscie, di tutte le pene che io soffro pel conte. Ha fatto male, perchè desideravo che mio padre mi credesse felice con mio marito. Nun. Quel reverendo ha fatto veramente un' opera meritoria: un padre ha tutto il diritto di sapere se una sua creatura soffre, e di punire colui, che, dimentico dei giuramenti fatti , fa spargere lagrime di dolore e di disperazione alla figlia che gli ha affidata. Ara. Ascolta ciò che mi scrive. (legge) " Adorata figlia. - Benchè nelle tue lettere t'affatichi a a mostrarti felice per non affliggermi, io però so tutto. Il conte tuo marito ha fatto di te la donna più infelice; esso è l'uomo più perverso che esista sulla terra. Mia povera Ara, l' agnello non può albergare nella tana del lupo senza essere un giorno o l'altro sacrificato dalla sua ferocia. - Lascia dunque Milano e quell'uomo di te indegno, accorri a fra le mie braccia che sono sempre aperte per stringerti al seno e per difenderti. - Tuo affezionatissimo padre."- Povero padre ! tua figlia ti è immensamente grata; ma essa ha giurato di non abbandonare, fosse anco più infame, colui che il Signore le ha dato per compagno. Nun. La signoria vostra vuol proprio aspettare che quell' inumano un giorno o l'altro abbia a sgozzarla. Ma se il fedele Giovanni non l'avesse avvertita, non sarebbe forse la signoria vostra rimasta vittima della barbarie del Marino, allorchè fece dare il sapone alla scala che conduce al di lei oratorio ! Ara. Che Iddio gli perdoni così tristo pensiero venutogli forse in un istante d'aberrazione mentale; no no, mia cara, non posso abbandonarlo, sento che quando mi è dato di vederlo sono felice, sono beata. E poi se anche mi dividessi da lui, se ritornassi a Venezia, che ne direbbe il mondo ? Nun. Il Mondo conosce le infamie del conte e le di lei generose azioni. Il di lei nome tutti lo proferiscono con venerazione ed amore, mentre quello del conte è fatto segno all'universale esecrazione. Non si ostini, o signora, a rimanere al fianco d'un uomo che tanto l'odia, ad un uomo che non l'ha mai, mai amata. Ara. Oh! no, non è vero: nei primi tempi del nostro matrimonio mi ha amata, immensamente amata, ogni mio desiderio era per lui una legge, un comando. Questo sontuoso palazzo fu fatto da lui erigere onde ricordare il luogo ove per la prima volta mi vide. In quei giorni era per noi il tempio dell'amore e della felicità. Il giorno in cui Filippo II lo creò duca di Terranova, egli aderì al mio desiderio, facendo dono di due stupendi candelabri in bronzo, del mio e del suo ritratto alla chiesa di San Marco in Milano; e in quel giorno mi fu compagno a soccorrere le famiglie più indigenti e ad asciugare le loro lagrime. Nun. È vero, ma morta la contessa sua madre, egli gettò la maschera che coprivagli il volto e lanciossi nuovamente a capo fitto negli stravizi e nei delitti. Oh signora! l'amore che le professava non era sincero, creda a me , esso ha sposato la signoria vostra per un capriccio o per un puntiglio. Ara. Oh no, non posso crederlo; io spero che perseverando nella sofferenza potrò ritornarlo ancora a quei beati giorni. Nun. Vana speranza, o signora, poichè sono appunto le di lei buone qualità che quell' uomo detesta. Egli si è pur troppo accorto che la mano benefica, che soccorre le famiglie vittime delle sue vessazioni e dei suoi infami capricci, è la vostra ; e di più, odia vostra signoria perché come lui non si dà buon tempo e non si lancia nel mondo galante. Ara. I banchetti, le feste ed i balli mi annoiano anziché divertirmi. Il tempo io bramo impiegarlo in opere di carità, portarmi al capezzale dell'infermo, a confortarle e ad assisterlo; al casolare dell' indigente a soccorrerlo ed alleviarlo dalle sue angoscie. Ecco l'unico mio passatempo, l'unica mia consolazione. Nun. E la signoria vostra non durò fatica nel trovare in me e nel suo nobile cugino chi gareggia nel compiere così sante missioni ; ma temo, o madonna, che con ciò non potrà continuare a lungo, perché Giovanni, l' unico fra i servi del conte a lei affezionato, mi disse che la signoria vostra e messer Paolo stiino in guardia perché il conte deve avere intravveduto qualche cosa. Ara. Mio Dio! dici tu il vero? Ma questa sarebbe per me una sciagura! come potrò allora sapere e riparare i soprusi che il conte commette, se mio cugino non avesse più da rimanergli al fianco ? Nun. Oh ! sarebbe la gran bella cosa se ritornassimo a Venezia. Ara. Basta, Nunciata, te lo dissi più volte, se hai paura vattene pure, io rimango. Nun. Che ! Io abbandonarla, lasciarla nelle mani di quell'uomo? Ma crede ella che la sua Nunciata non abbia cuore ! Mia buona signora, non è per me ch'io temo, ma per lei , per lei signora. Ara. (l'abbraccia). SCENA III. Paolo e dette
Paolo. (inchinandosi) Cugina... (prendendogli la mano e baciandola) Ara. Cattivo ! perché farti cotanto aspettare? Paolo. Perdono, mia cara ; se non venni ieri a sera a ragguagliarti degli avvenimenti della giornata; vi è che troppo mi premeva rimanere al fianco di tuo marito ; abbandonare la festa era impossibile, poiché la mia assenza sarebbe stata da lui rimarcata. Oh, Ara, di quali scene inaudite fui testimonio ieri! Ara. Che! il conte avrebbe commesso qualche nuova infamia, suscitato qualche nuovo scandalo? Paolo. Pur troppo, Ara. Egli commise uno dei suoi soliti soprusi, che il popolo è stanco di sopportare. Ieri, cavalcando nella contrada di Brera s'imbattè in frate Luca, che sai quanto egli odia. Ara. Mio Dio ! Paolo. Vederlo, precipitarsi su lui col cavallo, e rovesciarlo a terra fu un attimo. Ara. (coprendosi il volto) Che orrore ! Nun. E poi va sulle furie quando lo chiamano strapassa burdoc. Paolo. Alle grida di quel misero accorsero dei popolani i quali, inorriditi dal vile ed infame procedere del conte, gridarono a tutta gola : dàlli, dàlli, allo strapazza burcloc, accoppalo, accoppalo quel cane ! A tali grida esso abbandonò il frate ed avvampante e di sdegno scagliossi sull'ammutinata folla menando su d'essa a dritto ed a rovescio il suo scudiscio. Allora un urlo di : morte al Marino ! risuonò in tutta la contrada, in un attimo sassi e bastoni si alzarono su di lui ; la sua morte era sicura, se padre Luca, uscito incolume per vero miracolo, acquetati non avesse quei generosi popolani colla santa parola di pace e di perdono. Ara. Oh, egli è veramente un sant' uomo ; buon Paolo, mi farai il segnalato favore di portarti da padre Luca a ringraziarlo a nome mio della sua generosa azione. Nun. (fra sè) Quel benedetto frate avrebbe fatto assai meglio a lasciarlo accoppare. Paolo. Vi andrò; ma prima cugina mia, havvi una disgraziata che ha duopo più che mai della tua protezione e del tuo aiuto. Ara. Parla Paolo, sai pure che proteggere gl'infelici e sollevare gli oppressi è la missione che mi sono imposta. Paolo. Oh tu sei un angelo ; orbene, ieri sul vespro il conte, accompagnato dai suoi cagnotti passando dal borgo degli Ortolani, s'incontrò in una vezzosa barghigiana; preso per essa d'impura fiamma, le parlò d' amore (contro scena) ma questa fanciulla fuggì a precipizio. Giunta al suo gran casolare, v'entrò chiudendogli l'uscio sul volto. Nun. Brava, ben fatto! che bella cosa se facessero tutto così. Paolo. Il Marino, tutto rosso della rabbia voltosi a quelli che lo seguivano, col suo solito cinismo, disse loro ; due scudi d' oro a ciascuno di voi se domani portate al mio palazzo quella selvaggina. Ara. Quale vituperio! Paolo. E tale rapimento, o Ara, deve compiersi questa stessa sera, e quella fanciulla seppi essere l' unico sostegno dei suoi vecchi genitori ed un angelo di bontà e di candore. Ara. Oh no, tale infamia! dovesse pur costarmi la vita, non si compirà! Va, corri dai suoi genitori, avvertili del grave pericolo che a loro sovrasta, di loro che la nascondino, che la mandino in luogo sicuro. (pensando) No, aspetta, ordina a Giovanni che sia pronta la mia carrozza, che ci porteremo insieme da quei disgraziati e li porremo in salvo. Nun. Silenzio... non m' inganno, odo rumore di passi nel corridojo. Paolo. E' vero, qualcuno viene a questa parte. Ara. Chi può venir da me? Nun. Forse il conte. Ara. Il conte ? dopo tanto tempo ? Oh no, non è possibile. Paolo, va presto e trova qualche mezzo per salvare quell'innocente ; non risparmiare nè danaro, nè fatiche. Paolo. (stringendole la mano) Addio, cugina, presto sarò di ritorno per renderti di tutto consapevole. (fa per partire). Ara. Addio, a rivederci il più presto possibile. Nun. (guardando dalla porta) Vostra signoria non è più in tempo. Paolo. Maledizione ! come fare ? Ara. S'egli ti trova qui potrebbe pensare... nasconditi, nasconditi là nella camera di Nunciata. (controscena) Te ne prego, Paolo, fammi questa grazia. Paolo. Ebbene, sia ; ma guai a lui se t'insultasse. Ara. Oh no ! in nome di Dio, per qualunque cosa avvenga, giurami che non uscirai da quella stanza finchè egli sia partito. Mio buon Paolo giuralo... giuralo per quanto tu hai di più sacro.... Paolo. Sia, te lo giuro. (entra precipitoso nella stanza di Nunciata)
SCENA IV. Marino dalla camera comune e dette.
Tom. (da sé) (Egli è entrato in quella camera, sta bene.) Ara. (incontrandolo) Oh Tommaso, mio Tommaso, finalmente ho una tua visita. Tom. Che forse vi sarà di disturbo, non è vero, contessa ? Ara. (con un cenno fa uscire Nunciata) Di disturbo ? che dici mai ? io la desideravo ardentemente, cattivo! è tanto tempo che non ho il bene di vederti nelle mie stanze ! Le continue occupazioni ti fanno troppo dimenticare chi tanto ti ama. Tom. (con ironia) Lo credi? Ara. Oh si! Poiché havvi una grande diversità dai primi tempi del nostro matrimonio. In quei beati giorni, col tuo amore, mi avevi cosparsa la vita di rose, perché rimanevi sempre a me vicino, e colle tue soavi parole m'innebriavi d'amore, di felicità. Tom. Madonna, io non son qui venuto per udire delle sciempaggini , bensì per dirvi che dentr'oggi vi rechiate alla mia villa di Gaggiano. Ara. Che! io recarmi colà! e perché? Tom. Per ricevere dei parenti, degli amici di vostro padre che giunger devono da Venezia. Ara. Devono giungere dei parenti, degli amici di mio padre? Se ciò è vero, non è meglio che io li attenda in questo palazzo, che ci trovino uniti, acciò possano riferire a mio padre che trovarono il conte Marino al fianco di sua moglie ? Tom. Contessa, non m'annojate colle vostre osservazioni: pretenderebbe forse il vostro signor padre che tutto il giorno abbia a starvi dinanzi in adorazione ? (ridendo) Sarebbe pur ridicola o madonna. Ara. Tommaso, il tuo modo d'agire verso di me è più che inumano, poiché ogni giorno, ogni istante tu studii nuove torture, affine di martoriare questo mio povero cuore. Oh! io non posso più a lungo vivere in tal modo, l'odio tuo mi uccide: o Tommaso. Non ti basta ciò che mi hai fatto soffrire? non ti basta l'avermi relegata nell'angolo più remoto di questo palazzo, qual schiava? ora vuoi con menzognero pretesto allontanarmi da te, onde aver maggior campo di sfogare le tue brutali passioni, e far di questo palazzo, che hai innalzato a memoria del nostro amore, il teatro delle tue dissolutezze? ma tua moglie, stanca di tanti soprusi, alza la fronte o infranger vuole la sua schiavitù. Tom.(impassibile) Voi.dunque mi dichiarate te la guerra? Ara. Voglio far valere i miei diritti di moglie. Toni. Badato, madonna, che il vostro nemico è tale da farvi pentire di averlo sfidato. Ara. Non sarebbe la prima vota che il conte Marino attenta alla vita della propria moglie. Toni. Oh, basta! voi m'obbedirete col partire fra due ore. Ara. Io rimango, o signore. Ton. Madonna, io non sono uso ripetere due volte un comando; guai, guai a voi se fra due ore non sarete partita per il luogo che vi ho indicato. (via) Ara. Oh mio Dio l che ho fatto a quell'uomo per ispirargli tant'odio (piangendo cade su d'una sedia) SCENA V.
Paolo e Nunciata da dove erano usciti, e detta. Nun. (sorreggendola) Oh signora, mia buona signora! Paolo. Cugina, tu non devi più rimanere in questa casa, presso un uomo che tanto ti disprezza: seguimi, vieni con me a Venezia fra le braccia d'un affettuoso padre. Ara. Oh no ! mai, mai. Sia di me ciò che il Signore ha decretato: il mio posto è presso di mio marito e non l'abbandonerò che per scender nella tomba. Paolo. Cugina: pensa che l'odio di quell'uomo può esserti fatale, ascolta il consiglio d'un affettuoso parente ; non esitare, vieni a Venezia ; al mio fianco nulla avrai a temere, la mia spada saprà difenderti da qualunque insidia che il conte Marino osasse tenderti.
SCENA VI. Tommaso Marino e detti.
Tom. (avanzandosi) Il conte Tomaso Marino vi ringrazia, o messer Gritti, delle premure che dimostrate alla nobile sua sposa. Ara. Gran Dio, egli ancora! Num. poveretti noi! Paolo. Signor conte, voi avete tutto ascoltato: ebbene io sono pronto, scegliete l'ora ed il luogo. Ara. Oh, no ! fermati, o Paolo, pensa a tua madre, parti, ritorna a lei, te ne prego, (centro-scena) te ne scongiuro! Tom. Rassicuratevi, o madonna, io so compatire il suo giovine ardore, le sue parole non mi hanno per nulla offeso. Paolo. (fremendo) Signor conte.... Tom. Carissimo cugino, gli amici vi attendono onde partire assieme, perchè la festa è terminata, e le dame poi non fanno che cercar di voi. Il farvi troppo desiderare sarebbe scortesia. Paolo. (fremente di rabbia) Voi mi ponete alla porta, sia pure ; vado, ma ci rivedremo presto, signor conte. (controscena) Cugina, addio. Ara. (traendolo in disparte) Promettimi o Paolo, che non ti batterai con lui e che partirai all'istante per Venezia. Paolo. Ma, mio Dio ! (controscena) Ebbene sì par... ti....rò.... Ara. Grazie, mio buon Paolo. (piangendo) Saluta il padre mio, digli che sua figlia (guardando Tommaso) è fe.... li....ce.... Paolo. Felice!?... Addio. (parte dando uno sguardo d'intelligenza al Marino) Tom. Madonna, quando sarete tornata dalla vialleggiatura, il conte Marino vuol aver esso solo l'onore d'accompagnarvi a Venezia, e dinanzi a vostro padre chiedervi strettissimo conto della vostra fedeltà coniugale! (per partire) Ara. (trattenendolo) Tommaso, che dici mai? Qual infernale sospetto è il tuo? Tom. Basta, o madonna, obbedite o guai a voi, guai al vostro amante. Ara. Oh no! tu non partirai di qui senza aver scacciato da te un dubbio cosi vile ed oltraggioso. Tom. Innanzi a vostro padre, là soltanto, o signora, vi sarà concesso di far brillare la vostra innocenza. Ara.(si pone alla porta e Tommaso la toglie a forza, la rovescia a terra e parte) Dio,Dio mio, iò è troppo ! E' troppo soffrire. (ricade piangendo, Nunciata corre a sollevarla) Io non reggo, non reggo a tanto vituperio.(cade nelle braccia di Nunciata)
FINE DELL 'ATTO PRIMO. ATTO SECONDO
Giardino - È notte.
SCENA PRIMA.
Ara e Legorina che piange.
Ara. Via, non piangere, Legorina: a me vicina nulla devi temere poichè nessuno oserà farti violenza. Leg. Santo Iddio, non è per me, o signora, che io temo, ma per mio padre, per mia madre, poveri vecchi: che sarà avvenuto di loro? qual dolore avran provato allorchè tornando dal campestre lavoro non han più ritrovata la loro figliuola. Ara. Tranquillizzati, essi sono al fatto di tutto e fuori d'ogni pericolo; Padre Luca, dietro mio ordine li nascose nel proprio convento. Leg. (le cade alle ginocchia, ma vien rialzata e stretta al seno da Ara) Grazie, grazie mia benefattrice: hanno ben ragione a Milano di chiamarvi l'angelo della consolazione, e di amarvi come una madre. Oh siate le mille e mille volte benedetta, che Iddio vi rimuneri del bene che fate al vostro simile. Ara. Povera fanciulla, prega il buon Dio, pregalo di cuore per me, poiché le preghiere di un' innocente giovinetta sono sempre da esso ben accetta. Leg. Oh si! sempre e con tutto il fervore lo pregherò, ma come mai,o mia buona signora, è riuscita a sventare una simile trama ? Ara. Resa avvertita della sciagura che ti sovrastava, corsi alla tua casa, e vi giunsi appunto nell'istante che priva di sensi i bravi del conte te ne strappavano. Quei miserabili, vedendo giungere una carrozza cogli stemmi del loro signore, credettero che fosse egli stesso venuto a prenderti; dimodochè, invece di porti nella lettiga che seco avevano all'uopo, ti posero nella mia carrozza e propriamente fra le mie braccia. Leg. Mio Dio! e se vi avessero riconosciuta? Ara. Era impossibile poichè era bene incappucciata ed avvolta in un ampio mantello; poscia nulla aveva a temere poiché chi guidava la carrozza era mio cugino, il quale col suo ferro bastava a porre in fuga quei vili prezzolati. Leg. Vostro cugino? Povero signore, dov'è ch'io possa ringraziarlo! Ara.È ritornato a Milano ad avvertire padre Luca che voi siete qui. Leg. Quali pericoli, o signora, incontraste per me, ma se il conte scoprisse ogni cosa, qual vendetta non ne trarrebbe egli? Ara. Per me non pensarci, o fanciulla. Iddio mi salverà dell'ira sua. Entr'oggi, fors'anco fra pochi istanti , sarà qui padre Luca per condurti presso i tuoi genitori finché vi avrò trovato un sicuro asilo, e di tutto provveduto. Leg. I vostri beneficii, o signora, li porterò sempre scolpiti nel cuore, ed unitamente ai miei genitori farò voti per la vostra felicità. Ara. La felicità non è per me. Io, nobile e doviziosa sono costretta ad invidiare la contadina che sotto ai più cocenti raggi del solo suda o fatica per guadagnarsi il pane.
SCENA II.
Nunciata spaventata e dette.
Nun. Oh mio Dio ! mio Dio !... Ara. Che hai Nunciata, perchè tanto spavento? Nun. Siamo perdute, o Signora, il conte è qui. Ara. Gran Dio, qui il conte! Leg. Oh ! sventura! Num. Si, è qui accompagnato dai suoi infami cagnotti. Oh ! se vedeste che faccia, che faccia che ha! sembra un vero basilisco, ha i capegli irti, gli occhi che pare gli vogliano sortire dal'orbita, insomma fa veramente paura. Ara. Legorina, Legorina, va, nasconditi, nasconditi là nella mia camera. Nun. Si, si nascondiamoci, fuggiamo. Leg. E voi, o signora? Ara. Io! Io rimango ad affrontare la sua collera. Leg. Oh no ! Nun. Non s'arrischi, signora. Sa pur di che è capace il conte. Ara. Io non lo temo; andate, ve ne prego, lasciatemi sola con lui. (Mentre Nunciata e Legorina piangendo si staccano dalla contessa e fanno per ritirarsi nella camera da essa additata, entra il conte Marino con molti bravi; le donne si fermano sulla porta, spaventate. Il conte si avanza. I bravi si dividono ai lati).
SCENA III. Tommaso Marino, Bravi con fiaccole accese,e dette.
Tom. Fermatevi. (alla contessa) Ma brava la signora contessa ; sapendo quanto mi vanno a sangue le belle forosette, si prese la premura di procurarmene una, e precisamente quella da me tanto desiderata ; abbiate o signora, la mia riconoscenza. Ara. (con dignità) Signore, io tolsi questa ragazza dalla sua casa onde sottrarla alle persecuzioni d'un vile, e per risparmiare a questi una nuova infamia, un nuovo delitto. Tom. Avete però scelto , o madonna, un' assai pericolosa dimora per nascondere la vostra protetta. Ara. Io saprò guardarla, difenderla, a costo della vita istessa. Tom. Ammiro il vostro coraggio ; ma saprete benissimo, che coloro i quali ebbero l'imprudenza di contrastare il passo a quell' uomo, rimasero schiacciati. - Orsù adunque, o signora, a me quella fanciulla. Leg. (abbracciando Ara) Oh salvatemi, salvatemi, signora. Ara. Qual diritto avete su lei, signor conte? Essa non v' appartiene, e se io, debole donna, non avrò abbastanza forza per farle scudo, invocherò le leggi della giustizia. Tom. Sia pure, o madonna ; ma per ora v' impongo d' obbedirmi. Ara. (facendo scudo a Legorina) Oh mai ! mai ! prima d'arrivare a lei, dovrete calpestare il mio corpo. Tom. E sia, o maledetta.... (fa per slanciarsi su Ara, entra padre Luca)
SCENA IV. Padre Luca, e detti.
Luca. Fermati, o sacrilego. Tom.Maledizione ! Voi in casa mia ? Luca. Sì, per proteggere la virtù da voi tanto oltraggiata. Tom. Davvero che vostra paternità si fa un grande onore col proteggere una vil femmina del volgo, ed una sì impudica donna! (contro scena d' Ara e Legorina). Luca. Impudica desse ! o messere, rispettate la vostra nobile sposa, la più virtuosa, la più sublime delle donne. Tom. Oh si, infatti la donna che m' avete messo al fianco è un vero angelo di purezza e di candore. (ridendo) Povero reverendo, certo che costei non vi ha confessato la sua colpa: ma io la conosco, o frate, e, viva Dio! la punirò severamente. Ara. (con dignità) E di qual colpa volete punirmi? Tom. Oseresti smentirmi? Ebbene, giacchè il vuoi, sia pur palese la tua vergogna, sappiatelo tutti: questa colomba che piange e dà in ismanie se guardo in volto ad una femmina, questa pudica e celeste creatura che parla sempre di virtù, d'umiltà, di religione , è la donna la più svergognata (controscena di Ara, ecc.) essa osò contaminare la mia casa, oscurare il mio blasone dandosi nelle braccia di suo cugino messer Paolo Gritti. Guardatela tutti, guardatela, e vedrete se non la condanna lo stesso suo pallore. Ara (vorrebbe parlare, ma soffocata dal dolore, dà in un dirotto pianto nascondendo il volto sul seno di Padre Luca). Luca. (con energia) Messere, vi sono ancora altre più orribili infamie, più vituperevoli calunnie per quest'innocente creatura ? (alzando la testa di Ara) Ara, povera vittima, alzate la fronte ed imperturbabile guardate in volto il vostro calunniatore ; guardatelo o buona creatura, e vedrete se esso potrà sostenere la vostra vista, se il suo sguardo non cadrà avvilito al suolo! Ara. Uomo fatale, perché perseguitarmi in tal modo? merita forse tale strazio la donna che ti ha tanto amato e che ancora ti ama ? Oh ! Tommaso toglimi la libertà, la vita, ma in nome di Dio non coprirmi di simile infamia, di tanto obbrobrio ! Tom. È forse mia la colpa, se colsi un uomo nelle vostre stanze, mentre colle più affettuose parole vi esortava a fuggire secolui? Niegatelo se il potete, che colui lo amate più che un cugino; che colui, seguendomi sempre come l'ombra del mio corpo, spiava tutte le mie azioni per correre poscia raggiante di gioja a ragguagliarvene, e raccogliere il premio del suo operato nelle vostre braccia! Ara. Oh ! cessate una volta d'insultarmi con così infame e vile calunnia! Oh padre ! troppo, troppo io soffro. (piangendo e nascondendo il volto nel seno di Luca) il cuore mi si spezza dal dolore. Luca. Povera creatura! (volgendosi al conte) Messere, la vostra infamia ha oltrepassato ogni limite, ordinate ai vostri bravi che sgombrino il passo, ond' io possa uscire con queste sventurate. (prende Ara e Legorina per mano per partire) Tom. Frate, non stancare la mia pazienza e lascia quelle donne, ed esci prima che ti rimandi al convento col capo rotto. Luca. Messere, l'orgoglio e la prepotenza degli uomini non bastano ad intimorire chi confida in Dio e si fa difensore del debole oppresso. Tom. Per l'ultima volta, lascia quella fanciulla o vedrai se il cielo ti salverà dalla mia collera. Luca. (ponendosi davanti, facendole scudo) Venite venite a prenderle, o conte, se ne avete il coraggio. Toni. Miserabile! (fa per inveire sul frate). Luca. Ferite, immergete pure il vostro ferro nel mio cuore; la mia morte sarà un rimorso di più che vi perseguiterà sino all'ora estrema, in cui comparir dovrete innanzi al tribunal di Dio. Tom. (all'imperturbabilità del frate ringuaina la spada) Orsù, vattene, e teco conduci quella fanciulla; ma essa, essa sola. Luca. La contessa Ara pure deve seguirmi, essa più non appartiene al marito che l'ha così infamemente calunniata; essa ritornerà a Venezia da suo padre. Andiamo, o mie creature, da questa casa maledetta, ove la terra è un vulcano sotto ai nostri piedi.(fa per partire, ma il Marino ed i bravi si mettono alla porta) Tom. Basta, basta, o frate; vattene, ti replico, prima che mi penta d'averti tanto concesso. Quel'a donna deve rimanere, nessuno fuori di me ha il diritto di comandarle, quando essa avrà espiate le sue colpe, io stesso la condurrò da suo padre. Luca. Messere, il marito che diffama l'onestà della propria moglie perde su lei ogni diritto, (agli sgherri) Sgombratemi il passo, lasciatemi partire. Tom. (ai bravi) Impadronitevi di costui, ed in catene sia tratto nel più oscuro sotterraneo di questo palazzo. (i bravi eseguiscono) Ara. (frapponendosi) Oh! no, Tommaso, non macchiarti di un sì vile delitto; io rimango, buon padre, lasciatemi al mio destino. Conducete con voi questa fanciulla e la mia Nunciata. Nun. Oh no, no, io non v'abbandonerò. Ara. Ubbidisci, mia cara, (controscena) lo voglio. Leg. Mia benefattrice! Nun. Povera signora!(s'abbracciano piangendo) Ara. (staccandosi con dolore da esse) Padre , a voi le affido ; pregate Iddio per me com'io lo pregherò per voi. Luca. (con dolore) Contessa, siete veramente decisa a rimanere ? Ara. Sì. Tom. (ai bravi) Lasciate che quel frate e quelle fanciulle se ne vadano. Luca. (volgendosi al conte) E voi, o messere, guardatevi dal torcerle un sol capello, poiché lassù v' è un Dio il quale può con una mano alzare la vittima e coll'altra abbattere e gettare nella polvere il carnefice. Tom. (con un gesto imperioso indica al frate d'uscire; il frate prende per mano le due fanciulle e sta per andarsene quando queste si staccano da lui ed accorrono ad Ara, che avrà aperte le braccia. S'abbracciano e si baciano più volte con affetto, quindi tornano al frate che esce dando un ultimo sguardo ad Ara ed al Conte, il quale con un gesto gli addita la porta. Ara sarà caduta in ginocchio colle mani giunte in alto di pregare.
FINE DELL'ATTO SECONDO. ATTO TERZO
Sala elegante, porta segreta a sinistra porta praticabile a destra con alcova nel fondo, ove si finge un trabocchetto.
SCENA PRIMA.
Tommaso solo.
Tom. (guardando dalla finestra) Mosca e Fierotto non sono ancora di ritorno; che il colpo fosse loro fallito? è impossibile, il loro braccio è fermo; oh non v'ha dubbio, il bel cugino di mia moglie a quest'ora non è più. (passeggiando per la scena) Quel superbo veneziano osò sfidarmi e ben fece; così egli stesso diedemi in pugno il ferro per colpirlo. Si, io già aveva divisato di levarmelo dai piedi, ma non però affidandomi alla sorte d'un duello; essa è troppo incerta, io voglio essere sicuro del fatto mio. Oh ! ecco Mosca e Fierotto di ritorno; dall'ilarità che traspare dai loro volti sembrami che tutto sia andato a seconda dei miei desiderii. SCENA II. Mosca, Fierotto e detto.
Mos. Illustrissimo.... (inchinandosi) Tom. E così, come andò ? Fie. Benissimo. o messere. Giunti che fummo alla rotonda di S. Ambrogio ad Nemus, ci ponemmo in agguato nascosti dietro un albero. Passati in fatti pochi minuti, esso comparve, discese da cavallo e data una guardatina all'ingiro, si mostrò contento d' esser giunto pel primo, legò ad un albero il cavallo e si sedette su d'un sasso onde aspettarvi. Noi che gli eravamo alle spalle uscimmo dal nostro nascondiglio o senza dargli il tempo di fiatare gli serrammo addosso con un paio di colpi così bene aggiustati che rimase all' istante cadavere. Prima d'andarcene lo abbiamo steso sul terreno e postagli in mano la sua spada così che sembra proprio caduto in duello. Tom. Siete veramente sicuri d' averlo freddato ? non avreste commessa una balordaggine come.. Mos. Come.... allorchè trattossi di rapire la bella Legorina, vuol dire sua signoria ? No, no, questa spedizione la ci andò proprio come si dice coi fiocchi. Fie. Magnifico signore, stia pur tranquillo, se non sarà oggi, sarà domani ; ma la bella setaiuola la ci capiterà fra i piedi. Non è vero ? (a Mosca) ATTO TERZO
Mos. Vivaddio ; non vi saranno sempre nè mogli gelose, nè frati che la proteggano, quella pettegola. Toni. (dandogli una borsa con denaro) Eccovi pagato il vostro servigio e il vostro silenzio. Per madonna Ara come per tutti, quel messere è caduto in duello. Pie. V.E. ha abbastanza prove della nostra segretezza, e poi paga troppo bene i nostri deboli servigi. Tom. (a Mosca) Ora recatevi da madonna Ara, ditele che qui l' attendo, che ho d'uopo parlarle. (Mosca e Fierotto s'inchinano e partono) Paolo Gritti non mi dà più noia; ora, alla sua bella cugina ; è necessario che le parli onde indurla ad accettare questa da me tanto desiderata separazione. Sarà poi cosa assai difficile poiché quella donna è un vero modello di rassegnazione e di pazienza; ad onta di tante ingiurie e soprusi non si decise mai ad andarsene a Venezia da suo padre. Questa volta la voglio far finita, il supposto amore col cugino me ne dà tutto il diritto. Il tribunale deciderà in mio favore, il mondo tanto facile a credere al male, biasimerà la colpevole moglie, ed applaudirà al marito che lungi la caccia dal talamo disonorato. Vivaddio sono stanco d' aver fra i piedi quella pinzocchera, che sindaca ogni mia azione, che storna ogni mio progetto , una donna infine piena di scrupoli ed eccessivamente gelosa. Oh ! eccola, come è triste, sembra che il cuore le sia presago dì ciò che ho a dirle (va ad incontrarla con un sorriso di scherno). Vi domando perdono, o madonna, se mai v' avessi tolta alle vostre religiose occupazioni.
SCENA III. Ara entra a passo indeciso, e detto.
Ara (con dignità) Tommaso, è vero che desiderate parlarmi? Tom. Si, e dovete ascoltarmi senza interrompermi e usando di tutto il vostro sangue freddo. Ara. Mi proverò. Tom. Sarà pel vostro meglio.(la fa sedere) Il destino, o signora unì la vostra alla mia destra, ma disgraziatamente noi non siamo nati l'un per l'altra. Ara. Non vi basta , o signore, la mia rassegnazione ? volete che baci i ceppi con cui mi avete avvinta? Tom. No, madonna, desidero anzi liberarvene ed è appunto per questo che vi ho fatta chiamare. Sì, perchè questi ceppi che ci tengono avvinti entrambi si debbano finalmente spezzare. Ara. Vi intesi, o conte ; sogni, illusioni, speranze, tutto m' avete tolto. Ogni ora della mia vita, che segnar potevate con nuove gioie, voi le avete al contrario tormentate con nuovi martiri, con nuove torture ; pure, rassegnata io chinai la fronte e diedi il più grande esempio d'abnegazione, sola, abbandonata, passai i giorni, notti intere, nel pianto e nelle più deplorabili angoscie, e voi immerso nei piaceri, nei delitti, non vi degnaste mai di rivolgermi una parola che non sia di disprezzo, di derisione, e non bastando tutto ciò, qui ora mi faceste venire per darmi un colpo così terribile, cosi mortale. Tom. Dovete incolpar voi stessa della vostra sorte, e dopo l'onta recata al mio nome, essermi grata se mi limito a cosi mite vendetta. Ara. La tua è un'infame calunnia; innanzi a Dio ed agli uomini giurerò sempre che sono innocente. Oh Marino!.. dillo francamente che stanco sei della compagna che Dio ti ha posto al fianco, rea la vuoi d'una colpa onde aver il diritto di sbarazzartene per darti più liberamente ai vizi ed ai delitti. Oh, Tommaso, sposo mio, (cade alle sue ginocchia) non rendermi cosi sventurata, fa che mai non m'allontani da te, che innanzi a tutti io possa portar alta la fronte e che nella tomba possa recare, se non il tuo amore, almeno la tua stima. Oh mio Tommaso l'orribile tuo dubbio fu passeggero, tu lo sai che sono innocente, tu mi stimi, m'ami ancora non è vero? Ma dillo, dillo in nome di Dio, arreca, una volta questa consolazione all' infelice tua sposa. (piangendo dirottamente gli abbraccia le ginocchia) Tom. E' impossibile, o signora. Ara. Mio Dio, che ti ho mai fatto per odiarmi in tal modo? Io sventai è vero, molti tuoi progetti, soccorsi alcuni di quei miseri che caddero in tua disgrazia, ma ciò feci pel tuo bene; poichè il loro odio un giorno o l'altro ti sarebbe stato fatale. Tom. E di chi si è valso la signora contessa per compiere sì santa missione? di un cugino che contraccambiò col suo amore. Ara. (interrompendolo) Basta, basta; tale ingiuria mi fa inorridire, il tuo dubbio è terribile ed infame. Conte, per ciò che hai di più sacro, per la santa memoria di tua madre, ti giuro che sono innocente. Oh, Tommaso, toglimi tu stesso questa travagliata vita, fa che esanime cada ai tuoi piedi, ma non volermi rea di simile colpa. Rendimi, rendimi la tua stima, fa che per bocca tua risuoni ancora illibato il nome della tua sposa, di colei che un dì ebbro d'amore strappasti dalle braccia paterne ; di colei che ti ha sempre amato e che sempre pregò Iddio, acciò, ravveduto, un dì ti ridonasse al suo amore. Non essere così spietato, o Tommaso, rivolgi alla tua povera compagna una parola di conforto, di consolazione, ed essa tutto dimenticherà; abbi pietà di lei. Ma guardami, guardami in volto, e vedrai se su esso avvii l' impronta del delitto ! (contro scena) Guardami adunque ; mio Dio, sono diventata cosi orrida che volgi altrove lo sguardo? Oh ! dimmi, dimmi una parola che mi rassicuri che tutto non è spento l'antico amore, ed il color smarrito vedrai ritornare su queste pallide guancie. I miei occhi, allorché non spargeranno più lagrime, li vedrai nuovamente brillare, fissandosi nei tuoi come in quei giorni tanto beati.
Tom. E' inutile, o signora. Non v'affaticate a far sfoggio d'eloquenza, poiché io so benissimo qual valor dare ai vostri giuramenti d'amore e di fedeltà, e giacché non volete ritornarvene a Venezia, domani sarete invitata a comparire davanti ai tribunali a dar conto del vostro operato. Ara. Oh infamia! Ebbene, lo vuoi? sia pure; ma guardati che la mia innocenza confonderà, annienterà l'infame tua calunnia; mille testimonii sorgeranno a difendermi. Frate Luca e mio cugino saranno i primi a smascherarti. Tom. Vostro cugino ? (con ironia) Vi sfido, o madonna, a citarlo. Ara. Che ! gli avreste forse teso qualche agguato, una qualche insidia? Tom. Leggete, o madonna, il biglietto di sfida recatomi questa mane da un suo servo. Ara. Un biglietto di sfida! Dunque vi siete battuti ? oh, non lo credo, egli m' aveva promesso di non battersi. Tom. Leggete. Ara. ( leggendo tremante ) “Conte Marino, vi aspetto alle due dietro il bosco di S. Ambrogio ad Nemus ; colà noi ci batteremo all' ultimo sangue. Nessun testimonio vi dev' essere, fuorché Dio, l' unico favore che esigo da voi è di non farne parola a mia cugina; se rifiutate siete il più vile degli uomini. Paolo Gritti ". Conte, che ne avvenne di lui ? parlate.... ve ne prego. Tom. Sapendo quanto egli vi era caro, in sulle prime non feci che parare i suoi colpi; ma poscia, vedendo che avrei finito col rimanere vittima del suo furore, tirai un colpo ch' egli non seppe parare, cosicché la mia spada andò a conficcarsegli nel cuore. Ara (inorridita cade su una sedia coprendo il volto con le mani) Morto! morto per mia cagione! morto egli cosi buono, cosi giovane, cosi generoso ! e sua madre, la sua povera madre allorché riceverà cosi infausta notizia, il dolore, la disperazione l'uccideranno ! la sua ultima parola sarà una maledizione sul suo assassino e su me, cagione di tanta sventura! Tom. Io non l' ho assassinato, signora, bensì ucciso in leale duello. Uno di noi doveva morire, la fortuna fu dalla mia parte. Ara. Oh no ! voi l' avete fatto assassinare dai vostri sgherri, lo leggo sul vostro volto , nel vostro sogghigno infernale; voi siete troppo vile per aver misurato la vostra spada colla sua. Tom. Signora! Ara. Marino, che il sangue di quell' infelice ricada sul tuo capo, che la maledizione di sua madre ti segua dovunque. Mostro il più detestabile: io ti ho amato, amato quasi al delirio, ma ora il mio amore si è convertito in odio, ed anche nel sepolcro ti esecrerò, ti maledirò. Assassino, assassino! piantami quel pugnale che ti pende dal fianco, e toglimi una volta all'obbrobriosa tua presenza. Voci interne. Morte a Tommaso Marino ! morte al gabelliere ! Tom. (scuotendosi) Che ascolto! non ho frainteso ? Ma queste sono grida di morte ! Maledizione ! chi tanto ardisce? (snuda la spada e si precipita alla porta).
SCENA IV. Mosca , Fiorotto, e detti.
Mos. Messere, molti e risoluti popolani vogliono appicare il fuoco al palazzo se subito non consegnate Ara a suo padre. Ara. Mio padre a Milano! mio padre qui! Oh fu Iddio che me l'ha mandato. Tom. ( guardando fieramente Ara) Madonna,davvero che la trama fu ben ordita, ma per il conte Marino, co 'esto sarà un magnifico giorno. Ara. Conte, vi giuro che.... Tona. Basta, non una parola di più; pensate piuttosto a riconciliarvi con Dio, poiché la vostra candida anima fra poco volerà a lui. (ai bravi) Si chiudano tutte le porte, e dalle finestre si faccia fuoco su quei miserabili. Chi di voi mi porterà la testa di frate Luca avrà da me oro e protezione. Andate che pur io vi seguo. (partono: Ara fa per seguire il Marino a carpone ; questo si scioglie) Madonna, vado a ad incontrare il vostro nobile padre, (mentre fa per uscire si sentono più vicino le grida e i colpi di fuoco) Voci interne. Morte a Tommaso Marino !...
SCENA V. Fierotto, Mosca e detti.
Fie. Fermatevi, o messere, ogni resistenza è inutile ; quei maledetti sono già entrati in palazzo. Tom. (per partire) Viva Dio, noi li scacceremo. Mos. E' impossibile ; le loro forze sono maggiori delle nostre, tutto cede al loro furore. Tom. Chiudi quelle porte ! (eseguisce) Voce interna. Ara, Ara, figlia mia! Ara. (accorrendo) Padre, padre! Tom. (afferrandola) Non gioire, o maledetta: egli non ti avrà nemmeno estinta, vieni. (la trascina nel fondo dell'alcova) Ara. (dibattendosi) Tommaso, Tommaso, lascia ch'io accorra a mio padre,... che torni con lui a Venezia.... pietà, pietà mio Dio! Tom. (l'alza da terra, batte col piede, ed il pavimento si apre) Ara. Soccorso, soccorso, ah! (vien gettata nel trabocchetto) Tom. Finalmente sono libero. (uscendo dall' alcova stravolto) Voce interna. Ara.... Ara.... Voci di popolo. Morte a Tommaso Marino, morte! Mos. Messere, essi sono qui; noi siamo perduti. Tom. (aprendo una porta segreta) No. Fuggendo da questa segreta siamo salvi, seguitemi, (Scompaiono tutti.) Cala la tela.
FINE DELL' ATTO TERZO. ATTO QUARTO Interno d'nna bettola, porta praticabile nel mezzo, altre laterali, finestra nel fondo. Un piccolo lume appeso rischiara la scena, panche, tavoli vasi e mezzine di terra, con vino, pane e formaggio.
SCENA PRIMA. Menico, solo.
Men. (uscendo dalla camera a sinistra) Mia moglie dorme saporitamente, sta bene, così qualunque cosa avvenga nella mia osteria, nessuno lo saprà. Quella benedetta donna, non c'è che dire, è un vero tesoro, ma in quanto a segretezza potrebbe stare al pari del primo trombettiere di Milano. Veramente già non c'è da stupirne, poichè è una malattia comune alle figlie di Eva. Oh! se desse fossero un po' meno ciarliere, un tantino meno curiose, un pochettino più costanti in amore quanto sarebbero più pregevoli! (suonano le ore) Oh! ecco le dieci, e non compar nessuno al convegno. Davvero che mi piacerebbe sapere cosa mai vorrà quel merciaio che è qui d'alloggio, da quei contadini per dar loro un appuntamento nella mia osteria a quest'ora con tanto mistero; basta, egli non sembra un uomo di mal affare, e poi.... e poi.... vengan danari, che del resto son qua io. Odo delle padate.... (guardando dalla finestra) sono dessi. (apre) Eccomi a voi, amici carissimi.
SCENA II. Pietro, Contadini e detto.
Men. Buona sera alla bella compagnia. Pie. Buona sera, Menico ; vedi che ad onta del temporale, che minaccia farsi serio , noi non siamo mancati al convegno! (guardando all'intorno) anzi siamo giunti per i primi, poichè messer il merciajo, non è ancora qui. Men. E' vero, ma non dubitate che non mancherà, intanto che lo aspettate , accomodatevi qui e ristorate lo stomaco con questo pane e formaggio innaffiato da un buon fiasco di vino. Pie. Bravo , è proprio quello che fa al nostro caso, non è vero compagni? Un momento però, mio caro, chi lo paga poi ? Perchè come al solito noi, almeno io, non ho in tasca la croce d'un quattrino. Men. Ma chi volete che lo paghi, se non il merciajo? Pie. Il merciajo! Men. Proprio lui. Giunti che sieno, falli aspettare, mi disse, porta loro da mangiare e da bere, che pago io. Pie. (sedendo) Ha detto proprio che paga lui ? Alla salute adunque ! Evviva il merciajo ! (bevendo) Che bravo gobbo, non vedo l'ora che egli giunga per sapere cosa diavolo vuole da noi. Sai, Menicuccio mio, che la condotta di quell'uomo è avvolta in un gran mistero ? Men. (ride). Pie. E perchè ridi? Men. Perchè noi siamo tanti babbei a credere ch'egli sia un merciaio. (contro scena) Sì, miei cari; se colui è un merciaio, io sono nientemeno che sua eccellenza il governatore di Milano, o sua maestà cattolica Filippo II di Spagna. Pie. Che diavolo bestemmi adesso !? Men. Te ne convincerò.. In primo luogo, se hai fatto attenzione, quel messere vende la sua merce al disotto del costo; io te lo posso accertare, perchè di quegli articoli sono abbastanza cognito. Il secondo, per essere un merciaio, è troppo ben educato e gentile. Il terzo poi è, che l'altro giorno mentre se ne stava rinchiuso nella sua camera con alcuni de' suoi colleghi, al certo merciai al par di lui, spinto dalla curiosità mi posi ad origliare, confesso di non aver fatto una bella cosa, ma che volete? è una abitudine che ho contratta da mia moglie. Ho udito a proferire dal gobbo queste precise parole: Miei cari amici, fra pochi giorni noi potremo finalmente far ritorno alla nostra cara patria " In quell' istante un importuno avventore mi chiamò, e felice notte, non potrei udir altro. Pie. Davvero che in coteste parole c'è del mistero, ma quello che mi dà maggiormente a pensare è l'averci fatti qui riunire e a ora sì tarda. (pensando) Ah! corpo di mille diavoli, credo d'aver indovinato, anzi ci giuocherei la testa che quel messere altro non è che un capo di contrabbandieri, il quale avendo a fare qualche gran colpo ha d'uopo d'uomini pratici del luogo e segreti, quindi si è a noi diretto. Men. Bravo, per Dio! tu devi aver proprio colto nel segno; certo quel dabben'uomo altro non può essere che un capo di contrabbandieri. Evviva lui, dunque, poiché in fin dei conti un contrabbandiere non è un brigante; eppoi, per me fosse anco mastro impicca, vorrei che quel caro gobbo se ne stasse qui tutto l'anno, egli paga come un grande di Spagna ed è la più buona pasta d'uomo ch'io conosca. Pie. L'hai tu osservato, Menico? Allorché si parla del feudatario di Cecina, come esso si accende in volto e trema in tutta la persona ? Men. Non ho mai fatto tale osservazione, ma non mi meraviglierei che i servi di quel dannato abbiano fatto a lui pure qualche brutto giuoco. Pie. Potrebbe darsi: quel birbante non lascia nessuno tranquillo. Da un anno che è venuto ad abitare quella rocca sembra che la maledizione del cielo sia piombata sul nostro povero paese; malattie, intemperie, assassinii , rapimenti di donne, quel dannato insomma ce lo ha mandato il Signore per castigarci dei nostri peccati. Oh! qual diversità dall'antico nostro padrone ! quello ci teneva come suoi figliuoli; voleva che ascendessimo al castello e quando non ci si andava, egli stesso discendeva fra noi : questo al contrario non si lascia mai vedere, i suoi servi poi ne fanno di tutti i colori, e non si può nemmeno intendere cosa dicono perché parlano in un gergo tutto loro. Men. Hanno però un metodo speciale di farsi intendere, ed io fui il primo a farne l'esperimento, allorché mi è venuto in capo di chieder loro come si chiamasse il loro signore e da qual parte venisse, che bastonate, che bastonato mi han dato quei birboni; vi assicuro che se non facevo presto a fuggire in cantina m'ammazzavano senza misericordia. (tutti ridono) Pie. Anche il mugnaio di Varzi ebbe la sua buona bastonatura, allorché gli è venuto il ticchio di portarsi al castello; quel povero diavolo ha dovuto starsene a letto 15 giorni. Raccontò nientemeno che arrivato alla distanza di circa 30 passi, udì fischi, urli, ed un scuotersi di catene, da far tremare l'uomo il più coraggioso del mondo. Men. Sfido io ! a casa del diavolo non si possono al certo udire melodiose sinfonie! Pie. Vuol dire che il barba del castello sia proprio il demonio? Men. Ne sono certo, certissimo ; perchè io l'ho veduto come vedo voi altri adesso. Pie, Davvero ! Ma quando? Men. L'altra notte allorché infieriva quel maledetto temporale che tanta rovina portò nei nostri campi, io mi alzai a chiudere la finestra, ebbene, al chiaror d'un lampo vidi il barba uscir dal castello avvolto in un ampio tabarro. Pie. Ed aveva proprio le corna? Men. Non le ho potuto vedere perchè aveva coperto il capo d'un capello a larghe falde ; ma già le avrà avute. Quell'uomo adunque, sfidando il vento, che orribilmente fischiava, il tuono, la grandine, l'acqua che cadeva a diluvio, corse a precipizio giù dal monte. Arrivato al piano, precisamente qui davanti alla mia osteria, si fermò e, come fosse inseguito, si volse indietro, fissò spaventato lo sguardo a terra, poscia gridando: maledizione! maledizione! si pose a correre a rompicollo e disparve nei boschi. Pie. (facendo il segno della croce) Misericordia! Che Dio ci scampi dall'incontrarlo. Men. Ora ditemi, chi può sfidare gli elementi in tal modo, se non il diavolo ? Pie. Sicuro, gli uomini no certamente. Povero il nostro paese; dico io, cosa possiamo sperare di buono avendo per padrone il demonio ? Men. Per me vi giuro, da bettoliere onorato, che se la tira avanti di questo passo, un qualche giorno faccio i miei fagotti, mi prendo sotto il braccio mia moglie, e, felice notte a chi resta, me ne vado. Pie. A Milano tua patria, eh ? Men. No, no, benché siano già scorsi due anni dacché è avvenuto l'orribile assassinio della povera contessa Ara, pure non mi basta il coraggio di ritornare colà. (asciugandosi gli occhi) Vedete amici miei, non posso rammentarmi quell'orribile caso senza raccapricciarei senza che i miei occhi si riempino di lagrime. Pie. Hai ragione, una signora cosi buona, fare una sì barbara fine... Io non ebbi il bene di conoscerla, ma ho udito da mia moglie le di lei buone opere e le di lei sventure. Men. Nell'epoca in cui successe quell'orribile fatto, io mi trovava al servizio del Marino in qualità di cuoco, ed ebbi la mala sorte d'essere presente allorché quell'infelice venne tratta cadavere dallo spaventevole trabocchetto ove il conte l'aveva precipitata. Oh! se udito aveste, figliuoli miei, qual urlo d' indignazione e di dolore risuonò sotto alle volte di quel palazzo a così orribile vista! il padre poi avrebbe straziato il cuore più duro, il più inflessibile. Quasi delirante, il povero uomo si stringeva al seno il cadavere della propria figlia come se volesse farla rivivere ; la chiamava a nome, la baciava innondandole il volto di lagrime. Pie. (interrompendo) Chi sa quante ferite aveva nel corpo quella poveretta! Men. Te lo puoi immaginare, come si sia conciata precipitando in quel profondo trabocchetto irto da tanti taglienti ed acuti coltelli. Oh! Se in quell' istante avessimo avuto nelle mani quel briccone di Marino ti giuro che non gli sarebbe restato nemmeno il naso. Pie. Appunto. Nella storia che mi ha donato il merciaio nulla si dice in proposito di quella canaglia ; è dunque riuscito a fuggire ? Men. Un vetturale asserì che in quella notte fatale un signore, avvolto in un lungo tabarro, appunto come usava il conte Marino, entrò nella sua vettura dicendogli queste misteriose parole : " Va per questa via, ed era la porta Ticinese, non fermarti né volgerti senza un mio comando." Il povero vetturale viaggiò tutta la notte e tutto il giorno; infine; non potendo più reggere, voltossi indietro e vide con somma meraviglia che il forestiero era scomparso. Pie. Al certo se l'ha portato via il diavolo sulle corna.... ma.... Men. Oh! si troverà veh! si troverà. Dio non paga il sabbato. Se comandassi io, e mi capitasse quel messere nelle mani, dopo d' averlo fatto ben frustare a sangue sul cavalletto in piazza del Duomo come si usa, attaccato a quattro cavalli lo lascerei andare per Milano finché gambe, braccia e corpo si fossero separati. Pie. Viva Dio ! certo quella canaglia non merita meno. Ohe! dico io, pare che questo benedetto merciaio si faccia un po' troppo aspettare. Men. Abbi pazienza che verrà, si sarà ricoverato in qualche luogo finchè sia cessata quest'acqua, che sembra voglia subissarci. Pie. Me ne dispiace perché si fa tardi e le nostre donne staranno di mal animo. Men. Di pur francamente che hai un po' di paura d'incontrarti sui monti con messer barba. Pie. Ti confesso che non mi garba niente affatto. Dacchè mi hai detto essere proprio il diavolo, la paura mi si è raddoppiata in un modo straordinario. Men. (ridendo) Sta pur sicuro che questa notte non vai esente d'incontrarlo, perchè approfittando del sconvolgimento della natura escirà dal suo covile per portarsi a visitare le anime dannate. In quanto a me, appena siete usciti, chiudo l'osteria, barrico la porta e tutte le finestre e poi mi caccio sotto le coltri e non apro neanche.... Pie. Neanche al diavolo ! Men. Precisamente neanche al diavolo. (tuoni e lampi mentre apresi la porta e compare)
SCENA III. Marco Cornaro in costume da merciajo con cassetta e merci che depone e detti.
Men. Ajuto ! ajuto! (cade in ginocchio spaventato, come pure gli altri facendo il segno di croce) Cor.Per Iddio, a che tale spavento! Perché tremate in tal modo ? (avrà chiuso la porta e deposto il tabarro) Men. Ah ! siete voi, messer merciaio, proprio voi. Oh ! santi del paradiso, che paura ci avete messa in corpo ! Cor. Posso sapere il perché ? Pie. Diglielo tu il perché. (a Menico) Perchè.... Men. Ecco: il perché è che quel lampo e quel maledetto scoppio di tuono proprio nel momento in cui siete entrato (ridendo) ci ha fatto un certo effetto.... insomma vi abbiamo preso per il Barba del castello, per il demonio. Cor (chiudendo le finestre) Povera gente ! cacciate da voi così sciocche superstizioni, rinfrancate il vostro coraggio, poiché colui che supponete un demonio, è un uomo ! (controscena) Si, un uomo il più infame che la terra abbia potuto generare. Or via adunque rimettetevi dal vostro spavento e bevete, che vi spiegherò il motivo per cui vi ho qui riuniti. (bevono tutti) Men. Bravo, siamo tutti ansiosi di saperlo. Pie. Siamo tutt'orecchi per ascoltarvi. Cor. In questo poco tempo ch'ebbi il bene di trovarmi fra voi, potei conoscere l'animo vostro, generoso e sincero. Men. (facendo un inchino) Grazie. Cor. Più volte v'ho udito imprecare, maledire il Barba del castello. Le vostre donne, i vostri figli gli ho colti colle lagrime agli occhi in ginocchio, che pregavano il Signore onde volesse por fine ai loro mali col toccare il cuore di quel mostro che fa di voi così infame governo. Pie. Purt roppo noi siamo all'ultima disperazione: le spose, le figlie rapite e disonorate da quel mostro, le messi nei campi calpestate, gli armenti sgozzati da'suoi satelliti, e chi alza un grido d'indignazione viene da esso fatto uccidere a colpi di pugnale. Cor. Incolpate voi stessi, che non avete abbastanza energia di far valere i vostri diritti contro un simile despota. Pie. Lo sa Iddio, se mille volte non ci è venuto in capo di farlo ; ma sempre ci trattenne il pensiero che andando male il colpo, avessimo a rendere sempre più crudele la sorte delle nostre famiglie. Cor. Or bene, se un uomo tocco nel più profondo del cuore dalle vostre sventure a voi si unisse per ischiacciare, per togliere dal mondo questa serpe che tanto vi avvelena la vita, lo accettereste ? Men. (ridendo) Cosa diavolo dice questo povero gobbo! Messer merciajo, quest'uomo sareste forse voi ? Cor. Ciò vi sembra strano, non è vero? Vi sembra impossibile che un deforme sia atto a tale impresa? V'ingannate, buona gente ; egli ha un'anima ed un braccio di ferro, egli condusse ben più ardite imprese che questa, egli sui campi di battaglia fece strage dei nemici del suo paese Men. (da sè) Mi piacerebbe a vederlo, con quella gobba Pie.Vogliamo credere ciò che dite, ma voi non sapete con che razza d'uomo si ha a che fare, chi sia il Barba del castello, come lo chiamiamo noi. Men. Eppoi, dico io, come stanarlo dal suo forte, circondato da tanti sgherri, pronti e risoluti a farsi ammazzare per difenderlo. Cor. O a fuggire allorchè hanno a fare con uomini gagliardi ed arditi, poichè quest'infame ciurma è vile in faccia al pericolo. Voi però non sarete soli nella lotta, no; poichè tutti i più arditi contadini di questi dintorni, questa notte per ordine mio si troveranno nel bosco vicino al castello, ove non aspettano che il sospirato momento di punire il loro tiranno. Orsù adunque, scuotetevi dell'inerzia, unitevi ad essi e vendicate le sanguinose offese ricevute, pensate ai vostri compagni, ai vostri fratelli che quel miserabile ha fatto frustare a sangue; alle spose, alle figlie, che quel libertino vi ha a viva forza strappato dalle braccia per soddisfare ai suoi disonesti capricci. Men. Prima, o messere, sarebbe necessario sapere quale interesse vi guida ad intrapprendere tale impresa. Cor. La compassione, l'amore verso il mio simile. Men. La compassione, l'amore verso il vostro simile ?... Bella cosa davvero, ma noi non muoviamo un passo di qui se non ci scoprite l'esser vostro, poiché in voi tutto è mistero. Cor. Lo saprete ad opera compiuta. Men. Eh no, signor mio : a noi piace veder chiaro nelle cose, scusate ; ma se non ci dite chi siete, noi non muoviamo un passo di qui! (volgendosi ai compagni) Non è vero compagni ? Pie. Certo. Cor. Ebbene, uomini di poca fede, l'ardire, il coraggio suppliranno al numero. Badate però che i vostri vicini avranno tutto il diritto dei chiamarvi vili é pusillanimi, (nel mentre è per partire odesi bussare alla porta) Pie. Vili, pusillanimi, oh mai! Men. Si bussa.... Chi mai può essere a quest'ora? (tutti si alzano) Cor. Silenzio , non fiatate, che vado a vedere chi è. Voce (interna) Sono Tonio, aprite per carità, devo parlare a Pietro. Pie. Mio fratello ! Dio! che sia accaduto qualche sciagura ? (apre)
SCENA IV.
Tonio spaventato e detti.
Tonio. Oh fratello, quale sventura! quale sventura! Tua moglie... Pie. Che avvenne a mia moglie ! Parla in nome di Dio ! Tonio. Fu rubata dai bravi del Barba. (controscena tutti) Pie. (fuori di sè) La mia sposa rubata dal Barba! Oh ! morte e dannazione a quel miserabile ! Per tutti i demoni dell'inferno, se quell'infame l'avesse nascosta anco nelle viscere della terra io saprò strappargliela, (tutti gli si fanno intorno per trattenerlo) Indietro , lasciatemi.... Voglio correre a lei, voglio salvare la mia sposa, quell'angelica creatura che amo più di me stesso. In questo istante mi sento d'essere divenuto un leone, mi sento la forza di scannarli tutti quei miserabili. Tonio. Fratello, non cimentarti, poiché forse a quest'ora la poveretta è già in castello. Pie. In castello ! Oh sventura, sventura ! (cade addolorato su d'una sedia) Men. Ma e tu non sei stato buono a chiamar soccorso e ad accorrere in tempo ad avvertirci ? Cor. Pietro, (battendogli una spalla) Pietro, esiti ancora ? Pie. (scuotendosi) No per Iddio ! Amici, chiunque sia quest'uomo, noi dobbiamo ubbidirlo perché ce lo inviò la Provvidenza. Si, noi dobbiamo fare tutto ciò ch'egli è per imporci. Tutti Sì! sì! Men. Non mi oppongo più ; evviva il nostro capitano ! (da sé) E' gobbo, ma non importa. Pie. Conducetemi al castello e vedrete quanto valga il braccio di questo contadino ferito nel più profondo del cuore. Men. (prendendo una forca) Se non è il demonio, vi giuro, che ci penso io ad infilzarlo come un ranocchio. Tutti. Morte al feudatario di Cecima, morte ai suoi cagnotti ! Cor. Una parola, miei cari... una parola.... Men. Parlate pure, capitano, ogni vostro detto sarà per noi un comando. Cor. Tutto ciò che si trova in quella rocca sia vostra preda, come pure vostra preda il famigerato Minelli, e gli altri cagnotti, ma che il feudatario vivo, sia mio, ve lo chiedo in guiderdone dell'opera mia. Giuratelo ! Pie. E' impossibile... noi vogliamo ucciderlo, vogliamo fargli scontare uno ad uno tutti i martirii che quel miserabile ci ha fatti soffrire. Cor. Ma se vi dicessi ch'io ho più di voi tutti il diritto di vendicarmi su di lui? Men. Voi dunque lo conoscete ! Cor. Si, per mia sventura ! Men. E chi è desso ? Cor. Giuratemi, che vivo sarà dato nelle mie mani, ed io vi svelerò il suo nome. Pie. (stringendogli la mano) Lo giuro per tutti. Il suo nome? Cor. Inorridite, egli è il conte Tommaso Marino. Men. Che ! ? l'assassino d'Ara! Cor. (gettando indietro l'abito col gobbo) Di mia figlia poiché io sono Marco Cornaro. lutti. (scoprendo il capo) Suo padre ? Men. Al castello, amici, al castello. Tutti. Morte al Barba ed ai suoi cagnotti ! Al castello, al castello.
FINE DELL'ATTO QUARTO. ATTO QUINTO Sala nel castello di Cecina: porta a destra, altra a sinistra, finestra a sinistra.
SCENA PRIMA. Marino, solo.
All' alzarsi della tela l' orchestra suonerà una sinfonia, nel fondo a poco a poco appare un giardino rischiarato dalla luce elettrica, nel mezzo di esso si vedrà avvolto in un lungo e bianco velo, ed il capo cinto di una ghirlanda di rose, Ara, circondata da un gruppo di fanciulle in banche vesti disposte in bell'ordine, intrecciando ghirlande di fiori. Il conte Marino addormentato su d'una poltrona quasi fosse attratto da forza magnetica si alza a poco a poco e s'avvicina al sogno, ma giunto a toccarlo tutto sparisce, ed al medesimo posto sorge nuovamente il fantasma di Ara spaventevole e con alzato il braccio destro imbrandendo un pugnale. Il conte Marino spaventato, retrocede, ponendosi la mano nei capelli, nella massima disperazione, cade mettendo un grido soffocato. Lo spettro sparisce. Il conte si desta e alzatosi, tremante, corre per la scena colle mani nei capelli, vorrebbe gridare, ma non potendo si trascina carpone ove trovasi il campanello, lo scuote con forza, e barcollando ricade preso da un rantolo affannoso.
SCENA II. Mosca, Bravi con fiaccole accese, e detto.
Mos. Eccoci, o messere. Oh! che veggo il padrone svenuto ! (lo sollevano da Terra, lo adagiano su d'una poltrona) Che diavolo gli è accaduto? sembra voglia andarsene all'altro mondo. Messere! messere! non sente. Che sia morto? Oh ! no ! apre gli occhi. Messere ! mi riconosce ? Sono Mosca, il suo fedele servitore. Tom. (fissandolo in volto) Sei tu, mio buon Mosca ? Mos. Proprio io, messere ; come va che la trovo in così deplorabile stato? Toni. (guardando d'intorno) Più nulla. (prende la mano di Mosca) Il mio volto è pallido, la mia mano è agghiacciata, non è vero ? Mos. Como quella di un morto ! Tom. (con spavento) Come quella di un morto ! (ai bravi) Andate voi altri, che fate li ?... (i bravi partono inchinandosi). Siamo soli ? non voglio che quella canaglia rida alle mie spalle, e nemmeno tu, sai! Mos. Io credo di non aver mai riso, allorchè la S. V. si degnò volgermi la parola, Tom. SI! sì! di te non posso dir male. Ebbene, senti ; ma non ridere veh, te ne prego (a voce bassa) Desidero che domani mattina ti porti alla chiesa di Varzi a far dire delle messe in suffragio di Ara. Mos. (meravigliato) La signoria ha detto.... Tom. Che tu vada alla chiesa di Varzi a far dire delle messe in suffragio di Ara, perché poc'anzi ho fatto un terribile sogno, un sogno che quasi mi faceva morire di spavento. Mos. Possibile che un sogno abbia potuto incutere tanta paura alla S. V.? Tom. Esso fu spaventoso, assai spaventoso ; ho sognato di vedere un incantevole giardino, ove al suono più melodioso, comparve Ara abbigliata come il giorno in cui l'ho condotta all'altare, il suo volto era tranquillo, sereno, un riso soave le sfiorava le labbra, inebbriato, io feci per avvicinarmi, por toccare quel'e candide vesti ; ma in un attimo essa disparve, per ricomparire, oh orrore ! in quale stato ?... Le guance scarne, l'occhio infossato, lo sguardo minaccioso, i capelli ed il volto cosparsi di sangue, le vesti lacere e lorde di fango. Essa teneva teso verso di me il braccio armato d' un acuto pugnale. Inorridito, io caddi a'suoi piedi, piansi, pregai, chiesi perdono. Finalmente quel fantasma disparve in un trabocchetto, ed io mi svegliai. Dimmi ora se questo non fu un terribile e spaventoso sogno!? Mos. Ne convengo!Ma la S. V. sa meglio di me che i sogni altro non sono che fantasmi dell'esaltata nostra immaginazione. Tom. E l'altra notte, allorchè gli elementi tutti sembravano scatenati contro la terra, io era desto, mio caro, e non nel mio castello, ma bensì nel bosco che mette a Varzi. Or bene, là, nel più folto di esso, una voce che sembrava uscita dalle viscere della terra, proferì queste maledette parole : " Marino.... rammentati i tuoi delitti!" Io tremai da capo a piedi, ma rinvenuto in me stesso, trassi la spada, mi slanciai in quel bosco.... ma nulla, nulla vi rinvenni. Mos. Quella notte era assai burrascosa, o messere! il vento mandava fischi così orrendi, che sembravano sibili d'anime dannate. Ma, buon signore, non si lasci dominare da simili superstizioni; i morti non sono da temersi! Vi è piuttosto un vivo in questo paese, o messere, che mi dà a pensare. Tom. Che dici tu mai ? Forse un qualche milanese ? Mos. Chi lo sa da dove diavolo sia sbucato quel marrano. È una brutta figura con tanto di gobba, un merciaio girovago, il quale si è fatto amico di tutti, ed ha sparso per Cecima e nel dintorni molte copie stampate della storia d'Ara. Tom. Per Iddio ! che mi vai tu dicendo ? ma ciò è terribile, quell'uomo è pericoloso e bisogna che io l'abbia nelle mani. Mos. Sarà fatto, o Messere ! Prima di domani quel povero gobbo farà le corna alla luna. Oh ! mi scordava di dargli questa lettera, giunta coll'ultimo corriere da Milano. Tom. Da Milano! Ma perché non me l'hai recata appena giunta ? (la prende) Mos. Non dubiti, che corsi subito ; ma vedendolo addormentato non ardii destarlo. Tom. Oh avresti fatto assai meglio: lasciami solo. (Mosca parte) Chi mi scrive? il conte di Castelnovate, l'unico amico rimastomi, il mio compagno di bagordi e di stravizi. Leggiamo : " Mio caro amico, tutto va a gonfie vele, fui a Venezia ed i pirati Uscocchi accettarono con immenso piacere ad imprestito la somma che loro hai offerto e la tua alleanza. La caduta della Repubblica Veneta è imminente, poiché i congiurati son molti e potenti. Gli Spagnuoli non attendono che il momento d'entrare in città. Ritornato in Milano, mi portai a far visita al governatore, il quale mi assicurò che S. M. Filippo II ha già firmato il tuo perdono; dunque rallegrati, che ben presto potrai ritornare in Milano. " (passeggiando) Oh finalmente potrò riacquistare i beni che mi furono confiscati e divenire ancora il potente, il temuto conte Marino. Oh inesprimibile gioja che m'innebria e che tutto mi fa dimenticare. Sì, io tornerò ad abitare. Si; io tornerò ad abitare il mio magnifico palazzo a S. Fedele. (con racapriccio) Oh ! mai, mai, esso mi ridesterebbe sempre alla memoria il mio delitto ; in ogni sala, in ogni angolo di esso mi sembrerebbe vedere quella donna. d'udirne il pianto, l'ultimo suo grido di morte, quel grido che mi sembra udire fra i monti, fra i boschi, negli angoli più remoti di questo castello. (dando un grido di spavento e ponendosi le mani nei capelli fissa lo sguardo a terra, poscia passandosi la mano sulla fronte e volgendo d'attorno lo sguardo, indi si scuote e compreso di vergogna esclama) Oh ! scaccia, scaccia da te una volta, o Marino, codesti rimorsi che ti rodono il cuore e ti rendono pauroso peggio d' un fanciullo. (scuote il campanello, compare Mosca)
SCENA III. Mosca e detto.
Mos. Illustrissimo. Tont. Che il mio più ricco equipaggio sia pronto, poichè da un momento all' altro potremo porci in viaggio per Milano. Mos. Porci in viaggio per Milano ? Ci pensi bene, o messere, sa che colà tira un'aria malsana. Tom. (ridendo) Credi tu ch'io abbia a portarmi laggiù prima d' essere sicuro che mi sia stato levato il bando ? Mos. Come? ci sarebbe forse la speranza...! Tom. Il conte di Castelnovate m'assicura in questa sua lettera che presto potrò ritornare alla mia bella e ricca Milano. Oh, fosse domani quel giorno da me tanto desiderato ! Mos. E si che la S. V. mercè le premure de'suoi servi, in questo paese se la passa molto bene! (sorridendo) Anche questa notte abbiamo preso un certo selvatico che V. S. aggradirà assai volontieri. Tom. Davvero ! Basta, me lo presenterai, e se ne varrà la pena.... Mos. Altro che valerne la pena, basta il dir che la S. V. le ha dato più volte la caccia. Tom. Possibile ! E chi è dessa ? Mos. E' nientemeno che Legorina, la bella setajola del borgo degli Ortolani. Tom. (alzandosi sussultando) Legorina! Ma come mai si trova d'essa in questi monti ? Mos. (ridendo) Padre Luca l'ha sposata ad un giovane mugnaio di questo paese. Tom. Oh ! stupenda combinazione. Dimmi un poco, è ancora bella come allora ? Mos. Assai più, o mio signore : il matrimonio le ha fatto molto bene. Tom. Per simile selvaggina la mercede sarà doppia. (dandogli una borsa) La dividerai cogli altri. Mos. Grazie, generoso signore. Tom. Ch'essa sia all'istante qui condotta. Mos. Si figuri. (s'inchina a parte) Tom. Chi mai avrebbe detto che quella bella creatura, che tanto mi fu contrastata, ora mi avesse a cader nelle mani e con tanta facilità! Oh se padre Luca lo sapesse, come andrebbe in tutte le furie ! Appunto ; quel dannato d'un frate, quando mi saprà a Milano, ardirà egli ancora farmi guerra e ribellarmi contro il popolo ? Ma che devo io temere da quel mentecatto, da quel fanatico quando il governo mi protegge? e poi con un po' d'oro non potrò io forse sbarazzarmi anche di lui ? Oh eccola, quale rimembranza mi desta essa mai!
SCENA IV. Logorino trascinata da Mosca, e detto.
Mos. Avanti, avanti, bella sposina, il mio padrone non è il demonio, anzi è un bell'uomo; è ricco assai ricco, sii buona ed abbi giudizio che sarà a tuo vantaggio. (Mosca parte ad un cenno del conte) Leg. (fa essa pure per partire ; ma la porta si chiude, e il Marino le si pone davanti ; riconoscendolo essa dà un grido e si nasconde il volto nel grembiale) Ah ! Tom. (da sè) Mi ha riconosciuto. (forte). Perché quel grido, mia cara? sono forse il drago delle sette teste per incuterti tanto terrore! (appressandosi) Via adunque, giù quelle mani, scuopriti quel bel visino. Credi forse che voglia farti del male ? Che voglia rinchiuderti in qualche sotterraneo di questo castello ? Oh no ! t' inganni ; allorchè mi avrai giurato di non lasciar sfuggire con anima vivente il mio nome farai ritorno al tuo sposo, (controscena) carica di doni, o mia cara, poichè questa è la mia usanza. Leg. Mi lasci partire, e questo sarà il più bel dono che mi potrà fare. Tom. Sempre ritrosa come per lo passato! via sii buona : ora che ti sei maritata, certi scrupoli dovresti averli messi da parte. (togliendo da uno scrigno una collana ed altri gioielli) Ti piace questa collana? Guarda come s' adatterebbe al tuo bel collo; via adunque, giù quelle mani che io stesso te ne voglio adornare; vedi questo stupendo fermaglio, questi anelli, sono legati in oro, e sono tuoi se mi darai un bacio. (fa per abbracciarla) Leg. (schermendosi) Indietro signore, non mi toccate; riponete quelle gioie, esse mi abbruccerebbero la carni. Lasciatemi partire, lasciatemi ritornare dal mio sposo, ve ne prego, ve ne scongiuro. Abbiate pietà di me, in nome di Dio lasciatemi partire. Tom. T'ho forse detto di volerti qui trattenere? Domani, carica de'doni e dei miei favori farai ritorno al tuo sposo, ma questa notte no, devi rimanere al mio fianco, qui a me vicina. (tenta tirarla a sè, ma essa si dibatte e cerca fuggire) Oh Legorina, seducente Legorina, da quanto tempo desiderava quest'istante. Non far cosi, sii buona, non isfuggirmi, lascia che m' innebrii nei tuoi begli occhi, che respiri il tuo balsamico alito. Leg. Indietro che mi fate paura, che mi fate orrore. Tom. Bada, o malaccorta, che sei nel castello del tuo signore, e nessuno potrà accorrere in tua difesa. Leg. Uomo detestabile, voi potete uccidermi, potete precipitarmi in un abisso come avete fatto di vostra moglie ; ma giammai contaminarmi. Indietro, assassino d'Ara, e tremate, tremate che dal suo sepolcro essa risorga e venga in mio soccorso. Tom. (da sè) In suo soccorso ? (con ispavento guardando attorno) Che io dovessi ancora vedere quell'orribile fantasma! No, no, non è possibile. (ridendo) I morti non abbandonano i loro avelli. Orsù, Legorina, tu devi esser mia, mia m'intendi, nè cielo, né uomini, nè demoni potranno toglierti dalle mie braccia. Leg. Ah ! (cade a terra, presa dal terrore, raccapricciando, e mentre il Marino è per sollevarla odonsi grida d'allarmi e colpi di fuoco) Tom. (scuotendosi ed abbandonando Legorina) Queste grida, questi colpi di fuoco ? (accorre alla finestra, l'apre e vi scorge il chiarore del fuoco) Che veggo ! Non m'inganno.... una moltitudine di contadini armati circonda il mio castello: (continuano i colpi) le sentinelle cadono trucidate: quei demoni si sono impadroniti del ponte levatoio.... lo varcano.... i miei cedono le armi; alcuni vengono fatti prigionieri, altri fuggono.... vigliacchi ! Il fuoco venne appiccato ovunque. Oh, maledizione! Oh, ecco il mio fido Mosca alla testa d' altri bravi..., ma anch'essi vengono soprafatti dal numero. Coraggio, figliuoli, il vostro signore viene a voi, (snuda la spada ed è per partire ; vedendo Legorina in atto di preghiera si ferma) Leg. Ara, anima santa, grazie, grazie che anche dall'alto de'cieli hai vegliato su me. Tom. (con rabbia) Non illuderti, o donna, poiché non sono ancora vinto ; la mia presenza infonderà nuovo coraggio ne'miei, ed il mio ferro annienterà que'montanari. (mentre è per uscire si spalancano le porte ed entrano dalla sinistra)
SCENA V. Pietro, Manico, contadini con armi e fiaccole, e bravi legati e detti.
Pie. (entrando) Legorina ! Legorina! Leg. Pietro ! Sposo mio. (fa per accorrere al marito, ma il Marino l'afferra e la fa girare dietro di sè. Pietro, Menico, contadini fanno per scagliarsi su Marino) Pie. Vile persecutore, lascia quella donna. Tom. (indietreggiando e ponendo la spada al petto di Legorina che manda un grido di spavento) Se volete ch'essa viva lasciate liberi i miei bravi, uscite tutti e ritornate ai vostri monti. Men. Morte al Marino. (fanno per inveire su lui) Pie. (frapponendosi spaventato) Oh no ! fermatevi, esso me la ucciderebbe.
SCENA VI.
Marco Cornaro, vestito da merciajo e quattro mascherati dalla porta destra, e detti.
Cor. (disarma il Conte; gli toglie Legorina, che corre a Pietro, i quattro mascherati colla massima destrezza pongono una fascia nera agli occhi del conte, lo sollevano in alto di peso e lo portono via senza lasciargli il tempo di proferir parola) Cor. (trovandosi nel mezzo della scena ed alzando le mani giunte al cielo) La mia vendetta incomincia. Onnipossente Iddio, fate che possa condurla a fine. (l'interno del castello è in fiamme. Cala la tela. Quadro.)
FINE DELL' ATTO QUINTO. ATTO SESTO
Interno d'una prigione rischiarata da una lampada appesa alla porta. Un sedile di pietra. Porta comune a dritta, altra a sinistra. Porta grande ad arco nel fondo chiusa che, all' aprirsi lascia scorgere il mare.
SCENA PRIMA.
Marco Cornaro, mascherato. Guarda donde odonsi i lamenti del conte Marino.
Cor. Perdono, perdono, mio Dio, se il mio cuore anzichè commuoversi a pietà per quel miserabile batte di gioia ad ogni suo grido di dolore. Voce interna del Marino. Basta.... basta.... Oh dannati ! Cor. Soffri, soffri, maledetto : per terribili, angosciose sieno le tue torture, non arriveranno mai a pareggiare le mie e quelle della mia povera sorella, la madre di Paolo. Troppo, troppo abbiam sofferto per sentir pietà dell' inumano che ci ha privati degli esseri più cari, che col loro amore infioravamo la nostra vita. Oh eccolo : vien qui condotto. Finalmente è giunto l'istante di levarmi questa maschera , e di mostrarmi sotto il vero aspetto, e di poter schiacciarlo sotto il peso dell'ira mia. Frenati, frenati, cuor mio, ancor per pochi istanti. (si ritira in fondo:)
SCENA II. Tommaso Marino dalla sinistra sostenuto da due àgozzini, e detto.
Tom. (sofferente) Basta, basta.... dannati d' inferno.... cessate dal tormentarmi ... Guardate come le vostre arroventate lime mi han fatto sanguinolente le mani.... Barbari ! abbiate pietà! Ahi ! maledetti, maledetti, (cade sul sedile affranto dal dolore, sorretto dai due agozzini, i quali partono ad un cenno di Marco che si trova in fondo, Tommaso rinvenendo a poco a poco e girando d' attorno lo sguardo) Più nessuno; come al solito, i miei agozzini mi hanno lasciato solo, anche colui.... quel demone mascherato, che ogni giorno ordina ad essi di orribilmente martoriarmi, se ne è partito. Ah ! l'odio di quell' uomo verso di me è immenso, poiché ad ogni mio lamento, ad ogni mia imprecazione, gli occhi suoi lampeggiano della più satanica gioia. Chi è egli mai ? Quella voce sembrami averla udita altre volte.... perchè mi fa tremare! Oh demoni dell'inferno, quando si sqarceranno queste orribili tenebre ? Le mie ricchezze, tutti i miei tesori sacrificherei per penetrare questo fatale mistero, per sapere in qual paese, in quale città mi trovo, in mano di chi io sono. Cor. Conte Marino rammentati i tuoi delitti. Tom. (scuotendosi) Ah ! ancora quella voce. (si volge pauroso, e vedendo Marco che si sarà levato la maschera ed avvicinato getta un grido e cade coprendosi ti volto esclamando) Marco! Marco! Cor. Si, Marco Cornaro, il padre della povera Ara, il padre della tua vittima ; si, io che sapendola tanto infelice al tuo fianco, corsi a Milano per ricondurla a Venezia. Padre Luca e molti popolani mi si unirono per toglierla dalle tue mani, ma troppo tardi io giunsi; perchè penetrato che fui nella stanza donde udii partire le sue grida, un lembo di veste che sorgeva dal pavimento mi fece accorto che il più nero delitto era stato consumato, che una vittima era stata immolata. A così orribile vista fui per impazzire dal dolore, ma non lasciai quel luogo fatale prima d'aver rinvenuta la salma della sventurata mia figlia, e su di essa, giurata la più giusta, la più santa vendetta. Tom. Tua figlia era colpevole d'impudico amore, ed io ho vendicato l'oltraggiato onor mio. Cor. (convulso di rabbia) Taci, sacrilego ! ad un uomo corrotto ed infame, quale tu sei, è sempre delitto la virtù. Mia figlia era innocente e pura, essa t'amava del più ardente amore, e tu dopo d'averle fatto soffrire tutte le più orribili torture, dopo d'averla infamata e vilipesa, troncasti i suoi giorni. Oh! pur troppo difficilmente s' inganna un padre sulla sorte de'suoi figli, poiché il giorno in cui l'hai condotta all'altare io piansi come un fanciullo, il cuore mi presagiva la sventura che colpirla doveva. Oh ! che tu sia maledetto! Se dovessi ascoltar l'odio, lo sdegno che in petto mi rode, con questo ferro dovrei farti a brani il cuore! (controscena di Marino) ma ben altra e più obbrobriosa morte ti aspetta, sappilo una volta, tu sei nei Piombi di Venezia. Tom. (coprendosi il volto) Nei Piombi di Venezia! Ah ! sono perduto. Cor. Sotto mentite spoglie percorsi la Lombardia, il Genovesato, il Piemonte, non risparmiando nè danaro nè disagi, e dopo due anni scoprii finalmente il tuo nido, conte, e quella misteriosa voce, che hai udito in quella tempestosa notte nei boschi di Varzi, era la mia. (controscena) Marino, ora che mi hai conosciuto, è duopo ti dica che la morte del traditore, dell'assassino ti aspetta. Toni. La morte ! Oh no !... non potete poiché io non sono suddito vostro, ma di S. M. Filippo II di Spagna. Cor. La Veneta Repubblica ne ha tutto il diritto. poiché oltre all'essere l'assassino di mia figlia e di mio nipote Paolo Gritti (controscena) non una parola di discolpa, i tuoi stessi sgherri lo han confessato, oltre a questi delitti hai cospirato a suo danno imprestando ingenti somme ai pirati Uscocchi, onde ribellarli contro di essa. Tom. Menzogna, infame calunnia, che la Serenissima Repubblica inventò per perdermi. Ma io sarò ascoltato, saprò difendermi da ogni accusa. Cor. La Serenissima Repubblica ha creduto risparmiartene la fatica pronunciando la tua sentenza in una seduta dei Tre. Tom. Ed il tenore di questa sentenza... ? Cor.E' la morte. Tom. Quest' è un abuso di potere ; per condannarmi ci vogliono delle prove. Cor. Delle prove ? Le lettere che hai scritto agli Uscocchi ti vennero intercettate e si trovano presso il consiglio dei Tre. Orsù, conte, preparati a ricevere i conforti della religione, un ministro di Dio ti sta innanzi. (addita fra Luca che entra ad un di lui cenno) SCENA III. Frate Luca, e detti.
Cor. Buon padre, esso è nelle vostre mani: sia vostra cura il tergere l' anima sua dalle colpe che gli contrastano l'eterno riposo. (parte) Luca. La pace sia con voi, o messere. Tom. (alzando il capo riconosce frate Luca) Padre Luca, voi qui! Luca. Messer conte, se ascoltato aveste i consigli di quest' umile servo di Dio, vissuto avreste felice e beato al fianco d'una tenera sposa che vi idolatrava, e ridotto non sareste a questo terribile istante. Tom. A questo terribile istante ! Non avvi adunque nessuna speranza di salvezza? Luca. Potreste credere che non abbia esecuzione un decreto del consiglio dei Tre ? Tom. Purtroppo lo so, che sono inesorabili. Oh sventura ! (ricade abbattuto sul sedile) Luca. Ravvisate in essa, o conte, la mano di Dio, la quale sa raggiungere il colpevole nell' angolo il più remoto della terra. Tom. (tremante) Anche voi, ministro di Dio, vi unite col Cornaro ad una vendetta, ad un assassinio ? Luca. V' ingannate. Dopo la morte dell'infelice Ara, domandai d'essere allontanato da Milano ; fui mandato a Venezia, ove i di lei parenti vennero più volte a trovarmi nel mio convento. Il padre di Ara un giorno scomparve da Venezia, e per due anni nulla si seppe di lui ; finalmente, or sono pochi giorni, vi ritornò raggiante di gioja : Ara sarà vendicata, furono le sue prime parole. Intesi poi la catastrofe avvenuta, ed oggi solo mi fu dato di vedervi ed assistervi. Tom. (lasciando cadere il capo fra le mani) Fatalità ! Luca. Messer conte, io qui non venni per accrescere i vostri rimorsi con iscoraggianti pitture, ma bensì per mostrarvi che al disopra di noi vi è un Dio ministro di giustizia e di pace, un Dio che avete mal conosciuto, un padre pieno di misericordia che non si arma della spada vendicatrice se non quando il peccatore non ha più diritto, nè mezzi di pentirsi ; io venni colla sua parola a rendervi meno tristi gli ultimi istanti che vi rimangono. Tom Mal facesti, o frate, perchè nulla affatto m'importa della tua pietà! Esci adunque e lasciami in pace. Luca. Messere, pensate che siete per passare da questa all'altra vita. Non mi negate, o conte, il bene di rimanere in questi istanti al vostro fianco ; fratello, credetemi, non è questa la prima volta ch'io mi trovo da solo a solo con uomini colpiti dalla legge. Essi prima, come voi, mi hanno respinto ; ma poscia ammolliti dalle mie preghiere, sentirono il bisogno e la soddisfazione di tenermi vicino, d'ascoltare dal mio labbro la santa parola di Dio. Tom. Bella soddisfazione davvero! Luca. Conte, conte, in nome di Dio, di quel Dio che vi vede nell'animo, che vi legge nel cuore, vi scongiuro di non voler partire da questa terra senza aver confessato i vostri trascorsi. Dio perdona al peccatore che a luì fa ritorno ; l'ora estrema sta per suonare, non vogliate, o fratello, morire impenitente, non vogliate imprimere, voi stesso, sulla vostra colpevole fronte il marchio fatale della riprovazione ; approfittate dei brevi istanti che ancor vi rimangono, disingannatevi, ritraetevi dalle inique massime che vi hanno perduto ; non illudetevi, non pascetevi di chimere, le quali spariscono all' avvicinarsi della morte ; abbandonatevi ai conforti della religione, elevate il vostro spirito a Dio, il quale può trasformare in candida farfalla il più lubrico verme, il più velenoso rettile. Tom. Invano ti sei proposto di svegliare in me i rimorsi : altro tu non fai che sparger olio sulle bragie, per me altro tu non sei che un carnefice di più venuto a tormentarmi. Lasciami adunque, ch'io non ti ho cercato, voglio morire a modo mio, voglio morire dannato; esci, va, ti dico , che già hai stancata la mia pazienza. Luca. E tu quella di Dio ; se non ti penti egli abbasserà il tuo orgoglio, come la tempesta abbassa le messi nei campi.
Tom. Maledetto ! se non esci, per il tuo Dio con queste catene ti.... Luca. (intrepido gli presenta il Cristo che tiene alla cintola) Tremate, o conte, di dover fra poco trovarvi dinanzi a questo supremo ed inesorabile giudice. Tom. (retrocede convulso di rabbia) Perchè la terra non si apre sotto i miei piedi ! Perchè questa prigione non s'inabissa e sotto alle sue rovine non mi seppellisce onde togliermi alla vista di quest'uomo, la di cui presenza mi rende più terribile, più spaventosa la mia situazione!
SCENA IV. Marco Cornaro, Gran Cancelliere, Giudici, il Cancelliere, Guardie, Agozzini, e detti. Cor. Reverendo padre, abbastanza fu concesso alla vostra pietà ; egli vuol morire qual visse, sia pure. Luca. Oh no, messere ! non negatemi la consolazione di condurre quest' anima ai piedi del trono di Dio. (Al suono d'una lugubre campana il fondo della scena si apre, e si vedrà un battello parato a nero. Vi saranno in esso quattro uomini mascherati, due con fiaccole accese, due che remigano, e due carnefici in abito rosso) Tom. (a tal vista ammutolito, si stringe colle sue mani quelle del frate, ed ol remodo impaurito esclama) Padre, quel battello ?... Luca. E' quello della morte. Tom. (con raccapriccio) Della morte ! si copre il volto colle mani) E dovrò proprio morire.... Oh grazia! grazia! Cor. Conte Marino, rammentati i tuoi delitti, pensa che l'ultima ora di tua vita è suonata. Tom. Padre, padre Luca, dite loro che mi lascino vivere, che ho paura della morte.... che io non voglio morire.... Luca. Inutile speranza! Iddio perdona, non gli uomini. Conte, pensate che fra pochi istanti l'anima vostra si separerà dal corpo, dite, dite adunque la parola ch'io aspetto, dite che siete pentito. Tom. (dopo una scena muta che deve indicare lo spavento, il rimorso, l'angoscia, dice) : Sì, sono pentito: (cade nelle braccia del frate piangendo. Ad un cenno del Giustiziere, gli agozzini escono dal battello e fanno per prendere il Marino, il quale si svincola e corre precipitoso nel battello! il frate lo segue a passo lento. Al suono della campana, il carnefice pone un sacco nero indosso al Marino; il frate si pone in ginocchio a pregare. Ad un cenno del Giustiziere ed al suono della campana il battello parte; lampi e tuoni, quindi un tonfo nell'acqua e un grido soffocato) Voce interna. Si è fatta giustizia! Cor. (ponendo un ginocchio a terra) Ara, figlia mia! Paolo! siete vendicati! (Cala la tela)
FINE.