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PARTIGIANI DELLA ZONA 15 FRAMMENTI DELLA RESISTENZA ITALIANA E MILANESE a cura di Giuseppe Deiana con la collaborazione di Luigi Borgomaneri Rossana Cipolloni, Andrea Marino e Antonia Peruchetti Romagnoli Liceo scientifico "Salvador Allende" Milano 1997 PARTIGIANI DELLA ZONA 15 FRAMMENTI DELLA RESISTENZA ITALIANA E MILANESE

a cura di Giuseppe Deiana

con la collaborazione di Luigi Borgomaneri Rossana Cipolloni, Andrea Marino e Antonia Peruchetti Romagnoli Biblioteche comunali di Milano

Liceo scientifico "Salvador Allende" Milano 1997 Copiright 1997 Liceo Scientifico Statale "Salvador Allende" via Ulisse Dini 7 20142 Milano Fotocomposizione e stampa Attilio Negri srl Rozzano (Milano) Finito di stampare nel mese di gennaio 1997 Edizione fuori commercio realizzata con il contributo del Consiglio di Zona 15 e della Provincia di Milano In copertina: monumento ai caduti della zona 15-Milano (via Boifava 17) Ricerca storica realizzata negli anni scolastici 1995-96 e '96-97 da un gruppo di studenti e docenti del Liceo Scientifico Statale "S. Allende", coordinati dal prof. Giuseppe Deiana, docente di Storia e Filosofia. Il lavoro è dedicato, per un verso, ai docenti ed agli studenti sensibili ai temi dell' educazione alla ricerca ed al recupero della memoria storica e convinti della funzione etico-civile della scuola, per un altro ai cittadini ed ai partigiani della Zona 15 di Milano, nel comune ricordo dei "ragazzi della Baia", caduti nella lotta di Liberazione.

Docenti: Rossana Cipolloni, Giuseppe Deiana, Andrea Marino e Antonia Peruchetti Romagnoli.

Studenti: Antonio Acocella, Francesca Allaria, Andrea Appiani, Carlotta Arosio, Eva Arosio, Rossella Balassino, Marco Belli, Luna Boschetti, Liviana Bottos, Michele Campanella, Valentina Canevari, Valeria Carteri, Adele Casali, Michela Castelazzi, Francesca Cerminara, Michele Cerminara, Alessandra Costa, Enzo Gabriele, Vincenza Gagliardi, Francesca Galbusera, Daniela Ghidoli, Alex Guida, Angelica La Francesca, Daniel Liber, Lara Luppi, Ivana Pancotti, Elisabetta Patroncini, Chiara Peyrani, Clelia Pennella, Eugenio Perrotta, Simona Raiteri, Elisabetta Randolfi, Daniela Ricciardi, Elena Riganti, Alessia Rognone, Daniela Saia, Simone Salvaneschi, Chiara Sanvito, Giovanni Saverino, Chiara Semenzato, Filippo Sperandeo, Enrico Spinelli, Gianlorenzo Thione, Stefano Torre, Daria Tosato, Sara Vacchini e Marco Verzotti.

Collaboratori esterni: Luigi Borgomaneri e Sergio Manera

Questo volume, fino ad esaurimento delle copie stampate, è disponibile gratuitamente presso il Liceo Scientifico "S. Allende", in particolare per le scuole e gli enti che se ne servano per uso didattico e divulgativo. Indice

Presentazione, di Giuseppe Deiana, p. 9

I. Introduzione. La Resistenza e la ricerca didattica, di Giuseppe Deiana, p.15

II. La Resistenza in Europa, in Italia e a Milano, di Michele Cerminara, Andrea Appiani e Antonio Acocella,

     p. 31

III. La Resistenza in zona 15, di Luna Boschetti e Eugenio Perrotta, p. 55

IV. La 1132 e la 1142 Garibaldi nel III settore, di Luigi Borgomaneri, p. 63

V. Autobiografie partigiane: i "ragazzi della Baia" e gli altri, a cura di Giuseppe Deiana, p. 67

VI. I caduti dello Stadera e gli altri. I nomi del monumento, di Francesca Allaria, Marco Belli, Valeria

     Carteri, Giuseppe Deiana, Angelica La Francesca, Daniel Liber, Lara Luppi, Clelia Pennella, Chiara 
     Semenzato, Simone Salvaneschi, Filippo Sperandeo, Stefano Torre, p. 85

VII. Inserto fotografico: le immagini e le lapidi dei caduti, a cura di Sergio Manera, p. 97

VIII. La figura di Giancarlo Puecher, di Vincenza Gagliardi e Elena Riganti, p.109

IX. Un museo della Resistenza nella zona 15. Progetto di riuso del complesso della Cascina Chiesa Rossa,

     di Rossana Cipolloni, p. 121

X. Appendice 1. I monumenti della Resistenza a Milano. Con l' intento di documentare le immagini della

     memoria, di Antonia Peruchetti Romagnoli, p. 125

XI. Appendice 2. Elaborazioni grafiche sul tema della Resistenza, di Carlotta Arosio, Rossella Balossino, Adele Casali, MichelaCastellazzi, Francesca Cerminara, Alessandra Costa, Daniela Ghidoli, Ivana Pancotti, Alessia Rognone, Daniela Saia, Sara Vacchini, p. 133

XII. Appendice 3. Letteratura e Resistenza, di Francesca Galbusera, Chiara Peyrani, Elisabetta Randolfi e

     Chiara Sanvito, p. 143

XIII. Appendice 4. La morale nella Resistenza, di Michele Campanella, Angelica La Francesca e Gianlorenzo

     Thione, p. 157  Prefazione

Questa pubblicazione, nata dal lavoro di ricerca degli studenti con l' accurata guida di alcuni docenti, prosegue la tradizione, ormai consolidata per il Liceo Scientifico "S. Allende", di prestare particolare attenzione alla zona 15 nelle proposte di percorsi didattici, che sono stati sviluppati ed editi, nel corso degli ultimi anni scolastici. Leggendo queste pagine si avvertono le presenze, le voci, gli ideali dei giovani che abitarono il quartiere e la città, in un periodo molto infelice per la democrazia del Paese, giovani che non esitarono a sacrificare le proprie vite. Le loro età sono spesso confrontabili con quelle degli studenti che questo lavoro hanno impostato e condotto con estrema serietà, sentendosi depositari e custodi degli stessi ideali che hanno riscoperto, percorrendo vie e piazze, riportandoli alla memoria e che sapranno, a loro volta, ci si augura, conservare e tramandare. Se ancora vi fossero dei dubbi, il lavoro svolto dagli studenti del Liceo vuoi significare che, anche nelle scuole, si può fare storia attraverso la ricerca sul campo; vuoi significare che generazioni appartenenti a periodi storici diversi possono incontrarsi e lavorare insieme con reciproca stima. Un particolare ringraziamento rivolgo a Luigi Borgomaneri, apprezzatissimo consulente della storia della Resistenza milanese, ai professori Deiana, Marino, Peruchetti e Cipolloni per il supporto didattico e la guida preziosa degli studenti e agli studenti stessi, che tanto impegno hanno profuso. Un ulteriore ringraziamento mi sento di esprimere nei confronti del Consiglio di zona 15, del Comune e della Provincia, per il contributo finanziario generosamente offerto al Liceo, consentendo la pubblicazione di questo volume, che sono molto tentata di dedicare all' on. Luigi Berlinguer, Ministro della Pubblica Istruzione, mentre si appresta a riformare i programmi di Storia, quali dovranno essere svolti nella Scuola Secondaria di 2° grado.

Olga Cafiero

preside del Liceo "S. Allende" Delibera del Consiglio di zona 15-Milano

(...) Quella che si intende dare alla stampa è una ricerca storica, una esperienza scolastica sulla memoria della Resistenza, curata ed elaborata da una équipe di studenti ed insegnanti del Liceo Scientifico "S. Allende" di Milano. Trattasi di un percorso didattico che contribuisce a far conoscere alcuni aspetti della Resistenza italiana ed in particolare di quella milanese attraverso testimonianze e materiali (lapidi, monumenti) che rappresenta in modo concreto "la trattazione di uno dei nodi fondamentali della storia del Novecento: la Resistenza come tema storico-storiografico, etico-civile e didattico-formativo". Una parte di questo lavoro che riveste una particolare importanza per la Zona è quella che contiene "le testimonianze sulla Resistenza in un quartiere operaio, la Baia del Re o Quartiere Stadera"sorto negli anni trenta e che fa parte della Circoscrizione 15 del decentramento amministrativo del Comune di Milano. L' iniziativa del Liceo Allende" è una ricerca sul campo, un contributo alla conoscenza della storia locale secondo una tradizione ormai consolidata per I' Istituto di impegno e di attenzione al territorio del Sud Milano legata al recupero della memoria storica ed alla coscienza ambientale. Questo è il senso per ricordare la Resistenza (...).

II Presidente della Circoscrizione 15 dott. Ing. Arch. Giuseppe Frattini

Milano, 11/09/1996 Presentazione LA MEMORIA DELLA RESISTENZA Un' esperienza di ricerca storica a scuola di Giuseppe Deiana

1. Questo lavoro è nato come esperienza scolastica rivolta a insegnare la Resistenza, cioè a farla conoscere agli studenti in modo concreto, diretto e vivo, mettendoli nella condizione di scoprirla con la propria intelligenza, attraverso la testimonianza e l' esperienza dei partigiani, nel quadro di un approccio culturale ampio e articolato, secondo le possibilità offerte dalla scuola secondaria superiore. Non si tratta, pertanto, di un saggio di ricerca storica, ma semplicemente di un percorso didattico, che pure ha qualche rilevanza storiografica nella misura in cui contribuisce a far conoscere aspetti "periferici" e "marginali" della Resistenza milanese, attraverso fonti orali (testimonianze dei partigiani ancora vivi) e materiali (lapidi e monumenti). Un percorso didattico tra i tanti proposti in questi ultimi anni, di cui segnalo i due curati da Marina Medi (Quaderno n. 9, supplemento al n. 25 de "I viaggi di Erodoto", 1995) e quelli segnalati da Silvana Sgarioto. (in "Italia contemporanea", n. 198, 1995): essi rappresentano un modo concreto della trattazione curricolare di uno dei nodi fondamentali della storia del Novecento: la Resistenza come tema storico-storiografico, etico-civile e didattico-formativo.

2. II lavoro si divide in quattro parti: la prima discute il rapporto tra ricerca e didattica e fissa le coordinate metodologiche di una "sensata esperienza" di educazione alla ricerca e al recupero della memoria storica nella secondaria superiore; la seconda delinea il contesto generale e globale: la Resistenza italiana e milanese, in un quadro europeo, come tema forte del Novecento; l' ultima espone le elaborazioni letterarie e grafiche nate dal confronto tra arte e Resistenza e dalla collaborazione interdisciplinare tra quattro docenti di Storia, Italiano e Disegno-storia dell' arte. Sotto questo aspetto il lavoro risente del debito nei confronti del libro di Claudio Pavone (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991), che è stato scelto come modello storiografico di riferimento, soprattutto per consentire agli studenti di cogliere lo spessore etico della scelta resistenziale, anche in riferimento ai partigiani della zona 15. La terza parte, infine, contiene le testimonianze sulla Resistenza in un quartiere operaio, la Baia del Re o quartiere Stadera, sorto negli anni trenta e inglobato negli anni settanta nella Circoscrizione 15 del decentramento amministrativo del Comune di Milano. Si tratta del cuore del nostro lavoro: la parte più originale. Essa ricostruisce l' esperienza della lotta antifascista, armata e non, attraverso la viva voce dei protagonisti. Sono testimonianze raccolte dagli studenti in riferimento sia ai partigiani che sono ancora in vita sia a quelli che sono caduti durante gli eventi drammatici del triennio 1943-45. Ricerca storica locale, ricerca sul campo, dunque. Niente più di una piccola storia, comunque: il primo tentativo di ricostruzione dal basso, a partire dalle vicende che hanno coinvolto, oltre cinquant' anni fa, uomini e donne di uno dei quartieri allora più estremi del sud Milano, compreso nel III settore dell' organizzazione militare della guerra partigiana (Su questo tema segnalo il particolare il contributo "esterno" di Luigi Borgomaneri, studioso assiduo assiduo della Resistenza milanese e autore del volume fondamentale Due inverni, un' estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia 1943-1945, F. Angeli, Milano 1995). Le finalità di fondo del lavoro di ricerca storica a scuola, inserita nell' attività curricolare, è quella di produrre conoscenze forti e ricche di stimoli per impedire la falsificazione, più o meno consapevole, della storia su cui si esercita oggi il cosiddetto "revisionismo storico". Qui, comunque, ci si limita alla esposizione dei fatti e delle storie di tanti partigiani senza nome, comunisti e non, per rendere un servizio alla verità storica e quindi alla memoria e all' onore civile di donne e uomini sconosciuti della Resistenza, morti allora o ancora vivi oggi. La Resistenza in questo lavoro viene intesa in un' accezione molto ampia: per comprendere gli uomini della zona 15 attivi in città o in montagna, ma anche quelli che sono diventati "patrimonio" materiale e morale della zona 15, come la figura di Giancarlo Puecher (prima medaglia d' oro della Resistenza in Lombardia), a cui è stato intestato il Centro comunitario provinciale di via Ulisse Dini 7; o come quella di Emilio Sarzi Amadè, giornalista prima e uomo politico poi, residente nel quartiere Gratosoglio, il quale ha lasciato il racconto della sua esperienza di lotta partigiana nel volume di Einaudi Polenta e sassi. Una preziosa eredità per le nuove generazioni, garanzia per il presente e, soprattutto, per il futuro.

3. L' iniziativa del Liceo "Allende" si presta ad alcune ulteriori considerazioni. In particolare, come dimostra la pubblicazione di altri lavori (quello sulla cascina Campazzo, quello sulla cartiera Binda,ecc.), essa nasce dal bisogno di continuare a dare un piccolo contributo alla conoscenza della storia locale, tenendo in vita una tradizione, ormai consolidata per l' Istituto, di impegno e di attenzione al territorio del sud Milano, con particolare riferimento alla zona 15, come attuazione del progetto di educazione alla ricerca, al recupero della memoria storica e alla coscientizzazione ambientale, portato avanti dal Laboratorio di didattica della storia. Dal punto di vista più specificamente didattico bisogna aggiungere che esperienze come quella qui presentata possono innanzitutto stimolare tra gli insegnanti un dibattito sull' insegnamento della storia contemporanea e in special modo della storia del Novecento. La Resistenza è certamente uno dei momenti più alti della storia del nostro secolo come "secolo breve"; ma appunto per questo bisogna ripensarla come fenomeno storico ancora in buona parte da interpretare nella sua complessa globalità, oltre che da esplorare nella ricchezza delle testimonianze inedite che può ancora offrire. In questo senso, affrontare con una "ricerca sul campo" il delicato e controverso tema della Resistenza, anche con l' intento di trasmettere agli studenti i suoi valori etico-civili, senza indulgere alle celebrazioni retoriche e acritiche, può risultare una preziosa scelta didattica e formativa. In questo senso per gli insegnanti di storia si pone soprattutto il problema di dare a quei fatti un inquadramento più solido ed una valutazione meno emotiva. Pur con tutti i limiti derivanti dalla stessa natura di ogni ricerca scolastica questo lavoro sulla Resistenza in zona 15 cerca di cogliere positivamente le varie problematiche e tenta di dare loro una risposta per quanto limitata e provvisoria. Ce n' è quanto basta per sconfiggere il pessimismo di chi come Luigi Pintor sostiene: "Sono passati cinquantatre anni, ma è come se queste cose fossero accadute ieri, per chi c' era. Certo non si studiano e non si studieranno mai nelle nostre scuole pubbliche e private, neanche se ministro della istruzione fosse Federico Engels, e i più giovani non ne sanno nulla. Ma è tristissimo che ne giunga per di più alle loro orecchie un' eco distorta e bugiarda" ("Il manifesto", 8 giugno 1996, p. 2). Questo, quindi, uno dei compiti imprescindibili della scuola: garantire la trasmissione della memoria, essere custode della memoria contro le tentazioni dell' oblio e del revisionismo.

4. Abbiamo cercato di ascoltare alcune voci dalla Resistenza, di raccogliere alcune testimonianze per non dimenticare. Abbiamo messo insieme una certa quantità di testimonianze, le quali, in mancanza di iniziative che raccolgano sistematicamente e le sappiano organizzare in un quadro descrittivo ed interpretativo organico, rischiano di andare perdute per sempre. Cinquant' anni dopo, nelle voci e nelle immagini dei protagonisti abbiamo recuperato la memoria di un quartiere animato dallo spirito della Resistenza. Questa forse la scoperta più bella che vogliamo evidenziare e consegnare all' oggi. Negli ultimi anni il quartiere Stadera-Baia del Re è stato presentato dalla stampa come un quartiere malfamato, per spaccio di droga e violenza, ponendo agli amministratori non pochi problemi di ordine pubblico. Niente più del recupero della sua splendida tradizione resistenziale, forse, può restituire dignità e vivibilità a questo frammento della città. Si può sconfiggere il malessere, forse, anche con la cultura: ciò chiama in causa la responsabilità degli insegnanti e delle scuole di ogni ordine e grado, dalle elementari alle superiori. In questo senso la scuola va vista e valorizzata come luogo pubblico di incontro tra generazioni in cui scambiare beni immateriali come il piacere di imparare (insegnare e apprendere) gli elementi fondamentali della convivenza civile: per trasformare la relazione educativa nella possibilità di un' avventura creativa e coscientizzante, socializzante e propositiva. Agli insegnanti spetta oggi il delicato compito di saper recuperare l' interezza e il senso della relazione educativa. Oltre che guardare indietro è necessario essere capaci di osservare il presente e accogliere le domande reali dei ragazzi e dei giovani che esprimono una ricerca di orientamento e il bisogno di comprendere se stessi e il mondo insieme all' esperienza del passato. Lavorare con loro sulla Resistenza significa anche esplorare e scoprire relazioni tra soggetti appartenenti a generazioni storiche diverse (partigiani di ieri e giovani di oggi, giovani di ieri e nuove generazioni rivolte al domani, ecc.).

5. Lo abbiamo potuto verificare studiando la storia locale di Milano, intesa nel suo costante intreccio con la storia nazionale. Dal punto di vista didattico la storia locale presenta innegabili opportunità: lo scambio tra la storia e gli altri saperi (nel nostro caso Italiano e Disegno-storia dell' arte) che consente in qualche modo un approccio globale e la possibilità di creare un legame affettivo tra gli studenti e la loro memoria storica e dunque un' integrazione degli obiettivi cognitivi con quelli socio-affettivo-relazionali. Abbiamo potuto constatare l' attraversamento delle strade del quartiere Stadera-Baia del Re con un altro spirito da parte degli studenti, attenti alle lapidi e ai nomi impressi, di cui hanno tentato di riconsegnare la memoria. Abbiamo potuto verificare il dialogo in classe tra gli studenti e i partigiani sui temi delle radici storiche della Repubblica, del cinquantenario della Liberazione, della difficile transizione in atto nella società italiano di fine secolo, ecc., a partire dalla traumatica svolta - individuale e collettiva, sociale e politica, morale e militare - dal fascismo alla democrazia. Nel piccolo della storia locale abbiamo potuto verificare la validità della tesi di Claudio Pavone della Resistenza come guerra civile (fascisti contro antifascisti del quartiere), come guerra patriottica (partigiani della Baia contro contingenti militari tedeschi nel III settore) e come guerra di classe (operai contro padroni, come la vicenda di Grazioli, ucciso nella sua fabbrica nei giorni successivi al 25 aprile, secondo caso in tutta Milano). 6. E' la conferma del circolo virtuoso che può essere attivato tra ricerca e didattica, che significa guardare contemporaneamente alla ricerca a alla didattica e tentare di mediare tra le due, per realizzare uno scambio fecondo tra i due ambiti. La ricerca a scuola, che possiamo definire "simulata", è un buon punto di partenza per insegnare alcune operazioni storiografiche e risvegliare la consapevolezza metodologica: L' opzione tematica, la scelta dei contenuti, la selezione delle fonti, l' intervista ai testimoni, la periodizzazione, l' apparato concettuale, ecc. Si tratta di dimensioni del lavoro didattico che sono realmente più idonee a suscitare negli studenti interesse e curiosità, impegno e creatività. La storia come ricerca nella scuola come laboratorio può offrire agli studenti e agli insegnanti ambiti di lavoro e di formazione straordinari. E' la prospettiva del lavoro comune tra docenti e studenti, per maturare la convinzione che "noi siamo la scuola", "noi facciamo la storia". Una prospettiva che appartiene al versante dell' autoriforma della scuola superiore, che sa affrontare anche i problemi legati all' uso pubblico della storia, per sconfiggere la perdita della memoria e l' amnesia storica. Tra la memoria e l'oblio va scelta la memoria. Questo il senso forte del ricordare la Resistenza. Questa la responsabilità culturale ed etico-civile degli insegnanti in una scuola pubblica qualificata e pluralista, innovativa e formativa, laica e democratica. Introduzione

LA RESISTENZA E LA RICERCA DIDATTICA

Problemi metodologici e indicazioni operative di un progetto didattico di Giuseppe Deiana

I. Premessa. Pratica didattica e Resistenza: la scuola e il dovere di ricordare.

Con questo lavoro di ricerca didattica sulla Resistenza italiana e milanese - con particolare riferimento alla figura di Giancarlo Puecher - trova attuazione la quarta esperienza del progetto di educazione alla ricerca storica: si è partiti con la storia di una cascina milanese vista nel quadro del territorio lombardo; si è proseguito con la storia del Cile di Salvador Allende nel ventesimo anniversario del colpo di stato sanguinario; per arrivare alla storia della cartiera Binda di Milano, considerata come un segmento del processo di industrializzazione in Italia e a Milano, dall'Unità ad oggi. La quarta fatica intende concentrarsi sulla Resistenza come fondamento dello Stato repubblicano (1), per un bilancio dopo mezzo secolo. Due finora i filoni di ricerca, dunque: quello di storia ecologico-ambientale e quella di storia politica: in entrambi i casi il punto di partenza è dato dalla realtà locale, aperta però ad una dimensione mondiale e globale. Quali le motivazioni forti del progetto di ricerca destinato, forse, dopo le prime quattro tappe realizzate, a trasformarsi in un lungo percorso, parte integrante di un curricolo di scuola secondaria superiore? Quali, in particolare, le motivazioni per una lettura non celebrativa o retorica della Resistenza, capace di coglierne il valore culturale, politico e formativo per l'oggi e per il futuro? E' difficile oggi recuperare l'eredità della lotta partigiana, soprattutto in un mondo in cui ogni cosa pare debba essere valutata solamente per il suo valore di mercato, mentre ben altri erano i valori materiali e ideali che muovevano le donne e gli uomini protagonisti della Resistenza: donne e uomini comuni che fecero una scelta di vita per poter finalmente garantire una rinascita democratica a tutti gli italiani e vivere liberi, mettendo in conto anche la possibilità di perdere la propria vita. Qui vogliamo riscoprire le ragioni e i problemi di quella scelta, orientata alla realizzazione degli ideali di giustizia e libertà, nella convinzione che la scuola ha il dovere di ricordare, di comunicare, di attualizzare e di proiettare nel futuro la ricchezza culturale e morale della Resistenza, fatta oggetto di un'attenzione nutrita da sempre maggiori esigenze critiche.

II. Finalità. Una scuola aperta alla società e al mondo per sensate esperienze di educazione alla ricerca

   storica e ad una nuova cittadinanza.

1) Le nuove dimensioni dell'educazione storica e l'uso pubblico della storia.

a) La centralità della storia del Novecento. Il mondo della scuola è in perenne ritardo per quanto riguarda la contemporaneità, con particolare riferimento al Novecento e ai problemi attuali. Questo non può che pregiudicare, almeno in parte, le potenzialità formative e didattiche della storia: non che il passato non abbia valenza formativa, ma il presente ha una valenza sia formativa che orientativa. Dunque, una buona formazione storica deve poggiare su corrette relazioni tra passato e presente, rapportati entrambi al futuro. Due sono in questo senso i pericoli, come Scilla e Cariddi, che vanno evitati per gli esiti mortali impliciti: sia il "passatismo retrospettivo" che il "presentismo selvaggio". Il primo rappresenta il peggio della tradizione didattica, che ha raggiunto ormai livelli di vera e propria emergenza; il secondo non va oltre i limiti dell'improvvisazione e del cronachismo ed è connotato da orizzonti temporali appiattiti sul presente immediato. Il rapporto corretto è quello che può essere riassunto nella formula presentepassato-presente: nel senso che, le domande forti sui massimi problemi del mondo d'oggi rimandano alle loro diverse e complesse radici storiche, da cui trarre la spiegazione dei fatti e processi in atto. Questo è il modo culturalmente più valido per dare pieno diritto di cittadinanza alla storia recente anche nella scuola, sulla base di una chiarezza epistemologica preliminare che stigmatizzi, in modo problematico, il nesso e la distinzione tra storia contemporanea, storia del Novecento, contemporaneità, presente storico, presente immediato, presente come storia e storia del presente. Quella della centralità curricolare della storia del Novecento (che fra qualche anno, nel 2001 sarà storia del "secolo scorso") è una vera e propria battaglia civile da combattere, come prima fase di una guerra sull'insegnabilità del presente come storia (2). Una delle modalità più idonee a lavorare in questa direzione, per uscire dalla didattica dell'emergenza, è quella dell'approccio per temi, problemi e filoni, nel quadro di una progettazione curricolare e programmazione per unità didattiche. La Resistenza è uno di questi temi-problemi-filoni della storia politica del Novecento europeo, che si intreccia a rete con altri ad essa collegati come la guerra mondiale, il nazi-fascismo, la democrazia, ecc. La Resistenza in Europa e le lotte di liberazione nel mondo rientrano tra le esperienze più significative del`900, che non possono essere sottratte alla funzione etica, politica, civile e pubblica della storia.

b) La ricerca storica a scuola. Il secondo caposaldo di un nuovo paradigma culturale e didattico dello insegnamento-apprendimento della storia è costituito dall'educazione alla ricerca storica, che è uno dei modi più forti per rendere oparativa l'idea di laboratorio di didattica della storia e l'esigenza del recupero della memoria storica. Fare ricerca storica a scuola non solo è possibile ma è anzi necessario perchè consente di superare i limiti di una conoscenza strutturata secondo schemi manualistici e arricchire le esperienze di apprendimento attraverso l'acquisizione delle procedure di ricostruzione dei fatti/problemi/processi storici. Ciò significa riflettere sulle operazioni mentali che accompagnano la spiegazione storica e metterle in atto nel quadro degli obiettivi specifici e operativi posti alla base della ricerca storica, la quale nella scuola non può che essere ricerca "simulata", per distinguerla dalla ricerca professionale degli storici di mestiere: una ricerca, cioè, per piccoli storici (3). Per realizzare processi di apprendimento più maturi attraverso le sequenze di un modello didattico della ricerca, applicato preferibilmente alla microstoria, sono possibili molteplici percorsi di sperimentazione: dalla storia scolastica alla storia biografica, dalla storia sociale alla storia politica, dalla storia economica alla storia ambientale, ecc. Il lavoro sulla figura di Giancarlo Puecher e sulla Resistenza nella zona 15 di Milano è la concretizzazione di una delle tante ipotesi possibili di sperimentazione per imparare a fare ricerca storica anche a scuola.

2. Giovani e Resistenza: la consapevolezza democratica degli studenti contro l'eclissi della memoria.

Quello che stiamo vivendo è un momento che tende a rinnegare la storia, a dimenticare, a cancellare la memoria. In questo clima socio-culturale, le ricadute sociali sono evidenti dai dati secondo cui i giovani sarebbero stati determinanti nello spostamento a destra degli equilibri politici nel passaggio dall' XI alla XII legislatura. Se i ragazzi hanno scelto la destra vuoi dire che qualcosa si è rotto nella loro formazione: il filo della memoria, forse. II problema principale allora, anche per gli operatori della formazione quali sono gli insegnanti, è quello di operare un profondo rinnovamento culturale. Da lì bisogna cominciare: dalla propria storia, dalle proprie radici. Anche dalla Resistenza, dunque. Cinquant'anni: un lungo periodo ci separa, ormai, dalla fine della Resistenza e dal compimento della liberazione. Che cosa sappiamo oggi della lotta partigiana? Quale filo rosso lega l'Italia della Resistenza con l'Italia della crisi attuale? Ha ancora senso per i ragazzi sotto i vent'anni il recupero della memoria storica e i valori dell'antifascismo, alla fine del secondo millennio? Credo proprio che un senso ce l'abbia, soprattutto in tempi di crisi della politica e di smarrimento della morale pubblica come quelli che stiamo vivendo, a cui è necessario contrapporre un' altra Italia, l'Italia della Resistenza, dell'intransigenza antifascista, della difesa della Costituzione e della legalità repubblicana, dell'impegno democratico e libertario: un patrimonio etico-politico che non può essere perduto e che, anzi, va trasmesso alle nuove generazioni attraverso un approccio articolato sul piano analitico e problematico su quello concettuale. Due atteggiamenti sono possibili nell'attività educativa di fronte alla Resistenza: quello legato ad un giudizio superficiale e quello rapportato ad uno studio critico. Per parlare della vicenda resistenziale senza superficialità è necessario studiare la storia contemporanea nel suo insieme che dà senso alla storia straordinaria degli anni '43-45 e, più in generale, alla storia dal '45 ad oggi, che è la storia della Repubblica, la quale ha un'origine resistenziale e nella Resistenza continua a trovare un riferimento etico-politico essenziale. Concentrarsi sulla Resistenza anche a scuola significa quindi capire criticamente i problemi, ancora aperti, di quei venti mesi che sono all'origine della nostra democrazia repubblicana: una materia ancora incandescente e sulla quale gli italiani continuano ad essere divisi. Nell'attuale clima di revisione del fascismo un giudizio oggettivo e sereno sulla Resistenza sembra davvero difficile: dopo quasi mezzo secolo la sua vitalità intrinseca contrasta con i tentativi di strumentalizzazione, di riduzione,di superamento, di annullamento, di "pacificazione", ecc., di un ambiguo revisionismo storico, insomma. « La Repubblica `nata dalla Resistenza' cercò negli anni della guerra fredda di dimenticarla; poi la recuperò come gloria nazionale asettica, buona per tutte le celebranti. I movimenti nati dal Sessantotto la rilanciarono distorcendola come rivoluzione di classe tradita dai partiti, a cominciare da quello comunista. Oggi le forze politiche che se ne proclamano eredi sembrano quasi provare impaccio a difenderla dalle provocazioni e insulti del centro-destra più becero» (4). In questo contesto non è facile rendere comprensibile a un diciottenne/ventenne di oggi la vicenda antifascista e resistenziale: per questo è necessario un approccio scolastico che giunga a una conoscenza e valutazione articolata e critica dei fatti e dei problemi sorti nei venti mesi degli anni dal 1943 al '45. Si tratta di ricomporre il filo spezzato: recuperare il valore della memoria per conoscere il passato, svelare il presente e progettare il futuro. Anche se «forse una cultura ottimisticamente aperta al futuro, come quella dell'antifascismo resistenziale, apparirà obsoleta, nella sua programmatica `positività', a un'epoca che, perduti entrambi, futuro e passato, coltiva nel suo terreno presente flessibili pensieri e nessuna speranza. Ma resta il fatto che essa riuscì a produrre uno dei pochi periodi storici in cui la politica potè realizzarsi...in forma di `felicità pubblica'» (5).

III. Obiettivi cognitivi e sociorelazionali: passato e presente della Resistenza.

1) Gli obiettivi cognitivi sono finalizzati a vedere la Resistenza in prospettiva pluridisciplinare, particolarmente sotto l'aspetto storico e letterario, ma anche sotto quello grafico-artistico. Questi i principali: a) Lo storico e la Resistenza: conoscenza dei risultati della ricerca storica seguendo l'evoluzione della storiografia italiana nelle sue diverse fasi dal dopoguerra ad oggi. Questo obiettivo generale può essere articolato nei seguenti sotto-obiettivi: conoscenza dei fatti storici della Resistenza in Italia a partire dal quadro cronologico essenziale degli avvenimenti intercorsi tra il 25 luglio '43 e il 25 aprile '45; distinzione tra le diverse fasi della Resistenza; individuazione delle affinità e delle differenze tra la Resistenza italiana e quella europea; ricostruzione dello specifico della Resistenza a Milano con particolare riguardo alla zona 15/Chiesa Rossa-Gratosoglio; articolazione della Resistenza alla luce delle diverse componenti politico-ideologiche per cogliere affinità e differenze soprattutto tra comunisti, azionisti e cattolici; ricostruzione della figura di Giancarlo Puecher a cui è intestato il centro scolastico milanese comprendente il Liceo scientifico "S. Allende"; distinzione nella storia della Resistenza tra una storiografia tradizionale e una storiografia innovativa; individuazione del significato culturale e politico della revisone della Resistenza, mettendola in connessione con i fatti politici più recenti che hanno visto l'andata al governo delle destre, compreso il MSI. b) Il letterato e la Resistenza: valorizzazione del romanzo come testo narrativo e come fonte storica (6), con particolare riferimento ai testi narrativi che raccontano la Resistenza italiana: romanzi in cui gli eventi bellici degli anni 1943-45 costituiscono il nucleo centrale della narrazione. In particolare, individuazione e delineazione del rapporto tra Resistenza e impegno letterario 'negli scrittori italiani del secondo dopoguerra. c) L'artista e la Resistenza: trasferimento del tema della Resistenza sul piano della ricerca grafica; si tratta cioè di saper progettare e produrre elaborati che esprimano in forme diverse il tema della lotta per la libertà d) Giovani e Resistenza: maturazione di un giudizio critico personale e documentato sulla Resistenza attraverso un approccio letterario, storico ed etico-politico, che spieghi il fenomeno in termini di globalità e di complessità e ne riproponga in forma problematica il valore culturale e politico sia per l'oggi che per il futuro: «attraverso il realismo delle speranze - quel realismo che guarda il futuro e dà una risposta del tutto diversa anche per il presente...Può capitare, nella vita, di venirci a trovare in mezzo alle più aspre avversità. Ebbene: rimane un luogo del nostro essere in cui, nonostante tutto, dipende da noi esservi sovrani. E' la nostra coscienza. Lì possiamo creare delle zone di resistenza e di libertà. Ciascuno può farlo. E più ognuno si determina in questo modo, più contribuisce alla liberazione di sè, e di tutti» (7). Come dire che la Resistenza è un fatto innanzitutto interiore. Ma non solo.

2) II tema della Resistenza chiama in gioco anche obiettivi sociorelazionali, di natura individuale e collettiva. Ad esempio: a) la partecipazione e la testimonianza, testimonianza, nel senso dell'incitamento all'azione per salvaguardare e potenziare le esigenze collettive di democrazia e di libertà nate dalla Resistenza; b) l'intransigenza morale e civile, alimentata dalla cultura dell'antifascismo e della lotta resistenziale, come forza di rinnovamento attraverso l'impegno personale e pubblico nella direzione di una società egualitaria e giusta, pluralista e aperta, in dimensione planetaria; c) speranza e responsabilità, còme capacità di mettere in discussione un sistema di valori omologanti, radicati sulla disumanità, la violenza e la sopraffazione discriminante, a favore della valorizzazione dell'uomo e della salvaguardia della natura, attraverso il coinvolgimento attivo in movimenti di massa rivolti alla costruzione di una società nuova fondata sull'azione unitaria dell'antifascismo e dell'antirazzismo, dell'antimafia, della legalità e della trasparenza, dell'interculturalità e dell'interdipendenza, dell'ecologismo e del solidarismo tra i popoli. Si tratta insomma di riscoprire l'impegno civile e la militanza nelle tradizionali organizzazioni politico-sindacali o in nuovi movimenti espressi dalla società civile, come assunzione di responsabilità e promozione della partecipazione collettiva. Questo perchè «per migliaia di uomini e donne l'esperienza partigiana non fu solo un'avventura in cui giocarsi la vita, costituì anche un'eccezionale occasione di `socializzazione' che permise di abbandonare la vita e il lavoro quotidiani e sollecitò una forte assunzione di responsabilità individuale e al tempo stesso una solidarietà di gruppo altrettanto forte. Nella banda partigiana l'azione scaturiva dalla capacità di organizzazione collettiva in nome di ideali condivisi e l'altezza della posta in gioco creava un coinvolgimento totale, in cui ciascuno era chiamato a verificare scelte di vita, valori e aspettative riguardo al futuro» (8).

IV. I contenuti. Memoria e testimonianze di una "guerra civile": le basi morali dell'Italia resistenziale.

Il punto focale della nostra ricerca è costituito dalla ricostruzione della figura di Giancarlo Puecher e delle vicende della Resistenza nella zona 15 di Milano: i due segmenti, però, sono inseriti nel contesto italiano ed europeo e sono segnati dalle distinzioni ideologiche che attraversano la storia partigiana. Da qui la necessità di un'articolazione del discorso in direzioni diverse ma complementari, a partire dal significato lessicale e concettuale della parola "Resistenza".

1) Il termine "Resistenza": aspetto ideologico. Inteso in senso stretto il termine "Resistenza", nel linguaggio storico-politico, comprende i movimenti di opposizione attiva e passiva nati in Europa, durante la seconda guerra mondiale, contro l'occupazione tedesca e, in misura minore, italiana. In questo senso, la Resistenza europea, pur nelle differenze dei diversi paesi, presenta alcuni caratteri comuni che sono riconducibili a due: la guerra patriottica di liberazione nazionale contro l'invasore e la lotta contro il totalitarismo nazifascista nel nome della democrazia liberale o socialista (9). In Italia il periodo della Resistenza ha costituito una delle esperienze più forti di questo secolo, vissute dai cittadini attraverso vicende drammatiche e grandiose insieme, che hanno segnato la fine del fascismo e della monarchia e la nascita della Repubblica. «La Resistenza costituì un momento di svolta nelle vicende del nostro paese, perchè essa diede un contributo essenziale alla maturazione civile e politica degli italiani e fu il punto d'avvio della nuova Italia democratica» (10). Questo giudizio dello storico Franco Della Peruta esprime in sintesi il risultato dell'analisi critica, che come tale non è la difesa d'ufficio della Resistenza, ammantata di retorica altisonante. La sua valutazione complessivamente positiva dei fatti drammatici che sono un momento essenziale della nostra storia, da cui ha avuto origine la nostra democrazia, contrasta con il giudizio di altri che oggi, in un momento di grave crisi politica, istituzionale e sociale, puntano a liquidare frettolosamente la lotta partigiana in un clima di revisionismo superficiale. Così, la formula «la Repubblica nata dalla Resistenza" si è rovesciata in quella opposta di "Resistenza come vizio d'origine della Repubblica". Sono i due poli opposti dal punto di vista ideologico di una interpretazione dell' esperienza resistenziale che è diverse volte mutata nei cinquant'anni di storia repubblicana. C'è quindi una storia ideologica anche della Resistenza. Infatti, "ci fu una prima fase di unitarismo, patrocinata da tutti. Poi sulla Resistenza fu issata la bandiera del PCI e del PSI che avevano necessità di rivendicare il proprio essere partiti nazionali, e da parte cattolica non ci si è opposti. In una terza fase la Resistenza è stata assorbita nell'ufficialità. Un successo, ma anche un affogare nella retorica. Penso a quelle manifestazioni in cui i generali celebravano la Resistenza. Un'altra svolta fu il '68, anche se oggi pochi lo ricordano. In un primissimo momento ci fu un rifiuto della Resistenza. Poi ci fu un recupero della Resistenza rossa in chiave anti Pci. Fu quella la prima volta che la Resistenza non apparve più come una e il quadro fu scomposto. Adesso assistiamo a un mezzo cambiamento di segno, e con quello che è avvenuto nel `triangolo rosso' si vuole spiegare l'intera Resistenza» (11). E' la fortuna e sfortuna storiografica della Resistenza nel nostro Paese, come sostiene anche Nicola Tranfaglia: «Ad essere schematici... si può dire che, nei primi quindici anni della Repubblica, la Resistenza fu ignorata dai governi centristi e invocata dalla forze di sinistra come il fondamento della democrazia repubblicana. Successivamente anche l'Italia ufficiale ne parlò ma spesso senza entrare nel merito, come pura e superficiale retorica. Con il risultato di far diventare odiosa e incomprensibile quella vicenda ai giovani. Soltanto negli ultimi due decenni si è giunti a una considerazione più articolata di quei fatti e sono cresciute in tutta Italia ricerche approfondite su personaggi, episodi, momenti e problemi di quei venti mesi» (12). Da qui la necessità di un chiarimento semantico e concettuale: un approccio critico alla Resistenza deve essere governato più dalla ragione che dalla passione e sottoposto alle esigenze analitiche della ricerca teorica e storica, anche nella scuola.

2) La ricerca storica: lo sviluppo e gli esiti della storiografia sulla guerra partigiana.

a) Trent'anni di storiografia italiana: dai `padri fondatori" a Claudio Pavone. Il quadro storico di riferimento è costituito dall'Italia degli anni 1943-45, un quadro che può essere sintetizzato nella formula: "tre governi e due occupazioni". Le due occupazioni sono state quella tedesca e quella angloamericana; i tre governi: il Regno del Sud, la Repubblica sociale italiana e il governo partigiano nelle parti liberate della Italia nazifascista, composto dai Comitati di liberazione nazionale formati dai partiti antifascisti. Anche sulla Resistenza la letteratura - dal saggio storico alla memorialistica - è vastissima. E qualunque percorso di lettura non può sfuggire, anzitutto, alla discussione storiografica. Sotto l'aspetto storiografico la storia della Resistenza può essere distinta in tre fasi: la prima, centrata sul volume di Roberto Battaglia, è storia politica, storia delle istituzioni pubbliche, una storiografia che si occupa prevalentemente degli aspetti politici e militari della lotta partigiana, almeno fino alla prima metà degli anni sessanta (13). La seconda fase è storia delle istituzioni e della società: una storiografia tendenzialmente scientifica, che ha avuto il suo centro soprattutto negli Istituti per la storia della Resistenza (14), rivolti a ricostruzioni storiografiche più attendibili sotto l'aspetto documentario, che non fossero soltanto una memoria di parte o una storia strettamente politica (15). In questa direzione si sono mossi studiosi come Guido Quazza, Enzo Collotti e altri in anni più recenti, ad esempio Giovanni De Luna, Massimo Legnani, Gloria Chianese, Nicola Gallerano, Claudio Dellavalle, Luigi Ganapini, Raimondo Luraghi, Giorgio Vaccarino, ecc. La fase più recente e forse più matura è costituita soprattutto dalla ricerca di Claudio Pavone, condensata nel volume Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza (16): la Resistenza viene osservata sotto l'aspetto morale, come storia degli uomini e delle loro passioni, colta anche attraverso l'analisi del 'privato' e della soggettività, oltre che della dimensione pubblica degli eventi.

b) La Resistenza come guerra civile. Questo di Claudio Pavone è un grande libro (di oltre 800 pagine), per la ricchezza incredibile della documentazione, per il rigore scientifico che controlla una materia incandescente: è destinato ad essere considerato per lungo tempo una storia definitiva della Resistenza italiana, non tanto sul piano della ricostruzione e dell'accertamento dei fatti (non è un libro di storia dei fatti), quanto in relazione alla sua capacità di rendere con incisività le passioni, le emozioni e, soprattutto, le scelte che coinvolsero la collettività italiana nei durissimi venti mesi tra il '43 e il '45. Si tratta, quindi, di un'opera di grande importanza: un bilancio compiuto di una lunga stagione di ricerche, orientato non tanto alla ricostruzione cronologica degli avvenimenti, quanto ai problemi aperti di quel biennio che è all'origine della nostra democrazia repubblicana. Un libro per certi aspetti definitivo in quanto si colloca al termine di un ideale percorso storiografico il cui inizio è segnato dal libro di Roberto Battaglia del 1964. Tra questi due libri fondamentali ci stanno trent'anni di storia dell'Italia repubblicana e un lavoro storiografico di grande ampiezza, «ricomposto secondo un nuovo ordine, non più cronologico, o politico-ideologico, ma per concetti, per problemi, secondo una linea di argomentazione che taglia il piano degli avvenimenti inventando, per certi versi, un genere nuovo: non storia 'solo' politica o militare, nè sociale, nè tanto meno 'storia delle istituzioni'... Neppure'storia della mentalità'. Potremmo chiamarla, forse, storia 'morale': considerare il libro un grande 'trattato sui sentimenti morali', nel senso più ampio del termine, in quanto sistematico repertorio degli atteggiamenti, delle convinzioni e delle strutture culturali presenti in esse', soprattutto dei criteri di scelta e delle forme della responsabilità, individuale e collettiva, operanti in un periodo storico 'd'eccezione', in una fase di rottura del 'monopolio statale della forza' e delle forme `normali' della legittimazione» (17). II tema centrale del libro è costituito dalla tesi secondo cui 'a Resistenza è stata soprattutto una guerra civile: un momento di grande tensione etico-politica che l'ha resa una guerra giusta, perchè è stata una lotta di liberazione, in cui certi uomini e certe donne scelsero di combattere per la propria e l'altrui libertà. Alla base della scelta di prendere le armi contro i fascisti e i nazisti c'erano soprattutto ragioni etiche. Ma vediamo i punti principali che ripercorrono i capitoli del libro secondo le particolari categorie analitiche che smontano il quadro unitario della Resistenza per ricomporlo come in un mosaico. Innanzitutto le tre guerre, nel senso che l' Italia dal luglio '43 all'aprile '45 fu teatro di tre guerre distinte ma legate tra loro: la guerra patriottica contro i tedeschi, la guerra civile combattuta tra gli italiani e la guerra di classe, il cui scopo ultimo era la rivoluzione sociale. Nella guerra civile però si intrecciano le altre due. In secondo luogo la scelta resistenziale, nel senso che dopo il 25 luglio e 1'8 settembre milioni di giovani si trovarono a scegliere a favore dell'antifascismo o del fascismo, o magari a scegliere di non scegliere, mentre lo Stato italiano si dissolveva: ciascuno con la propria coscienza solo davanti alla guerra. Per i partigiani la scelta fu una scelta di libertà, di disobbedienza al potere costituito. Al tema della scelta è strettamente collegato quello del tradimento e della violenza. Una volta assunta come idea ispiratrice la idea della moralità della Resistenza, il tema centrale non poteva non essere quello della violenza: Pavone si pone il problema della validità o meno di un dilemma come quello tra violenza giusta e violenza ingiusta, sottolineando la fondamentale giustezza della scelta compiuta da chi allora prese il fucile e salì in montagna per combattere contro i tedeschi e contro l'ultima incarnazione del fascismo. Quello di Claudio Pavone «non è un libro morale e tanto meno un'opera edificante. Rappresenta però per ognuno di noi una fortissima sollecitazione a riflettere sulle `questioni morali' che gli italiani dovettero affrontare in un momento della loro storia che, a giudicare dalle passioni che scatenò, oggi non del tutto sopite, non è ancora chiuso» (18). Dalla Resistenza sono scaturite speranze e progetti per il futuro: con il 25 aprile si aprì un periodo nuovo e non meno difficile della guerra civile, contrassegnato, da una parte, dalla continuità tra l'Italia fascista e quella repubblicana e, dall'altra, dall'attesa di un mondo radicalmente nuovo. Nel senso che nei partigiani il loro impegno si caricò di speranze e di progetti per il futuro dando corpo alla dimensione utopica della Resistenza. In conclusione, «Pavone ha scritto uno di queli lavori definitivi che danno durevole forma storica a una memoria altrimenti vicina a smarrirsi, perchè sono morti o hanno cambiato idea molti di quelli che ne erano portatori...: lavori che maturano solo in tempi di bilancio e, se non di congedo, di ripensamento e di svolta» (19).

c) La Resistenza a Milano. Nel condurre questa ricerca didattica finalizzata a capire che cosa è stata e che cosa ha significato la Resistenza europea e italiana, non potevamo evitare di porre al centro del lavoro la città di Milano. Questa città, infatti, fu la capitale della Resistenza e solo a Milano sono morti circa diecimila persone per la liberazione dell'intero Paese. II 18 marzo 1948 il Presidente della Repubblica ha conferito alla città di Milano la medaglia d'oro al valore militare con la seguente motivazione: «Nelle epiche `Cinque Giornate', insorgendo e scacciando dalle sue mura un esercito potentemente armato, dimostrò quanto valga ' contro la tirannide l'impeto popolare sorretto da sete inestinguibile di giustizia, di libertà, di indipendenza. Presente con i suoi martiri ed i suoi eroi nelle congiure mazziniane e nelle battaglie del primo Risorgimento, negli anni dal 1943 al 1945, pur mutilata ed insanguinata dalle offese belliche, oppose allo spietato nemico di ogni tempo, la fierezza e lo slancio di una implacabile lotta partigiana, nella quale fu prodiga del sangue dei suoi figli migliori e lo travolse infine nell'insurrezione vittoriosa nel 25 aprile 1945. Mirabile esempio di virtù civiche e guerriere che la Repubblica onora». In particolare ci vogliamo concentrare su una delle circoscrizioni del decentramento amministrativo: Chiesa Rossa-Gratosoglio/zona 15.

d) Un segmento della Resistenza milanese: la lotta partigiana in zona 15. Esiste in questa zona della città un comitato unitario antifascista che è composto da ex partigiani, legati all'A.N.P.I. e ai partiti democratici, il cui impegno pubblico principale è costituito dall'organizzazione delle celebrazioni del 25 aprile, dalla salvaguardia della memoria storica e dalla diffusione degli ideali della Resistenza, come risulta - a titolo di esempio - dal testo del seguente volantino del 1991: "II 25 aprile ricorre il 48° anniversario della Resistenza. L'avevano cominciata gli uomini più rappresentativi della legalità democratica. Fra questi: Giacomo Matteotti, Giovanni Giovanni Amandola, Piero Gobetti, don Giovanni Minzoni; significativa è la raccomandazione della pubblica accusa nel processo contro Antonio Gramsci (che morirà in carcere): `dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare per vent'anni'. Ci sembra indispensabile riflettere sui valori umani faticosamente conquistati nel 1945, se non altro per non rischiare di perderli ancora (considerando l'attuale situazione dell'Italia). Siamo assolutamente convinti del fatto che non si possa considerare la Resistenza come un fenomeno concluso: infatti i valori di pace, giustizia, libertà e uguaglianza su cui si è basata devono essere il costante riferimento della nostra repubblica; una società veramente democratica che mira alla piena affermazione della legalità non può che affermarli costantemente in contrapposizione al terrorismo razzista, mafioso o politico. La memoria storica dei drammatici sacrifici che gli uomini e le donne della Resistenza, con la popolazione intera, furono costretti ad affrontare deve essere patrimonio culturale ed umano di tutti". Data l'ubicazione del Liceo "Allende" abbiamo voluto ricostruire alcuni aspetti della Resistenza in zona 15 attraverso la testimonianza degli ex partigiani più attivi e di poche fonti scritte, partendo dalla constatazione che non esiste a tutt'oggi una ricostruzione storica organica della lotta partigiana in questa parte della città (e forse neppure nelle altre circoscrizioni di Milano). Intanto si può dire anche per gli uomini della zona 15, partecipi a suo tempo delle formazioni partigiane, che «la scelta è (stata) una scelta di libertà, di disobbedienza al potere costituito. Fu per molti il periodo della propria vita in cui si diventa adulti, l'età più bella della vita, vissuta in uno stato di entusiasmo morale» (20): sogni di ventenni che regalarono alla montagna e alla clandestinità i migliori anni della loro vita. Dalle interviste agli ex partigiani si è cercato di capire in che modo avvenne, con quali sentimenti e punti di vista fu presa la decisione di entrare nelle bande partigiane da parte di giovani divenuti combattenti irregolari, esposti a un rischio maggiore rispetto ai militari veri e propri, ma animati dal desiderio di voltare pagina nella loro vita e in quella della nazione sottoposta all'occupazione tedesca ed alla oppressione fascista. Le loro testimonianze ci hanno dato ragione dell'autonomia e della vitalità delle formazioni partigiane radicate nel territorio, con una spiccata identità di corpo finalizzata al pieno controllo della propria zona o valle, attraverso modalità organizzative che oscillavano tra uno spontaneismo tanto generoso quanto precario (spesso pagato con la vita) e una istituzionalizzazione / militarizzazione rigida e dura. Comunque, per gli ex partigiani la Resistenza è ancora e sempre il loro ricordo più bello, il loro sogno più luminoso e, forse, la loro sola ricchezza di poveri operai e sconosciuti cittadini, che spiega la decisione e l'intransigenza nella lotta contro il fascismo antico e nuovo, contro l'Italia degli scandali e dei misteri, delle tangenti e della mafia.

e) La composizione politica dei resistenti: comunisti, azionisti e cattolici. Nel movimento partigiano vanno distinte le organizzazioni politiche maggiori,composte da comunisti, azionisti e cattolici, dalle formazioni minori come i Gap, i cattolici comunisti, le formazioni "azzurre" (monarchici), i gruppi a sinistra del PCI, ad esempio trotzkisti e anarchici (21). Qui, per motivi di forza maggiore, vogliamo considerare solo le formazioni maggiori per cogliere le convergenze e le divergenze a partire dal rapporto con i partiti. Le Brigate Garibaldi erano organizzate dal Partito comunista, quelle di Giustizia e Libertà invece erano collegate al Partito d'azione, mentre quelle "autonome" ai democristiani ed ai liberali. Nell'insieme, esse non erano formazioni di partito in senso stretto, tanto che la grande maggioranza dei partigiani non aveva tessere. Dai partiti ebbero aiuti in mezzi, capi, volontari, contatti, direttive, coordinamento e orientamento politico; ma i partiti si muovevano nell'ottica unitaria dei CLN locali e quindi miravano a comporre le differenze nell'azione antifascista e antinazista, più che ad esasperare le divergenze. Le divergenze all'interno dello schieramento erano prevalentemente di tipo ideologico: tra comunisti e azionisti, tra azionisti e autonomi, da un lato, e cattolici dall'altro (erano contrasti che in parte prefiguravano gli schieramenti politici del dopoguerra). Gli antifascisti moderati guardavano con diffidenza, senza riuscire a contrastarla, l'egemonia comunista orientata verso la lotta di classe, l'insurrezione popolare. Sul tema della Resistenza come scuola rivoluzionaria il contrasto tra comunisti e cattolici era netto; ma oltre che nella sfera politica il divario tra partigiani rossi e partigiani bianchi era nella sfera morale e riguardava i plotoni di esecuzione e l'uso delle armi. AI suo interno, infatti, il movimento cattolico era «diviso e spesso lacerato, tra pacifismo tradizionale e adesione a una guerra giusta o necessaria, tra obbligo di obbedienza all'autorità costituita e diritto di resistenza al tiranno, tra il dovere di non sottrarsi alla lotta contro un nemico comune e obbedienza alla Chiesa che non può rinunciare a deplorare la violenza, da entrambe le parti, pur rifiutando l'insistente richiesta del governo fascista di schierarsi dalla parte della Repubblica sociale in nome dei Patti Lateranensi» (22). Il contrasto invece tra comunisti e azionisti era dovuto al fatto che i secondi concepivano la Resistenza come un secondo Risorgimento, come rivoluzione democratica, da cui doveva nascere una repubblica democratica.

f) Morire a vent'anni: giovane, ricco e cattolico. La figura di Giancarlo Puecher, prima medaglia d'oro in Lombardia. Il fulcro della nostra ricerca storico-didattica è costituito dalla figura di Giancarlo Puecher Passavalli: la prima medaglia d'oro della Resistenza lombarda, di cui vogliamo recuperare la memoria a partire dai tre connotati dominanti (era giovane, ricco e cattolico) che lo rendono - forse - molto vicino alla sensibilità degli studenti di oggi (23). Il nome di Giancarlo Puecher compare nelle famosissime Lettere della Resistenza europea (24). Dopo una stringata biografia ("Studente in legge, nato e vissuto a Milano. Pochi giorni dopo l' 8 settembre 1943, al momento in cui si formano le primissime `bande' partigiane, Giancarlo riunisce una ventina di giovani nella zona di Erba-Pontelambro, in provincia di Como. Con essi compie azioni per il recupero di materiali appartenuti all'esercito e necessari per iniziare la guerriglia. Dopo solo due mesi di attività Giancarlo viene catturato da militi fascisti che lo fucilano al cimitero di Erba. Aveva 20 anni") è riportata la lettera-testamento (seguita da una nota: "Poco dopo, il padre di Giancarlo, l'avvocato Giorgio Puecher Passavalli, è stato arrestato e deportato al campo di concentramento di Mauthausen, dove è morto di fame e di stenti"):

"Muoio per la mia Patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato. Spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto ...Accetto con rassegnazione il suo volere. Non piangetemi, ma ricordatemi a coloro che mi vollero bene e mi stimarono. Viva l'Italia. Raggiungo con cristiana rassegnazione la mia Mamma che santamente mi educò e mi protesse per i vent'anni della mia vita. L'amavo troppo la mia Patria; non la tradite, e voi tutti giovani d'Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale. Perdono a coloro che mi giustiziano perchè non sanno quello che fanno e non sanno che l'uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia. A te Papà l'imperituro grazie per ciò che sempre mi permettesti di fare e mi concedesti. Gino e Gianni siano degni continuatori delle gesta eroiche della nostra famiglia e non si sgomentino di fronte alla mia perdita. I martiri convalidano la fede in una Idea. Ho sempre creduto in Dio e perciò accetto la Sua volontà. Baci a tutti. Giancarlo"

Si tratta di una prosa semplice, che esprime tuttavia «il grido più forte di uomini che proclamano, morendo, le loro convinzioni, i loro principi, la loro fede sicchè, vincendo il tempo, arrivano fino a noi» (25). Per questo Claudio Pavone pone Puecher nella grande storia della Resistenza italiana, che è stata la storia di una guerra violenta e fratricida: «La guerra civile viene in genere qualificata come 'fratricida' da entrambe le parti per accrescerne l'orrore e far gravare sul nemico, additatone come l'unico responsabile, una più infamante condanna. Vi furono famiglie attraversate proprio al loro interno da scelte contrapposte. Ma è dalla categoria della fraternità estesa all'intera nazione che nasce con particolare forza la metafora del fratricidio. Giancarlo Puecher, fucilato dai fascisti, li perdona perchè 'non sanno quello che fanno e non sanno che l'uccidersi fra fratelli non produrrà mai la concordia'» (26). Le tre righe della lettera di Puecher in punto di morte stigmatizzano il problema della violenza, esaltata sia dai fascisti che dai partigiani in nome di ideali politici contrastanti, che legittimano anche il diritto di uccidere. La Resistenza ha alimentato una continua riflessione sull'uso della violenza in tutte le sue contraddizioni e sfumature: dal giovane Giancarlo Puecher essa è rimessa in discussione come strumento e come valore, in nome dell'ideale cristiano della fratellanza e del perdono. Vogliamo riproporre oggi la figura di Giancarlo Puecher per riscoprire la Resistenza in un'ottica giovanile e studentesca, senza i cedimenti agiografici della retorica celebrativa. II pretesto ci viene anche dall'intestazione del centro scolastico provinciale in cui è inserito il Liceo "Allende".

g) Il centro scolastico "Giancarlo Puecher" di Milano. Compie poco più di vent'anni l'intitolazione a Giancarlo Puecher da parte del Consiglio provinciale di Milano del centro scolastico di via Ulisse Dini, inaugurato nel 1973. Cercheremo di capire le ragioni di questa scelta e di offrire agli studenti gli elementi informativi per comprendere la scritta "Centro Provinciale Comunitario Giancarlo Puecher".

3. Resistenza e impegno letterario: la narrativa italiana sulla Resistenza.

Oltre che dal punto di vista dell'analisi storica vogliamo guardare alla Resistenza anche dal punto di vista della produzione letteraria, che costituisce il secondo pilastro della nostra ricerca didattica orientata in una prospettiva pluridisciplinare. In questo senso ci sono libri dai quali non si può prescindere: dalle lettere della Resistenza e dei condannati a morte ai romanzi di Vittorini, di Calvino, di Pavese, di Fenoglio, ecc. (27). Si tratta di testi essenziali per la memoria di un'epoca e di un'esperienza, che hanno segnato il clima politico-culturale del dopoguerra e influenzato la formazione di più d'una generazione. Abbiamo operato una selezione di romanzi le cui vicende si sviluppano a partire dall' 8 settembre e nei quali la guerra del 1943-45 costituisce il nucleo portante della narrazione. La scelta è caduta su Elio Vittorini (Uomini e no, scritto nel 1945: il primo romanzo sulla Resistenza italiana, ambientato nella Milano del 1944, tra azioni partigiane partigiane e rappresaglie nazi-fasciste), Cesare Pavese (La casa in collina, del 1949, considerato dalla maggior parte della critica il capolavoro e ambientato nella campagna piemontese durante la Resistenza), Beppe Fenoglio (Il partigiano Johnny, un'opera giovanile pubblicata postuma nel 1968, da alcuni critici considerata l'opera più matura sulla lotta partigiana) e Italo Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno, del 1947, che narra vicende di vita e lotta popolare contro il dominio nazista a Sanremo e nell'immediato entroterra). Altri autori, per quanto "minori" meriterebbero una considerazione particolare: ad esempio, Carlo Levi (Cristo si è fermato a Eboli), Primo Levi (La tregua), Davide Laiolo (Il voltagabbana), Guglielmo Petroni (La morte nel fiume), Arrigo Benedetti (Rosso al vento), Elsa Morante (La Storia), ecc.,insieme a quelle tante memorie della Resistenza che spesso sono state scritte nei primi anni del dopo-guerra ma pubblicate più di recente. Abbiamo privilegiato Renata Viganò autrice del più fortunato dei romanzi partigiani, L'Agnese va a morire, del 1947, che racconta la vicenda di una povera contadina che uccide un tedesco e si fa partigiana perchè le hanno assassinato il marito, spinta da un senso di vendetta e di giustizia. Non intendiamo però trascurare le lettere di resistenti e condannati a morte come testimonianza immediata delle tensioni morali e civili di chi ha voluto pagare di persona nella lotta contro il nazi-fascismo (28). In riferimento alle opere prescelte si cercherà di cogliere affinità e differenze tra scrittori che appartengono a una generazione che ha vissuto direttamente l'esperienza traumatica dei venti mesi dal luglio '43 all'aprile '45. Attraverso la lettura trasversale dei romanzi si verificherà l'esistenza di temi e forme di rappresentazione comuni, cercando di rimarcare il contributo del romanzo a una storia delle mentalità e dei modelli culturali degli italiani in guerra. In particolare si cercherà un retroterra culturale comune e gli stereotipi culturali presenti nei romanzi (ad esempio, il tema del rapporto tra l'uomo e la storia, gli ideali che hanno animato la Resistenza, l'immagine della Resistenza stessa,ecc.), il significato della guerra partigiana (guerra di liberazione o guerra civile?), la rappresentazione di una generazione di italiani (non solo la rappresentazione realistica e metaforica delle vicende del '43-45, ma anche, seppure in maniera indiretta, le vicende dell'immediato dopoguerra con i suoi conflitti, i suoi traumi, le sue rimozioni, ecc.), la costruzione narrativa (l'intreccio del racconto, le tecniche argomentative, ecc.). Insomma, sarà interessante confrontare le rappresentazioni della Resistenza in diversi testi narrativi, per capire «attraverso quali forme di rappresentazione la narrativa italiana ha raccontato la guerra del 1943-45 ed entro quali limiti - pur conservando la sua specificità e la sua autonomia - essa può essere considerata una fonte storica... per risalire dalle stereotipie della fabula di diversi romanzi ai modelli di formazione e all'universo di valori di una generazione di combattenti per ripercorrere - attraverso la varietà di intrecci narrativi - le modificazioni di significato che la Resistenza assume con il tempo, da `guerra di liberazione' a `guerra civile'» (29).

V. Metodi e strumenti: un lavoro collettivo per gruppi coordinati.

L'organizzazione della ricerca è basata sul lavoro di gruppo, articolato in gruppi di classe e di interclasse, per compiti differenziati ma complementari. Alcune indicazioni operative: a) lettura di libri e riviste di storia, sulla base di precise indicazioni del docente coordinatore; b) ricerche d'archivio per reperire fonti e documenti particolari; c) ricerche "sul campo" attraverso interviste a testimoni privilegiati per raccogliere le testimonianze degli ex partigiani della zona 15: questo per valorizzare le fonti orali, data l'importanza della storia orale nella ricostruzione di un universo in cui la soggettività ha avuto un ruolo di primo piano; d) letture delle opere letterarie secondo una griglia tematica fornita dal docente, capace di comparare i testi e di costruire un universo culturale di riferimento, di comparare la narrazione letteraria con la spiegazione storica, di ricostruire la rappresentazione della guerra, di definire il senso complessivo della storia che emerge dai testi, ecc.; e) preparazione e realizzazione di una mostra comprendente i disegni prodotti dagli studenti sul tema della lotta per la libertà e le fotografie relative ad aspetti di valore materiale e simbolici, come quelle delle lapidi ai caduti della zona 15; f) produzione di un libro che raccolga tutti i contributi di lavoro, scritti e grafici; g) organizzazione e partecipazione ad una o più manifestazioni pubbliche, sulla Resistenza e in particolare sulla figura di Giancarlo Puecher, preparata/e in collaborazione con gli amministratori della provincia e del Consiglio di zona e con i rappresentanti delle organizzazioni partigiane: manifestazioni capaci di coinvolgere insieme studenti, genitori, insegnanti e cittadini. Queste le principali modalità di lavoro attuabili entro le possibilità, spesso limita-te, del tempo scuola di un triennio del liceo scientifico nel corso di un anno scolastico. Quello che è importante osservare, in conclusione, è che l'esperienza di ricerca storico-didattica è parte integrante del curricolo scolastico: è la sperimentazione di un percorso didattico-culturale progettato secondo le esigenze della programmazione per obiettivi teorici ed operativi. Un piccolo passo verso una nuova scuola secondaria superiore (se mai ci sarà data, entro la fine del XX secolo!).

VI. Conclusione. Una nuova Resistenza e una memoria per il futuro: tempo di nuove scelte.

«Grazie alla Resistenza, il popolo italiano, a poco più di un anno dalla fine della guerra, potè scegliere il proprio destino in libere votazioni, per il referendum istituzionale prima, per le elezioni alla Costituente poi, onde nacque la Costituzione repubblicana discussa e approvata da uomini la cui stragrande maggioranza rappresentava i partiti antifascisti» (30). Una nuova Resistenza, dunque, in una società dello spettacolo che ha spogliato di libertà e di senso la sfera pubblica, trasformandola in "pubblicità"; in una cultura dell'omologazione che ha dichiarato guerra ai valori di fondo della Repubblica nata dall'antifascismo: valori che non possono essere persi neanche dai giovani degli anni '90 (31). Si tratta di un mondo giovanile diversificato, in stato di profondo smarrimento valoriale, di forte disaffezione rispetto a tutto ciò che è politico e istituzionale. E' la connotazione di un mondo giovanile rilevata dalle analisi sociologiche che convergono sul tema della disaffezione, ereditata dagli anni '80, verso l'agire collettivo. C'è dunque un problema di cultura e di memoria, oggi: è il valore della cultura della giustizia, della uguaglianza, della trasparenza e della solidarietà; è il valore della memoria per capire il presente cercandone le radici nel passato per progettare il futuro. Un futuro che, a partire dai valori della Resistenza e delle lotte di liberazione dei popoli, ricostruisca anche nei giovani la consapevolezza democratica attraverso strategie dì educazione allo sviluppo, all'interculturalità, alla pace, alla cittadinanza e alla sostenibilità ecologica, in prospettiva multietnica e planetaria.

(1) Esistono altre esperienze di ricerca scolastica in gran parte sconosciute perchè non pubblicate e non divulgate. Voglio, segnalare, in particolare, quella effettuata da un gruppo di studenti dell'ITC "Sesta" di Milano, rispetto alla quale questo lavoro si pone in continuità ideale. Si tratta di una raccolta di interviste a protagonisti della seconda guerra mondiale e della Resistenza milanese: una ricca testimonianza del vissuto quotidiano e della storia vista dal basso, raccolta per mettere a confronto tra gli studenti la cultura della guerra con la cultura della pace (Cfr. Alla ricerca della nostra storia, a cura di Vittorio Bellavite. Milano 1991). (2) Cfr. M. Gusso, Chi ha paura del Novecento? A proposito dei programmi di storia della secondaria superiore, "I viaggi di Erodoto", 1992, n. 17, pp.22-25. (3) Cfr. I. Mattozzi, Che il piccolo storico sia!, "I viaggi di Erodoto", n.16, 1992, pp. 170-177. (4) G. Rochat, Alternative etiche e scelte politiche. Un bilancio della Resistenza, in "Gioventù evangelica ", n. 132 1991, p. 22. (5) M. Revelli, La scelta e la violenza, "L'indice", n. 9, 1991, p.39. (6) Cfr. M. Gusso, L'uso dei testi narrativi come fonti nella ricerca e nella didattica della storia. in AA.VV., Ricerca e didattica, B. Mondadori, Milano 1985; AA.VV., Testi letterari e conoscenza storica. La letteratura come fonte storica, a cura di F. Cataluccio, B. Mondadori, Milano 1986; F. Tronci, Letteratura e storia: aspetti e problemi di un rapporto difficile, Bulzoni, Roma 1983. (7) M. Capanna, Speranze. Giovani, etica, politica, Rizzoli, Milano 1994. (8) S. Neri Serneri, L'un contro l'altro armati, "Storia e Dossier", n. 76, ottobre 1993, p. 10. (9) Cfr. N. Matteucci, Resistenza, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino, Tea, Milano 1990, pp.966-969. (10) F. Della Peruta, Storia del Novecento. Dalla "grande guerra" ai giorni nostri, Le Monnier, Firenze 1991, p.247. (11) C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, (12) N. Tranfaglia, Vincitori e vinti. La Resistenza fu una guerra giusta?, "La Repubblica", 12 ottobre 1991. (13) Cfr. ad esempio, R. Carli Ballola, Storia della Resistenza, Ed. Avanti!, Milano 1957; L. Longo, Un popolo alla macchia, Ed. Riuniti, Roma 1965; R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964. (14) Cfr., ad esempio, Istituto Milanese per la Storia della Resistenza e del Movimento operaio, Annali. Studi e strumenti di storia metropolitana milanese. Guida agli archivi dell' istituto, F Angeli, Milano 1992. (15) Cfr. G. Quazza, La Resistenza italiana. Appunti e documenti, Giappichelli, Torino 1966; E: Collotti, L'amministrazione tedesca nell'Italia occupata, Lerici, Milano 1963. (16) Cit. (17) M. Revelli, op. cit., p. 37. (18) N. Bobbio, Resistenza: le guerre erano tre, "La Stampa", 15 febbraio 1991. (19) M. Isnenghi,Le tre guerre, "L'indice", n. 9, 1991, p. 36. Per una prima discussione sul libro di Claudio Pavone: P. Battista, Resistenza: guerra civile?, "La Stampa", 13 ottobre 1991; N. Bobbio, cit.; M. Boccianini, Intervista a Renzo De Felice. Resistenza, le "amnesie" di Pavone, "Avanti!", 8 ottobre 1991; L. Canfora, Perche tre guerre?, "Il Manifesto", 25 novembre 1991; B. Del Colle, Perchè la Resistenza fu guerra civile, "Famiglia cristiana", n. 43, 1991; Controversie storiche: Resistenza, cioè guerra civile, colloquio con Claudio Pavone di Elisabetta Rasy, "L'Espresso", 20 ottobre 1991; G. De Luna, Ciascuno con la propria coscienza, solo davanti alla guerra, "Il Manifesto", 25 ottobre 1991; G. Favre, Eppur dovete andar, "Panorama", 20 ottobre 1991; N. Gallerano, Italiani contro italiani: il gesto e l'eroismo, "Il Manifesto", 25 ottobre 1991; A. Gnoli, Fucilavamo i fascisti e non me ne pento, "La Repubblica", 16 ottobre 1991; M. Isnenghi, cit.; P. Lavatelli, Una morale per la politica , "L'Unità", 16 ottobre 1991; G. Pasquino, E la moralità fu guerra civile, "L'Unità", 18 novembre 1991; M. Revelli, cit.; G. Rochat, cit.; G. Seniga, La Resistenza non fu "una guerra civile", "Avanti!", 13 novembre 1991; E. Tassini, 1943-1945: perchè fu una guerra civile, "L'Europeo", n. 43, 1991; N. Tranfaglia, cit. (20) Cfr. N. Bobbio, op. cit. (21) Sul rapporto tra anarchia e Resistenza cfr. M. Rossi, Avanti siam ribelli. Appunti per una storia del movimento anarchico nella Resistenza, BFS, Pisa, (22) N. Bobbio, op. cit. (23) La bibliografia su Giancarlo Puecher è costituita dai seguenti volumi monografici: G. Bianchi, Giancarlo Puecher, A. Mondadori, Milano 1965; C. Grampa-A. Sironi, Giancarlo Puecher: la fede nella ragione, Edizioni Duomo, Milano 1982; G. De Antonellis, IL caso Puecher, Rizzoli,Milano 1984. Riferimenti a G. Puecher si trovano anche in F. Fucci, Galantuomini dietro le sbarre, Tarantola, Milano 1945; A. Saitta, Dal fascismo alla Resistenza. La Nuova Italia, Firenze 1961; A. Ghetti, La nostra Resistenza, in "L'Italia", 25 aprile 1963; Comune di Milano, La nostra Resistenza, Quaderni della città di Milano, n.18, 1964; V. Volpini, I cattolici e la Resistenza, in "Civiltà cattolica", maggio 1964; Provincia di Milano, Dalla Resistenza, Milano 1975; G. Bianchi, Antifascismo e Resistenza nel Comasco (rievocazione, testimonianze, documenti), Como 1975; G. De Antonellis, Puecher: prima medaglia d'oro della Lombardia, in "Storia illustrata", dicembre 1983; Id., Giancarlo Puecher, un tipico martire dell'ideale, in AA.VV., La guerra partigiana in Italia. Edizioni Civitas, Roma 1984. (24) Einaudi, Torino 1969, p. 219. Compare anche nelle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (a cura di P. Malvezzi e G. Pirelli, Einaudi, Torino 1952), con la seguente nota biografica: "Di 20 anni - dottore (errato,in verità semplice studente) - nato a Milano il 23 agosto 1923 -. Subito dopo I' 8 settembre diventa l'organizzatore ed il capo dei gruppi partigiani che si vanno formando nella zona di Erba-Pontelambro (Como) - svolge numerose azioni, fra cui rilevante quella al Crotto Rosa di Erba, per il recupero di materiale militare e di quadrupedi-. Catturato il 12 novembre 1943 a Erba, da militi delle locali Brigate Nere - tradotto nelle carceri San Donnino in Como - più volte torturato -. Processato il 21 dicembre 1943 dal Tribunale Speciale Militare di Erba -. Fucilato lo stesso 21 dicembre 1943, al cimitero nuovo di Erba, da militi delle Brigate Nere -. Medaglia d' Oro al Valor Militare -. E' figlio di Giorgio Puecher Passavalli, deportato al campo di Mauthausen ed ivi deceduto" (p. 267). (25) D. Maestri, Resistenza e impegno letterario, Paravia, Torino 1975. (26) C. Pavone, op. cit., p. 267. (27) Cfr. D. Maestri, op. cit.; D. De Grandis - A. Greco, 1943-45: una generazione si racconta, "I viaggi di Erodoto", n. 18, 1992, pp. 166-185. (28) Cfr. Lettere della Resistenza europea cit. e Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, cit. (29) D. DE Grandis - A. Greco, op. cit., p. 167. (30) N. Bobbio, op. cit. (31) Cfr. A. Cavalli-A. De Lillo (a cura di), Giovani anni 90, II Mulino, Bologna 1993. -II-

LA RESISTENZA IN EUROPA, IN ITALIA E A MILANO di Michele Cerminara, Andrea Appiani e Antonio Acocella

I. La Resistenza in Europa

1. Caratteri generali della Resistenza in Europa.

La seconda guerra mondiale fu combattuta, sia dal punto di vista militare che da quello politico, su due piani diversi: oltre alle forme classiche di conduzione delle ostilità, come lo scontro tra eserciti regolari e i tentativi di soluzione diplomatica del conflitto, si ebbe un altro tipo di guerra, portata avanti dai popoli insorti contro i regimi dittatoriali che si erano instaurati in molti stati d'Europa. L'insieme delle esperienze che costituirono questo "secondo fronte" va sotto il nome di Resistenza, la quale nacque spontaneamente nelle nazioni sottomesse alla dittatura nazista o occupate dal blocco nazifascista, con lo scopo di liberare il proprio Paese dall'oppressione a cui erano soggetti, per restaurare le forme istituzionali spazzate via dalla furia nazista, nei paesi dove queste godevano ancora dell'appoggio del popolo, o per instaurarne delle nuove, in quei paesi dove il regi-me precedente, solitamente totalitario, incontrava un'opposizione consistente(1). La Resistenza non nacque subito come fenomeno a carattere militare, ma sorse lentamente nei singoli individui, dapprima come ribellione morale contro le forze occupanti, per subire in seguito, soprattutto grazie all'opera svolta dai movimenti politici che agivano nella clandestinità, un' aggregazione che la fece maturare fino a farle acquistare la connotazione di lotta armata vera e propria . I movimenti partigiani portarono avanti la loro lotta svolgendo soprattutto azioni di guerriglia, effettuate da bande che raccoglievano ex militari, giovani volontari, renitenti alla leva o prigionieri evasi, che, evitando lo scontro frontale, logoravano lentamente l'avversario (2). Oltre alle azioni di carattere militare, un ruolo fondamentale fu svolto dalla propaganda., condotta principalmente per mezzo della stampa clandestina, che garantiva un largo coinvolgimento popolare, il quale si evidenziava negli scio-peri di solidarietà (molto importanti furono quelli del 1943 nelle principali aziende del nord Italia) e nelle rivolte che caratterizzarono le vicende di molti ghetti ebraici (particolare clamore suscitò la rivolta del ghetto di Varsavia , del 19 aprile 1943 )(3). La Resistenza ebbe un'importanza tutt'altro che trascurabile per lo svolgersi del conflitto: dal punto di vista militare provocò lo scardinamento di molti settori delle retrovie delle linee tedesche, impegnando le forze dell'Asse in quello che può essere considerato come un secondo fronte; inoltre ebbe un' enorme importanza dal punto di vista psicologico, grazie al carattere ossessivo, quasi da incubo, che la lotta partigiana assunse per le forze armate nazifasciste.(4) II punto di forza della Resistenza non fu solo il suo potenziale di carattere militare e psicologico da utilizzare contro l'esercito avversario, ma fu anche rappresentato dal vuoto di consensi che riuscì a creare intorno alle autorità occupanti, le quali perdettero in questo modo il basilare appoggio datogli dai "collaborazionisti". Il fenomeno del collaborazionismo, radicalmente opposto a quello della Resistenza, caratterizzò l'occupazione di molti paesi, nei quali la lotta per la liberazione era fortemente ostacolata dal governo stesso, che dopo l'occupazione si era "alleato" con i nazisti (uno dei casi più lampanti di collaborazionismo fu quello del governo filonazista di Vichy, nella parte meridionale della Francia). Gli ostacoli che i vari movimenti di Resistenza dovettero superare furono principalmente due: la reazione delle truppe italo-tedesche e le rotture intestine, che laceravano lo schieramento dall'interno. La repressione dei movimenti partigiani si basò sull'instaurazione di un regime di Terrore, realizzato mediante esecuzioni sommarie, torture, rastrellamenti, distruzioni, con il solo scopo di far venir meno quell'entusiasmo che alimentava la Resistenza. I conflitti all'interno dei singoli movimenti clandestini erano soprattutto causati dal dibattito che insorgeva a proposito del futuro istituzionale del paese dopo la liberazione. Questi conflitti impegnarono duramente le forze partigiane, causando spesso guerre civili (come accadde in Jugoslavia e in Grecia) e in alcuni casi decretando il fallimento del tentativo di liberazione autonomo (come accadde in Polonia). La Resistenza nei vari stati europei ebbe un indubbio peso per le sorti del conflitto, fu sicuramente un validissimo punto d'appoggio per gli alleati, ma, di contro, fu in parte ostacolata proprio dagli alleati, proprio a causa di quelle implicazioni politiche che si accompagnavano alla lotta di liberazione. Lo scontro ideologico impregnò la guerra come mai era successo prima, portando alla divisione del continente in sfere d'influenza, che segnò la storia europea fino alla caduta del blocco sovietico. Il ruolo principale nell'appoggio esterno ai vari gruppi partigiani fu svolto soprattutto dall'Inghilterra, che divenne sede di numerosi governi in esilio, dove fu realizzato il primo organo di coordinazione dei movimenti clandestini, il "S.O.E" (Special Operations Executive). Anche l'U.R.S.S. ebbe un peso notevole nell'appoggio alla Resistenza, grazie ai contatti delle alte gerarchie sovietiche con i principali esponenti dei partiti comunisti dei singoli stati e alla presenza in Russia di un folto gruppo di esuli, soprattutto polacchi e tedeschi, che svolgevano da qui attività politiche e alimentavano la propaganda antinazista. Gli Stati Uniti entrarono in contatto coi gruppi partigiani fornendo loro una gran-de quantità di mezzi e condizionandone gli orientamenti politici in senso antisovietico col ricatto del piano Marshall. Gli alleati tendevano a favorire i gruppi più moderati, per poter tenere sotto controllo lo sviluppo politico del conflitto, ma non sempre riuscirono in questo loro intento, così in Italia cadde la monarchia, in Jugoslavia andò al potere il maresciallo Tito e in Grecia infuriò la guerra civile per impedire la restaurazione della monarchia, imposta dagli inglesi.

2. La Resistenza nell' Europa occidentale

La Resistenza, che andava diffondendosi parallelamente all'espansione dei territori soggetti ai paesi dell'Asse, fu dapprima solo astensione delle popolazioni occupate da ogni segno di solidarietà nei confronti degli occupanti, e solo gradualmente si trasformò in aperta ostilità verso questi ultimi. Un ruolo fondamentale nella maturazione dei movimenti di Resistenza fu svolto dai partiti comunisti, i quali agevolarono l'espansione ed il consolidamento dei movimenti clandestini. La svolta fu segnata dall'invasione dell'U.R.S.S. e dalla resa di Stalingrado, avvenimenti avvenimenti che fecero raggiungere anche in Europa occidentale il massimo di intensità della Resistenza, in attesa dello sbarco americano che avrebbe aperto il secondo fronte sul continente(5).

a) I primi paesi in Occidente ad essere invasi, il 9 aprile 1940, furono Danimarca e Norvegia: nel primo il carattere prevalente della lotta per la liberazione fu quello di Resistenza passiva, di propaganda antinazista, svolta parallelamente all'opera dei sabotatori e guastatori, attività svolte senza la coordinazione di un organismo operante su base nazionale che si formò solo dopo le dimissioni del governo danese, nell'estate del 1943(6). La lotta in Norvegia fu invece più aspra: dopo la fuga di re Haakon in Inghilterra, i tedeschi insediarono un governo fantoccio, guidato dal filonazista Quisling; si venne così a creare, immediatamente, un movimento d'opinione avverso al nuovo esecutivo collaborazionista, e sorsero i primi gruppi armati, formati prevalentemente da militari rifugiatisi nelle campagne, che diedero vita ad una fitta e larga-mente diffusa rete di sabotatori, che procurarono ai tedeschi una mole di perdite molto superiore a quella che era stata messa in preventivo per l'operazione. Questa attività fu appoggiata direttamente dal Regno Unito, che fornì uomini e mezzi in aiuto al movimento clandestino già organizzatosi(7).

b) Dopo Danimarca e Norvegia l'esercito tedesco invase, il 10 maggio 1940, l'Olanda e il Belgio: le forze armate olandesi furono costrette alla resa dopo soli quattro giorni e sia il governo che la regina furono costretti a rifugiarsi in Inghilterra, da dove alimentarono la Resistenza contro l'invasore. Sorsero subito movimenti clan-destini spontanei, formati sia da civili che da militari, con lo scopo di liberare il paese degli invasori. La lotta partigiana ebbe come strumento principale la propaganda, efficace soprattutto per mezzo della stampa clandestina, accompagnata da grandi manifestazioni di solidarietà nei confronti delle vittime del terrorismo nazifascista, che furono tra le più imponenti tra tutte le manifestazioni svoltesi in Europa sotto l'occupazione nazista(8). In Belgio la Resistenza assunse immediatamente le caratteristiche di ribellione sia morale che politica, soprattutto a causa del ricordo che la popolazione aveva dell'invasione del 1914, e ciò determinò il totale isolamento a cui furono soggette le forza naziste. L'atteggiamento del re Leopoldo fu, però, un elemento di notevole confusione, poiché si rifiutò di seguire il governo in esilio a Londra, rimanendo in una sorta di attesa, non collaborando coi nazisti, né guidando la Resistenza, ponendo in questo modo i presupposti per un aspro dibattito riguardo la forma istituzionale da adottarsi dopo la fine del conflitto. La Resistenza belga si limitò, in generale, ad assumere posizione contro l'occupante, senza sfociare in un movimento armato organizzato su larga scala; la sua attività principale consistette nell' organizzazione delle manifestazioni di dissenso, limitando le azioni militari a sporadici casi di sabotaggio(9).

c) In Francia si costituì uno dei maggiori movimenti di Resistenza di tutta l'Europa occidentale, particolarmente funzionale sia per la sua efficienza militare che per il suo spessore politico, secondo soltanto all'esperienza italiana. Nel giugno 1940 il governo francese fu costretto a firmare un armistizio che la umiliava profondamente: la parte settentrionale della nazione passò sotto il controllo diretto della Wehrmacht (l'insieme delle forze armate tedesche), mentre la parte meridionale si sottometteva alla potenza della Germania, diventando una sorta di stato satellite, guidato dal maresciallo Pétain, il quale diede in questo modo il colpo di grazia alla terza repubblica tornando alle tradizioni tipiche dell'ancien régime. In opposizione al collaborazionismo che caratterizzava la Francia di Vichy, il generale De Gaulle cercò di realizzare la Resistenza utilizzando gli appelli lanciati da Radio Londra: al primo di questi appelli, trasmesso il 18 giugno 1940, risposero positivamente gran parte delle unità militari francesi di stanza all'estero, dalle quali nacquero le "Forces Francaises Libres", che garantirono alla Francia la permanenza nel gruppo degli alleati, evitandole di essere degradata al rango di paese occupato, cosa che le avrebbe dato un peso ben diverso durante la stipula dei trattati alla fine della guerra. Sul suolo francese si andavano costituendo, nel frattempo, i primi gruppi partigiani che, almeno all'inizio, si dedicarono quasi esclusivamente alla propaganda; questi piccoli gruppi si daranno successivamente un'organizzazione unitaria, confluendo nelle "Forces Francaises de I'Interieur". Lo spirito della Resistenza pervase tutti i ceti della popolazione, ma l'eccessivo frazionamento e la mancanza di collaborazione tra i vari gruppi furono motivi di forte debolezza per il movimento partigiano. Si impose così il problema del coordinamento e dell'accentramento delle iniziative, che acquistò particolare rilevanza per il valore politico che implicava. Fu riconosciuta l'autorità di De Gaulle che, per mezzo dell'ex prefetto Moulin, portò a termine l'unificazione del movimento di Resistenza, che sfociò nella creazione del "Conseil National da la Resistance", composto da rappresentanti di tutte le correnti politiche, sotto la presidenza dello stesso Moulin. Il Consiglio provvide a stendere un programma unitario, sottoscritto il 15 marzo 1943 da tutti i movimenti aderenti, che era inevitabilmente un programma di compromesso, in grado di incontrare il consenso di tutti gli orientamenti politici, scongiurare il pericolo di provocare spaccature all'interno del fronte antitedesco: i moderati rinunciarono alla polemica anti-comunista, mentre i filosovietici limitarono le loro istanze di rinnovamento a quelle comunemente accettabili. Il programma fissava le direttive per l'azione immediata e un minimo di principi comuni per la ricostruzione che avrebbe seguito la liberazione. Questa ricostruzione non era intesa come semplice ritorno alla situazione precedente, ma era considerata come un momento di lotta per un rinnovamento profondo della società francese, senza mettere in discussione la forma repubblicana dello stato. Dal punto di vista militare, oltre a sottrarre uomini ai reclutamenti attuati sia dall'esercito tedesco che dal governo di Vichy, la Resistenza fu molto importante per il ruolo svolto dai gruppi clandestini datisi alla macchia. Lo sbarco alleato galvanizzò le formazioni della Resistenza, che contribuirono a sconvolgere le retrovie tedesche, agevolando notevolmente la vittoria degli alleati(10).

3. La Resistenza nell'Europa orientale e sudorientale

In Europa orientale la lotta di Resistenza nacque sia come risposta alla guerra di annientamento e sterminio condotta dai gerarchi nazisti, sia in seguito all'esplosione di quelle situazioni di oppressione politica e sociale, determinate dai regimi assolutistici che avevano caratterizzato la storia di questi paesi prima del conflitto.

a) Il primo paese dell'Europa orientale in cui si sviluppò un movimento partigiano fu la Cecoslovacchia, che era stata smembrata nel marzo 1939: immediatamente sorse una intensa attività di propaganda, guidata dagli esponenti politici costretti ad emigrare all'estero, tendente a mantenere vivo l'ideale di indipendenza del territorio nazionale. I gruppi partigiani erano prevalentemente formati da attivisti attivisti del partito comunista, che operarono in stretto contatto con l'Armata Rossa. Le operazioni militari erano costituite prevalentemente da atti di sabotaggio, spesso realizzati grazie all'ausilio degli specialisti inviati dall'Inghilterra. Il più importante di questi atti fu indubbiamente l'assassinio di Reinhard Heydrich, uno dei più temuti capi della polizia nazista e amministratore del protettorato di Boemia e Moravia. In risposta a questo omicidio i tedeschi attuarono una violenta rappresaglia, culminata nella distruzione di un piccolo centro nei pressi di Praga, una delle tante stragi che caratterizzarono l'occupazione tedesca dell'Europa orientale. In concomitanza con l'avanzata dell'Armata Rossa ai confini cecoslovacchi le forme della Resistenza mutarono radicalmente: dalle manifestazioni di dissenso che spesso accompagnarono l'occupazione tedesca si passò a veri e propri atti di aperta ostilità, che moltiplicarono il numero di sabotaggi e delle operazioni di carattere militare. Oltre all'omicidio di Heydrich, i due episodi più importanti della Resistenza cecoslovacca furono l'insurrezione slovacca del 29 agosto 1944 e l'insurrezione di Praga del 5 maggio 1945, che impegnarono duramente e a lungo le truppe dell'Asse. Dopo la liberazione, avvenuta ad opera delle forze armate sovietiche, venne instaurato un governo rappresentante tutti gli orientamenti politici, che attuò una politica di amicizia sia con le potenze del fronte occidentale che con I'U.R.S.S.(11).

b) La storia della Resistenza in Polonia fu molto travagliata, soprattutto a causa delle insanabili fratture interne al movimento di liberazione: la posizione geografica del paese tra l'Unione Sovietica e la Germania determinò una profonda frattura tra comunisti e coloro che temevano allo stesso modo i nazisti e i sovietici. La Polonia era poi sede dei grandi lager nazisti, tra cui il tristemente famoso campo di Auschwitz, e nelle principali città vi erano popolosi ghetti ebraici, le cui insurrezioni caratterizzarono la Resistenza ebraica (particolare rilievo ebbe la rivolta del ghetto di Varsavia, del 19 aprile 1943). La frattura interna allo schieramento antinazista fu il principale motivo della debolezza del movimento partigiano polacco: da un lato, l'Armata dell'Interno", fedele al governo in esilio a Londra, attuava una serie di sabotaggi, per sconvolgere i trasporti interni tedeschi, ma non collaborando in alcun modo con l'Armata Rossa, almeno fino all'invasione tedesca dell'U.R.S.S., che spinse il governo in esilio a riallacciare i rapporti diplomatici con Mosca. Tra i due schieramenti partigiani non ci fu mai alcun tentativo di collaborazione organica, ma entrambi cercavano di battere sul tempo la fazione opposta, per impedire che potesse assumersi il merito di aver liberato il Paese. Proprio in questo clima va inquadrata l'insurrezione di Varsavia del 1944: il generale Borkomorowskj, comandante dell'Armata dell'Interno, diede l'ordine di insorgere contro i tedeschi per liberare la città prima dell'arrivo dell'Armata Rossa, ma il tentativo fu soffocato dalla schiacciante superiorità dopo due mesi di lotta. La rottura tra filosovietici e filooccidentali proponeva in anteprima la lotta tra le due sfere d'influenza che segnerà in seguito mezzo secolo di storia del continente europeo(12).

c) Il paese dove la Resistenza conseguì i risultati militari più rilevanti fu la Jugoslavia, che fu teatro di una lotta non basata esclusivamente su atti di sabotaggio o su insurrezioni popolari, ma di una lotta finemente organizzata, costituita di offensive e controffensive, che portò il paese alla liberazione con una tattica di largo raggio, tenendo in scacco un numero ingente di divisioni italo-tedesche. Questo carattere unitario della Resistenza jugoslava, che riuscì a mettere da parte le rivalità tra le diverse nazionalità che costituivano lo stato, conferì alla Jugoslavia Jugoslavia un'enorme forza d'urto alla lotta partigiana, anche grazie allo strettissimo legame tra i gruppi armati ed il potere politico: in particolare il partito comunista jugoslavo si impegnò nella lotta di liberazione, guidando le forze della Resistenza, con a capo Tito, il segretario del partito. I primi gruppi clandestini sorsero fin dal giugno 1941, mettendo in grandi difficoltà le truppe nemiche sin dalle prime azioni di guerriglia, come l'insurrezione del Montenegro del luglio successivo. Già dalle prime fasi della lotta iniziava a manifestarsi l'opposizione tra le forze guidate da Tito, che avevano come scopo principale la cacciata dei nazifascisti, senza porre limitazioni di tipo nazionalistico alla loro opera, e quelle capeggiate dal generale serbo Mihailovic, appoggiato dal governo in esilio e dal re, che mira-va a perpetuare l'egemonia serba sulla Jugoslavia liberata, e per questo motivo tendeva a risparmiare le forze a sua disposizione per la fase di trapasso, e quindi non disdegnava di stringere tregue con gli avversari. Lo scontro diretto divenne ben presto inevitabile, la guerra civile tra le due fazioni opposta non poté essere evitata, e terminò con la vittoria del movimento partigiano guidato da Tito, che offriva al paese l'opportunità di attuare un vero rinnovamento politico e sociale. Alla fine del novembre 1942 nacque a Bihac il "Consiglio Antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia", che si proponeva come organo politico della lotta di liberazione, a fianco del comando dell'esercito partigiano, e che rappresentava il nuovo governo della Jugoslavia. Il Consiglio Antifascista contestò ogni competenza al governo in esilio e proclamò la struttura federalista che la Jugolavia avrebbe acquisito dopo la liberazione, struttura che le avrebbe permesso di superare le difficoltà derivanti dall'odio tra le varie nazionalità garantendo ad ognuna di esse una larga autonomia. Un avvenimento molto importante per la guerra di Resistenza jugoslava fu l'armistizio italiano dell'8 settembre 1943, che fornì alle fila dei partigiani armi e reparti italiani, che velocizzarono la liberazione del paese. Il movimento guidato da Tito, grazie ai successi militari ottenuti, fu riconosciuto dalle potenze alleatesi contro i nazisti: innanzitutto il riconoscimento da parte dell'Inghilterra, che prima aveva appoggiato Mihailovic, convogliò sui partigiani di Tito un' ingente quantità di aiuti, che risultò determinante per le sorti del conflitto; nel febbraio 1944 anche l'U.R.S.S. riconobbe il movimento partigiano capeggiato da Tito, e inviò una missione militare presso il comando supremo di quest'ultimo; infine anche il governo in esilio di re Pietro fu costretto a riconoscere alle forze di Resistenza i loro meriti, stipulando un accordo che prevedeva un governo che comprendesse tutte le forze di liberazione. Questo governo fu formato l'8 marzo 1945 sotto la presidenza di Tito, e guidò la fase di transizione verso l'assemblea costituente, la quale proclamò, nel novembre successivo,la Repubblica(13).

d) In Grecia la lotta di Resistenza assunse un rigore estremo, come conseguenza della lunga sottomissione alla dittatura del generale Metaxas. I primi gruppi partigiani sorsero subito dopo l'armistizio del 1941, quando fu instaurato un governo collaborazionista, e furono alimentati da gruppi di militari di ogni orientamento politico, oltre che da truppe e mezzi italiani, unitisi ai resistenti dopo l'armistizio, analogamente a quanto era successo in Jugoslavia. La Resistenza assunse in tutti i principali gruppi clandestini un carattere di aperta avversione nei confronti della monarchia e del governo, fuggiti in esilio al Cairo, che furono, però, supportati dal governo inglese di W.Churchill. Inoltre la Resistenza greca era fortemente politicizzata, non solo come lotta contro l'invasore, ma soprattutto come lotta per abbattere la dittatura, per essere poi sacrificata dall'intervento esterno alla spartizione dell'Europa in sfere di influenza. Ci furono per questi motivi aspri scontri tra i gruppi partigiani filomonarchici e quelli che osteggiavano il ritorno del re. Nel febbraio 1944 i principali movimenti partigiani stipularono un accordo per concentrare i loro sforzi contro i tedeschi, rimandando ogni decisione di carattere istituzionale a liberazione avvenuta. Nell' agosto 1944 fu formato un governo di coalizione con la partecipazione di tutti i partiti politici, ma era evidente la volontà degli inglesi, nella cui sfera d'influenza rientrava la Grecia, di restaurare la monarchia di Giorgio II: Churchill era spinto da un forte spirito anticomunista e dalla sua politica conservatrice, e l'Unione Sovietica non poteva intervenire in appoggio ai partigiani comunisti. Scoppiò così, in seguito al rifiuto dei resistenti filosovietici di deporre le armi, la guerra civile: la Resistenza greca, che molto aveva potuto contro le truppe naziste, fu così sconfitta dagli inglesi, che restaurarono la monarchia(14).

e) II movimento più imponente dell'Europa orientale fu senza dubbio quello che si sviluppò nei territori dell'U.R.S.S. invasi dalle forze armate dell'Asse. La liberazione, in questo caso, non fu però opera di un movimento spontaneo, ma fu portata avanti dall'Armata Rossa, l'esercito sovietico, sotto la guida del comando supremo; inoltre lo spirito di liberazione non aveva in sé quelle istanza di cambio profondo proprie della maggior parte dei movimenti partigiani, ma era uno spirito patriottico di liberazione del suolo patrio. Il successo dell'Armata Rossa fu garantito dall'efficienza dell'industria bellica sovietica e dalle condizioni geografiche del paese, che permettevano di tenere occupate intere regioni nelle retrovie del fronte tedesco, il quale non riuscì mai a sconvolgere le strutture statali dell'Unione. Il movimento partigiano sovietico fu caratterizzato da una prima fase, dedicata all'elaborazione della tattica e alla formazione dell'organizzazione partigiana, e da una seconda fase, dall'autunno 1942 alla primavera 1944, in cui l'esercito partigiano passò all'offensiva generale dietro alle spalle del nemico, in stretta sincronia con l'avanzare dell'Armata Rossa, in cui furono incorporate le truppe partigiane dopo la cacciata dei nazisti(15).

4. La Resistenza nei paesi dell'Asse

a) In Germania l'opposizione interna nacque parallelamente all'ascesa politica di Hitler e del partito nazionalsocialista, ad opera dei partiti politici che avevano ostacolato maggiormente l'avvento del nazismo, in modo particolare ad opera di quei partiti che avevano come base popolare il movimento operaio. Appena salito al potere, Hitler attuò una dura politica di repressione nei confronti dei partiti di opposizione, obbligando le più eminenti personalità politiche alla fuga dalla Germania, in alternativa all'internamento nelle carceri o nei campi di sterminio (furono uccisi 57 parlamentari comunisti e 62 socialdemocratici, oltre a numerosi esponenti dei vari partiti, come Thàlmann e Hilferding). I dirigenti politici rifugiatisi all'estero mantennero i contatti con i gruppi di agitatori, generalmente legati agli ex partiti politici, che diffondevano materiale clandestino stampato in Cecoslovacchia. In Germania mancò quel coinvolgimento popolare che era stato il punto di forza dei movimenti partigiani del resto d'Europa, in primo luogo perché il regime terroristico del Terzo Reich incuteva timore in tutti gli strati della popolazione, inoltre perché le promesse di vendicare i vincoli imposti dal trattato di Versailles e di eliminare la disoccupazione raccolsero un enorme consenso intorno alla figura di Hitler. Mancava inoltre quello spirito di liberazione come patriottismo che era stata una caratteristica comune di tutti i moti di Resistenza. A causa di queste mancanze la Resistenza non assunse mai i caratteri di vera e propria opposizione armata, cime avvenne in Italia dopo l'Armistizio, ma rimase sempre opera prevalentemente morale, condotta da gruppi ristretti motivati da ragioni ideologiche molto forti. La Resistenza tedesca, oltre a basarsi sull'attività dei politici detenuti o fuggiti all'estero, si concretizzò nell'appoggio dato da una folta schiera di fuoriusciti tedeschi alla guerra civile in Spagna contro il generale Franco, nell'attività svolta nelle fabbriche, nella protesta morale di molti religiosi, nell'azione propagandistica di piccoli gruppi, come la "Rote Kapelle", annientata dalla Gestapo nel 1942, o come quello della "Weisse Rose", distrutto nell'inverno 1943. Tra i partiti politici decimati dopo l'avvento di Hitler, quello che svolse una più intensa attività di Resistenza fu l'ex partito comunista, operante sia in patria che dall'estero, soprattutto dalla Russia, dove fu costituito nel luglio 1943 un "Comitato Nazionale Germania Libera", che cercò di sfruttare i primi cedimenti che la macchina da guerra di Hitler manifestò dopo la sconfitta di Stalingrado. L'azione più importante della Resistenza in Germania, importante non tanto per le conseguenze che ebbe, quanto per il clamore che suscitò, fu l'attentato a Hitler del 20 luglio 1944, al quale parteciparono, oltre a diversi gruppi clandestini, anche alti esponenti del regime, spinti non da una convinzione politica avversa al nazismo, ma dalla volontà di salvare il salvabile, sacrificando alla causa del regime quegli esponenti che si erano più compromessi agli occhi dell'opinione pubblica, per scongiurare il pericolo di dover subire le dure condizioni imposte dai vincitori del conflitto, come accadde con i trattati di Versailles. Hitler, però, sopravvisse alla bomba che avrebbe dovuto ucciderlo, e annientò facilmente quei gerarchi che, credendolo morto, si erano scoperti. L'episodio del 20 luglio fu però un fatto isolato, non inserito in un piano generale della Resistenza, ma fu un'azione nata da un tentativo delle strutture di potere del Terzo Reich di sopravvivere(16).

b) Le vicende della Resistenza austriaca furono abbastanza simili a quelle viste per il caso della Germania: anche in Austria la Resistenza non nacque in seguito allo scoppio della guerra, ma fu un fenomeno parallelo all'instaurazione della dittatura del cancelliere Dullfuss. L'opposizione conobbe poi una sensibile espansione nel 1938, quando il terrore nazista si allargò anche ai territori austriaci, spingendo alla opposizione anche alcuni elementi della società che prima aveva-no appoggiato Dullfus. L'Austria era infatti divenuta una sorta di marca orientale del Reich, e la risposta all'oppressione sempre crescente si concretizzò nell'emigrazione degli intellettuali, nell'intensificazione della propaganda antigovernativa, nelle manifestazioni di solidarietà verso i perseguitati e nelle diserzioni di numerosi austriaci arruolati nella Wehrmacht: l'importanza di queste dissezioni fu notevole, soprattutto se si tiene conto che nello stesso periodo si costituirono i primi gruppi partigiani nelle valli della fascia alpina. La crescita dei gruppi clandestini fu molto importante per la storia dell'Austria, perché la Resistenza generò un nuovo senso di solidarietà nazionale e una sempre crescente volontà di indipendenza del paese, in aperta ostilità con il progetto hitleriano di una grande nazione tedesca. di cui l'Austria sarebbe stata solo una parte(17).

5. Conclusioni

Il fenomeno della Resistenza è stato, per estensione, intensità e risvolti politici, uno dei fenomeni più importanti di tutto il XX secolo, capace di segnare la storia di un intero continente, con importanti conseguenze per tutto il mondo. La Resistenza ha svolto un' importante azione di maturazione sia civile che politica, sia in quei paesi che l'hanno vissuta direttamente, anche se con intensità diverse da zona a zona, sia in quei paesi, come l'Inghilterra, che hanno appoggiato i movimenti partigiani dall'esterno. Gli ideali ispiratori della Resistenza sono stati le basi per la costruzione dell'Europa moderna, e per questo motivo è necessario mantenerli vivi nella nostra società, per impedire alle future generazioni di ricadere in quegli errori che sono costati la vita a migliaia di vittime innocenti.

Il. La Resistenza in Italia

1. Premessa

E' necessario ora ricostruire le fasi e le componenti fondamentali della storia della Resistenza italiana, che "costituì un momento di svolta nelle vicende del nostro paese, perché essa diede un contributo essenziale alla maturazione civile e politica degli italiani e fu il punto d'avvio della nuova Italia democratica" (18).

2. Inquadramento storico della Resistenza italiana all'interno della guerra

La Resistenza in Italia è inserita in un preciso periodo storico che va dal settembre del 1943 all'aprile del 1945. Prima di giungere al settembre 1943, però, va ricordato come l'andamento sfavorevole della guerra, lo sbarco alleato in Sicilia e la "congiura" di alcuni gerarchi fascisti abbiano provocato la caduta del fascismo in Italia, che si concretizzò il 25 luglio 1943, quando Mussolini fu costretto a dimettersi da capo del governo e fu arrestato. Il re Vittorio Emanuele III nominò, quindi, capo del governo il generale Pietro Badoglio, il quale dichiarò che la guerra continuava e proclamò lo stato d'assedio. Spinto dai gruppi antifascisti, Badoglio chiese agli alleati anglo-americani l'armistizio, che fu firmato il 3 settembre 1943 a Cassibile (Siracusa), e reso pubblico I'8 settembre. In seguito all'annuncio dell'armistizio il re, Badoglio, alcuni ministri ed ufficiali, fuggirono da Roma, rifugiandosi nell'Italia meridionale sotto la protezione degli anglo-americani. L'esercito italiano rimase, così, senza ordini e abbandonato alla propria sorte; non fu, quindi, difficile per i tedeschi occupare militarmente l'Italia centro-settentrionale. Intanto Mussolini, liberato dai tedeschi, fondò alla fine del settembre '43 nell'Italia settentrionale la "Repubblica Sociale Italiana" o Repubblica di Salò, che si pose al fianco dei nazisti tedeschi. Fu nel settembre '43 che nacque ufficialmente il movimento di liberazione dai tedeschi e dal fascismo, denominato "Resistenza", quando il 9 settembre di quell'anno si formò a Roma il primo Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.). La dura lotta fu condotta da vari gruppi di partigiani riuniti in brigate, G.A.P. e S.A.P. (gruppi e squadre d'azione patriottica); l'azione tenace di questo movimento, superando tantissime e diverse difficoltà (in particolare il terribile inverno 1944-45), lentamente liberò molte zone dell'Italia centro-settentrionale procedendo verso nord. Durante la lunga ritirata le truppe tedesche eseguirono durissime rappresa-glie; fra queste è doveroso e necessario ricordare i massacri compiuti alle Fosse Ardeatine e nel comune di Marzabotto (Bologna). Ma l'azione partigiana fu inesorabile; si arrivò così alla liberazione, tra l'agosto 1944 e l'aprile 1945, delle principali città del centro-nord (Firenze, Bologna, Torino, Genova, Milano, Venezia, Padova Padova e Vicenza), in cui assunsero il potere i C.L.N. locali. Mussolini cercò di fuggire, ma fu catturato e giustiziato il 28 aprile 1945. II fascismo ed i tedeschi furono così eliminati, ma si poneva, ora, il grosso problema di ricostruire un'Italia distrutta ed economicamente in ginocchio. Questa è la ricostruzione per sommi capi dei più rilevanti fatti storici che fecero da sfondo al movimento di resistenza (19).

3. Dati sulla Resistenza in Italia

Essendo stata la Resistenza italiana un movimento molto ampio e diffuso in modi diversi nelle varie zone dell'Italia, non è sicuramente facile ricostruire precisi ed affidabili dati numerici che possano far chiaramente capire come il bisogno di libertà fosse veramente sentito in quel periodo. Intanto, a dimostrazione del fatto che il movimento di Resistenza, iniziato per opera di gruppi non numerosissimi di partigiani, coinvolse con il passare del tempo sempre più persone disposte a sacrificare anche la propria vita per raggiungere la tanto sospirata libertà, bisogna riportare il dato secondo cui il numero di partigiani combattenti era di circa 10.000 nell'autunno '43 e di circa 100.000 nell'estate del '44 (concentrati, in particolare, in Piemonte, Veneto, Emilia, Toscana e Lombardia) (20). Inoltre , secondo valutazioni ufficiali fatte alla fine della guerra, fu riconosciuta la qualifica di partigiano combattente a 232.841 persone; furono invece riconosciuti "patrioti", ossia collaboratori costanti, 125.714 persone (21). Purtroppo bisogna registrare anche la morte di moltissime persone, e senza dubbio queste vittime sono da ricordare negli anni, perché è proprio grazie alla loro morte che alla fine della guerra si è potuta raggiungere quella libertà che era lo scopo principale di tutta la resistenza italiana; sono pertanto stati registrati 72.500 caduti (compresi i civili) e 39.167 feriti gravi (mutilati e invalidi) (22). Altre importanti cifre riguardano il numero di civili uccisi per rappresaglia (10.000), i militari deportati nei lager nazisti (635.000), i dispersi (19.200); senza dimenticare inoltre gli 11.687 partigiani uccisi dai fascisti della Repubblica Sociale Italiana. Senza dubbio «dal punto di vista della sofferenza umana il costo era stato enorme» (23). Numerosi anche i riconoscimenti ufficiali per i più valorosi e meritevoli partecipanti alla Resistenza italiana: 279 medaglie d'oro, 750 medaglie d'argento, 500 medaglie di bronzo e 500 croci al valore militare (24). Tutte queste cifre e questi dati confermano l'importanza estrema e il grande valore di un movimento che coinvolse molti civili, tra cui anche donne e anziani, che presero veramente a cuore la lotta per la conquista della libertà.

4. Caratteristiche, mezzi e strumenti della Resistenza italiana

a) Il "C.L.N.". Sebbene molte bande e gruppi di partigiani fossero già attivi da alcuni mesi, la Resistenza italiana nacque ufficialmente il 9 settembre 1943 a Roma, quando alle 14.30 con un breve comunicato, gli italiani furono informati che i partiti antifascisti si erano costituiti in Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.) per guidare gli italiani nella lotta. I partiti riuniti nel comitato, il cui presidente era Ivanoe Bonomi, erano il Partito Socialista, il Partito d'Azione, la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista, la Democrazia del Lavoro ed il Partito Liberale. Durante il periodo della resistenza armata il C.L.N. si pose come organo che aveva il compito di coordinare ed organizzare le attività partigiane; in seguito, quando la liberazione fu completata assunse la forma di organo politico e amministrativo locale. Nei mesi immediatamente seguenti al settembre '43 si formarono spontaneamente diversi comitati di liberazione nazionali in tantissimi centri, soprattutto nel nord Italia, dove la resistenza sarà più intensa e dura. Da questa diversa distribuzione geografica dei vari C.L.N. sorti dopo quello del 9 settembre '43, risulta evidente che «mentre nell'Italia del nord e in Toscana la storia dei C.L.N. si intreccia con quella della lotta partigiana, quella dei C.L.N. di Roma, Napoli, Bari, è soprattutto storia della lotta dei partiti tra di loro, con la monarchia ed il suo governo» (25). Comunque, al di là di queste differenze esistenti da zona a zona nell'Italia, il C.L.N. e i vari comitati regionali, locali e periferici (molti formatisi anche nelle fabbriche e in altri luoghi di lavoro per difendersi dai tedeschi e dai fascisti dell'R.S.I.) sorgevano tutti in seguito alla constatazione della debolezza della monarchia e dell'incapacità del governo di opporre una valida resistenza all'avanzata tedesca nel territorio della penisola. Inoltre si può affermare che «il Comitato di Liberazione Nazionale rappresentava una brusca rottura nei confronti della classe dirigente italiana che aveva confuso le sue sorti con quelle del fascismo» (26). Infatti il C.L.N. rivestì nella storia dell'Italia un ruolo fondamentale, in quanto in esso «trovò espressione una classe dirigente nuova (...), non più ristretta allo strato sottile della elite al potere» (27), ma di estrazione sociale popolare.

b) Gruppi e brigate partigiane. Senza dubbio il contributo più consistente alla Resistenza lo diedero le varie formazioni partigiane: si formarono infatti divisioni e brigate, guidate da comandi centrali, fiancheggiate dai G.A.P. (Gruppi di Azione Patriottica) nelle città e dalle S.A.P. (Squadre di Azione Patriottica) nelle campagne, speciali formazioni con compiti particolari e specifici. Ma dei G.A.P. e delle S.A.P. si parlerà un po' più diffusamente più avanti. Sicuramente all'inizio la guerra partigiana era difficilissima e veramente molto ardua in quanto "si svolge nella clandestinità, nell'isolamento, con collegamenti faticosi, sotto la minaccia continua di rastrellamenti, di retate..." (28); molto spesso le varie formazioni partigiane agivano solo sull'iniziativa dei propri comandanti, senza piani ben progettati e coordinati. Più tardi, a mano a mano che la lotta diventava sempre più dura, la resistenza armata si organizzò meglio; infatti una fitta rete di comunicazioni e i collegamenti sicuri con gli alleati permisero il compimento di operazioni a più vasto respiro, come per esempio l'occupazione di importanti centri; così, i partigiani non si limitarono più soltanto a compiere colpi di mano e atti di sabotaggio. Anche se le azioni di guerriglia costituirono l'aspetto più rilevante del movimento di resistenza armata, non bisogna sottovalutare tutte le altre forme con le quali si sviluppò questo grande movimento e cioè "il semplice rifiuto, l'aiuto ai prigionieri di guerra alleati e agli ebrei perseguitati dalle misure razziste, le attività di propaganda politica antifascista e d'informazione militare a favore degli alleati" (29). Dal punto di vista politico, a poco a poco, le formazioni partigiane si differenziarono: i comunisti costituirono le brigate e divisioni "Garibaldi", il Partito d'Azione diede vita a reparti di "Giustizia e Libertà", i socialisti costituirono le brigate "Matteotti". In seguito anche i democristiani ebbero le loro unità, così come gli "autonomi" e i "monarchici". Le brigate meglio organizzate e che da sole comprendevano il 45%-50% di tutta la forza partigiana erano sicuramente le brigate "Garibaldi"; subito dopo di queste, come armamento e importanza numerica, venivano le brigate "Giustizia e Libertà", Libertà", che comprendevano circa il 20% delle forze partigiane (30).

c) G.A.P. e S.A P. Per condurre meglio la resistenza armata e per raggiungere gli obiettivi che il movimento si era preposto, furono formati, a fianco delle divisioni delle brigate partigiane due organismi speciali: i G.A.P. e le S.A.P.. Entrambe queste formazioni erano "composte di elementi scelti per la loro preparazione e il loro coraggio" (31). I Gruppi di Azione Patriottica si formarono nel novembre 1943, per iniziativa dei comunisti, e agivano soprattutto nelle città dove compivano atti di terrorismo e sabotaggio. Le Squadre di Azione Patriottica, invece, sorsero durante l'estate del 1944 nelle campagne emiliane, anch'esse per iniziativa comunista; queste avevano la funzione di organizzare scioperi, sabotaggi alla produzione di guerra e di diffondere materiali di propaganda antifascista; in generale le S.A.P. avevano uno scopo soprattutto difensivo, in quanto provvedevano alla difesa della popolazione contro le requisizioni o alla chiamata degli uomini al servizio di lavoro.

d) Composizione sociale della Resistenza. Una delle caratteristiche fondamentali di tutto il movimento di resistenza armata, che senza dubbio contribuì al raggiungimento della libertà, fu che ogni strato sociale, ognuno in misura diversa, fu attivamente coinvolto nella lotta; la Resistenza, quindi, «non fu monopolio esclusivo di una classe» (32). I combattenti pertanto provenivano da tutte le classi sociali, anche se «su un piano morale, alcune categorie di cittadini parteciparono più attivamente alla Resistenza, altre furono indifferenti, altre ancora, quelle più direttamente compromesse con il fascismo, apertamente ostili e, specie dopo la guerra, aspramente critiche» (33). Alcune statistiche parziali proposte da Roberto Battaglia (34) e che riguardano i partigiani del Piemonte, dicono che gli operai costituivano il 30.51% delle forze ribelli, le classi medie il 29.83%, i contadini il 20.39%, gli artigiani il 13.63% e le classi agiate il 5.64%; queste cifre confermano che la Resistenza fu «veramente una lotta di popolo, senza distinzioni sociali» (35). Anche dall'analisi di altri dati emerge come la classe operaia ebbe una parte di primo piano nella guerra di liberazione, e quindi come nella Resistenza italiana fosse presente un forte contenuto di classe. Celebri sono gli scioperi avvenuti nelle città italiane del nord durante il novembre-dicembre '43 e nel marzo '44; dati che confermano il grande peso acquistato dalle masse operaie nella Resistenza e in generale nella società italiana, grazie anche alla politica svolta dai partiti operai italiani. E' quindi giusto affermare che «in questo intreccio di scioperi e guerriglia, di azione militare e rivendicazioni sociali risiede il tratto peculiare e distintivo della Resistenza italiana» (36).

5. La Resistenza al nord, al centro, al sud dell'Italia: differenti caratteristiche per diverse realtà.

Nella nostra penisola il fenomeno della Resistenza non si manifestò nello stesso modo in tutte le zone; infatti si può affermare che l'esperienza più diretta del fenomeno l'abbia avuta sicuramente il nord-Italia; nel centro e in particolare nei sud-Italia invece, questo movimento per la libertà assunse forme meno dure e meno violente, ma soprattutto non fu di così vaste dimensioni come lo fu nel settentrione. A dimostrazione di ciò, pertanto, bisogno dire che molti storici e studiosi non ritengono giusto e corretto parlare di vera e propria Resistenza nel meridione italiano. Ma analizziamo ora un po più approfonditamente la situazione presente al nord, al centro e al sud.

a) Il nord. Come già accennato nell'iniziale quadro storico che fa da sfondo alla Resistenza in Italia, subito dopo l'8 settembre '43, il nord viene praticamente invaso tutto dai tedeschi nazisti; inoltre a Salò aveva sede la Repubblica Sociale Italiana formatasi dopo che Mussolini fu liberato dai tedeschi. Fu al nord, quindi, che la resistenza armata si sviluppò in pieno e durò diciannove lunghissimi mesi, fino all'aprile 1945. La lotta acquistò una gravità e un carattere di asprezza del tutto particolari, che nessuna altra zona d'Italia conobbe. Fu in particolare al nord che il movimento armato giunse ad avere un'organizzazione buona e razionale, fondata sulle direttive emanate dai vari C.L.N. locali e sul coraggio e l'amore per la libertà dei numerosissimi partigiani, i quali avevano formato divisioni e brigate, oltre a corpi speciali come i G.A.P. e le S.A.P., di cui si è già parlato in precedenza. La Resistenza al nord ha inoltre assunto un valore moralmente ancora più alto se si pensa alle centinaia di partigiani e civili morti durante la durissima lotta che rappresentò ed «espresse la volontà della massa popolare» (37).

b) Il centro. Anche nella zona centrale dell'Italia si assistette a una resistenza armata abbastanza dura e intensa, ma questa non raggiunse mai la dimensione di vera e propria lotta di popolo che ebbe nel settentrione. Comunque anche a Roma, per esempio, subito dopo l'annuncio dell'armistizio si costituirono centri di resistenza e diverse formazioni militari dipendenti dal C.L.N. centrale, di cui si è già parlato. Ma mentre nel nord le formazioni partigiane erano guidate solo dai vari C.L.N., a Roma e in altre zone del centro (per esempio in Abruzzo), oltre all'attività dei C.L.N., rimase l'organizzazione militare dipendente dal governo Badoglio. Un ruolo molto importante nella Resistenza del centro fu giocato dal Vaticano e dal clero romano, che aiutò negli approvvigionamenti, soccorse la popolazione, salvò e aiutò molti uomini politici perseguitati dai tedeschi. Quindi a Roma, venuta meno l'autorità della monarchia e del governo, "la forza che più impressionò l'opinione pubblica era il Vaticano, il Papa" (38). A Firenze, ma anche in altre zone della Toscana e dell'Umbria, la situazione fu diversa da quella della capitale; nel capoluogo toscano, infatti, la lotta fu aperta e si svolse in piena città, e la liberazione (agosto '44), non fu opera soltanto delle truppe alleate, in quanto "si verificò l'insurrezione' popolare, che era mancata a Roma" (39). Si può quindi affermare che la situazione di Firenze fu la più simile a quella delle zone del nord-italia.

c) Il sud. Per quanto riguarda l'Italia meridionale, come si è già accennato in precedenza, non sembra neanche esatto parlare di Resistenza, in quanto gli alleati sbarcarono a Salerno il 9 settembre '43 e poi si diressero verso Napoli, che fu liberata anche grazie all'insurrezione popolare; la liberazione avvenne perciò subito, e un vero e proprio movimento di resistenza non ebbe nemmeno modo di formarsi. Nel sud perciò la situazione politica era diversa da quella del centro-nord; infatti a Brindisi risiedeva il governo del re e l'amministrazione di fatto era esercitata dagli alleati. Quindi in generale nel meridione "si vide funzionare il vecchio stato" (40). Non essendosi pertanto verificata nel sud una vera Resistenza, è interessante analizzare l'aspetto sociale ed economico della complessa realtà del meridione durante gli anni 1943-45. Innanzitutto l'isolamento geografico e la scarsezza di collegamenti contribuivano al degrado civile ed economico del sud; al decadimento economico contribuì in modo determinante anche la nuova amministrazione alleata; la miseria e la repressione erano i segni distintivi di una società in cui "la vita delle masse sembrava frantumarsi e disperdersi in infiniti rivoli separati" (41). Frequenti furono gli scioperi degli operai in segno di protesta e le lotte dei contadini nelle campagne, attraverso l'occupazione delle terre dei latifondi, per opporsi alle ingiustizie e agli abusi perpetrati dai proprietari terrieri, ma «le forze tradizionali del sud combatterono questa rinascita dell'attività politica con tutti i mezzi a loro disposizione» (42). Possiamo dire, in conclusione, che la divisione in tre parti del territorio italiano durante il periodo 1943-45 contribuì notevolmente ad accentuare alcune profonde differenze politiche, economiche e sociali tra il nord e il sud dell'Italia; questo accadde soprattutto perché nel sud non ci fu una vera Resistenza, cioè quel movimento popolare che al nord favorì la maturazione civile della società.

6. Riflessioni conclusive sull'importanza e sul valore storico del fenomeno della Resistenza

La Resistenza nella storia italiana occupa senz'altro un posto di grandissimo rilievo, in quanto era destinata ad avviare un movimento di rinnovamento volto in particolar modo ad un superamento dei valori politici e morali antidemocratici portati avanti dal fascismo. Bisogna dire anche che le masse popolari, che furono parte attiva della Resistenza (operai e contadini primi fra tutti), conducevano questa durissima lotta non solo con la speranza di libertà ma anche con il desiderio di un cambiamento concreta della società italiana. Purtroppo però, nonostante le condizioni per avviare importanti riforme sociali ed economiche esistessero realmente (il vecchio ordine della società italiana era stato scosso dalla sconfitta e dalla invasione), "quest'enorme desiderio di riforme e queste potenzialità oggettive rimasero quasi completamente irrealizzate"(43). Non si riuscì, infatti a creare in quel periodo una vera e propria rottura con il passato. Ma al di là di queste considerazioni, è assolutamente necessario porre in evidenza la caratteristica più importante della Resistenza italiana intera, cioè la cosciente e attiva partecipazione delle masse popolari lavoratrici e questo è indubbiamente «un fatto che resterà nella storia d'Italia» (44). Questa è un'affermazione più che lecita in quanto, in seguito a questa lotta di popolo, le masse iniziarono concretamente e attivamente a prendere parte alla vita politica del paese che così «ha cessato definitivamente di essere patrimonio esclusivo di gruppi ristretti e privilegiati» (45). E' su questa base che possiamo identificare nella Resistenza "il punto d'avvio dell'Italia nella quale viviamo" (46): una democrazia ispirata ai valori della Resistenza.

III. La Resistenza a Milano 1. Premessa

Lo studio della lotta armata partigiana milanese, e in particolare della nascita, dell'organizzazione e dell'attività delle formazioni garibaldine che di quella lotta furono il principale protagonista, «colma una lacuna per certi versi paradossale» (47) data l'importanza sociale ed economica del capoluogo lombardo, e al contempo mettendo in luce le pesanti difficoltà di avvio e di sviluppo del movimento partigiano urbano contribuisce a far giustizia di tutta una serie di luoghi comuni derivati dalla retorica celebrativa. Già negli anni Cinquanta Francesco Scotti, uno dei principali organizzatori dei primi gruppi partigiani e membro del Comando generale delle brigate d'assalto Garibaldi, così ricordava gli inizi della lotta antinazifascista: «la maggior sicurezza che offre la montagna, l'isolamento in città, la tensione continua, il sospetto, la paura, l'iniziale senso d'inferiorità davanti al nemico `invincibile', il rifiuto psicologico e morale per l'esercizio della violenza a freddo spiegano le difficoltà che dovettero essere superate» (48).

2. I momenti fondamentali

L'occupazione nazista della città avvenne in modo praticamente incontrastato. Qualche sparatoria attorno alla Stazione centrale, ma niente di più. I tedeschi dal canto loro, dopo i primi giorni di razzie compiute dalle SS, puntando anche sulla collaborazione del neofascismo repubblicano e del padronato, cercarono di instaurare un clima di pace sociale che consentisse loro lo sfruttamento delle risorse agricole e zootecniche della campagna milanese e soprattutto del potenziale industriale ai fini della continuazione dello sforzo bellico, ma si scontrarono ben presto con la ferma opposizione della classe operaia che, di fronte all'ulteriore aggravarsi delle già drammatiche condizioni di vita e di lavoro, cui si aggiungevano ora la minaccia del licenziamento e della deportazione in Germania, scese massicciamente in lotta sfidando le pesanti misure repressive adottate dai nazifascisti. " «Dal 13 al 18 dicembre [1943] l'attività industriale è pressoché paralizzata, soprattutto nei primi quattro giorni di sciopero, durante i quali il movimento si estende a macchia d'olio coinvolgendo oltre 60 fabbriche per un totale di 150-160 mila operai» (49). L'imponenza e la determinazione della mobilitazione operaia smascherarono l' opportunismo del collaborazionismo padronale e l'asservimento dei fascisti ai piani di sfruttamento germanici, costringendo al contempo i nazisti a svelarsi come il nemico principale ma la grande combattività del proletariato industriale, pur assumendo una insostituibile importanza politica, rimaneva tuttavia, per motivi storici e culturali, limitata a un terreno di lotta rivendicativo, delegando l'intervento militare alle nascenti bande partigiane di montagna e in città ai primi Gruppi di azione patriottica (Gap). Le prime azioni di guerriglia urbana vennero messe in atto da una ristretta organizzazione formata da alcuni quadri e militanti comunisti, alcuni dei quali avevano già combattuto il nazifascismo in Spagna e tra i partigiani francesi; Francesco Scotti, Vittorio Bardini, Egisto Rubini, Cesare Roda e Angelo Spada (tutti ex combattenti della repubblica spagnola) coadiuvati da Giordano Cipriani, dai fratelli Licinio e Eliseo Picardi e da altri ancora riuscirono nel volgere di poche settimane a organizzare i primi Gap impiegandoli immediatamente contro il nemico. Lesordio, racconta il gappista "Barbisùn" (Carlo Camesasca), avvenne il 4 ottobre 1943 a Sesto San Giovanni: «non ci pare vero di vederci comparire il sergente maggiore squadrista ed attualmente in veste di repubblicano molto armato, Visentin individuo molto losco ed odiato. [...]ci mettiamo d'accordo e decidiamo d'attaccarlo al suo ritorno sul viale Umberto [...]. Giunti all'altezza del ponte dell'autostrada partiamo senz'altro all'attacco; per primo spara Ninetto che è il capo e ci deve dare l'esempio, subito dopo sparo anch'io, e mentre lui cade per terra colpito alla testa e al collo noi ne approfittiamo per squagliarcela e metterci così al sicuro» (50). Il ghiaccio era stato rotto ma al ripetersi delle prime azioni i tedeschi, preoccupati di mantenere la pace sociale, cercarono in un primo tempo di rispondere con una sorta di "strategia della normalità" concedendo autorizzazioni alla riapertura di cinema e teatri e locali di svago nell'evidente intento di nascondere il progressivo aggravarsi della situazione. «E' anche contro questa falsa normalità che i gappisti devono battersi per impedire che dilaghi e invischi le coscienze nell'accettazione passiva dell'occupazione straniera e del rigurgito squadrista» (51), bisognava cioè sconfiggere a tutti i costi il pericolo del diffondersi nel corpo sociale di un atteggia-mento di passività e di neutralità di fronte allo scontro in atto. Le azioni di guerriglia contro militari e ufficiali nazifascisti si fecero sempre più frequenti e sempre più cruente e gli attentati si indirizzarono, con il passare del tempo, contro le più alte cariche fasciste: alle 8 del mattino del 18 dicembre 1943 veniva abbattuto in piena città il federale fascista Aldo Resega e il 3 febbraio 1944 toccava al neoquestore Camillo Santamaria Nicolini che riuscì tuttavia a salvarsi grazie a una serie di cause accidentali. L'ultima azione memorabile del gappismo milanese fu l'attacco alla sede del fascio di Sesto San Giovanni che portò però all'arresto di Felice Lacerra, un giovane collaboratore dei Gap. Torturato fece il nome di alcuni compagni, dando il via ad una catena di arresti che unitamente all'azione di un traditore causò lo smantellamento dell'organizzazione gappista, ma in realtà, come appurò un'inchiesta condotta successivamente dai comandi superiori, lo sfascio di questi primi gruppi fu la conseguenza anche di un allentamento delle misure di vigilanza cospirativa da parte dei dirigenti politici e militari i quali, nello sforzo di intensificare l'impari lotta, avevano finito per trascurare l'indispensabile controllo della vita privata e dell'educazione politica dei combattenti consentendo così l'infiltrazione di alcuni elementi ambigui. Alla fine dell'aprile del 1944, mentre da più di un mese un nuovo comando si andava faticosamente impegnando nella ricostruzione della trama gappista ristabilendo i contatti con i pochi scampati all'arresto e reclutando nuove forze, il cedimento di alcuni giovani catturati e sottoposti a tortura e, ancora una volta, l'aperto tradimento di un gappista provocarono la dissoluzione totale dell'organizzazione. Nel frattempo, ai primi del marzo 1944, venne organizzato lo sciopero generale passato alla storia come «la più grande e riuscita mobilitazione di massa mai avvenuta nell'Europa occupata» (52), ma che a Milano, nonostante la soddisfacente riuscita, ebbe per le masse operaie una conclusione deludente: equivocato lo sciopero come insurrezionale e private dell'appoggio armato dei Gap colpiti dieci giorni prima dalla repressione poliziesca, il proletariato industriale si trovò esposto alla rabbiosa reazione nazifascista senza inoltre riuscire questa volta a strappare nemmeno la promessa di miglioramenti economici. Risultava pertanto evidente come l'azione militare non potesse più basarsi unicamente sulle formazioni di montagna e sui Gap, ma fosse necessaria una partecipazione sempre più massiccia della classe operaia per la costituzione di nuove squadre di difesa di fabbrica i cui compiti avrebbero dovuto principalmente consistere nel sabotaggio della produzione bellica e nella protezione delle agitazioni operaie. Le squadre di difesa rischiavano però di diventare un organismo esclusivamente difensivo e quindi inadatto a preparare e a sviluppare un clima insurrezionale, bisognava invece trasformarle, come avvenne nel volgere di pochi mesi,in squadre d'attacco attive e protagoniste dello scontro armato: le Squadre d'azione patriottica (Sap). Con il passare dei mesi intanto la situazione dei fascisti divenne sempre più difficile ed ingovernabile. Nella primavera del 1944, per far fronte all'espandersi della lotta partigiana e acquistare credito agli occhi dell'alleato nazista, la Repubblica Sociale chiamò alle armi le classi 1923, 1924 e 1925, ma nonostante la pena di morte per i renitenti, ben pochi risposero alla chiamata, mentre dal canto loro anche i carabinieri, di fronte a un ventilato progetto di utilizzarli in Germania come bassa forza, disertarono in massa. Mentre la pressione partigiana aumentava di giorno in giorno le milizie fasciste erano quasi totalmente allo sbando, come dimostrano gli esiti dei 132 attacchi partigiani condotti dal 30 maggio al 28 giugno 1944 contro presidi e posti di blocco della Guardia nazionale repubblicana: a fronte di 37 repubblichini caduti in combattimento si registrarono 360 catturati e 481 disarmati. Un'ulteriore spinta ad agire, con un conseguente aumento dell'afflusso di giovani alle formazioni di montagna e a quelle che stavano sorgendo in pianura e in città, venne dalla ripresa dell'offensiva alleata al Sud e, ai primi di giugno dallo sbarco in Normandia e dalla liberazione di Roma. Ma l'estate del 1944 è tristemente nota anche per la spietata repressione dei tedeschi intenzionati a "ripulire" le retrovie per garantirsi una ritirata sicura e libera da qualsiasi impedimento. Anche nel milanese si intensificarono i rastrellamenti, le deportazioni e le pubbliche fucilazioni in pieno giorno; elevate furono le perdite tra i partigiani e tra i civili ma le misure repressive contribuirono ad aumentare l'avversione per l'occupante e il disprezzo per i suoi servi in camicia nera. Dopo un'estate di grandi sforzi e di grandi speranze, in ottobre l'ormai chiaro affievolirsi dell'avanzata alleata cominciò a ripercuotersi sul morale di molte formazioni partigiane impegnando i comandi a fronteggiare l'affiorare di atteggiamenti "attesisti". La situazione precipitò drammaticamente il 13 novembre 1944 quando in seguito all'annuncio della sospensione delle operazioni militari nella penisola e alla cessazione di ogni aiuto alle formazioni partigiane, il generale britannico Alexander fornì praticamente ai tedeschi l'occasione per trasferire dal fronte intere divisioni impiegandole in feroci rastrellamenti che si accompagnarono ad una intensificazione della repressione poliziesca anche in tutto il milanese. «Svanite le speranze di una rapida avanzata alleata, ci si va angosciosamente rassegnando ad un altro inverno di guerra» (53). Gli effetti di un vertiginoso au-mento del costo della vita si accompagnarono al drammatico aggravarsi della già precaria situazione alimentare e al terrore per le rappresaglie e gli arresti. «La città pullula di nazifascisti: tra tedeschi e appartenenti alle varie formazioni repubblichine sono circa diciassettemila e quasi tutti sono sguinzagliati nella caccia al partigiano e per essere sospettati ci vuole poco, basta un commento o una delazione anonima» (54). L'inverno 1944-1945 trascorse tra la fame, le fucilazioni e le deportazioni, ma a partire dal gennaio 1945 le azioni partigiane ripresero vigore e si susseguirono nella crescente convinzione della necessità di preparare l'ormai non lontana insurrezione. II 6 febbraio vennero contemporaneamente attaccati venti caserme e comandi nazifascisti ubicati nelle diverse zone della città, dimostrando ai milanesi e allo stesso nemico il livello di combattività e la maturità organizzativa raggiunta dalle Squadre d'azione patriottica. L'avvicinarsi della primavera spinse alla costituzione di nuove Sap e alla ripresa dell'attività gappista, ora sotto la guida del leggendario "Visone" (l'ex garibaldino di Spagna Giovanni Pesce, già comandante dei primi Gap torinesi), al fine di alimentare un crescente clima insurrezionale che coinvolgesse vasti strati di popolazione. Dal canto loro gli alleati, preoccupati dalla consistenza delle formazioni partigiane organizzate dai partiti di sinistra, primo fra tutti il Pci, cercarono di impedire impedire quell'insurrezione che ai loro occhi minacciava di configurarsi come una vittoria politica dei comunisti e inviarono ripetuti appelli a non insorgere prima del loro arrivo, ma «il Comitato insurrezionale unitaria lancia la parola d'ordine dello sciopero insurrezionale fissandone l'inizio per le ore 14 del 25 aprile 1945» (55). Ogni brigata, ogni distaccamento intervenne con tutte le forze disponibili a difesa delle fabbriche, occupando gli obiettivi strategici della città e cercando di impedire la ritirata delle autocolonne nazifasciste. Salvo eccezioni non ci furono aspri combattimenti, si trattò per lo più di scontri delimitati, di sparatorie che costarono tuttavia la vita a decine di partigiani. Alla sera di giovedì 26 aprile la città era praticamente sotto il controllo delle forze sappiste, tutti gli obiettivi erano stati raggiunti, «unico punto di resistenza del nemico rimane la caserma di corso Italia, dove la I brigata nera mobile continua a combattere contro la brigata GL Max Masia guidata dal comandante Mario Mosca» (56). Resistevano inoltre i tedeschi asserragliati nel collegio dei Martinitt, nel palazzo dell'aeronautica in piazza Novelli e nell'hòtel Regina, sede della Gestapo e delle SS ma, circondati, non costituivano più una pericolosa minaccia. Nelle giornate immediatamente successive, il ripetersi di fucilazioni e di sentenze di morte emanate da tribunali straordinari indussero il prefetto della Liberazione Riccardo Lombardi a ordinare la cessazione delle esecuzioni arbitrarie o eseguite in seguito a procedimenti giudiziari dibattuti da tribunali di guerra, tribunali popolari e tribunali di fabbrica, e a demandare unicamente alla Commissione di giustizia il compito di giudicare collaborazionisti e criminali di guerra. Le istituzioni giudiziarie svolsero invece il loro compito con lentezza e eccessiva indulgenza spingendo così i partigiani ad applicare, per reazione, una spietata giustizia personale, «Quasi ogni giorno, all'alba, nelle località chiamate Baia del Re e Porto di Mare, a San Siro e nei prati di Segrate e dell'Ortica vengono ritrovati cadaveri di sconosciuti, privi di documenti e tutti deceduti per colpi d'arma da fuoco. Sono giorni di caos [...] forse qualche morto è da imputare anche alla malavita, ma la maggior parte sono fascisti liquidati sbrigativamente» (57). Con l'arrivo degli alleati iniziò il prestabilito smantellamento delle formazioni partigiane e così in tutta la Lombardia «vengono consegnati tra maggio e giugno 102.625 fucili e moschetti, 1.847 fucili automatici, 2.310 mitragliatori, 1.388 mitragliatrici, 184 mitragliere, 1.635 pistole, 354 cannoni e mortai, 31.261 bombe a mano» (58). Con la smobilitazione e la consegna delle armi, a coloro che poterono dimostrare di aver appartenuto a gruppi partigiani venne concesso un premio di mille lire (equivalente a circa un terzo di un salario medio operaio). Si concludeva così l'esperienza di molti combattenti che, dopo aver lottato per la rinascita del Paese, si ritrovavano senza lavoro e con molte promesse che le nuove istituzioni puntualmente non mantennero.

3. La struttura militare dei Gap e delle Sap

Le prime formazioni militari che si costituirono nel milanese furono i Gruppi di azione patriottica (Gap). La funzione principale di tale organizzazione era quella di seminare il terrore tra le truppe nemiche, sia per arrecare danni materiali, sia per impedire ogni possibilità di convivenza pacifica con i nazifascisti. Bisognava infatti creare un clima di tensione e suscitare la repressione nemica in modo da rendere consapevole l'intera popolazione della necessità di farsi parte attiva nella lotta in corso. Per la natura stessa delle azioni da compiere era impossibile per i gappisti continuare a vivere nella normale quotidianità: era quindi necessario eliminare ogni legame di qualsivoglia natura per dedicarsi totalmente all'attività guerrigliera. I Gap «sono nuclei ristrettissimi composti da militanti comunisti prevalentemente operai, che devono vivere nella clandestinità assoluta, osservare il massimo di quella che si chiama la vigilanza cospirativa, vivere quindi nell'isolamento più totale e svolgere una attività armata di tipo terroristico» (59). Giorgio Bocca nel 1964 definirà il terrorismo gappista come un atto di moralità rivoluzionaria: una volta presa coscienza della doverosa necessità di reagire all'occupazione nazista e all'oppressione fascista, mancando ogni possibilità di contestazione democratica e stante la disparità delle forze, nei grandi centri urbani non restava che la scelta di un vero e proprio terrorismo partigiano. Strutturati in squadre, i Gap erano solitamente formati da quattro combattenti: due volontari semplici, un vicecaposquadra e un caposquadra; tre squadre formavano un distaccamento guidato da un comandante e da un commissario politico. Il comandante era il diretto responsabile della riuscita di ogni azione, doveva quindi controllare la preparazione dei piani e la loro esecuzione tenendosi a stretto contatto con i caposquadra con i quali discuteva la modalità degli attentati, l'ora, i materiali e l'armamento da impiegare, la divisione dei compiti e, punto fonda-mentale, le modalità della ritirata ad azione conclusa. II commissario, pari grado al comandante, era responsabile della sicurezza della vita dell'organizzazione e della preparazione ideologico-politica dei gappisti, egli aveva il compito di «galvanizzare il morale degli uomini curandone l'educazione politica e chiarendo loro, di volta in volta, le motivazioni politico-militari delle operazioni da compiersi» (60). I collegamenti tra le varie squadre, brevi incontri per la trasmissione delle direttive e per mantenersi aggiornati sulla situazione, avvenivano tramite incontri "volanti" per la strada. Non bisogna tuttavia pensare alle formazioni gappiste come ad organismi perfetti e rigidamente rigorosi nel rispetto delle norme cospirative: la caduta generale del febbraio 1944 testimonia come, pressati da mille incombenze e dovendo comunque non dar tregua al nemico, i responsabili dei distaccamenti finirono per non riuscire ad assolvere tutti i loro compiti, in particolare quelli relativi alla vigilanza. In un secondo momento, a partire dalla primavera del 1944, cominciarono a nascere anche le Squadre d'azione patriottica, le Sap. Lo sviluppo della lotta partigiana, e la necessità di preparare giorno dopo giorno l'insurrezione, necessitavano infatti di un potenziamento della lotta armata che avrebbe potuto avvenire soltanto attraverso la diretta partecipazione della classe operaia, svincolandola così dalla lotta rivendicativa entro i cui limiti si era fino ad allora mossa. Già nell'inverno 1943-1944 il Pci aveva cercato di dare vita a Squadre di difesa di fabbrica e di villaggio, ma la stessa concezione difensiva che stava alla loro origine ne limitò le potenzialità rendendole inadatte alla preparazione delle condizioni insurrezionali. Nel marzo 1944 un trentenne comunista di nome Italo Busetto colse i limiti operativi e le contraddizioni delle Squadre di difesa e propose al Comitato federale e al Comando generale delle brigate Garibaldi la loro trasformazione in Squadre d'azione poste alle dipendenze di un unico comando centralizzato. Tre mesi dopo nascevano le prime brigate Sap, la cui struttura variava in base al terreno operativo: le squadre di città erano formate da quattro elementi più il caposquadra per evitare che un gruppo troppo numeroso potesse essere facilmente individuato, mentre quelle operanti nelle campagne erano formate da tre nuclei di cinque uomini ciascuno ed erano comandate dal più esperto dei tre capisquadra. AI di là di questa differenziazione circa 40-50 combattenti costituivano un distaccamento agii ordini di un comandante e di un commissario politico e 4-5 distaccamenti formavano una brigata. Gap e Sap presentavano profonde differenze organizzative e strategiche: i sappisti, diversamente dai gappisti - che almeno in teoria avrebbero dovuto vivere nella più assoluta clandestinità -, restavano nella legalità continuando, finché individuati, a vivere una vita familiare e lavorativa apparentemente normale. La loro attività partigiana consisteva, almeno nella fase iniziale, in azioni meno temerarie di quelle gappiste, più di disturbo e di propaganda che veri e propri attentati: disarmi, scritte murali, lancio di manifestini in luoghi affollati e comizi volanti nei cinema e nelle fabbriche. Organizzazione militare aperta a tutti coloro che, indipendente-mente dalla fede ideologica, politica o religiosa, intendevano battersi contro il comune nemico, le Sap avevano come obiettivo principale non tanto l'infliggere gravi danni materiali alla macchina bellica avversaria quanto suscitare e sviluppare un crescente clima di mobilitazione e di partecipazione popolare alla lotta contro nazifascisti.

4. Rapporto tra politica e azione militare

II rapporto che legò le organizzazioni politiche e quelle militari fu sempre molto stretto ma non privo di contrasti e di punte polemiche che scaturivano da un diverso modo di intendere l'impegno a sostegno della lotta armata. In tutta una prima fase molti Comitati federali del Pci - in particolare quello milanese - dedicarono la maggior parte dei loro sforzi all'organizzazione delle lotte rivendicative operaie prestando scarsa attenzione e sottovalutando le esigenze e la necessità di un maggior sviluppo della lotta armata, sia di tipo gappista sia, in un secondo tempo, sappista. AI costante e capillare impegno organizzativo in direzione del proletariato industriale non ne corrispose uno altrettanto convinto ed efficace a sostegno dell'apparato militare i cui dirigenti, si può dire per tutta la durata della guerra partigiana, mossero ripetuti e talvolta pesanti rilievi critici ai responsabili dell'apparato politico. Le motivazioni di questo "scollamento" affondano le radici nella storia della stessa Federazione comunista milanese, nel rifiuto di ogni forma di lotta armata bollata per anni come avventurismo di sinistra, e nel conseguente processo di formazione di diversi suoi dirigenti. «I dissensi tra militari e politici non vedono schierati eroi della azione contro opportunisti della propaganda, ma due anime di uno stesso organismo. Da un lato coloro che avevano sostenuto la necessità di anticipare a volte i tempi e dispongono ora di un bagaglio ideologico e politico adeguato ai compiti e alle necessità della nuova situazione; dall'altro coloro che, ancorati a vecchi schemi, concepiscono ancora la lotta al fascismo principalmente come organizzazione, agitazione e propaganda e non riescono quindi ad impegnarsi a fondo per sostenere e favorire lo sviluppo della lotta armata» (61). Tutto ciò ebbe come conseguenza atteggiamenti di superficialità da parte dei responsabili di partito nell'assolvere il compito di reclutamento e soprattutto di preparazione ideologica e politica dei futuri gappisti, consentendo così, in alcuni casi, l'infiltrazione di elementi dalla dubbia moralità o pericolosi per la vita dell'organizzazione, come dimostra la crisi che si abbatté sui Gap nel febbraio 1944. Il cordone ombelicale tra partiti e rispettive organizzazioni militari si accentuò nelle fasi conclusive del conflitto quando, con l'approssimarsi della Liberazione, divenne sempre più manifesta la diversità di classe delle scelte strategiche dei partiti che componevano il pur unitario fronte antifascista. Le sinistre miravano ad una imponente insurrezione popolare che, anticipando anche di poche ore l'arrivo degli angloamericani, sancisse un'irreversibile rottura ra con il passato liberale e monarchico dell'Italia prefascista e aprisse la strada ad una democrazia di tipo nuovo e progressivo in cui, nei disegni del Pci, avessero un ruolo dirigente la classe operaia e lo stesso partito che l'aveva guidata nelle lotta antifascista. Dall'altro lato le forze moderate, timorose che lo sviluppo della lotta di massa pregiudicasse il ritorno ai vecchi equilibri politici e istituzionali, temevano che l'insurrezione voluta dalle sinistre si trasformasse in una rivoluzione proletaria, una posizione emblematicamente riassunta nelle direttive approvate il 10 novembre 1944 dalla Democrazia cristiana sulla situazione generale, all'interno delle quali «ricordando la situazione del 1919-20, si indica[va] il nemico da combattere non tanto nel fascismo quanto nei partiti di estrema sinistra» (62). Le divergenze di natura politica si ripercossero sullo sviluppo della lotta armata. Mentre Gap e Sap si impegnarono a fondo nelle azioni, le formazioni dei partiti moderati manifestarono un impegno più debole e saltuario, fornendo così uno scarso contributo alla preparazione dell'insurrezione, del resto osteggiata dai partiti che facevano loro capo. Altrettanto avversi a una ipotesi insurrezionale erano i comandi alleati che, in sintonia con i rispettivi governi e preoccupati dall'egemonia delle sinistre e dei comunisti in particolare su un movimento partigiano fattosi sempre più consistente e agguerrito, cercarono con ogni mezzo di contenerne l'espansione come ben dimostrano le direttive inglesi in materia di aiuti aviolanciati: (1) Scoraggiare una indiscriminata espansione dei reparti armati; 2) incoraggiare atti organici di sabotaggio, complementari a operazioni previste e attività di controspionaggio; 3) incremento dei rifornimenti di materiale non bellico per sostenere il morale dei partigiani» (63).

5. Rapporti tra le componenti politiche

Nonostante le forze politiche antifasciste fossero accomunate dal comune obiettivo della liberazione nazionale, le divergenze politiche derivanti dalla diversità degli interessi di classe in gioco ostacolarono il raggiungimento di una più proficua unità antifascista. Per superare il rischio di pericolose divisioni interne e in applicazione della politica di unità nazionale il 18 agosto 1944 nacque il Comando piazza di Milano del Corpo volontari della libertà composto su basi paritetiche da «un Generale comandante, da un Commissario politico, da un Capo di stato maggiore e da 4 vicecomandanti e vicecommissari, ognuno dei quali regge una sezione dei Comando (Sezione operazioni, Sezione mobilitazione e collegamenti, Sezione informazioni, Sezione sabotaggi e Sezione servizi). Nel Comando sono così rappresentati tutti i partiti aderenti al CLN» (64). Costituito - almeno sulla carta - per coordinare l'attività delle diverse formazioni, il Comando piazza, ai cui lavori parteciparono rappresentanti comunisti, socialisti, azionisti e repubblicani (quasi sempre assenti i liberali e i democristiani), esercitò un ruolo secondario nello sviluppo degli avvenimenti militari ed ebbe più una funzione politica nel contribuire al mantenimento dell'unità antifascista. Di fatto la lotta armata continuò ad essere diretta dai Comandi delle formazioni di diverso colore e, per tutta la durata della guerra, non si registrò mai un reale coordinamento operativo delle forze, fatta una parziale eccezione per le giornate insurrezionali. Il ruolo predominante nella lotta resistenziale milanese, come dimostra la seguente tabella, fu svolto dalle formazioni Garibaldi organizzate dal Pci le quali primeggiarono per numero dei combattenti e dei caduti oltre che per la stragrande maggioranza delle azioni compiute da tutte le forze partigiane. FERITI PARTIGIANI PATRIOTI BENEMERITI NON RICONOSCIUTI

Brigate Garibaldi 242 3468 2222 2956 1464 Brigate Matteotti 66 1239 992 1376 1813 Brigate G.L. 6 446 152 152 153 Brigate del Popolo 69 668 504 554 1088 Brigate Mazzini 13 119 142 352 207 Brigate Risorgimento e 21 555 279 340 986 Autonome Altre formazioni 823 186 62 100 215 Comando generale Cvl 2 140 36 28 25 Comando piazza Milano — 15 — 7 7

Totali 1242 6626 4389 5865 5958

6. Conclusione

Milano era stata la "culla del fascismo" ma questo marchio infamante per lo spirito democratico della città venne riscattato e cancellato da diciotto mesi di guerra partigiana che la trasformarono, a pieno titolo, nella capitale della Resistenza. E non solo perché nel capoluogo lombardo fissarono le loro sedi clandestine e agirono il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, il Comando generale del Corpo volontari della libertà, le direzioni politiche dei partiti antifascisti e i comandi generali delle formazioni di diverso orientamento, ma soprattutto per la irriducibile combattività di quella classe operaia che per prima, con le sue lotte, sfidò i nazifascisti additando all'intera città quale doveva essere il cammino da percorrere. Fu la spinta delle lotte di fabbrica a sostenere nell'autunno 1943, e ancora in seguito, il difficoltoso decollo e poi l'affermazione del movimento partigiano e fu dalla classe operaia che uscirono i primi gappisti che, in parallelo ai grandi scioperi del dicembre 1943 e del marzo 1944, impedirono con le loro audaci azioni che lo smarrimento e l'angoscia della città si trasformassero nella passiva accettazione dell'occupazione nazista e della risorta violenza squadrista. E fu ancora la classe operaia il vivaio da cui sorsero i dirigenti e i combattenti sappisti i quali giorno dopo giorno prepararono l'insurrezione vittoriosa alimentando sempre più nei milanesi l'avversione al nazifascismo e la connivente solidarietà con le forze partigiane. La lotta armata milanese fu, come del resto in tutta l'Italia occupata, un fenomeno minoritario anche se assunse proporzioni di massa. Ma questa constatazione, lungi dallo sminuirne il valore e la portata storica, se mai li esalta così come esalta il coraggio e la dignità morale e civile prima ancora che politica, di quelle migliaia di volontari senza l'abnegazione e il sacrificio dei quali non ci sarebbe stata insurrezione vittoriosa. Grazie a loro venne segnato un punto di non ritorno al passato e una conquista storica da cui non si sarebbe comunque più potuto prescindere nella travagliata costruzione della nuova Italia democratica. AI loro arrivo, nel tardo pomeriggio del 28 aprile 1945, le avanguardie americane trovarono la città già liberata dai suoi partigiani praticamente da quarantotto ore e a Palazzo Marino e in prefettura trovarono anche già insediati e al lavoro gli organi di un nuovo governo democratico. Era una città affamata che ad ogni angolo angolo mostrava le ferite della guerra ma i negozi erano aperti, energia elettrica e gas avevano ripreso ad essere erogati e i tram a circolare. L'ordine pubblico era garantito dai partigiani. Nessun caso di saccheggio si era verificato. «Siamo andati a spasso per Milano. Abbiamo trovato ordine, disciplina. Esprimiamo la nostra soddisfazione al Clnai e ai partigiani per il magnifico lavoro fatto» (65). Così si espresse il 29 aprile 1945 il colonnello Charles Poletti, commissario per la Lombardia del Governo militare alleato. Il 18 marzo 1948 il Presidente della Repubblica Enrico De Nicola conferiva alla città di Milano, capitale della Resistenza, la medaglia d'oro al valore militare.

(1) F.Della Peruta, Storia del Novecento, Le Monnier, Firenze 1991, pag. 240 (2) ivi, pagg. 240-241 (3) B.Bongiovanni. G.C.Jocteau, N.Tranfaglia (a cura di), Storia d'Europa 2, in Il mondo contemporaneo,vol

   II,tomo 2,La Nuova Italia,Firenze 1980,pagg. 885-888

(4) E.Collotti, La Resistenza in Europa e in Italia, in Nuove questioni di storia contemporanea, Marzorati, Milano 1969, pag. 1303 (5) ivi, pag. 1312 (6) ibidem (7) ivi, pag. 1313 (8) ibidem (9) ivi, pag. 1314 (10) ivi, pagg. 1316-1319 (11) ivi, pag. 1321 (12) ivi, pag. 1323 (13) ivi, pag. 1325 (14) ivi, pag. 1327 (15) ivi, pagg. 1328-1330 (16) ivi, pagg. 1331-1334 (17) ivi, pag. 1335 (18) F.Della Peruta, Storia del Novecento. Dalla "grande guerra" ai giorni nostri, Le Monnier, Firenze 1991, p.247 (19) Per questa ricostruzione storica sono stati utilizzati i testi di G.Carocci, Corso di storia-L'età

    contemporanea Vo1.3, Zanichelli, Bologna 1985, pp.1337-1339 e di Zaira Meneghin Maina, 1918-1945-
    Frammenti di storia dell'antifascismo e della Resistenza in zona 5, Circoscrizione zona 5-Comune di 
    Milano (s.d.)

(20) G.Mammarella, L'Italia contemporanea (1943-1989), II Mulino, Bologna 1992, p.36. (21) F.Chabod, L'Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi, Torino 1961, p.127 (22) Ibidem (23) P.Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi-Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino 1989,

    p.91

(24) Z.Meneghin Maina, co.cit., p.79 (25) G.Mammarella, op.cit, p.13 (26) E.Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d'Italia. Dall'unità ad oggi, vol.4, Einaudi,

    Torino 1976, p.2363

(27) Ibidem (28) Z.Meneghin Maina, op.cit., p.42 (29) G.Mammarella, op.cit., p.36 (30) Ivi, p.37 (31) Ibidem (32) F.Chabod, op.cit., p.128 (33) G.Mammarella, op.cit., p.38 (34) F.Chabot, op.cit., p.130 (35) R.Battaglia, Storia della resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964 (36) E. Ragionieri, op.cit., p.2379 (37) F.Chabod, op.cit., p. 128 (38) Ivi, p.125 (39) Ivi, p.126 (40) Ivi, p.123 (41) E.Ragionieri, op.cit., p.2364 (42) P.Ginsborg, op.cit., p.80 (43) Ivi, p.65 (44) F.Chabot, op.cit., p.143 (45) E.Ragionieri, op.cit., p.2391 (46) Ibidem (47) L. Ganapini, Prefazione, in L. Borgomaneri, Due inverni, un'estate e la rossa primavera, E Angeli,

    Milano 1985, p. 9.

(48) L. Borgomaneri, op. cit., p.21 (49) Ivi, p.19 (50) C. Camesasca, Diario del gapista Barbisùn, in L. Borgomaneri,op. cit., p.24. (51) L. Borgomaneri, op. cit., p.31 (52) lvi, p.86 (53) lvi, p.225 (54) lvi, p.225 (55) lvi, p.254 (56) Ivi, p.264 (57) Ivi, p.298 (58) L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, Bologna, il Mulino,1983, p.256 in L. Borgomaneri, op.cit., p.312. (59) L. Borgomaneri, La Resistenza armata in Milano, in AA.VV., Conoscere la Resistenza, Unicopli, Milano

    1994 p.23.

(60) Carte ANPI Milano, in L. Borgomaneri, op. cit., p.39 (61) L. Borgomaneri, op. cit., p.208 (62) E. Catalano, Storia del Comitato di liberazione nazionale alta Italia, Milano, Bompiani, 1975, p.290,

    in L. Borgomaneri, op. cit. pp.215-216.

(63) Il contributo della Resistenza italiana in un documento alleato, in "MLI", gennaio 1950 in L.

    Borgomaneri op. cit., p.251

(64) Organizzazione Comando della Piazza di Milano, 5 settembre 1944, in A. INSML in L. Borgomaneri op. cit., p.216 (65) Il col. Poletti esalta l'eroismo dei partigiani, in "l'Unità", 30 aprile 1945 in L. Borgomaneri, op.

     cit., p.308. - III -

LA RESISTENZA IN ZONA 15

di Luna Boschetti e Eugenio Perrotta


I. Premessa

Il nostro gruppo di lavoro intende sezionare la Resistenza milanese mettendo in evidenza i fatti e le figure che hanno interessato la zona 15 (Chiesa Rossa-Gratosoglio) che, in genere, sono poco noti ai giovani e in generale ai cittadini che vi abitano. Si tratta, quindi, di ricomporre in un quadro unitario i frammenti di storia dell'antifascismo e della Resistenza riguardanti la zona 15, arricchendo ed integrando altri contributi di storia locale con riferimento alle circoscrizioni cittadine (1). Mancando documenti scritti la fonte principale è costituita dalla testimonianza diretta degli ex-partigiani della sezione A.N.P.I. in zona 15, con particolare riferimenti a quelli del quartiere Baia del Re, o Stadera, un quartiere operaio che alla Resistenza ha dato un contributo di grande valore, che non è conosciuto quanto merita.

II.La Resistenza nella periferia milanese 1. La zona 15

L'attuale zona 15 costituisce una parte dell'estremo territorio meridionale di Milano. Parte, a Nord, da viale Tibaldi ed è delimitata a Ovest dal Naviglio Pavese e ad Est dalle vie Bazzi, Antonini, Ferrari, Selvanesco e Manduria; arriva ai confini della citta` con il comune di Rozzano. La divisione zonale di Milano è avvenuta di recente; durante la guerra la citta` era divisa in sei settori e la zona 15, definita allora nei quartieri Spaventa e Stadera e negli insediamenti del Borgo dei Tre Ronchetti e di Gratosoglio (2), faceva parte del IV settore, secondo la divisione fascista, del III settore, secondo quella comunista; questo comprendeva la parte Sud-occidentale della citta` delimitata, a Nord, dalle vie Lorenteggio, Bellini, Giambellino, Solari, Olona, De Amicis, Molino delle Armi; ad Est da corso Italia e dalle vie Teulie', Castelbarco, Verro, Ferrari, Selvanesco, Manduria; a Sud e ad Ovest era delimitata dai confini della città; inoltre, fino al settembre 1944, facevano parte del settore anche i quartieri Giambellino e Baggio (3). Secondo la testimonianza di un militante comunista «il Partito comunista - per motivi organizzativi, politici e militari - aveva suddiviso il territorio di Milano e del suo hinterland in settori. La nostra zona, come tutta l' estrema periferia del sud cittadino, era compresa nel III settore. Nell' aprile del '44 il compagno Carlo Cassotta (Francesco) fu incaricato dal Partito di organizzare e dirigere le prime Squadre di Azione Patriottica (S.A.P.), di officina e di strada, del III Settore. Nacque così la 113 Brigata Garibaldi che al suo sorgere comprendeva fra gli altri i distaccamenti di via Meda (8 squadre, 40 uomini), di Gratosoglio (6 squadre, 30 uomini) e di Ronchetto (5 squadre, 25 uomini). Alla 1132 si affiancò ben presto la 1142 Brigata Garibaldi S.A.P., che più di ogni altra raccolse e organizzò i compagni della Baia... Sia la 1132 che la 1142 si distinsero in numerosissime azioni di sabotaggio, di disarmo e recupero armi, di propaganda armata, e in conflitti a fuoco con i nazifascisti» (4).

2. Cronistoria della Resistenza in zona 15

Anche la zona 15, quindi, ha contribuito al movimento di Resistenza che ha portato alla liberazione di Milano dalle forze nazifasciste. Il lavoro svolto non era di tipo militare, si trattava soprattutto di azioni di tipo "ordinario" : queste consisteva-no in staffette (collegamenti tra due gruppi partigiani), volantinaggio e recupero di armi; inoltre in zona 15 c'era una delle piu' importanti vie di uscita dalla città: la Milano-Pavia (SS 35); questa veniva utilizzata dalle colonne tedesche per abbandonare la città e qui si riunivano i gruppi partigiani per cercare di fermarle. Per di piu' bisogna dire che l'antifascismo era un fenomeno quasi di massa: i partigiani venivano aiutati e nascosti dagli abitanti della zona; questo aiuto veniva dispensato anche ai soldati alleati. Dopo 1'8 settembre 1943 la città era devastata a causa delle incursioni aeree alleate e i più colpiti erano stati i quartieri operai. Da questo momento il lavoro di resistenza andò avanti senza fatti eclatanti fino al 28 agosto 1944 quando i "mutini" catturarono quattro partigiani fucilandoli sul posto la sera stessa. I quattro erano: Albino Abico, Giovanni Alippi, Bruno Clapiz e Maurizio Del Sale; dopo aver operato per un breve periodo in montagna, tornarono a Milano e il 7 agosto,con una macchina, attraversarono la città lanciando volantini inneggianti alla liberazione di Firenze; ma, alla fine, invece di sbarazzarsi della macchina, la vendettero a elementi della malavita che, fermati dalla Muti, parlarono, rendendo così possibile la cattura dei quattro (5). Nel frattempo, tra la fine di agosto e i primi di settembre, cominciarono a nascere le brigate che raccolsero le varie squadre già formate; il settore venne affidato alla 1132 brigata Garibaldi che prese il nome di "Martiri di via Tibaldi" in memoria dei quattro partigiani fucilati. Al comando della brigata fu posto prima Carlo Cassotta, poi Guido Benomio. La 1132 fu una buona brigata: compì numerosi disarmi, volantinaggi e soppressione di spie (6). Di grosse azioni non ve ne furono più fino all'aprile del 1945 quando verso la meta' del mese cominciarono le manifestazioni di protesta: il 25 aprile in mattinata venne diramato l'ordine insurrezionale, in serata vennero occupate la centrale elettrica e l'acquedotto comunale e bloccate tutte le strade di accesso e di uscita dalla città per poter catturare i nazifascisti in fuga. Durante le giornate insurrezionali tutte le brigate accrebbero il numero dei loro componenti fino a dividersi in nuove brigate a ognuna delle quali fu assegnato un compito specifico: la Max Masia (G.L.) coadiuvata dalla 422 Matteotti doveva controllare tutta la zona da viale Tibaldi fino a via Barrili; tutte le altre brigate del settore (Sergio Casman (G.L.), 1132 Garibaldi, 1132 uno bis, 1132 due bis, 1132 terza bis, 1132 quarta bis, 1222 Garibaldi e 1222 bis) operarono fuori zona. Nei giorni tra il 25 aprile e il 10 maggio svolsero il loro compito la 422 Matteotti che, dopo aver occupato le scuole di via Palmieri controllava la pubblica sicurezza di questo quartiere e la 1132 terza bis Garibaldi che occupò la Grazioli, catturo' elementi fascisti che sparavano sulla folla, uccise alcuni fascisti nascosti sui tetti in via Ascanio Sforza e fermò la colonna tedesca sulla Milano-Pavia (7). Come per il resto di Milano e della provincia anche in zona 15 la Resistenza si concluse il 19 maggio 1945 con la consegna delle armi da parte di tutti i partigiani. 3. La vicenda Grazioli

Una trattazione a parte è da dedicare alla vicenda Grazioli, una delle piu' importanti fabbriche della zona. Nonostante la vittoria di Mussolini nel 1922 il fascismo non attecchì mai nelle fabbriche dove rimase sempre una consistente componente antifascista che tornò in evidenza con l'entrata in guerra dell'Italia. Anche alla Grazioli si verifico' lo stesso fenomeno. In questa fabbrica vi era una forte presenza comunista che diffuse gli ideali della Resistenza. Anche qui gli operai avevano aderito agli scioperi del 1943 che aprivano la strada al futuro impegno politico. Nello stabilimento si produceva un'arma molto efficace per fermare le colonne tedesche: i chiodi a quattro punte (foto 24). Questi venivano disposti lungo le strade, generalmente molto trafficate, come la Milano-Pavia e la loro produzione comportava seri rischi dal momento che, se i fascisti avessero scoperto tale produzione, gli operai e il proprietario sarebbero stati fucilati. Il consenso all'interno della fabbrica era generale: un'esempio è dato da un fatto avvenuto durante gli scioperi del marzo 1943, quando si presentarono quattro fascisti per arrestare il capo del reparto torneria accusato di essere l'animatore degli scioperi. Mentre stavano per portarlo via, gli si accodarono tutti gli operai (eccetto due) e questo gesto di solidarietà rese possibile la liberazione dell'uomo. Nel 1944, in seguito ad una segnalazione di Giacomo Grazioli (il padrone dello stabilimento), vennero catturati sedici operai ritenuti attivisti partigiani che furono deportati in Germania: di questi, quindici tornarono dopo la guerra. Questo episodio costò la vita al Grazioli che il 23 aprile 1945 fu prelevato in fabbrica da tre gappisti che, dopo aver letto la sentenza di condanna a morte, gli spararono e lo uccisero (8). Si tratta del secondo caso di un padrone di fabbrica, compromesso con il fascismo, fatto fuori dai partigiani. Questo fatto dà il segno della rilevanza assunta dalla Grazioli nella lotta antifascista milanese, a partire dagli scioperi del '43. Secondo una testimonianza, «il Comitato clandestino del Partito Comunista alla Grazioli ha il diritto di sentirsi soddisfatto del lavoro svolto. Oggi tutti i lavoratori, salvo pochi scagnozzi fascisti, hanno scioperato compatti, con decine di altre fabbriche a Milano, dietro le parole d' ordine lanciate: "Aumento dei salari", "Aumento della razione di pane", "Basta con la guerra fascista!". Sian io nel marzo del 1943 e la vita del Partito è estremamente difficile, ma è assolutamente necessario, dopo vent'anni di fascismo, far riprendere alla classe operaia il suo ruolo di avanguardia nella lotta contro la dittatura e la guerra. Le spie fasciste all' interno della fabbrica sembrano impazzite dalla rabbia. Nella notte vengono arrestati 5 compagni. La risposta deve essere immediata, lo è. La fabbrica è completamente bloccata e gli operai gridano ad alta voce la loro protesta davanti al mitra della milizia fascista: "Libertà per i compagni arrestati! Basta con la guerra!". I fascisti cedono. I compagni vengono liberati e rientrano orgogliosi in fabbrica, abbracciati da noi tutti» (9).

4.Elenco delle azioni in zona 15

a) Operazioni della 4A divisione Garibaldi "Martiri": - 17 agosto 1944: in Piazza Abbiategrasso il V distaccamento disarma un milite della Muti recuperando un

 moschetto;

- 14 settembre 1944: quattro sappisti della 1134 bis disarmano, in via Montegani, un paracadutista

 recuperando una Baratta;

- 7 gennaio 1945: in via Meda, una squadra di sappisti della 1134, tenta il disarmo di un milite delle Brigate Nere che però reagisce e per questo viene ucciso; - 15 gennaio 1945: in via Chiesa Rossa, cinque sappisti della 113 e della 1132 bis, disarmano due

 sotto-ufficiali dell'esercito repubblichino recuperando due pistole automatiche Beretta;

- 10 marzo 1945: sei sappisti della 1132 e della 1132 bis, di pattuglia nei pressi di via Tibaldi,

 incontrano un maresciallo dell'esercito repubblichino; il garibaldino Paie Renzo avvicinatosi per 
 disarmarlo viene colpito dal maresciallo al torace. I sappisti di copertura entrano in azione e colpiscono inesorabilmente il militare;

- 24 aprile 1945: quasi tutte le squadre di punta della divisione sono mobilitate per la distruzione dei

 giornali fascisti nelle edicole. Una di queste squadre della 113^ in via Meda incontra un maresciallo 
 della Muti. I gappisti colpiscono il maresciallo ma, da un gruppo di persone che sono in attesa del tram, partono due colpi di pistola che feriscono un garibaldino alla coscia. Questo, aiutato dai compagni, 
 riesce a mettersi in salvo.

b) Azioni di sabotaggio: - 1 marzo 1943: una squadra della 1132 - bis tenta di collocare una carica di esplosivo nella centrale

 elettrica di via Cermenate ma, essendo la centrale vigilata, i sappisti, ali' apertura del fuoco da parte   dei vigilanti tedeschi, si ritirano; - 15 ottobre 1944: distaccamenti della 1132-bis verniciano tutti i   cartelli indicatori in via Ascanio Sforza così da rendere, ai tedeschi, difficoltosi gli spostamenti in città

c) Lancio di manifestini e comizi: - 20 marzo 1945: squadre della 1132 sono alla VE.DE.ME. di via De Sanctis di protezione per un comizio; - 6 aprile 1945: una squadra della 1132 è di protezione ad un comizio alla cartiera di Verona (odierna

 cartiera Saffa) nel quartiere Gratosoglio (8).

III. La lotta antifascista nel quartiere Baia del Re-Stadera

Un risalto particolare va dato a questo quartiere che può essere considerato il cuore della Resistenza nella zona 15. «Il regime fascista l' aveva voluto chiamare "Quartiere XXVIII Ottobre" per ricordare la "marcia su Roma", ma la gente, i lavoratori che erano stati confinati in questo ghetto popolare all' estrema periferia della città, lo ribattezzarono subito "Baia del Re", cioè col nome della gelida e desolata base di partenza della tragica spedizione Nobile al Polo Nord. In questo rione prevalentemente operaio, che fu ultimato al principio degli anni '30, crebbe rigogliosa la pianta dell' antifascismo. Avvenne così che negli anni della guerra, della lotta partigiana e dell' insurrezione liberatrice, un quartiere intero con i suoi operai - dentro e fuori dalle officine - con le sue donne e i suoi ragazzi, oppose alla barbarie nazifascista una dura ed eroica resistenza» (10). Al di là della connotazione retorica di questa testimonianza, va riconosciuto l'impegno antifascista di un quartiere nel quale vissero e operarono numerosi partigiani, alcuni dei quali caduti in combattimento, fucilati o deportati nei campi di sterminio nazisti. Il quartiere Baia del Re, chiamato anche Stadera per la presenza in passato di una pesa pubblica), comprendeva (e comprende tutt' ora) le vie Neera, Barrili, Palmieri e, per estensione, le vicine De Sanctis, Montegani e Chiesa Rossa. Negli anni della guerra il sud Milano finiva praticamente con questo nuovo quartiere operaio (oltre c' erano solamente gli aggregati semicontadini del Gratosoglio e del Ronchetto). «Già dalla fondazione lo Stadera ospitava fasce di popolazione emarginata, ma i suoi abitanti erano in maggioranza operai. La Baia del Re nei suoi primi anni di vita sviluppa quindi un ambiente sociale compatto e solidale. Il quartiere nasce, infatti, all' estrema periferia di Milano, quasi come una fortezza contro la città lontana. Il senso di appartenenza a una comunità diversa viene dalla comune condizione sociale, ma è anche favorito dalla forma stessa del quartiere: un quadrilatero chiuso alle spalle dal Naviglio. La natura di quest' antica comunità sopravvive ancora allo Stadera, malgrado il progressivo degrado socio-edilizio che ha colpito il quartiere nell' ultimo ventennio. L esempio più significativo dello spirito della Baia è senz' altro la Resistenza contro i fascisti, che ha coinvolto gran parte degli abitanti» (11). Data la sua consistenza operaia, numerosi erano i militanti comunisti e socialisti impegnati nella lotta antifascista. «Persino il parroco della Chiesa Rossa, in quegli anni, nascondeva gli sbandati e aiutava i partigiani» (12). Va segnalata, in particolare, l' assistenza ai prigionieri di guerra alleati. E' noto «un lungo elenco di nominativi di prigionieri di guerra alleati che - dall' ottobre '43 ai primi del '44 - sono stati nascosti e assistiti da famiglie della Baia e aiutati poi a fuggire nella vicina e neutrale Confederazione Elvetica. Le famiglie che hanno corso rischi mortali per aiutare questi ragazzi inglesi, neozelandesi, sudafricani, ecc., a ritornare a casa per riprendere la lotta contro le armate hitleriane sono: le famiglie Cassotta, Serrati e Santini di via De Sanctis e la famiglia Parmigiani di via Barrili 20. Ma altri cittadini della Baia hanno contribuito a questo oscuro lavoro: infatti, nel documento fornito alla "Allied Screening Commission", accanto al nome di John Purvis si trova l' annotazione: "ha dormito da Mila" e accanto al nome di Alfred Preecy si legge: "ha dormito da Pazzaia", eccetera. Anche queste notizie, apparentemente così aride e scarne, ci forniscono la prova che la Resistenza al quartiere Stadera fu un grande fatto corale, profondamente umano e coraggioso, che vide coinvolto gran parte del popolo della Baia» (13). Determinante è stato l' apporto dei giovani: molti «hanno deciso di partire per non lasciarsi intrappolare; hanno sentito che su, in montagna, gruppi di soldati sbandati e di civili si stavano organizzando in bande per combattere contro i tedeschi e i fascisti. E' il 18 settembre 1943. Un piccolo gruppo di giovani della Baia ha deciso di partire. Sono: Emilio Ventura, Francesco Di Bisceglie, i due fratelli Colamonico, Carmelo e Biagio, e Gian Franco Rozza. Raggiungono prima Varese e poi San Martino di Valcuvia. Qui si aggregano con nuclei di militari sbandati e di ex prigionieri di guerra alleati, dando vita a una delle prime formazioni partigiane della Lombardia. in seguito, molti giovani e non più giovani della Baia, decideranno di seguire il loro esempio, andando ad ingrossare le file delle "brigate ribelli" che si batteranno sui nostri monti per liberare l' Italia dal giogo nazifascista» (14). Enormi le difficoltà di ogni genere. Secondo la testimonianza di Virginio Gallazzi, «nel '43, con i fascisti che imperavano in giro come volevano, anche solo partire da Milano per arrivare in val d' Ossola era una tragedia. A quei tempi già partire dalla Baia del Re e andare alla stazione Centrale non era tanto facile». Semplici e complesse insieme le motivazioni generali che spingevano alcuni a darsi alla vita partigiana; non sempre eroiche. Questa la testimonianza di Biagio Colamonico: «Vivevamo in pieno fascismo: andavamo a fare i balilla quando ci obbligavano a fare i balilla... Noi eravamo dei giovani che venivano travolti dalla realtà. Le adunate obbligatorie cominciavano a infastidire il giovane, perchè al sabato pomeriggio le "premilitari" mettevano nella condizione di non accettare un' imposizione. Poi c' era l' altro aspetto: quello dei libri, acquistati di seconda mano nelle bancarelle. Da autodidatti, cercavamo quelli censurati , soprattutto stranieri (Jack London, ad esempio, era letto da molti di noi). Essi mettevano la pulce nell' orecchio, ci inculcavano il dubbio sul fascismo (che ci aveva immerso in un' esperienza fallimentare), senza trasformarci necessariamente in eroi...Le idee critiche che maturavamo in noi ci permettevano di fare delle scelte: in quel momento la scelta più forte era la montagna. Chi di noi andava in montagna non aveva una vera e propria cultura politica. La cultura nasceva a poco a poco, mano a mano che si sviluppavano le discussioni e i contrasti. Noi, ad esempio, in montagna eravamo in contrasto con dei comunisti, che in quel momento non è che li vedevamo molto bene. Il fascismo ci aveva educato contro il comunismo, di conseguenza nascevano anche questi contrasti, spesso molto forti». Rilevante, comunque, è stato anche il contributo delle donne alla lotta partigiana. Una per tutte: Elsa Parmigiani, «una bella ragazza della Baia, impiegata alla Solvay di via Benaco, a 21 anni era già una valorosa staffetta e una temeraria partigiana combattente. Cresciuta in una famiglia operaia profondamente antifascista si era buttata subito e con entusiasmo nella milizia politica. Dapprima si era limitata a battere a macchina, di notte, le copie dell' Unità clandestina che il compagno Fontanella Odoardo (Olona) le portava a casa, ma in seguito fu trascinata nel vortice della lotta armata. Le azioni di guerriglia urbana da lei compiute hanno quasi dell' incredibile. Si stenta a credere, infatti, che lei e la Mila Fineschi - un' altra valorosa compagna di via Barrili - siano riuscite a liberare due garibaldini arrestati a Monza, a tirarli fuori dal comando fascista portandosi dietro, per di più, anche dei preziosissimi timbri e dei lasciapassare della G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana). Ha del miracolo il modo in cui riuscì ad evitare la retata in cui era incappata nelle vicinanze del Parco Ravizza dove doveva consegnare al compagno Ricaldone (Edo) i volantini del Partito di cui aveva imbottito le calze e un ordigno esplosivo nascosto in borsetta. Questi sono soltanto alcuni episodi, e forse neppure i più significativi, dell' attività partigiana di Elsa Parmigiani che per le numerose e coraggiosissime azioni è stata decorata con la Medaglia d'argento al valor militare» (15).

V. Conclusione

Abbiamo voluto dare un quadro generale - ancora frammentario e lacunoso - delle esperienze di lotta partigiana nella zona 15 per capire meglio la consistenza e le forme della partecipazione popolare alla Resistenza nel capoluogo lombardo e nel nord Italia. Questo lavoro ci ha fatto scoprire che anche in una città come Milano, che è riconosciuta come la capitale della Resistenza italiana, la memoria popolare delle lotte contro il nazi-fascismo, attivate nelle periferie e nei quartieri operai, rischia di perdersi con la scomparsa dei protagonisti. Da qui la necessità e l' urgenza del lavoro di recupero della memoria storica, che veda attive le scuole in particolare: sarebbe oggi il modo culturalmente più efficace di scoprire il valore della Resistenza che è a fondamento della nostra democrazia repubblicana. Per questo non possiamo ignorare le esperienze resistenziali di chi oggi ancora vive e dimenticare il sacrificio dei caduti. In questo senso, vogliamo concludere il nostro lavoro con l' elenco delle lapidi che si trovano nelle vie dalla zona 15: da esse bisognerebbe partire per dare un' identità ai caduti e scrivere il libro della memoria.

1. La più importante si trova in via Palmieri 20 (foto 1 e 2) e ricorda i "martiri ed eroi del quartiere Stadera": A. Adorni, E. Begnino, T. Berni, D. Bernori, G. Bertini, A. Bertolotti, B. Biraghi, L. Boffi, A. Bonalumi, O. Bucella, M. Cavallotti, F. Chiesa, C. Ciocca, N. Cirielli, D. Colombo, G. Confalonieri, G. Croce, A. De Vincenzi, L. Di Manzo, L. Fiore, L. Frazza, A. Gagliano, P. Gagliena, O. Gianetto. 2. Importante, dal punto di vista simbolico, è anche il monumento di via Boifava, di fronte alla sede del Consiglio di zona 15. Questa la dedica (foto 16):

"Ai suoi caduti, la zona 15, a perenne memoria. 25-4-1992. 1943-1945 Dal loro martirio la nostra libertà il Consiglio di zona nel quarantennio della Resistenza 25 aprile 1985"

Sono riportati i seguenti nomi: A. Adorni, R. Agliati, T. Berni, D. Bernori, G. Bertini, A. Bertolotti, B. Biraghi, L. Boffi, A. Bonalumi, O. Bucella, M. Cavallotti, F. Chiesa, C. Ciocca, N. Cirielli, D. Colombo, G. Gonfalonieri, G. Croce, A. De Vincenzi, L. Fiore, L. Frazza, A. Giannelli, U. Gilardi, G. Ghioni, U. Ginosa,V. Maganza, S. Martinini, L. Marini, C. Merli, E. Moretti, G. Musatti, L. Negri, L. Negroli, G. Paghini, A. Passerini, M. Peluzzi, G. Prada, M. Provasi, L. Robbiati, F. Salvatici, L. Sottocorna, A. Ventura, P. Volpi.

3. Altre lapidi sono nelle seguenti vie: via Palmieri 5 (Dino Colombo), 6 (Silvano Martinoni), 11 (Angelo Ventura); 18 (Carlo Ciocca), 22 (Luigi Frazza, Luigi Negroni, Mario Provasi e Paolo Volpi); via Barrili 9 (Bruno Biraghi), 12 (Luigi Fiore); via Neera (Domenico Bernori); via Bonghi 12 (Martino Cavallotti); via Spaventa (Mario Peluzzi); via Chiesa Rossa 113 (Giovanni Paghini); via Tibaldi 26 (Albino Abico, Giovanni Alippi, Bruno Clapiz, Maurizio Del Sale).

4. Ma la lapide più importante - primus inter pares - almeno dal punto di vista simbolico, è quella posta in via Ulisse Dini 7 (foto 17, 18, 19 e 20), alla memoria di Giancarlo Puecher, prima medaglia d' oro della Resistenza in Lombardia. Questa ricerca scolastica sulla Resistenza è nata per dare agli studenti la possibilità di scoprire la figura di un giovane cattolico, che ha offerto la vita per l' ideale della democrazia. Lasciamo ad altri studenti l' impegno scolastico rivolto a ricostruire l' identità umana e politica di quegli uomini che sono morti nella lotta contro il nazi-fascismo e la cui memoria non si può limitare alle semplici lapidi-ricordo lungo le strade di Milano, capitale della Resistenza.

1. Cfr, ad esempio, Z. Meneghin Maina, 1918-1945: Frammenti di storia dell'antifascismo e della Resistenza in zona 5, Comune di Milano- ANPI, Milano 1992. 2. Cfr, Allodi-M. Franceschi, La', dove la citta' va spaesandosi verso la campagna, Ed. Mondo Nuovo, Abbiategrasso (MI) 1989 3. Per il settore cfr. L. Borgomaneri, Due inverni, un'estate e la rossa primavera, F. Angeli, Milano 1985 (e anche il Fondo Fontanella, Carte L. Meradini, in IMSRMO). 4. Un quartiere operaio nella Resistenza: la "Baia del Re", a cura del Circolo Culturale "A. Gramsci", Milano 1981, p. 2 (dattiloscritto). 5. Ivi, pp 155-157 6. Ivi, pp 167-168, 170-171 7. Cfr Relazioni sull'attivita' svolta dal Comando settore Ticinese dal 25 aprile a tutt'oggi, 17 agosto 1945, in A. INSML, F. Cvl, b 129, f 5. 8. Intervista ai partigiani Guffanti e Gallazzi, operai della Grazioli durante la Resistenza. (9) Un quartiere operaio, cit., p. 3. (10) Ivi, p. 1. In realtà il nuovo quartiere nacque nel 1926, quando il regime fascista «fece costruire dall' Istituto autonomo case popolari (IACP) 1886 alloggi per accogliere le famiglie povere e gli sfrattati che abitavano nelle baracche del Comune in zona Ticinese» (L. Lanza, Breve storia dello Stadera, in "La Conca. Periodico della zona 15", n. 1, settembre 1996, p. 7). (11) L. Lanza, op. cit., p. 7. (12) Un quartiere operaio, cit., p. 3. (13) Ivi, p.2. (14) Ivi, p. 3. (15). Ibidem. Cfr. anche "L'Unità", 19 aprile 1986, p. 6. - IV -


LA 113a E LA 114a GARIBALDI NEL III SETTORE

di Luigi Borgomaneri

Basta una qualunque mappa di Milano degli anni Quaranta per rendersi immediatamente conto di cosa fosse la attuale zona 15 a quel tempo: una propaggine della città alla periferia meridionale caratterizzata dai rettangoli giallognoli delle case del quartiere Stadera e protesa a sud fino all' altezza di via Neera e delimitato a est e a ovest dal Naviglio Pavese e da via Lusitania poi, tutto attorno, la campagna con qua e là qualche cascina. Una zona popolare "agganciata" all' altrettanto popolare Porta Ticinese, la "Porta Cicca" dei Navigli, quella delle case di ringhiera con cortili e cantine comunicanti che da corso Ticinese portavano a sbucare in via Arena, quella in cui almeno fino agli anni Trenta aveva dettato legge il codice d' onore della vecchia mala milanese e l'Osteria dell'Operetta si chiamava bar Italia ed era frequentato da onesti operai ma ancor più da smaliziati borseggiatori e dal fiore di quella ligera che, narrava l'aneddotica popolare, negli anni Venti, a uno spavaldo e solitario delegato di polizia entrato nel bar a mò di sfida, restituì una spilla con una perla dopo avergliela sfilata dalla cravatta. Il fascio si impose anche qui con la violenza ma faticò a domare la gente del Ticinese. Ancora una ventina di anni fa si poteva trovare qualche anziano abitante che alla generazione dei sessantottini raccontava con orgoglio e con rabbia delle sparatorie e della reazione popolare nell'agosto del '22 quando, durante le giornate del fallito sciopero generale, gli squadristi ebbero alla fine la meglio solo grazie all'intervento delle autoblindate della Guardia regia. Ma la storia del Ticinese e della sua periferia in quegli anni non si esaurisce nelle vicende rievocate dalle canzoni di una vecchia mala autorappresentatasi romanticamente, ce n' è un' altra, una storia popolare la cui memoria, per troppo tempo affidata a troppe celebrazioni retoriche di una Resistenza lottizzata, si è andata sempre più riducendo ai ricordi di qualche vecchio partigiano o di qualche anziano abitante e alle tante lapidi ormai abituate, tra l' ignoranza dei passanti e l' indifferente assuefazione degli inquilini, ad essere tutt' al più annualmente "onorate" in un fugace giorno di ogni aprile. La storia resistenziale della Zona 15 si spartisce tra quella del 3° settore clandestino (Ticinese) e del 4° (Romana), i due settori a cui, per ragioni organizzative, la zona era stata assegnata, ed è - come del resto quella dell' intera città e della provincia - in massima parte legata alle vicende delle brigate Garibaldi, le formazioni clandestine armate che, organizzate dal Pci, svolsero un ruolo trainante e predominante sia per il numero dei combattenti messi in campo sia per l' attività svolta e per le perdite subite. Se nel corso degli anni è stato possibile ricostruire, almeno nelle linee essenziali, lo sviluppo organizzativo e le azioni delle formazioni garibaldine operanti nei due settori, poco o nulla, ad eccezione di alcune notizie sulle forze matteottine, si sa ancora delle vicende delle formazioni di altro colore politico, pure esistenti nei due settori benché con una presenza sporadica e una inferiore incisività. Ogni tentativo di ricostruire quella storia deve quindi basarsi prevalentemente su documenti documenti di fonte garibaldina e comunista relativi ai due settori citati, documentazione peraltro tutt' altro che ampia e che, già contenuta ab origine per le esigenze della clandestinità e poi ridottasi per le dispersioni del dopoguerra, non sembra concedere molte possibilità di ricostruzione degli eventi resistenziali nella Zona 15. Un "buco nero" quindi che può tuttavia essere in parte colmato ricorrendo alle testimonianze dei protagonisti ancora viventi e, ancor prima, muovendo da ciò che di più visibile rimane in zona di quell' epoca: le lapidi che ricordano i caduti partigiani, perché proprio quelle lapidi disseminate tra le case popolari del quartiere Stadera, con una concentrazione, particolarmente in via Palmieri, che forse nessuna altra strada di Milano può vantare, possono offrire, a chi voglia e sappia farne uso, importanti elementi di riflessione su cosa sia stata la Resistenza nella zona, su chi l' abbia fatta e con quali aspettative. I quarantadue nomi dei caduti citati sul monumento di via Boifava e i ventiquattro dei martiri ed eroi del quartiere Stadera confermano - mai ve ne fosse bisogno - la partecipazione e il ruolo svolto dagli abitanti dei caseggiati popolari i quali, fossero quelli di viale Lombardia piuttosto che di viale Monza o di via Forze Armate, per fare solo degli esempi, hanno rappresentato per l' intreccio di comuni condizioni esistenziali, di interessi vitali, di relazioni interpersonali e di solidarietà, i centri di aggregazione e di iniziativa politica che hanno in parte compensato la centralità antifascista della fabbrica quando questa era assente sul territorio o lo era con una presenza limitata. Non sembra dunque una forzatura ipotizzare una partecipazione in cui le motivazioni di classe furono, se non più forti, di certo non inferiori a quelle riassunte nella formula della liberazione nazionale. Un antifascismo esistenziale, nella maggior parte dei casi certamente prepolitico, in cui condizione operaia e emarginazione sociale erano accomunate dall' avversione per un sistema vissuto sulla propria pelle come socialmente ingiusto e fortemente repressivo e, maturate le condizioni storiche, pronte a liberare una grande carica combattiva la cui spinta e le cui aspettative andavano ben al di là delle motivazioni e degli obiettivi politici e sociali assegnati dalla politica ciellenistica di unità nazionale ponendo pertanto non pochi problemi - e non poche contraddizioni - al Pci, che di quella politica fu il più convinto sostenitore così come fu il più impegnato organizzatore dell' estensione della lotta alle masse popolari. Non a caso nel marzo 1944 la federazione comunista milanese, adottando le categorie interpretative e il linguaggio riservati allora a ogni forma di dissenso da sinistra, scriveva a proposito del 3° settore: «ci troviamo di fronte ad un' organizzazione di simpatizzanti con forti elementi a tendenze anarcoidi e di sinistrismo e questo si nota pure in elementi che sono ritenuti i migliori e che hanno posti di direzione. [...] nella nostra organizzazione si sono infiltrati elementi che si ritengono comunisti ma che di fatto sono degli anarcoidi più che dei sinistri» (1). Critiche e preoccupazioni che sarebbe riduttivo esaurire nella possibile - e probabile - presenza di qualche simpatizzante dalla dubbia moralità proveniente o legato al sottobosco malavitoso del Ticinese, ma devono piuttosto ricollegarsi alla generale e diffusa difficoltà di penetrazione della linea politica unitaria nata dalla svolta di Salerno, come in particolare testimoniano, a partire dall' estate fino al dicembre 1944, le relazioni inviate alla Federazione sull' organizzazione nelle fabbriche del 3° settore - Grazioli compresa - e del 4°, laddove si denunciano le fortissime resistenze alla costituzione dei Comitati di liberazione nazionale - pochi e dalla attività deludente - e il fatto che i Comitati d' agitazione clandestini siano quasi ovunque composti soltanto da comunisti sia per la neghittosità dei rappresentanti gli altri partiti antifascisti sia, si scrive, «perché i nostri compagni sono spesso settari» (2). E' noto che la Resistenza fu sì un fenomeno unitario che coinvolse vaste masse per la prima volta protagoniste della propria storia in misura così ampia, ma si trattò di una unità attraversata da contrasti e divisioni, talvolta anche aspri, in cui si riflettevano le contraddizioni di classe esistenti e tra le diverse forze politiche che la diressero e all' interno di ciascuna di esse, alimentandosi di diffidenze e tensioni esasperati inoltre dalle stesse drammatiche condizioni di lotta. L inadeguatezza dell'attuale documentazione non consente ancora di cogliere con quale ampiezza e profondità queste contraddizioni - documentate almeno tra i militanti comunisti della Grazioli - si manifestarono anche nella Zona 15, ma è certo che contrassegnarono, almeno per tutta una fase e non senza ricadute sullo sviluppo della lotta armata e della stessa insurrezione, i rapporti tra larga parte del proletariato industriale del 3° e del 4° settore e la dirigenza federale comunista, così come è certo che proprio nel Comando unificato del 3° settore si aprirono per almeno due volte crisi interpartitiche così profonde da ripercuotersi anche all' interno del Comando piazza di Milano. Eppure, nonostante le ormai provate resistenze della base operaia e di vasti strati degli stessi militanti comunisti nei confronti della politica di unità nazionale propugnata dal Pci, e nonostante le tensioni all' interno del fronte antifascista, altissimo, disciplinato - e duramente pagato in termini di sangue - fu il contributo alla lotta fornito dalla 113a brigata Garibaldi, indubbiamente una tra le più impegnate e alla cui attività la zona 15 partecipò con il distaccamento facente capo alla Grazioli, mentre l'altra formazione operante nella zona, la 110, ripetutamente e duramente colpita dalla reazione, attraversò drammatici momenti che a lungo influirono sul suo rendimento. Entrambe le brigate, con uno stillicidio di azioni minori intercalate da altre più cruente, contribuirono a infliggere duri colpi a un nemico agguerrito e feroce, a sollevare il morale della popolazione nei momenti più tragici e, dall' estate del 1944 all' aprile 1945, a creare, a diffondere e ad alimentare un crescente clima insurrezionale, contenendo le trame dell' attesismo moderato e stimolando con il loro esempio il sorgere e l' attività, quand' anche più modesta e discontinua delle formazioni di altro colore politico operanti in zona. Questi molto schematicamente le problematiche interne alla forza maggioritaria dell'antifascismo locale e il contributo di lotta in cui inquadrare la partecipazione della Zona 15 e degna di attenzione e di incoraggiamento, dunque, ogni iniziativa tesa ad ampliarne e ad approfondirne la conoscenza, tanto più se offre ai giovani l' occasione e lo stimolo alla ricerca sul campo educandoli così a districarsi in un quadro composito per ricomporre pezzo dopo pezzo in loco, dal basso e dal di dentro, una realtà storica svincolata dalle interessate interpretazioni di una Resistenza imbalsamata nell'unica accezione di guerra di liberazione nazionale e appiattita nella retorica celebrativa. E se la storia è sempre in primo luogo storia delle masse e non solo dei suoi dirigenti o dei partiti che ne rappresentano gli interessi di una parte, ecco che proprio la storia locale consente inoltre di poter scavare più a fondo, di entrare in quei dettagli che la Storia con la maiuscola non sempre può accogliere, offrendo la possibilità quindi di cimentarsi in una ricostruzione dove la coralità emerga dall' intreccio di molteplici percorsi di vita, ciascuno dei quali portatore di una propria individualità e dei propri bisogni. Non dunque una storia di anonime e dimenticate comparse orchestrate da pochi "grandi" o esecutrici di decisioni politiche verticistiche bensì una storia fatta da una molteplicità anche di atti e di personaggi minori ma rappresentata da attori coscienti le cui figure possono forse oggi riprendere rilievo e di cui meglio si possono comprendere le scelte e le aspirazioni nella misura in cui ritornano ad avere oltre ad un nome su una lapide, un volto, un passato e una loro storia che si è snodata giorno dopo giorno proprio lì, fra quelle stesse vie e quelle stesse case con cui, chi voglia laicamente capire quella storia di allora, deve fare i conti per ricomporre quel clima di comuni condizioni esistenziali che di quella storia rappresentò l'humus. Ricostruire pertanto la partecipazione della Zona 15 alle vicende resistenziale non può non spingere a interrogarsi sul perché, ad esempio, proprio un quartiere come lo Stadera abbia fornito un così alto contributo alla lotta partigiana, e non può di conseguenza non riportare la riflessione non soltanto sulla incidenza della sua composizione sociale ma ancor più sulle motivazioni e sulle aspettative in primo luogo sociali e di classe di quelle masse popolari che maggiormente si fecero carico della lotta antifascista. In un momento, quale quello attuale, di delicata e travagliata transizione politica, quando più il Paese necessiterebbe un recupero non ambiguo della conoscenza e della memoria del proprio passato, sollecitazioni a singolari riscritture della storia di quegli anni si accompagnano a fatti dai risvolti inquietanti: sottosegretari della Repubblica che presenziano all' inaugurazione di busti dedicati a Italo Balbo; quotidiani di sinistra che, sull' onda della comprensione delle motivazioni di una gioventù che scelse di stare "dall' altra parte", pubblicano sorprendenti articoli che sembrano aprire la strada a improponibili rivalutazioni della famigerata X Mas del principe nero Valerio Borghese; una corte militare che, in dispregio delle prove addotte, scarica vergognosamente il criminale di guerra Erich Priebke dal reato più grave contestatogli; un'alta carica dello Stato che finisce per alimentare le strumentalizzazioni della destra riproponendo il tragico tema delle foibe, mutilo però del necessario richiamo al contesto storico e della denuncia dei ventennali misfatti compiuti prima dal fascismo e poi dalla criminale repressione antipartigiana condotta non solo dalle truppe tedesche ma anche dalle camicie nere e da reparti italiani. In nome della riconciliazione nazionale - e, sorge il dubbio, dell' allargamento del consenso - la memoria della Resistenza sembra in procinto di essere ancora una volta rivisitata in funzione di una nuova stagione politica. Ben vengano dunque e siano incoraggiate e si moltiplichino ricerche come quella condotta con pazienza e fatica dagli insegnanti e dagli studenti del liceo "Allende": rappresentano non soltanto un tangibile e esemplare contributo allo svecchiamento della didattica e alla sperimentazione di un nuovo e più proficuo modo di insegnare e di "fare storia", ma, inducendo i giovani a farsi "storici" in prima persona, favoriscono da un lato il recupero di una conoscenza e di una memoria storica locale altrimenti perduta e, dall'altro, offrono loro una concreta occasione di riscoperta di vicende, temi e valori che, lungi dall'aver esaurito la loro carica educativa morale e civile, attendono ancora di essere scoperti dalle nuove generazioni liberati da ogni orpello retorico e, ancor più, dai legacci di ogni interessata interpretazione riduttiva, di partito o istituzionale che sia. (1) Rapporto organizzativo del 20 aprile 1944, in A. Scalpelli, Scioperi e guerriglia in Val Padana (1943-45), Urbino, Argalia, 1972, p. 115. (2) Cfr. Mese di giugno 1944-Situazione del III', in Rapporto, 152 luglio 1944, firmato Ant., in Archivio Istituto milanese perla storia della Resistenza e del movimento operaio, sezione Il, Fondo Federazione milanese Pci. Ufficio quadri. Commissione di controllo, b.1100 (in ordinamento). AUTOBIOGRAFIE PARTIGIANE

I "ragazzi della Baia" e gli altri

a cura di

Giuseppe Deiana

Le testimonianze qui di seguito esposte sono state scritte direttamente dai protagonisti: vengono riprodotte integralmente, senza alcun intervento se non di tipo redazionale. Si tratta di alcune esperienze di partecipazione alla lotta partigiana da parte di cittadini della zona 15: I' inizio di una ricerca, in attesa di un lavoro più capillare e organico.

1. Paolo Guffanti.

«Sono nato nel 1929 da una famiglia operaia, tutta fieramente antifascista. Tutti i miei parenti, ora defunti, erano comunisti, socialisti o anarchici. E' ovvio che la mia educazione politica, iniziata molto precocemente, fosse antifascista e pacifista. Mi risultò quindi molto facile, nel 1943, quando entrai quale apprendista nella fabbrica Grazioli di via De Sanctis a Milano, produttrice di macchine utensili e quindi ritenuta fabbrica strategicamente importante per la guerra e presidiata perciò da fascisti e tedeschi, orientarmi e capire quale fosse l' aria che tirava fra la maggioranza dei lavoratori, ormai stanchi del ventennio di dittatura fascista, ma soprattutto dai quasi tre anni di guerra sopportati. In casa mia l' antifascismo era palpabile. Mio fratello nato nel 1920 si chiama Umanilio, nome voluto da mio padre, socialista-libertario, in nome dell' umanità oppressa. Mia sorella, nata nel 1926 doveva essere battezzata Giacoma Matteotta in nome del deputato socialista assassinato dai fascisti nel 1924. Al rifiuto del prete si piegò su Giacoma Mattea. Tea per tutti. Per la norma del destino, appena assunto in fabbrica, venni affidato ad un operaio per l' addestramento e, naturalmente, mi capitò un operaio comunista dichiarato e componente della organizzata cellula clandestina comunista di fabbrica. Non passò molto tempo prima che mi ritrovassi impiegato nel lavoro clandestino in fabbrica che consisteva nel distribuire materiale di propaganda, nel raccogliere sottoscrizioni antifasciste,ma soprattutto nella costruzione dei chiodi a quattro punte (foto 24) che servivano per azioni di disturbo alle colonne motorizzate dei nazifascisti, fatte in città da formazioni S.A.P. e dai partigiani di montagna per fermarle e attaccarle quindi con più facilità ad automezzi bloccati. La costruzione dei chiodi oltre ad aver bisogno di una organizzazione clandestina e meticolosa, era molto pericolosa perchè doveva avvenire sotto il naso dei nazifascisti armati presenti, ma anche, purtroppo, di nascosto a qualche operaio fascista. Un compagno magazziniere ci procurava gli scarti adatti delle barre di acciaio. Qualche volta riusciva persino a procurarci qualche barra intera lunga tre metri ed era festa grande. Si tagliavano i pezzi della lunghezza richiesta e poi in torneria si creava la punta (Questo era compito mio). La parte più difficile era la saldatura, anche perchè in quel reparto avevamo solo un compagno sicuro e qualche simpatizzante. simpatizzante. Si dovevano sistemare le tre punte di base su un attrezzo particolare costruito da noi e si procedeva poi alla saldatura della quarta punta. Un lavoro abbastanza lungo, come si vede. Mi piace ricordare che l' attrezzo originale usato e una punta si trovano ora nell' Archivio storico della F.I.O.M.-C.G.I.L. di Sesto San Giovanni. Anche il portare fuori i chiodi dalla fabbrica ci obbligò a studiare un sistema inedito, visto che gli operai venivano sistematicamente perquisiti all' uscita. II mio reparto era situato al primo piano, rivolto verso via Lampedusa, una via per nostra fortuna poco trafficata. Togliemmo lo stucco di un piccolo vetro del reparto e a degli orari ben concordati si toglieva il vetro e si gettavano dei pacchetti con poche decine di chiodi alla volta alla staffetta che attendeva sottostante. La maggior parte delle volte la staffetta era mia sorella Tea. I chiodi venivano quindi distribuiti ai vari gruppi S.A.P. operanti in città o inviati alle formazioni partigiane in montagna. E' evidente che la suggestione di poter usare questi chiodi per qualche azione è stata troppo forte, data anche la giovane età che mi portava facilmente all'incoscienza, visto che mi era stato espressamente proibito, per questioni di sicurezza, di farne uso proprio. In quei tempi mi era stato dato, con mia estrema soddisfazione, un nome di battaglia: Leunin (piccolo leone, in dialetto). lo ero convinto che mi fosse stato dato per il coraggio dimostrato (o incoscienza?), ma purtroppo qualche anno dopo in fabbrica, con molta ironia da parte loro e qualche delusione da parte mia, i compagni mi dissero che il soprannome derivava soprattutto per la mia allora foltissima capigliatura. Sta di fatto che con un gruppetto di amici coetanei iniziammo ad operare in proprio. Abitavamo allora tutti nel villaggio Baravalle, un quartiere dello I.A.C.P. fatto tutto di villette che si affacciavano sulla via, ora viale Tibaldi. Quella via, allora, visto che non esistevano autostrade, era l' unica praticabile che portava alla statale per Genova e, quindi, per il fronte ed il traffico militare era molto intenso, particolarmente verso l' imbrunire o la notte. Noi lo intendevamo quasi come un gioco. Piazzavamo decine di chiodi sulla via Tibaldi e, nascosti dietro un muretto alto meno di un metro di una delle villette del Baravalle ci godevamo lo spettacolo dei camion fascisti o tedeschi che finivano sui nostri chiodi. Le urla, le bestemmie e gli spari fatti per rabbia erano per noi oggetti di gloria. L unico pensiero che oggi mi fa rabbrividire è il ricordare che del gruppo il più armato ero io, con una pistola a tamburo con tre colpi. Non ho mai provato a sparare con quella pistola e quindi sono ancora oggi nel dubbio che i proiettili funzionassero. Era un recupero di armi dal Naviglio, di cui racconterò dopo. L'unico caso tragicomico che mi capitò e che mi lasciò un certo imbarazzo fu quando su uno di quei chiodi capitò un ignaro operaio in bicicletta che probabilmente usciva stanco da una fabbrica dei dintorni. Le sue imprecazioni mi lasciarono, quella volta, con l' amaro in bocca. Fra le altre iniziative prese dalla cellula clandestina mi ricordo che escogitavamo il sistema per procurare qualche arma efficiente ai nostri combattenti. In fabbrica c'era una guardia armata di un corpo non militare. Dopo esserci assicurati del suo antifascismo ci organizzammo per il suo disarmo concordato. In un giorno stabilito, nei locali della mensa, che era fuori dalla fabbrica, facemmo intervenire un gruppo di partigiani delle S.A.P. che, disarmato il guardiano, tennero anche un breve comizio inneggiante alla pace, contro il nazifascismo. A questa azione ha partecipato il partigiano Virginio Gallazzi, già operaio della Grazioli e poi partigiano in montagna, ferito. La pistola recuperata era a tamburo e il guardiano ci procurò poi anche i proiettili. In fabbrica, sotto il naso dei fascisti, organizzammo una colletta per acquistare una nuova pistola alla guardia, questa volta una bella automaica. Naturalmente questo acquisto era finalizzato ad operare un altro disarmo che avvenne puntualmente qualche tempo dopo. Dovemmo smettere il gioco anche perchè i fascisti, insospettiti, misero guardie armate loro nel locale mensa. In compenso operammo un disarmo di un ufficiale fascista che abitava proprio davanti alla Grazioli. Trovammo in casa solo la moglie, ma in quella occasione le armi recuperate furono più di una. Mi piace ricordare che per dimostrare il nostro coraggio (o incoscienza) il giorno dopo il disarmo ci sedevamo tranquillamente, dopo l'ora di mensa, sul marciapiede davanti alla Grazioli, ridendo soddisfatti all' arrivo in automobile scortata del fascista. Altri recuperi di armi, con i miei amici coetanei, li facevamo dalle acque del Naviglio Pavese. Infatti, dopo l' 8 settembre del '43, la maggior parte dei militari, oramai sbandati e senza ordini precisi, cercavano di mettersi in borghese e di tornare a casa loro. Tanti si disfacevano delle armi buttandole appunto nel Naviglio. Con i mieli amici, fra gli altri Paolo Imperato, facevamo un bagno nel Naviglio (allora si poteva) e individuate le armi, fucili, moschetti, pistole e bombe a mano, si accumulavano in un punto ben preciso e alla sera, poco prima del coprifuoco, si provvedeva a raccoglierle, nascondendole in sacchi di juta e a trasportarle in casa dell' Imperato o a casa mia. La zona del Naviglio battuta era quella fra Porta Ticinese e la prima chiusa all' altezza di via Darwin, verso via Lagrange e via Pavia. Le armi andavano ripulite dalla ruggine, ingrassate e poi venivano nascoste in parte da Imperato o a casa mia, in parte portate a qualche formazione in montagna. Durante un' operazione di pulitura di una pistola particolarmente arrugginita mi è accaduto di spararmi il colpo che era in canna, che mi ha trapassato il palmo della mano sinistra, per mia fortuna senza conseguenze. Questo fatto mi accadde in casa Imperato. Naturalmente anche il trasporto delle armi in montagna era molto pericoloso e necessitava ovviamente di una organizzazione molto accurata. Io vi ho partecipato, avventurosamente, una sola volta e mi è bastata. Ma questa è un' altra storia».

2. Virginio Gallazzi

«Sono nato a Vasco nel 1925: provengo da una famiglia di antifascisti militanti. Mio padre, Enrico, prese parte attivamente all' occupazione delle fabbriche durante la settimana rossa nel 1920; in seguito a ciò non vi fu più lavoro nelle fabbriche per lui. Mio zio Gino Saccenti, di Prato, dirigente comunista conobbe il carcere fascista fin dal 1927, in seguito fece parte delle Brigate Internazionali durante la guerra di Spagna; catturato subì la prigione a Ponza fino al 25 luglio '43. Per sua moglie Gina cambiò solo il luogo, il confino di Ventotene. Queste le mie radici. Operaio alla Grazioli dal 1939, entrai in contato con alcuni operai antifascisti, presi parte attiva agli scioperi del marzo 1943; per questo e per altri motivi dopo i 45 giorni di Badoglio, ricevetti la lettera di licenziamento. Non essendo risultato abile al servizio militare non correvo il pericolo di chiamata alle armi; questo mi lasciava una certa libertà di movimento. L'8 settembre 1943 non mi colse di sorpresa: con altri compagni provvidi al recupero delle armi abbandonate dopo sfacelo dell'esercito. In zona esisteva una batteria di artiglieria contraerea, quattro cannoni, alcune mitragliere, più di circa duemila proiettili per cannoni. I pezzi di artiglieria furono distrutti e i proiettili furono fatti sparire perchè non cadessero nelle mani dei tedeschi. Quando la situazione si fece pesante fui inviato in Valle d' Ossola, dove si stavano organizzando le prime bande partigiane. La mia base era ubicata in alcune baite in località Crot Sora (Premusello) che servivano come deposito per le armi fatte arrivare da Milano; solo che il posto, abbastanza sicuro, era collocato a circa duemila metri ed a otto-dieci ore di marcia in montagna. Ai primi di novembre '43 il gruppo si trasferì in Val d' Ossola, dove, insieme a partigiani del posto, il giorno 8 novembre '43 si occupò la cittadina, compiendo uno degli errori che l' inesperienza dei primi tempi portava a fare: rimanendo sul posto e subendo il contrattacco nemico, nel corso del quale cadde morto Dante Semerari di Milano e io rimasi ferito. Aiutato dalla gente del posto, dopo diversi spostamenti fui trasportato ali' ospedale San Biagio di Domadossola dove, con l' aiuto di tutto il personale, fui salvato dalle ricerche dei tedeschi. Vi rimasi per circa dieci giorni, dopo i quali mio padre, avvisato tramite i canali clandestini, mi riportò a casa, ferito, ma ancora vivo. Curato dal dottor Corazza, che aiutava la resistenza, mi ristabilii abbastanza bebe. Quando mi fui ripreso completamente venni inviato in Val Sassina presso la 55a Brigata Garibaldi in qualità di Commissario Politico di Distaccamento. Il compito era di organizzare i giovani che salivano in montagna per sfuggire alla chiamata alle armi da parte della R.S.I.; altro compito era quello di punzecchiare continuamente le forze nazifasciste. Sopravvenne il rastrellamento di fine primavera 1944, durante il quale fummo costretti a dividerci in diversi gruppi, per poter tentare di sfuggire alla cattura: non dico quante traversie superammo, non ultima per me due giorni di cammino senza scarpe, nei boschi di castagni! Scesi a Milano, assieme a Domenico Bocchiola, per ricevere nuove disposizioni sul da farsi. lo fui fermato a Milano, Domenico inviato di nuovo in montagna venne fucilato a Introbio il 15 ottobre del '44. Io ero ancora vivo. In città mi fu affidata una zona dell' organizzazione giovanile, fra gli altri compiti dovevo provvedere alla consegna dei pacchi di stampa clandestina a diversi recapiti, da dove poi veniva capillarmente distribuita. Fu tentato un comizio al Politecnico di Milano, andato buco per un disguido. Andò bene il comizio, seguito dal disarmo di una guardia, alla mensa della Grazioli. Anche il recupero di alcune pistole presso lo stabilimento Kardex di San Cristoforo andò bene. In quel periodo Giovanni Busi, responsabile del settore (attuali zone 15, 16 e 17) dovette allontanarsi da Milano e mi venne affidato il suo incarico, per breve periodo, perchè il 29 dicembre '44 vennero per arrestarmi. Sfugii alla cattura insieme a mio fratello Giuseppe. Dopo alterne vicende raggiunsi l' 85° Brigata Garibaldi, operante sulla parte piemontese del Lago Maggiore. Prima di allontanarmi a Milano venni a sapere che Giovanni Busi era stato fucilato a Camerlata di Como. Ancora una volta io ero anora vivo. Come capo-squadra partecipai con altri partigiani alle seguenti azioni: sottrazione delle divise della 10° M.A.S; recupero di viveri imboscati da un capitano della G.N.R. in una villetta a suna. Venuto a conoscenza che nel carcere di Intra erano trattenuti alcuni prigionieri, con altri partigiani scesi in città, di notte, passando il torrente a guado, non conoscendo bene la strada per il carcere, disturbammo una coppia che se ne stava appartata, li portammo con noi sino al carcere dove con uno stratagemma riuscimmo ad entrare. Ci allontanammo con i prigionieri lasciando però nel carcere la coppia. Per ultimo l' attacco a Intra nella notte del 21 aprile '45 dove, purtroppo, al ritiro delle nostre forze, rimanemmo entro la cerchia dei posti di blocco fascisti. Sfuggiti alla cattura raggiungemmo le nostre posizioni, da dove il 23 aprile '45 partimmo per la liberazione finale di Intra. All' ospedale trovammo, ancora vivo ma senza gambe, il partigiano Mario Rossi, ferito in uno scontro tempo prima. Attraversato il lago, da Laveno partimmo per Milano. Ma la nostra fama non ci presentava bene agli occhi di qualcuno, perciò fummo fermati a Tradate e rinviati a Intra. Per rendere comprensibile l' atmosfera e lo spirito che esistevano nella formazione basta ricordare l' episodio di Sergio Serafini che, ferito gravemente, veniva portato a spalle da un altro partigiano verso il confine svizzero. Tagliati fuori ed essendo impossibile salvarsi ambedue, chiese di non essere abbandonato vivo nelle mani dei fascisti. Ho conosciuto anche il partigiano 43, chiamato così perchè insieme ad altri 42 partigiani venne fucilato a Fondo Toce, ma riuscì a salvarsi perchè rimase sepolto sotto i corpi dei compagni morti. La situazione del vestiario e delle scarpe aggiunta alla fame pesante era generalizzata: qualcuno ci indicò come esercito senza scarpe. Un episodio riguardo alla fame: mi trovavo con una squadra di partigiani presso il Passo della Piota, circa 2000 metri, da cui sorvegliare ed eventualmente rintuzzare un attacco fascista in quanto doveva avvenire un lancio di rifornimenti aerei, che poi non avvenne. Dovendo bollire del riso, che faceva da colazione, pranzo e cena, sciogliemmo la neve in un pentolone, ma sul fondo trovammo delle palline nere. Gettammo il tutto e ripetemmo l' operazione un paio di volte con il medesimo risultato. Alla terza volta togliemmo le palline e mettemmo il riso. Le palline erano le tracce delle capre selvatiche, ma la fame era troppo forte e non si poteva dare troppo peso ai particolari. Quanto avvenne in quei periodi fu possibile solo per l' aiuto attivo delle popolazioni sia in città che in montagna. Ad esempio, quando venni trasportato a Milano ferito, tutto il caseggiato sapeva della mia presenza in casa, ma nessuno, dico nessuno delle sessantaquattro famiglie fece la spia; anzi, sorvegliavano ogni movimento sospetto avvisando i miei. A me a ad altri partigiani non piacque lo sconcio di Piazzale Loreto: lo giudicammo incivile e macabro, però ci fu sconsigliato di intervenire. Arrivai a Milano alla fine di aprile. Nonostante le voci e le insinuazioni dei benpensanti, da quanto sopra io ho ricavato una coperta, militare, un pezzo di formaggio e 1000 lire, che divisi con mio padre. Questo conteneva il mio zaino, oltre alle cartucce, al mitra ed alle bombe a mano. Io sono ancora vivo, ma - parafrasando una canzone - era meglio morire giovani che vedere lo schifo di oggi. Almeno avevamo dei sogni».

3. Biagio Colamonico, Francesco Di Bisceglie, Emilio Ventura.

«8 settembre 1943: l' Italia ha firmato l' armistizio con gli alleati. La guerra è finita! Con questa illusione la gente si riversa nelle strade del quartiere; il giubilo è grande. Noi ragazzi abbiamo dato l' assalto alla batteria contraerea (posta dove oggi si trova il quartiere Torretta, allora distesa di prati) estraendo dai proiettili dei cannoni antiaerei listelle di "balistite" altamente infiammabili che ammucchiate nelle strade e accese, alzavano incredibili lingue di fuoco che arrivavano quasi al terzo piano delle case e mandavano in visibilio grandi e piccini. La gioia fu ancora più grande quando dal Vigentino e dalla Barona si videro altrettanti falò che diedero la certezza della partecipazione di tutta Milano all' avvenimento liberatorio dagli incubi, ancora presenti, dei bombardamenti alleati. L illusione durò lo spazio di pochi pochi giorni! Milano fu consegnata ai tedeschi che nel frattempo occuparono tutta la penisola, complici le alte gerarchie dell' esercito e del re che ci abbandonarono in balia di noi stessi, senza darci ordini e direttive. Lo sfascio dell' esercito fu totale. Per le strade incontravi strani individui con giacche borghesi e pantaloni militari, o viceversa, che tentavano di ritornare al proprio Paese, evitando i tedeschi che già pattugliavano le strade e quindi il pericolo di andare in Germania. Era un periodo molto strano e non ci si raccapezzava tra un susseguirsi di notizie, diverse le une dalle altre, che aumentavano la confusione e lo sgomento; si andava al lavoro ma non si lavorava; si andava in giro senza sapere dove e perchè; ci si trovava alla sera tra amici e ci si interrogava su quanto stava accadendo o era appena accaduto, per cercare di avere idee più chiare possibili. In giro cominciavano a circolare certi figuri con camicia nera e con atteggiamenti provocatori prefiguranti il peggio che non tardò ad arrivare quando una sera il giornale-radio comunicò la "liberazione" di Mussolini e dopo qualche altro giorno la nascita della Repubblica sociale italiana. D' istinto, tra noi amici, si respinse la possibilità di collaborare con i "repubblichini", per cui quando proclami tedeschi e fascisti chiamarono alle armi tutti i giovani delle classi dal 1920 al 1924, configurando per i renitenti alla leva la pena di morte, non ci fu molta esitazione nello scegliere la clandestinità e cioè la montagna. Parlare d' istinto non è poi tanto esatto, in quanto da tempo i fascisti erano identificati come diretti responsabili delle nostre sofferenze, miserie e lutti. Ancor prima della caduta di Mussolini, fatti minuti e sporadici erano indicativi di uno stato d' animo generale che affiorava palesemente tra la popolazione. In questo clima il nostro gruppetto di amici, pur non avendo legami con organizzazioni politiche, aveva chiara la determinazione di passare alla clandestinità. Scartata la località dei Piani dei Resinelli, in quanto dal notiziario del giornale-radio, risultava oggetto di rastrellamento da parte dei tedeschi, scegliemmo "al buio" di partire per il Varesotto, su voci raccolte in treno dal fratello di Gino. Lunedì 19 ottobre 1943 il gruppo formato da sei giovani (cioè, Biagio (Gino) Colamonico, il fratello Carmelo, Francesco Di Biscieglie, Franco Rangoni, Franco Rozza ed Emilio Ventura - tutti abitanti in via Palmieri 11, 14 e 18) partì in treno fino a Cuvio ed a piedi proseguì verso un paesino (Duno) ai piedi del Monte S. Martino di Valcuvia. All' uscita di questo paesino fugammo ogni dubbio sulla scelta ed incontrammo veramente un gruppo di partigiani che "armeggiava" attorno ad un camion militare in panne. Risaliti con questi verso la "casermetta", situata in un leggero avvallamento prima della vetta, prendemmo alloggio e contatto con la formazione partigiana. Le "voci" parlavano di migliaia di uomini ed invece tutta la "forza" era lì! Tra ufficiali, sott' ufficiali e truppa eravamo poco più di una trentina! Comandava il colonnello Croce in presenza del quale (torcendo un pochino il naso) giurammo fedeltà al Re. L' organizzazione era strettamente militare e si chiamava Esercito Italiano-Gruppo 5 Giornate-San Martino; col seguente motto "Non si è posto fango sul nostro volto". Il colonnello Carlo Croce (Giustizia) tenne fede a questo motto e morì a seguito di ferite riportate in un agguato tesogli nel 1944, mentre tentava di rientrare in Italia dalla Svizzera. Fu decorato di medaglia d' oro. Fummo divisi in squadre e cominciammo a strutturarci per ricevere altre forze rendendo agibile, prima di tutto, la "galleria fortificata", posta poco più sotto la casermetta (opera risalente alla prima guerra mondiale) ed il relativo camminamento che la collegava alla valle sottostante. Lavori di sterro e taglio di alberi si dimostrarono comunque quanto mai opportuni opportuni perchè entro la fine dello stesso mese di ottobre la forza della nostra formazione saliva a 180 presenze, composta per lo più da renitenti alla leva, da antifascisti, nonchè da ex prigionieri di guerra (inglesi, francesi, greci, ecc.). Nel frattempo al nostro gruppo si aggiunsero altri due: Angelo Ventura (fratello di Emilio) e Felice Cremascoli, mentre ritornava a casa Franco Rangoni perchè malato. La guerra partigiana era agli inizi ed alle prime esperienze e non stupisce il fatto che ci si doveva impegnare in azioni e missioni preparatorie ed indispensabili quali il recupero di armi (spesso interrate e non funzionanti); la ricerca di mezzi di trasporto, lubrificanti, ecc. e - non ultimo per importanza - il vettovagliamento. Alcuni di noi furono impegnati in "missioni" diverse anche importanti e cominciava a profilarsi l' assestamento organizzativo della formazione, con azioni significative, quali gli assalti alla caserma di Porto Valtravaglia, a quella della finanza di Luino, quella dei pompieri di Milano (recupero automezzi) ecc. Specializzati in recupero vettovaglie vi era il gruppo di sei carabinieri che, avvalendosi della loro divisa, riuscivano a farsi aprire diversi magazzini alimentari. Tre muli (Adolfo, Benito e Claretta) affidati alle cure del cuciniere Milano migliorarono nel frattempo la qualità del rancio! La presenza della nostra formazione indubbiamente cominciava ad impensierire i tedeschi che, oltre alle azioni sopra citate, dovevano registrare la perdita di due ufficiali uccisi in uno scontro avvenuto sulla strada Cittiglio-Luino e la perdita di quattro "SS" caduti in nostre mani come prigionieri. Infatti, la reazione non si fece attendere molto: il pomeriggio del 14 novembre forze tedesche salgono dal lato della "galleria" ma vengono fermati dal nostro fuoco. Tergiversano, chiedono di parlamentare e si ritirano. La notte stessa il nostro comando decide l' invio di un plotone composto da undici uomini (tra questi Angelo Ventura) a presidiare la chiesetta posta sulla vetta del monte S. Martino. Il mattino seguente (15 novembre), verso le ore nove, i teschi lanciano un nuovo attacco e questa volta dalla parte di Duno verso la "casermetta" difesa, da quel lato, da una trincea ed una postazione di mitragliatrice. Gli assalitori vengono accolti da un fitto lancio di bombe a mano ed infilati da precise raffiche di mitragliatrice che li obbligano a desistere - almeno per il momento - dall' avanzare (Fanno parte della squadra in trincea G. Colamonico, E Di Bisceglie, F. Rozza ed E. Ventura). Resisi conto che non era così semplice snidarci, i tedeschi ora si avvalgono della loro superiorità militare e ci sottopongono ad un tremendo ed allucinante bombardamento aereo (con tre Junker 88) che, per nostra fortuna, demolisce la "casermetta" ma non colpisce la trincea; uno di questi aerei viene colpito ed abbattuto. Segue al bombardamento un nutrito e ben calibrato tiro di mortaio che ci obbliga ad abbandonare la postazione e ripiegare entro una voragine provocata da una bomba d' aereo; contemporaneamente i tedeschi sferrano un attacco e sfondano dall' alto della chiesetta, prendendoci d' infilata sul fianco. La posizione diventa insostenibile perchè, presi di mira dai mortai e soprattutto dalle raffiche di mitra dei tedeschi che urlando scendevano dalla vetta, non ci rimase altra alternativa che ritirarci nella "galleria". In trappola! Questa era la nostra drammatica situazione; la "galleria" a forma di ferro di cavallo dava entrambi gli ingressi sul pianoro antistante preso di mira da tedeschi nascosti nella boscaglia che lo fronteggiava; dalla parte esterna, ampie feritoie simili a grandi vetrate, erano meta di pericolose incursioni nemiche che soltanto il tiro di sbarramento con fucili, che veniva praticato dall' interno, allontanava provvisoriamente. La situazione precipitò quando si ebbe notizia del dissolvimento della II° compagnia posta a difesa del fianco della galleria e la disperazione colpì ognuno di noi quando il cappellano don Mario - inginocchiato - impartì l' estrema benedizione. Magrado ciò si continuava a combattere, sparando su ogni cosa in movimento nella boscaglia e prendendo d' infilata i tedeschi avanzanti, con una mitragliatrice, da una postazione interna - ricavata da un cunicolo scavato nella roccia e nascosto dall' esterno - che seminava quanto meno feriti tra quanti, con teutonica fermezza, imperterriti continuavano ad avanzare. Il sole era ormai tramontato ed i tedeschi, probabilmente accampati nei dintorni, permisero a noi di tentare una rischiosa, ma fortunata, sortita: gli ufficiali aprirono un intenso fuoco di fucileria dalla parte dell' ingresso di sinistra, onde sviare l'attenzione e noi tutti a scaglioni uscimmo dall' altro ingresso, attraversando un tratto scoperto ed infilando il camminamento che conduceva a valle. Seguirono per ultimi gli ufficiali e spettò al colonnello dar fuoco alle micce che poco dopo fecero brillare circa due quintali di tritolo che provocarono una terribile esplosione e di-strussero tutto quanto era rimasto nella galleria. Iniziò una lunga e tortuosa marcia notturna attraverso valli e montagne che si protrasse per oltre dieci ore, evitando la seconda cintura offensiva formata dai "repubblichini" impegnati soltanto in compiti di pattugliamento (e di boia, come venimmo a sapere più tardi, con compiti infami, quali gli interrogatori e le fucilazioni). Verso le tre di notte arrivammo a Ponte Tresa ed isolati i finanzieri di guardia al ponte, inquadrati, lo attraversammo e ci consegnammo alle guardie svizzere. Di quella notte non dimenticheremo mai l' angoscia e la pena che ci procuravano le lingue di fuoco che si alzavano dal San Martino, visibili in tutto il territorio e si pensava a coloro che lassù erano rimasti: 44 caduti fu il contributo di sangue! Partiti in sette dalla "Baia", quattro di questi erano riparati in Svizzera (Emilio, Francesco, Franco e Gino) e degli altri Carmelo, rimasto isolato con la sua squadra dopo il primo attacco, tagliato fuori dalla formazione, vagò per le montagne della zona e si riunì a noi, dopo diversi giorni, in Svizzera; Felice faceva parte della compagnia dislocata lungo il camminamento che si dissolse durante la battaglia e riuscì ad allontanarsi e tornare a Milano. Infine, Angelo destava maggiori preoccupazioni perchè fummo testimoni dell' assalto subito lassù sul San Martino ed avemmo certezza della sua morte (avvenuta il giorno dopo, mediante fucilazione) dal cappellano don Mario, rimasto sul posto a raccogliere e seppellire le salme dei caduti. La battaglia del San Martino fu il primo ed importante episodio di lotta partigiana avvenuta in Lombardia e servì d' esempio e di stimolo per tutto il movimento. Anche radio Londra diede molto risalto al combattimento, per la verità con non poca fantasia ed esagerazione (parlò di due mila morti), fortunatamente contro bilanciata da una fonte tedesca che parlava di "pesante fuoco d' artiglieria" da parte nostra. L' esperienza partigiana attiva si ferma con il nostro internamento in Svizzera che terminerà soltanto dopo la fine della guerra, nel luglio 1945; ma ha segnato ognuno di noi nel profondo del proprio carattere, perchè se è vero che il nostro coinvolgimento è retorico definirlo "ideale", lo è stato certamente come scelta "morale", come ribellione alle sofferenze e soprusi per tanti anni subiti. Un senso di giustizia ci ha guidati anche dopo, nei primi anni del dopoguerra, quando la miseria, le umiliazioni ed i soprusi continuarono e non fu certamente un caso che - pur con percorsi personali differenti - ci siamo ritrovati, nei primi anni cinquanta, a percorrere la stessa strada (questa sì ideale) aderendo al Partito Comunista Italiano, del quale ognuno di noi divenne convinto attivista. Se una morale dobbiamo trarre, questa non può essere che l' estrenua difesa della pace, perchè le guerre il popolo le subisce ben tre volte: prima, durante e dopo» (a cura di Emilio Ventura).

4. Paolo Imperato

«Avevamo 12 anni Paolo Guffanti, Giancarlo Garanzini, mio fratello Ugo, io ed altri quando il 10 giugno 1940 ebbe inizio la guerra, che segnò il calvario dei successivi 5 anni. Giovani e stupiti non pensavamo che, con tanta coscienza, di lì a tre anni, per altro passati nel terrore, avremmo intrapreso la via della Resistenza già iniziata da mio fratello maggiore Mario e da carissimi amici più adulti di noi. Ancora ragazzi con coraggio affrontammo i compiti che ci eravamo prefissi: recupero di armi da inviare ai partigiani in montagna, distribuzione clandestina di volantini e giornaletti antifascisti, piazzare sulle strade i chiodi a tre punte per ostacolare il passaggio di mezzi militari tedeschi. Tutto ciò serviva a creare una catena di antifascismo che si allungava sempre più coadiuvata dalla coscienza dei cittadini terrorizzati dagli orrori della guerra. Nella nostra via Baravalle, in una retata di notte furono prelevate quattro anziane persone colpevoli di essere contrarie al fascismo e alla guerra, portate in Germania nei campi di sterminio: solo due tornarono, i più giovani. Il padre della nostra cara amica Anna, Paolo Garanzini, operaio alla Tecnomasio, antifascista e coordinatore della stampa clandestina a Milano, in una serata di agosto fu catturato, torturato e fucilato per non aver rivelato nomi di compagni, dalla famigerata brigata nera Muti, sulla strada statale per Pavia. In via Tibaldi, a testimonianza del loro martirio, ci sta la lapide di quattro giovani gappisti trucidati da raffiche di mitra: ero presente al massacro, con altri compagni in quel tardo pomeriggio. L' 8 settembre 1943 mi trovavo momentaneamente sfollato a Monza ed ho assistito all' uccisione di militari italiani, da parte dei tedeschi, che cercavano di scavalcare le mura di cinta della caserma per darsi alla macchia. Il terrore e lo sgomento non mi impedì di continuare la mia attività di partigiano e mano a mano sentivo sempre più impellente il bisogno di portare aiuto alla causa della Resistenza come pegno di partecipazione attiva. Nel frattempo aumentava per noi il rischio e con l' incoscienza della nostra giovane età ci buttavamo in azioni sempre più pericolose: tutto ciò fino al 25 aprile 1945. Aggiungo ora un mio modesto pensiero: i nostri figli, i nostri nipoti, anche se spiegassimo loro quanto è successo, non potranno mai immaginare cosa abbiamo sofferto, quanto abbia inciso sulla nostra vita la mancanza di tutto: dalla fame al freddo, dalla paura alla privazione della libertà. E spero tanto che possano capire che per conquistare quest' ultima ce l' abbiamo messa tutta, sacrificando i migliori anni della nostra vita. La sappiano difendere e ne conservino i valori».

5. Carla Priori

«Fui assunta alla Face Standar il 21 novembre 1942. Era uno stabilimento di telecomunicazioni, centrali telefoniche, ponti radio e, in fase sperimentale, di televisione. Il mio lavoro mi portò a contatto con gli operai: dovevano passare da me per farsi vidimare i buoni di prelievo delle materie prime, anche se già firmate dal capo reparto. Così incominciai ad interessarmi dei loro problemi. Ed a poco a poco entrai nella loro confidenza. Un giorno un' operaia mi avvicinò e mi dette un foglio: "Gruppi di difesa della donna". Così seppi che molte donne lottavano contro i fascisti e la guerra, ed anch'io incominciai a partecipare alle dimostrazioni in fabbrica, per l'aumento del pane, degli stipendi. Ma era molto difficile trascinare gli altri impiegati: avevano paura di perdere l'esonero e di essere mandati in prima linea. Arrivò l' 8 settembre e la direzione aziendale fu presa dai tedeschi. Allora gli operai di notte scavarono buche e nascosero tutte le radio riceventi e trasmittenti e i centralini telefonici; così i tedeschi trovarono i magazzini vuoti. Incominciò l'esodo dei maschi richiamati ed io iniziai la raccolta di fondi per comperare a borsa nera le tessere annonarie per i ragazzi che andavano in montagna. Un giorno mi arrivò l'ordine di accusare un malore: mi portarono in infermeria, mi misero sotto una tenda; una ragazza mi portò una centralina da campo completamente smontata; mi nascosi tutto addosso, meno la cassetta. L'infermiera chiese il permesso della macchina per portarmi a casa. Dopo poco arrivò un tecnico a ritirare il tutto: nella notte la centralina telefonica era in montagna dai partigiani. Questo dovetti, a distanza di tempo, farlo diverse volte. Ebbi un contatto con un giovane operaio, piccolo, dimesso insignificante. Il primo appuntamento fu nel tardo pomeriggio al parco dove passa la ferrovia: mi fece molte domande sulla fabbrica, la produzione, gli stipendi e i nomi dei fascisti. Mi incaricò di recarmi tutte le mattine al bar della piazza di S. Maria Beltrade. La piazza è molto vicina a piazza S. Sepolcro ed il bar al mattino, dalle 7 alle 8, era pieno di fascisti, specialmente graduati; così pure all' ora dell' aperitivo. Riferii tutto ad una ragazza: più tardi seppi che era la fidanzata di Pesce (medaglia d'oro della Resistenza), poi divenuta sua moglie. Ed era lo stesso contatto che ebbi al parco (all' Arco della pace) un'altra volta; poi non lo vidi più, fu mandato in Valle Olona. Rimase il contatto con la sua ragazza. Per parecchi giorni mi mandarono in corso Vittorio Emanuele a sorvegliare il cinema Excelsior. Questo locale apriva alle 19 per le truppe tedesche e trasmetteva film in lingua tedesca. Dopo pochi giorni dovetti sospendere tutte le attività, perchè la ragazza era stata arrestata: causa del suo arresto un' infiltrato fascista. Seppi dopo un pò che la ragazza non aveva parlato. Iniziai, allora, il lavoro di propaganda fra gli studenti del liceo e dell' università. In piccoli gruppi ci trovavamo al parco o ai giardini. In questo modo conobbi una ragazza universitaria ebrea: mi confidò che dall' inizio della guerra tutta la sua vita era una fuga da un convento all' altro, perchè suo padre era ebreo. Divenne poi corrispondente de "L Unità" da Bologna. Mentre svolgevo questo lavoro continuavo a raccogliere i fondi per le tessere annonarie, che ogni fine mese consegnavo a Lia. Venne l' 8 marzo 1945: dovevo andare al cimitero di Musocco a commemorare i 15 fucilati di piazzale Loreto. Ci recammo in piccoli gruppi. Era molto pericoloso trovarsi in gruppi anche di tre persone. Noi eravamo una cinquantina. I fascisti e i tedeschi sapevano di essere agli sgoccioli, la resa dei conti era vicina. Feci una breve commemorazione e verso la fine sentii un fischio. Erano i partigiani che avvisavano che i fascisti stavano per arrivare. Dissi a tutti di disperdersi per i campi e di uscire alla spicciolata. Feci in tempo a salire sul tram, mentre i fascisti ci rincorrevano a piedi. Il manovratore mise in moto il tram, saltando le fermate, così quelli li vidi imprecare in mezzo alla strada. Il 24 aprile avevo il contatto con la Lia: ci incontrammo in viale Zara, salimmo su una piccola collinetta, in basso a una strada con una sola grande casa. Mentre consegnavo il denaro raccolto mi disse "domani, o forse dopo, vi sarà l' insurrezione. l'insurrezione. Ho paura che i tedeschi prima di fuggire ammazzino i prigionieri politici di San Vittore. Ti prego, vai in via Dante - mi fece un nome - e riferisci quanto ti ho detto". In quel momento sentimmo uno sparo e dalla casa uscì una grande quantità di fascisti (era una caserma). Scendemmo in fretta dalla collina, ci dividemmo. Lei aveva un contatto a Niguarda, io fermai un ciclista e mi feci portare in piazza Castello. In via Dante non trovai nessuno. Il mattino dopo - 25 aprile - mi recai in via Dante e seppi che Lia Bianchi, mentre era sulla strada di Niguarda, i tedeschi che scappavano l' avevano uccisa sparando sulla folla. Era in stato interessante di cinque mesi. Suo marito era uscito da San Vittore la mattina».

6. Arnaldo Agliati: un giovanissimo

«Sono nato a Milano il 27 novembre 1932, in via Palmieri 18. Nel 1943 mi trovavo a Fano nel collegio dei Martinitt. La nostra colonia era situata proprio sulla statale Ancona-Pesaro, a ridosso dell' importante arteria ferroviaria in riva al mare. lo e alcuni amici formavamo un gruppo di scorribande (intese in senso buono), ma naturalmente eravamo all' oscuro di tutto ciò che succedeva nel mondo esterno: la guerra, la fame, le distruzioni e l' oppressione nazifascista. Quando ci recavamo in spiaggia, che era a ridosso della ferrovia, salutavamo i soldati (italiani e tedeschi), sia quelli che viaggiavano in direzione sud, verso la prima linea, armati, allegri e ordinati, sia quelli che seguivano la direzione verso nord, in ritirata, feriti, laceri e disperati. Verso la fine del 1943, percorrendo tutti i giorni circa 6 km a piedi per andare a scuola nella cittadina di Fano, notammo certi cambiamenti. Un giorno vedemmo un gruppo di fascisti che malmenavano due ragazzi. Incuranti del pericolo siamo accorsi gridando a tutto fiato. ma inutile, loro continuavano a picchiarli, caricandoli su un camion. Qualche giorno dopo dei pescatori che abitavano a ridosso di noi, con i quali eravamo in amicizia, ci hanno fatto capire che i due ragazzi erano stati fucilati a Fano. Così decidemmo di fare qualche azione di disturbo contro il comando tedesco, che era a vicino alla nostra colonia. Piccole cose: furtarelli, piccoli incendi e altri dispetti. Nel 1944 dalla postazione della nostra colonia, che era lievemente sopraelevata rispetto alla strada statale,tiravamo dei sassi contro le colonie tedesche. Un giorno qualcuno di noi, facendo buona mira, colpì un ufficiale tedesco; dopo di che un gruppo di soldati entrò nella colonia, ci prese e ci mise contro un muro, puntandoci addosso le armi. lo sinceramente, assieme al mio amico Galbiati (ancora vivente), me la sono fatta sotto. Poi per l' intervento da parte di un gruppo di pescatori e dell' ufficiale del comando tedesco,ci lasciarono andare. Dopo, non ricordo il momento esatto, passammo ad azioni più serie. Una notte due pescatori che conoscevamo, passando dalla nostra entrata/uscita segreta, vennero a svegliarci consegnandoci delle strane cassette, con la raccomandazione di custodirle segretamente. Dopo qualche notte uno di loro, che poi era un partigiano, ci venne a svegliare pregandoci di aiutarlo a trasportare il materiale che custodivamo sotto un ponte vicino. A cosa fatta, dopo circa un' ora, sentimmo un boato: era il ponte ferroviario che era saltato. Dopo circa un mese partecipammo a piccole azioni: distribuzione di volantini, scritte contro il fascismo e informazioni sul comando tedesco. Quando gli americani conquistarono Ancona fummo messi su un treno e spediti a Milano (la notte seguente la nostra colonia fu bombardata). Ci trasferirono a Piano Rancio (Erba) e qui, organizzandoci con qualche famiglia del luogo e con il nostro direttore, nascondemmo alcuni partigiani. Ai primi del 1945 ci trasferirono ancora a Milano presso il Pio Albergo Trivulzio. Qui il 26 aprile giunse un camion di partigiani (padri e fratelli di alcuni di noi; mio fratello Renato era stato ucciso nel '44 dai fascisti), ci misero in mano delle armi e ci caricarono sul camion. Ci portarono in via Pitteri nella sede del nostro collegio. Ci appostammo dietro i rifugi dell' Innocenti e incominciammo a sparare. Io avevo uno Sten (mitraglietta inglese in dotazione ai paracadutisti), il mio amico una pi-stola. Mentre qualcuno gridava di stare al riparo, sentii un lamento, mi voltai: era lì, gli occhi al cielo, un buco sulla fronte, un' imprecazione contro tutti e Giuseppe Pecchio smise di vivere. Poi partecipai a diverse azioni. In una di queste passai vicino a casa. Fermatosi il carro armato Tigre in via Meda, di fronte alla Fonit, saltai giù ed andai a casa, via Spaventa angolo via A. Sforza. Mio padre non c' era. Bussai nel retro del negozio sotto casa mia, gridando il suo nome; al che qualcuno aprì la porta e al vedermi vestito da partigiano e armato, alzando le braccia, gridò "Mi arrendo! Viva Tito!" Era mio padre che, logicamente, intabarrato com' ero, non mi aveva riconosciuto». (La frase del padre si spiega col fatto che egli aveva collaborato con il fascismo ed in quel momento aveva paura di qualche vendetta - N.d.r.).

7. La Resistenza vista con gli occhi di una bambina: Rosa Elsa Valenti

«All' entrata in guerra dell' Italia, il 10 giugno 1940, avevo poco più di cinque anni ed ovviamente il ricordo di quel giorno (e dei tanti seguenti) mi è molto vago e di difficile collocazione cronologica; pur tuttavia le impressioni, le paure e le ansie mi sono ben presenti anche oggi. Ricordo le lacrime di mia madre, appoggiata al lavello dei piatti, all' annuncio - via radio - della nostra partecipazione al conflitto mondiale, già in corso; in quelle ore il cortiletto del mio stabile, in via Volvinio 33, era gremito di gente che commentava piena di sgomento, per un futuro molto incerto e con molte incognite. Da un giorno all' altro i generi alimentari sparirono dai banchi di vendita con possibilità di averli soltanto attraverso la "borsa nera"; la tessere del pane e di altri generi di prima necessità non bastavano minimamente al sostentamento della mia famiglia che con la nascita di mio fratello Mamo (Gianmario) era composta da cinque persone e cioè, oltre ai genitori, eravamo tre fratelli, rispettivamente di dieci, cinque anni ed uno di pochi mesi. Ricordo con affetto il racconto di favole e le canzoni che ci cantava mia madre nel tentativo di farci addormentare pur con piagnucolose richeste di pane; il pane bianco era una lecornia che raramente si poteva gustare! Le donne (e quindi anche mia madre) si avventuravano in disagevoli viaggi verso le campagne, alla disperata ricerca di qualsiasi genere alimentare (farina bianca, polenta, riso, ecc.) da portare in famiglia usando trucchi di ogni tipo onde evitare sequestri da parte di meschini controllori. Mia madre arrivava a casa stanca ed affaticata, dove scioglieva sacchetti e pacchetti di ogni specie, nascosti in uno strano marsupio coperto dalle sue vesti ed erano momenti di festa per noi bambini. Mio padre - unico sostegno della famiglia - si prodigava per garantire a noi quel minimo indispensabile e tra le mura domestiche imprecava contro il fascio, Mussolini e la guerra. La miseria lo giustificava dal non procurarci divise che già da piccoli dovevamo indossare, almeno in particolari giornate commemorative. Non comprendevo il perchè non potevo vestirmi da "piccola italiana" e quasi portavo rancore ai miei; in questo senso però mio padre fu irremovibile e pertanto non vestimmo mai divise. L'atmosfera di quegli anni era lugubre e spaventosa, soprattutto per noi bambini; già al calar del sole un' angoscia mi prendeva per quel buio totale dove non esistevano un fanale, un' insegna, una finestra illuminata. Le ombre disegnavano strani fantasmi ed un vero e proprio terrore mi prendeva quando dovevo attraversare il mio cortiletto: dalle botti vuote situate in un angolo, quale retro dell' osteria prospiciente la mia casa, vedevo apparire truci soldati armati, pronti ad aggredirmi. Era tanta la paura che mio padre decise di accompagnarmi sempre ogni qual volta dovevo compiere di sera quel breve tragitto. Il silenzio, nel bel mezzo della notte, veniva frequentemente interrotto da un agghiacciante "urlo", ripetuto, delle sirene d' allarme che facevano sobbalzare ed atterrire anche le persone grandi e che, per fortuna, non sempre preludevano a bombardamenti. E quando questi avvenivano, si aggiungeva terrore a terrore, chiusi come eravamo in una cantina malamente puntellata da travicelli che avrebbero dovuto sostenere le macerie di una casa di oltre tre piani. Ricordo un pomeriggio di sabato, attorno alle ore 18, quando improvvisamente comparvero nel cielo molti aerei e contemporaneamente si incominciavano a sentire tremendi boati, prima ancora che gli addetti alla contraerea - presi alla sprovvista - dessero l' allarme. Tale fu lo spavento di quel tremendo pomeriggio che i miei genitori decisero di mandarmi presso una zia "sfollata" in un paesino del Varesotto, già il giorno dopo, con mio incosciente piacere in quanto non terminavo l' anno scolastico (che dovetti però riprendere l'autunno successivo). La situazione generale, nonchè familiare, diventava sempre più difficile; la razione giornaliera di pane era scesa a 150 grammi e non bastavano i piccoli accorgimenti per ottenere qualche genere alimentare in più, come quello di darsi per ammalati (era facile da come eravamo denutriti!), ma che comunque escludeva supplementi di carne, latte e pane, cioè quei generi che più servivano ad un ammalato. Mio padre in quel periodo era molto irascibile e taciturno; si capiva che qualcosa lo preoccupava. Una sera tardi rincasò con il viso insanguinato, dovuto ad una "pestata" presa in un' imboscata tesagli da alcuni fascisti. Il giorno dopo partì per qualche settimana in una località della Val d' Intelvi e ciò mi addolorò profondamente e mi stupì pure la sparizione di una cassetta di legno, chiusa con un lucchetto, che mi serviva da trampolino per calarmi dalla finestra nella strada, dal momento che abitavo al piano terreno. Ricordo gli strani andirivieni che mi faceva compiere mia mamma, almeno un paio di volte alla settimana, mandandomi in via Isimbardi da una certa signora Maria a prendere due biscotti (uno per me ed uno per mio fratello), sempre però con la mia cartella scolastica. Dopo essermi accomodata in cucina, la signora Maria passava la mia cartella ad una persona seduta in salotto, che supponevo fosse suo marito. Al ritorno, con esagerata premura, mia madre si riprendeva la mia cartella per metterla al suo posto (così almeno io pensavo). Anni dopo mi confessò che forse fui una delle più giovani staffette partigiane! Ricordo in particolare un episodio: proveniente dall' alto muro che divideva il mio cortiletto dalla fabbrica Grazioli, un giovane in tuta blu fuggiva dalle scale e si dileguava nella via laterale; seguiva poco dopo un tramestio di persone tutte in divisa ed armate, che perlustravano tutte le abitazioni tra l'agitazione e la confusione degli inquilini: cercavano l'esecutore materiale dell'uccisione del padrone della fabbrica, noto fascista. Vivevo, in quel periodo, in uno strano stato di agitazione; sentivo che qualcosa di grande e definitivo stava accadendo: le persone si scambiavano notizie, contradditorie le una rispetto alle altre, sempre però in tono esagitato; per la via vi era un gran movimento di persone armate in abito borghese. Ed infine una mattina vidi passare soldati in una strana divisa (quella americana, seppi dopo) e tra di loro - con mia grande meraviglia - vidi per la prima volta un soldato nero (non avevo mai visto un uomo dalla pelle nera). Erano i giorni della Liberazione. Era finita! Qualche giorno dopo (forse il primo maggio), accompagnata da mia madre, verso le nove di sera, potei assistere in piazza Duomo alla grandiosa cerimonia dell' accensione delle luci stradali, che vidi con commozione, tra lacrime e battimani delle migliaia di persone presenti (non eravamo più abituati, a causa dell'oscuramento imposto dalla guerra)».

Per quanto molto breve, mi sembra utile riportare la testimonianza di un'altra bambina, Maria Luisa Larelli, che ricorda in particolare lo sciopero della "casa dei tranvieri". «Nel marzo del 1944 ero una ragazzina di tredici anni. Abitavo in una via adiacente a via Brioschi dove, al numero civico 93, c' era (e c'è ancora) un grande fabbricato quadrato, con un' unica entrata, un grande cortile con 12 scale e 240 famiglie, composte tutte da lavoratori addetti ai tram. Ecco perchè la casa era chiamata "la casa dei tranvieri". Io ricordo questo episodio. Un giorno di marzo, non so per quale motivo, i tranvieri fecero sciopero. Mio padre, pure lui tranviere, non si presentò al lavoro, ma non rimase nemmeno in casa: andò al paese per trovare suo padre. In mattinata, un gruppo di militari (non ricordo però se italiani o tedeschi) si presentò alla casa dei tranvieri per obbligare tutti loro a presentarsi al lavoro. Entrarono dall' unico portone, ma i tranvieri, avvertiti in tempo, scapparono saltando dalle finestre del piano terra nel retro della casa. Poco dopo arrivarono parecchi militari, circondarono il caseggiato, misero una mitragliatrice ad ogni angolo interno ed esterno del palazzo ed antrarono in tutti gli appartamenti, ma trovarono solo un tranviere "controllore" che aveva fatto il turno di notte. Non so se lo lasciarono a casa o se Io portarono via».

8. L' esperienza di Emilio Sarzi Amadé.

Risulta molto interessante anche la storia di Emilio Sarzi Amadè, uno dei pochi partigiani che ha lasciato una memoria scritta in un libro-racconto. Egli - a dire il vero - non ha operato nella Resistenza milanese. Ha vissuto, però, per molti anni in zona 15, facendo prima il giornalista (sono note le sue corrispondenze dalla guerra del Vietnam su "L' Unità") e poi il rappresentante del PCI nel Consiglio di zona. E' morto qualche anno fa. Polenta e sassi ( Einaudi, Torino 1977) è un' opera autobiografica di Emilio Sarzi Amade' che racconta "a botta calda", come lui stesso dice, la sua esperienza di partigiano nella divisione d'assalto Garibaldi Belluno, nella zona tra Longarone e il Cordevole, in una provincia che unitamente a Bolzano e Trento era racchiusa nel Terzo Reich. L'autore nasce a Montanara di Curtatone, in provincia di Mantova, nel 1925. In gioventu' frequenta le scuole pubbliche a Mantova e allo scoppio della guerra viene arruolato a Verona nelle truppe della Repubblica Sociale Italiana; essendo pero' antifascista convinto, decide di disertare e di seguire l'esempio dello zio materno, l'unico che nella famiglia si impegnato attivamente nella lotta al fascismo. Avvenuta la liberazione di Milano comincia ad occuparsi di giornalismo militando militando nel partito comunista come collaboratore de "L'Unità". Conosciuta la moglie a Mantova si reca con lei a Milano dove lavora prima alla sezione interni e poi esteri. La Cina ha sempre avuto per lui un grande fascino e una significativa importanza, tanto che lui diceva di sé: «io sono maoista». Per questo sebbene durante gli anni '50 la Cina non fosse facilmente raggiungibile, poiché era un paese non riconosciuto, riuscì ad andarvi, come inviato speciale per l'Unità, per ben quattro anni. Successivamente, negli anni '70, fece l'inviato in Vietnam per parecchi mesi; da questa esperienza nacque un libro L'Indocina rimeditata. Per quanto riguarda la sua esperienza di partigiano molte notizie le desumiamo dalla sua stessa opera e sappiamo, dai familiari, che i rapporti con i suo compagni di brigata rirnasero molto intensi fino alla sua morte. La decisione di prendere la strada della diserzione non è semplice nè sicura; Emilio, seppure giovane e per molti versi inesperto, avverte con spavento la necessità di imboccare quella che ritiene la strada più giusta, cosicchè una sera si risolve a scappare: «Mi sento tutto bianco nel viso, nelle mani, nel corpo, tutto bianco mentre gli altri sono di un altro colore. Tutti gli altri non sanno ancora cosa voglia dire sentirsi ed essere diversi» (p. 5). Nonostante questo mostra grande umiltà, l'umiltà di chi si accinge a imparare un mestiere e vuole farlo bene anche se di fatto é molto diverso da come se lo aspettava. Quella sarà per lui la notte più lunga in assoluto e una volta arrivati a destinazione avrà la consapevolezza della pericolosità della scelta fatta. Apprende infatti che «non si può andare in montagna, che il comando ha dato l' ordine di non accettare nessuno parchè l'altro giorno c'è stato rastrellamento ed e' morto Battista». A causa di questo nuovo ordine e' costretto a riprendere il cammino questa volta verso Bolzano paese, "Boldan taliano" (p. 10), dove sara' assegnato al reparto piu' bisognoso. Durante questa lunga notte ha un primo approccio con la difficolta' negli approvigionamenti e poi «la notte bisogna risolvere il problema di una coperta e di quattro persone che non l'hanno, e non strusciarsi troppo sulle foglie secche che entrano nel collo e scendono per la schiena, prurito infernale, ed evitare i sassi che rompono le costole>, (p. 13). La vita di partigiano e' dura, ma l'udita' di una squadra non si misura in base a mirabolanti azioni di cui, per altro, si sente parlare solo nei racconti riportati dalle staffette delle altre brigate, diventa quindi fondamentale saper fare le "corvées" e i turni di guardia e conoscere la montagna come le proprie tasche per battere i tedeschi sul tempo o per aver salva la vita: «questa è la vita che si fa al comando» (p. 19) e tutti sono stanchi e un po' delusi parchè sognano "azioni strepitose, sparatorie e combattimenti" (p. 51). Dopo l'ennesima protesta una decina di uomini è destinata alla pianura come distaccamento a parte: di questo distaccamento fa parte anche Emilio. La prima azione di un certo rilievo è fissata per l'indomani, tutti vogliono partecipare ma solo sette ragazzi armati di mitra e fucili potranno andare a Bolago: qui l'azione si concluderà in un minuto ma ognuno di loro vorrebbe che fossero così tutti i giorni della loro vita di partigiani. In realta la situazione che si trovano a vivere è molto meno muovimentata e importanti sono i turni di guardia alla notte, i discorsi fatti durante il giorno, la rabbia di stare dei giorni senza fare niente, le conversazioni serali «nell'ora politica che tutte le sere bisogna fare» (p. 32). Un giorno viene dato l'ordine di recarsi alla Todt, «un insieme di duecento operai e sei o sette tedeschi» per recuperare una marmitta e una cassetta di medicazioni; «andiamo la in cinque, una pattuglia alla buona perchè sono cose che si fanno senza chiasso» (p. 49). I sorveglianti tedeschi vengono portati tutti fuori in uno spiazzo e si può leggere nei loro volti il terrore anche se, di fatto, «non succede niente. Sanno già che non succederà niente, che porteremo via solo un pò di roba e non le loro vite» (p. 51). L'operazione si conclude, come previsto, tranquillamente ma il comportamento degli operai nei confronti di «noi cinque [...] con la barba di otto giorni [...], i fazzoletti rossi annodati dietro, le bombe balilla appese alla cintura, le giberne appese ai portagiberne [...]» (p. 51) dà l'occasione a Franco (nome di battaglia di Emilio) di riflettere e ricredersi: «dicevo che era impossibile farsi capire dalla gente schiava del suo piccolo egoismo mentre noi moriamo per tutti» ora sa di lottare per una causa comunemente approvata e sostenuta, ora sa che non sono soli. Durante tutta la sua esperienza avrà occasione di incontrare molta gente e di ognuno osserverà attentamente i modi e i comportamenti che descriverà poi minuziosamente. Il 4 ottobre 1944 arriva la notizia, come un fulmine a ciel sereno, «domani rastrellamento, [...] si vede l'ansia nel bianco degli occhi" (p. 52). Così con un termine che ha inventato uno dei ragazzi, Turiddu, si decide che bisogna mettere in atto la dispersione. "Quelli dei paesi andranno a casa e nasconderanno le armi;chi non può [...] si disperde per la pianura, a gruppi di due o tre, e stiamo in contatto con le organizzazioni dei paesi...le armi automatiche vanno a chi fa la dispersione...appena si potra' si tornerà in montagna...[...] ; io sono con Falce. Io e lui andremo in giro per la pianura che conosciamo appena» (p. 69). I loro pensieri sono gli stessi, gli stessi sono i timori; camminano per quasi trenta ore prima di fermarsi tanta e' la paura che li attanaglia e che li fa vivere nell'angoscia, Durante questi giorni, vissuti nella incertezza, hanno modo di assaporare l'ospitalità e la solidarietà di alcune famiglie. Arriva tuttavia il momento che, anche loro, si devono salutare «perché Falce ha deciso che casa sua, lontana venti chilometri di là dal Cordevole e di moltissimi posti di blocco dei tedeschi, non e' poi tanto lontana» (p. 70). Vivere da soli, con la paura di un attacco tedesco, non e' facile e fortunatamente Franco incontra,in un roccolo, altri cinque dei loro che vivono grazie alla famiglia proprietaria del roccolo che tutte le sere si preoccupa di far avere loro qualcosa di caldo da mangiare. Qualche giorno dopo arriva la notizia che «la dispersione e' finita» (p. 78), così si dirigono verso il Terne dove trovano dei capanni abbandonati e dove, dopo qualche giorno li raggiungono alcuni ragazzi del battaglione Belluno che era stato sciolto: le condizioni di vita sono proibitive e peggiorano ulteriormente quando si trasferiscono in una casera davanti al Terne. Comincia infatti a nevicare e i loro equipaggiamenti sono assolutamente insufficienti. Decidono quindi di trasferirsi all'interno di una caverna dove il clima e' più accettabile e dove si sentono più al sicuro dai tedeschi. Qui però e' sempre buio e l'unica acqua di cui dispongono è quella che gocciola dal soffitto «e fortuna che con il buio non vediamo di che colore e' nella grande pozza che c'è in mezzo alla caverna» (p. 95). Successivamente, quando il primo sole scioglie la neve accumulatasi su sentieri e montagne, il gruppo di Franco si trasferisce a casa di Fontana «un uomo alto e secco dalle gambe lunghissime e magre, che nella sua vita di trentotto anni e' stato dappertutto e ha fatto tutto» (p. 101). La vita qui scorre tranquilla in mezzo ai dieci figli di Fontana...«adesso siamo qui senza far niente, ma solo ad aspettare mezzogiorno e sera per poter mangiare» (p. 103). Quando arriva la missione inglese la guerra volge alla fine e i ragazzi cominciano a pensare a quello che accadrà dopo pieni di buoni propositi e ingenuamente convinti di aver davanti solo un roseo futuro. Agli inizi della primavera «il cielo e' più fitto di aereoplani che vanno a scaricare le loro bombe sempre nella stessa direzione ed a noi arriva un'eco lontana come se le montagne su verso la Germania rotolassero una sull'altra» (p. 113). Ad aprile ci sono gli ultimi grandi scontri, i tedeschi presi dal panico intensificano i rastrellamenti e i controlli; «25, 26, 27, 28 aprile, i giorni passano lenti e ogni giorno sembra che il tramonto non arrivi mai» (p. 155). Ma finalmente quando le armi automatiche cominciano a sparare a caso e i prigionieri a camminare fiacchi, arriva la notizia da uno dei nostri: «Si sono ritirati dalla citta' - dice - e si sono fermati alla periferia, non vanno piu' ne' avanti ne' indietro, sono finiti» (p. 164). -VI- I CADUTI DELLA BAIA E GLI ALTRI I nomi del monumento di Francesca Allaria, Marco Belli, Valeria Carteri, Giuseppe Deiana, Angelica La Francesca, Daniel Liber, Lara Luppi, Clelia Pennella, Chiara Semenzato, Simone Salvaneschi, Filippo Sperandeo e Stefano Torre

In questo capitolo intendiamo tentare di dare un' identità ai nomi dei partigiani elencati nel piccolo monumento posto dal Consiglio di zona 15 di fronte al centro civico di via Boifava 17, all' inizio degli anni '90. L'elenco è stato ricostruito nel 1991 da tre persone che, nell'ambito delle attività politiche del Consiglio di zona, vi ci si sono dedicate con interesse particolare: Arnaldo Agliati (Amò, esponente socialista), Carlo Gasparini (esponente democristiano) e Francesco Di Bisceglie (rappresentante dell' ANPI). Secondo la testimonianza del primo, «Gasperini ha voluto mettere nella lista anche qualche partigiano cristiano, perchè c'erano anche le formazioni di partigiani cristiani». Sono stati inseriti, inoltre, sia i caduti nei campi di concentramento tedeschi sia i caduti in guerra. «Poiché, si è voluto unificare quello che si sapeva dei caduti della zona, senza alcuna distinzione». Questo è il criterio del raggruppamento dei nomi dei caduti. Secondo la testimonianza di Francesco Di Bisceglie, esso risale al 1945/46. «Allora c'erano i familiari, c' erano i parenti, c' erano anche quelli che si sono rifiutati di dare il nominativo da mettere sul quadro che ricorda tutti i caduti. Il monumento contiene l'elenco originale, corrispondente esattamente a quello del quadro che avevamo in cooperativa e che adesso è al centro sociale di via Palmieri al 20» (foto 1 e 2). Aggiunge Di Bisceglie per spiegare il perchè di questi nominativi: «era tutta gente che abitava nel quartiere Stadera. Diversi sono morti come partigiani, diversi sono morti perchè chiamati alle armi (quindi, sono morti in Russia, in Africa, ecc.). i compagni di allora, del 1945, hanno ritenuto opportuno fare il quadro di tutti i caduti che si trovava nella cooperativa di via Barrili e che è stato usato per fare il monumento di via Boifava, davanti al centro civico e alla sede del Consiglio di zona 15. Quindi, sono tutti caduti che abitavano il quartiere Stadera. Quelli che hanno fatto questa raccolta di nomi, cinquant'anni fa, lo hanno fatto per evidenziare il contributo del quartiere, cercando di mettere dentro un pò tutti. Bisogna ripetere che ci sono stati dei familiari che non hanno voluto dare i nomi dei propri caduti e non hanno voluto nemmeno alcuna lapide. De Vincenzi, per esempio, nel '46-47, quando c'era la famosa "guerra Gredda ", cioè l'opposizione tra la sinistra e la Democrazia Cristiana, non ha voluto assolutamente che si mettesse una lapide sul muro della sua casa, in via Barriti, per segnalare il contributo del figlio alla guerra di liberazione. Quindi, noi purtroppo abbiamo una situazione di mancanza di conoscenza su queste persone. Purtroppo diversi familiari e parenti non ci sono più oggi. L' unica signora ancora vivente è la vedova di Luigi Frazza». Va ribadito, quindi, che non tutti sono stati partigiani in senso stretto: alcuni, ad esempio, sono stati semplicemente vittime involontarie della violenza nazista e fascista. Va detto, inoltre, che mancano i nomi di quei caduti i cui familiari si sono opposti o non hanno condiviso 1' iniziativa di fissarli nel monumento per conservarne la memoria. Questo è solamente un primo tentativo di indagine scolastica, che attinge prevalentemente alla testimonianza orale di Arnaldo Agliati, Biagio Colamonico, Francesco Di Bisceglie, Virginio Gallazzi, Paolo Guffanti, Paolo Imperato, Emilio Ventura e Riccardo Fusetti. Essi sono stati compagni di vita nel quartiere Baia del Re-Stadera e, in molti casi, compagni di lotta in città o in montagna. Le loro testimonianze si fondano sulla conoscenza diretta e/o indiretta delle persone e dei fatti. Le loro conoscenze sono integrate da quelle di parenti dei caduti. Per carenza di documentazione ci si limita ai "ragazzi della Baia". Come si legge nell'unica raccolta di testimonianze sulla Resistenza nel quartiere operaio della Baia del Re, «erano tutti giovani i compagni del quartiere che si impegnarono generosamente nella lotta partigiana qui in città nelle S.A.P. o nei G.A.P., oppure nelle formazioni garibaldine della montagna» (cit., p. 4). Una parte di essi sono morti. La loro memoria va onorata e tramandata alle nuove generazioni, per non dimenticare.

1. Luigi Frazza, Luigi Negroni, Mario Provasi e Paolo Volpi.

Si tratta di quattro partigiani, deportati nel campo di sterminio nazista di Mauthausen, negli anni 1944-'45. Questa è l'indicazione della lapide di via Palmieri 22, in cui è scritto: « Ricordi questa lapide l'eroica memoria dei partigiani Frazza Luigi, Negroni Luigi, Provasi Mario, Volpi Paolo, che nei campi di sterminio della Germania nazi-fascista sacrificarono la loro esistenza per la giustizia, la libertà, l'indipendenza d'Italia. Mauthausen 1944-45» (foto 15). Su questi caduti le conoscenze dei nostri testimoni sono piuttosto limitate e vaghe. Per fortuna esiste ancora la vedova di Luigi Frazza, Emma Grandini, una donna di 84 anni, ancora lucida, che a sua volta è stata perseguitata quando le hanno arrestato il marito (nato a Lonigo il 26 settembre 1899, morto a Mauthausen il 24 giugno 1944). Questi è stato deportato perchè militante antifascista. Già durante il fascismo aveva fatto opposizione e militato nel Partito comunista; nella resistenza faceva parte della 113° brigata Garibaldi. E' stato prelevato a casa dai fascisti e portato prima a San Vittore e poi deportato a Mauthausen. Ma perchè è stato catturato e arrestato? Dice la signora Emma: «Non lo so, lui era segreto con me. Era un uomo che non andava mai fuori di casa; quando è iniziata la resistenza, però, ha cominciato ad uscire la sera fino a mezzanotte e l'una, raccomandandomi di non preoccuparmi e di non pensarci. Qualche volta rientrava la mattina. Ha sempre fatto quella vita lì...Negli ultimi tempi in cui faceva il partigiano, ho saputo ad un certo punto che era ricercato, perchè era venuto in casa uno che ne ha parlato. Allora ho capito. Ho ricordato a mio marito la responsabilità per i figli, ma lui mi ha risposto che se tutti la pensavano come me come sarebbe andata a finire l'Italia?». Dopo un mese circa, il primo di marzo '44, i fascisti hanno portato via tutti e due, marito e moglie; anche la signora Grandini, al posto della sorella, che era ricercata per militanza nella resistenza. Lui è stato portato a San Vittore e poi mandato a Mauthausen, il 7 marzo. Dal campo di concentramento la signora non ha mai ricevuto alcuna notizia, non ha saputo più nulla del marito, che lì è morto. La conferma della morte le è venuta da un altro deportato che era riuscito a tornare da Mauthausen. A suo dire, Luigi Frazza nel campo ha cercato a lungo la moglie pensando che fosse stata internata nei reparti femminili, non sapendo invece che dopo due mesi era stata rilasciata in Italia. Non avendola trovata, si sarebbe demoralizzato, demoralizzato, cadendo in uno stato di depressione, fino alla morte nel forno crematorio. Il reduce si chiamava Corrado Tarcisio e abitava in viale Umbria 21. Dunque, anche Emma Grandini è stata arrestata dai fascisti e consegnata ai tedeschi - dopo averla portata a Bergamo da San Vittore - che l'hanno liberata dopo un mese, alla fine di aprile, per motivi di famiglia (figli piccoli) e per interessamento della fabbrica dove lavorava. Durante la permanenza nel carcere milanese, per tutto il mese di marzo, è stata interrogata dai fascisti che hanno giustificato il suo arresto a causa della lotta partigiana della sorella, che era stata condannata alla pena di morte: lei doveva pagare per la sorella, di nome Alice, la quale era sfuggita in quanto era stata avvisata da un amico che abitava in via Palmieri al 18. Questo amico era un fascista, ma aveva una moglie partigiana: un uomo buono, che aveva facilitato la fuga di Alice Grandini. Scappata lei, come ostaggio fu prelevata la sorella Emma. Nascosta in montagna, è tornata a Milano il 25 aprile, giorno della liberazione. Dopo qualche giorno i suoi compagni hanno ucciso il fascista che aveva denunciato la sorella e il marito, Luigi Frazza. Questi è stato catturato e internato insieme a Luigi Negroni (nato a Motta Visconti il 20 ottobre 1898, morto il 3 marzo 1945 a Mauthausen), Mario Provasi (nato a Mantova il 24 settembre 1899; morto a Mauthausen il 18 settembre 1944) e Paolo Volpi (nato a Buccinasco il 15 marzo 1886, morto a Mauthausen il 15 ottobre 1944),che abitavano nel quartiere Stadera, nello stesso palazzo, al 22 di via Palmieri. Nessuno dei quattro è tornato dal campo di concentramento. Di Volpi esiste la figlia, degli altri compagni qualche parente, che però non sono più nel quartiere. Dopo l' esperienza resistenziale Alice Grandini non si è interessata di politica attiva: è ritornata alla vita normale di operaia. Alla sorella Emma, invece, del marito non è rimasto nient'altro che un attestato dell'ANPI di partigiano della 113° brigata Garibaldi, morto per deportazione in Germania. Dal sindaco di Milano Aldo Aniasi ha ricevuto la medaglia d'oro alla memoria.

2. Abico, Alippi, Clapiz e Del Sale: i caduti di viale Tibaldi.

«Abico Albino di anni 25, Alippi Giovanni di anni 24, Clapiz Bruno di anni 30, Del Sale Maurizio di anni 47. Erano garibaldini della 85° divisione Martiri Valgrande»: così la lapide di via Tibaldi 26 (foto 6). La loro morte risale all' agosto del '44, all' inizio del periodo più drammatico della resistenza milanese e italiana. «Angloamericani e sovietici avanzano su ogni fronte e...in quall'inizio estate 1944 la macchina bellica nazifascista in Italia sembra approssimarsi rapidamente al crollo finale; la diserzione in massa dei carabinieri e la provata scarsa combattività delle camicie nere alimentano ancor di più le speranze. E poi ci sono i partigiani. Le formazioni di montagna si sono ingrossate, le puntate al piano sono divenute più frequenti e adesso anche le città e le campagne circostanti registrano azioni quasi quotidiane: automezzi attaccati, trebbiatrici che saltano, disarmi a catena di fascisti e tedeschi. In realtà il peggio è ancora da venire. I tedeschi, grazie anche alla discutibile condotta degli alti comandi alleati, riusciranno a resistere sulla linea gotica e, per essere sicuri, cominciano subito ad impegnarsi nella "pulizia" delle retrovie. Per eliminare il fenomeno del ribellismo è necessario procedere in due direzioni: colpire direttamente i partigiani là dove è possibile e creare loro il vuoto attorno con rappresaglie contro la popolazione civile...Da giugno a settembre su tutte le regioni occupate si abbatte un'agghiacciante ondata di fucilazioni, incendi e massacri» (L. Borgomaneri, Due inverni, un'estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia 1943-1945, F. Angeli, Milano 1995, p. 183). A questo contesto vanno collegati i caduti di via Tibaldi, la cui vicenda fa parte della "grande" storia della Resistenza milanese. «Milano, lunedì 28 agosto; ore 19,30. I nutini in gran forze bloccano via Tibaldi all' altezza dell' incrocio con via Meda, sbattono quattro partigiani contro un muro adiacente al bar Roma e li rafficano. Sono Albino Abico, venticinque anni, Giovanni Alippi, ventiquattro, Bruno Clapiz, quarantuno (trenta, in verità), Maurizio Del Sale, quarantasette. Li hanno presi a mezzogiorno dentro lo stesso locale. Daniele Richini, il proprietario della bottiglieria, è un sappista della 113° brigata Garibaldi Sap e spesso dà loro da mangiare. Qualche volta li ospita. E' un' imprudenza, ma tant' è. Abico, Alippi e Del Sale facevano parte, insieme a Edoardo Tia, un certo Negroni, "Nando" e "Pino", di un gruppo costituito nella primavera del 1944 a Baggio. Il loro è un antifascismo spontaneo. Non risulta fossero collegati con le forze organizzate della Resistenza. Sono coraggiosi ma anche avventati: il 25 giugno 1944, insieme ad altri ingaggiano uno scontro a fuoco con un gruppo di mutini alla ricerca dei responsabili del disarmo di un loro camerata. I repubblichini si ritirano con un morto mentre i ragazzi continuano la sparatoria contro alcuni fascisti locali...Abico, Alippi e Del Sale, intanto, prendono contatto con i Gap di Ruggero Brambilla (Nello) e trasportano un carico d' armi in Val d' Ossola dove rimangono qualche giorno presso l'85° brigata d' assalto Garibaldi. Quando ridiscendono, con loro c' è anche Bruno Clapiz, un giovane partigiano che ha chiesto e ottenuto dal suo comandante, il "capitano Mario" (Mario Muneghina), di operare in città. In Milano formano quindi il Gap distaccato della 85° brigata, in collegamento e alle dipendenze di Brambilla, con il compito di contribuire ad approvigionare del necessario la brigata di montagna...11 6 di agosto arriva la notizia che i partigiani toscani sono entrati in Firenze liberando i quartieri d' Oltramo. Lunedì 7 agosto, alle tre del pomeriggio una macchina, seguita da un camioncino, parte dalla stazione di porta Genova e attraversa la città percorrendo corso Genova, via Torino, corso Vittorio Emanuele, corso Venezia e corso Buenos Aires. "E' un lancio continuo di copie dell' edizione straordinaria dell' Unità e di manifestini inneggianti alla liberazione di Firenze". Sulla macchina ci sono Abico, Alippi e Negroni, dietro, di copertura, seguono Adriano Righetti (Milan) e "Pino". Verso la fine del percorso sono appostati altri uomini di Brambilla: Radames Zerbini (Giorgio) e Enzo Passariello (Enzo Pas). Due motociclisti repubblichini che si lanciano all' inseguimento vengono abbattuti all' altezza di piazza Piola. Nessuna perdita e grande scalpore in città. Successo completo. Ma le cose non andranno come avrebbero dovuto. L'ordine di Brambilla era, ad azione compiuta, di sbarazzarsi della macchina abbandonandola in un luogo isolato. Viene invece venduta a individui loschi della "mala" che, forse fermati dalla Muti (la Muti sempre a caccia di benzina e automezzi da requisire), forse per una ricompensa, parlano. Alippi e Del Sale, nei giorni successivi, fanno in tempo a disarmare, insieme a "Pino" e Negroni, i militi di un posto di blocco a Porta Vigentina, poi vengono presi con Abico e Clapiz nella bottiglieria di via Tibaldi» (Ivi, pp. 189-191). Aspetti particolari e inediti relativi alla loro cattura, seguita dalla fucilazione, ci vengono dalla testimonianza orale di Paolo Guffanti (66 anni, militante comunista), che ha vissuto "dall' interno" la vicenda dei caduti di viale Tibaldi. «A casa mia, alla fine del 1943, era arrivato un antifascista che, dopo tanti anni di galera, era stato liberato l' 8 settembre. Siccome era amico di mio padre - essendo mio padre come tutta la mia famiglia degli antifascisti - lui è venuto in casa mia, a dirigere tutto il lavoro clandestino del CLN, nel IV settore, che comprendeva tutta la zona sud di Milano, e nelle fabbriche naturalmente, sempre della zona sud della città. Questo compagno era Pietro Ricaldone. lo mi ricordo che una sera in cui eravamo a casa egli ha ricevuto la visita del compagno Luigi Dulevio, che era un operaio della Grazioli dove io lavoravo. Era il compagno che era stato indicato per prendere contatto con questi quattro partigiani che venivano dalla montagna per eseguire un' azione militare in città. Di norma le azioni più piccole, ad esempio quella di mettere delle bombe, distribuire volantini, ecc., le facevano le Sap di Milano. Presumibilmente - questo non lo so di certo perchè non me l' hanno detto - i quattro partigiani, chiamati dalla montagna, erano quattro gappisti e, forse, dovevano attuare un' azione di eliminazione di un fascista. Perchè quando si chiamavano i partigiani Gap dalla montagna per eseguire una azione partigiana in città, quest' azione era una delle più decise e importanti». (Va notato che la attribuzione delle azioni più importanti a partigiani di montagna calati in missione in città è da ricollegarsi all' immaginario popolare, avallato anche dalla propaganda fascista, che tendeva ad attribuire proprio al partigianato di montagna le azioni più eclatanti.- N.d.r). Sempre secondo Guffanti, Abico, Alippi, Clapiz e Del Sale dovevano incontrarsi con Luigi Dulevio, inviato da Pietro Ricaldone per spiegare loro l' azione militare da compiere. I quattro partigiani sono andati nella osteria di viale Tibaldi, dove hanno mangiato qualcosa. «lo ho parlato con il fratello di Albino Abico, ma anche lui non è sicuro della voce che circolava, secondo cui era stato il padrone dell'osteria a denunciarli, vedendo quattro giovani quasi tutti in età di leva: essendo lui un fascista, avrebbe chiamato le brigate nere. C' è il sospetto, però, che ci sia stata anche una delazione interna, come sostiene Adriano Abico, fratello del caduto». (La versione appartiene a una della tante circolate in quei giorni: il proprietario non era affatto un fascista e finì deportato in Germania - N.d.r.). I quattro si sono presentati nell' osteria con un certo anticipo, violando le regole della clandestinità che concedevano cinque minuti di tolleranza, prima o dopo dell'orario prestabilito. Essi non hanno rispettato questa regola: sono stati arrestati dai fascisti che li hanno colti di sorpresa. Sembra che siano stati portati in una caserma della Muti per interrogarli e torturarli per un paio d'ore e poi ricondotti sul posto vicino all'osteria, dove c' è ora la lapide, per essere fucilati. Drammatica la testimonianza di Paolo Guffanti: "io ricordo che quando il compagno Dulevio, dopo essere scampato alla cattura, è venuto ad avvisarci, con alcuni altri amici siamo andati lì a vederli: erano ancora in piedi e i fasciti li obbligavano a stare in punta di piedi con le mani appoggiate al muro. Dopo un pò, con le scariche di mitra li hanno massacrati. Ma la cosa orribile che ricordo è che per una decina di minuti i fasciti hanno scaricato colpi di rivoltella sui corpi dei partigiani già stesi per terra, morti». Questi aspetti di ferocia bestiale sui corpi, già cadaveri, sono confermati da altre testimonianze dirette, come quella di Riccardo Fusetti, che è accorso ed ha visto i partigiani stesi per terra, morti, fatti oggetto di continui colpi di arma da fuoco da parte dei componenti della brigata Muti; che addirittura li avrebbero esposti al pubblico per un paio di giorni, come delinquenti e banditi (ma ciò non ha riscontro nei documenti esistenti).

3. Achille De Vincenzi.

Nato a Legnano il primo di marzo del 1926 e fucilato a Roveredo in Piano - Maniago (provincia di Udine), il 22 febbraio 1945. Nella via Barrili, dove ha vissuto, non esiste alcuna lapide, pur essendo stata proposta a suo tempo dall' ANPI del quartiere Stadera. L unico riconoscimento del suo sacrificio è costituito dalla medaglia al valor militare "alla memoria" concessa dallo Stato. Nell' attestato si legge: «Entrato giovanissimo nelle file partigiane si distingueva per ardente entusiasmo, generosità, spirito di sacrificio, ardimento. Catturato in seguito a delazione, sopportava sopportava con stoica fermezza oltre due mesi di carcere e pur sottoposto a sevizie e torture non forniva al nemico alcuna notizia. Alla fine, con le carni straziate e il volto sfigurato, affrontava fieramente la fucilazione» (foto 23). Queste scarne informazioni sono integrate dalla testimonianza della sorella Giulia, più giovane di alcuni anni rispetto ad Achille. La sua scelta partigiana, con il nome di battaglia di Franco, è avvenuta a 18 anni, quando è stato chiamato alla leva dalla Repubblica sociale italiana, destinazione la Germania. Il rifiuto di obbedire e la decisione di servire la patria lo hanno portato ad abbracciare la causa della Resistenza. E' partito per la montagna in Friuli, con un amico che aveva i parenti in quella regione, fissando il punto di appoggio ad Aviano. Da lì si Sono uniti ad un gruppo di partigiani. Dopo poco tempo Achille viene nominato intendente di battaglione (Nino Bixio) e diventa responsabile di 40 uomini, con l' incarico di occuparsi dell'approvvigionamento di viveri e del vestiario. Ha combattuto prevalentemente nel territorio di Pian Cavallo, in provincia di Udine. Un giorno, sceso dalla montagna a valle, è stato catturato dai nazifascisti, per delazione di una donna, insieme ad altri due compagni. Era il 23 dicembre 1944. Lo hanno portato in carcere nella scuola di Maniago, dove è stato tenuto per due mesi. E' stato torturato, ma non ha parlato per non tradire i suoi 40 compagni. In quel periodo non ha mai neppure comunicato con la famiglia, per non compromettere nessuno. Infatti, secondo la testimonianza della signora Giulia, allora quindicenne, «i fascisti sono venuti a casa, in via Barrili al 6, con tanto di pistola, a chiedere alla mamma "dov' è suo figlio?". Le hanno fatto anche un tranellino dicendo "signora, qualcuno ha detto che ha visto suo figlio ad un matrimonio, sabato scorso". Ma mia mamma fa "ma guardate che è partito per la Germania, perciò al matrimonio mio figlio non può esserci stato". Tutto questo con tanto di pistola puntata. Noi bambine siamo scappate sul balcone, spaventate". Dopo la tortura Achille De Vincenzi è stato fucilato, secondo la testimonianza di un suo compagno, che ha portato ai familiari il portafoglio in segno di ricordo. Anche le notizie della tortura subita sono arrivate da questo compagno di lotta, scampato alla cattura ed alla fucilazione. La notizia definitiva della morte la famiglia l' ha avuta solo nell' agosto '45 dal parroco, don Luigi Moro della parrochia di Chiesa Rossa, che a sua volta è stato informato dalla curia arcivescovile, retta dal card. Schuster. Tuttavia, in famiglia c' era sempre la speranza che non fosse morto. AI punto che la sorella e la cognata, dopo un pò di anni, sono andate nei posti della montagna friulana per cercare e sentire qualche testimonianza, per sapere insomma come erano andate veramente le cose. La gente aveva ancora timore a parlare e non si riusciva ad avere notizie certe, fino a quando è stato rintracciato un capellano dei partigiani che ha fatto capire che era del tutto inutile cercare. Infatti, i nazifascisti avevano usato questo sistema con i partigiani: li fucilavano, gettavano i corpi nelle grotte, poi prendevano i ragazzi giovani, li ubriacavano e li mandavano a bruciare i cadaveri. Il responsabile di tutto ciò la gente lo chiamava "il fughin", il bruciatore di case e di cadaveri dei partigiani.

4. Luigi Fiore. Era un ragazzo ventenne ( o poco più che ventenne), nato a Milano l' 1 ottobre 1921, morto a Montelegnone- Colico ( Como) il 2 luglio 1944. Questa è l'iscrizione sulla lapide di via Barrili 12: il partigiano Fiore Luigi, che alla libertà ed alla pace della patria sacrificava la giovinezza. Abitò in questa casa. Colico, 2/7/1944" (foto 7 e 21). Per quanto riguarda questo partigiano siamo molto fortunati perché possiamo conoscere con relativa precisione i fatti che riguardano la sua vita, essendo ancora in vita il suo "fratellastro" (fratello da parte di padre) Riccardo Fusetti, sebbene a quel tempo questi fosse ancora bambino. Proprio Riccardo Fusetti ci racconta che Luigi, a venti o ventuno anni, dopo essere tornato a casa in licenza dal servizio militare, partì con altri ragazzi verso Colico per fare il partigiano: con lui c'erano Dino Colombo e un non meglio identificato Dante. Combatterono sotto il monte Legnone nella zona di Curcio. Ad un certo momento il gruppo dei partigiani si separò e, mentre alcuni tornarono a Milano, altri tra i quali c'era proprio Luigi Fiore, rimasero a Colico. E proprio nella zona del Legnone, mentre erano ancora là Luigi Fiore ed i suoi compagni di lotta, i fascisti ed i tedeschi fecero un grande rastrellamento: andati via i tedeschi, mentre i fascisti continuavano a cercare i partigiani, Luigi Fiore cadde in un burrone: restò là, privo di soccorso per un giorno intero, fino alla morte. La gente del posto, infatti, pur favorendo sempre la lotta partigiana, non poteva aiutarlo, a causa della presenza dei fascisti. Quando la situazione tornò tranquilla, gli abitanti della zona, che, come già detto, sostenevano costantemente, con ospitalità e soccorsi, i ragazzi impegnati nella lotta partigiana, prelevarono Luigi Fiore (foto 21) e gli fecero il funerale separatamente. Un altro testimone, l' ex partigiano Virginio Gallazzi, ci racconta di aver visto l'ultima volta Luigi Fiore nel '44, nei pressi di Sommafiume, frazione di Vestreno, in val Varrone, proprio nella zona del monte Legnone, con altri ragazzi della Baia. Dal momento che aveva una funzione organizzativa e militare, il Gallazzi spinse perché proprio il gruppo di Luigi Fiore fosse unito al suo. Tuttavia disposizioni contrarie fecero in modo che il Gallazzi non incontrasse mai più Luigi Fiore e solo in seguito seppe della sua morte. Egli viene ricordato come un ragazzo di corporatura esile che dimostrava un'età molto più giovane di quella che effettivamente aveva. Virginio Gallazzi lo ricorda così, quando lo salutò a Sommafiume, sotto il Legnone,per l'ultima volta.

5. Bruno Biraghi.

Le notizie riguardanti la vita di questo partigiano sono abbastanza incerte. Riccardo Fusetti ricorda solamente che partì con suo fratello (Luigi Fiore) verso Colico, ma che morì a Gravellona Toce il 12 settembre 1944 (era nato il 27 novembre 1928 a Milano: aveva solo 16 anni). Notizie un pò più precise ci vengono fornite invece da Virginio Gallazzi. Bruno Biraghi partecipò alla famosa "Repubblica dell'Ossola", creata dai partigiani dopo l'occupazione dell'omonima valle e durata quaranta giorni. II compito di Bruno Biraghi era quello di difendere, con alcuni compagni, l'entrata nella valle, in prossimità di Gravellona Toce, dai fascisti e dai tedeschi che arrivavano da Novara e da Milano. Ma i comandi delle divisioni autonome Valtoce e Valdossola, che avevano occupato Domodossola, consentirono ai nazifascisti di abbandonare la città portando con loro tutte le armi di fabbricazione tedesca, di cui essi si servirono per attaccare alle spalle i partigiani di guardia all'entrata della valle stessa. In questo conflitto perse la vita Bruno Biraghi insieme a molti altri suoi compagni. Questa l'iscirizione della lapide di via Barrili 9: "Questa lapide ricorda il garibaldino Biraghi Bruno che immolò la sua giovinezza combattendo contro i nazifascisti. N. 27/11/1928 M. Gravellona Toce 12/9/1944" (foto 8). In una nota scritta si legge: «Era un ragazzo sull' uno e novanta con una forza prodigiosa, ma estremamente semplice e buono. Per la sua statura eccezionale e per il suo aspetto maturo richiamò l'attenzione di alcuni scherani della milizia fascista che bivaccavano nelle scuole di via Palmieri e che - con lusinghe e minacce - volevano indurlo ad arruolarsi. Questo ragazzo, questo gigante buono che aveva già in sè la dignità di un uomo, decise allora di fuggire sulle montagne del novarese e di unirsi alle formazioni partigiane che operavano in quella zona» (Un quartiere operaio nella Resistenza, cit., p. 4).

6. Mario Peluzzi.

"Mario Peluzzi, partigiano della 113° Brigata Garibaldi, amò la libertà più di se stesso e per lei sacrificò la sua giovinezza. La sua morte segnò il ritorno alla vita per tutti gli oppressi. Nacque il 29-11-1914, fu ferito in combattimento a Milano il 26-4-1945. Morì addì 1-5-1945': così è ricordato Mario Peluzzi, nella lapide di via Spaventa 11 (foto 10). Alcune fonti lo considerano della 113° brigata Garibaldi, per altre non fece parte di quei gruppi che partecipavano attivamente alla resistenza. Sicuramente Mario fu uno dei tanti ragazzi che partecipò all'insurrezione, come tale la sua figura era conosciuta da tutti i residenti del quartiere Stadera. La sua morte non fu causata da un vero e proprio scontro a fuoco ma da un tragico errore verificatosi in piazza Cantore il 26 aprile del '45. Virgilio Gallazzi, anch'egli a quel tempo partigiano, racconta così quell'evento «Una sera uscì in pattuglia con un amico. Improvvisamente sentirono un "Chi va là?" e Peluzzi, non riuscendo a vedere chi avesse parlato a causa del buio, preso dal panico tentò la fuga. Purtroppo partirono una serie di colpi e un proiettile lo colpì ferendolo gravemente» Era il giorno successivo a quello della proclamazione della liberazione: morì cinque giorni dopo per le ferite riportate.

7. Carlo Ciocca.

Carlo Ciocca, nato a Milano il 18 giugno 1905 e residente in via Palmieri 18, fu, insieme a Luigi Frazza, Luigi Negroni, Mario Provasi e Paolo Volpi, uno dei deportati in Germania nel campo di concentramento di Ebensee (o Mauthausen), dove morì il 30 aprile del '45. La causa della sua deportazione fu una denuncia del custode del palazzo di via Palmieri 22, temuto dagli abitanti del quartiere in quanto aderente al regime fascista. Non potendo denunciare le donne del quartiere che acquistavano il pane al mercato nero, il custode incolpò i mariti accusandoli di fare parte del movimento di liberazione; tra questi Carlo Ciocca. In seguito il portinaio, che nel periodo fascista con il suo operato si era attirato l'odio della gente, venne giustiziato nel piazzale delle scuole a colpi pistola. Nella lapide-ricordo si legge: "All'alba della liberazione decedeva nel campo di sterminio tedesco il partigiano Carlo Ciocca, chiudendo un'intera esistenza consacrata alla giustizia ed alla libertà d'Italia. Ebensee, 30 aprile 1945 (foto 14). Molte lapidi sono state poste nelle varie strade milanesi, ma quella di Ciocca risalta in quanto posta in sua memoria dagli abitanti di via Palmieri proprio a sottolineare il forte legame che si era stabilito tra i partigiani e la popolazione, che non partecipava direttamente alla resistenza, ma che condivideva i suoi ideali. A questo proposito il partigiano Emilio Ventura ci ha raccontato un aneddoto che lo riguarda: ancora diciottenne mentre passeggiava nel proprio quartiere, insultò un giovanissimo soldato fascista che in seguito lo fece arrestare dai suoi superiori. Venne portato nell'asilo di via Palmieri al 5 dove alcuni fascisti avevano rinchiuso anche altre persone. In seguito furono tutti rilasciati tranne Ventura poiché era operaio operaio nella fabbrica CGE che, anche in conseguenza dei ripetuti scioperi, era considerata una fabbrica antifascista. Tuttavia grazie alle rimostranze di diverse centinaia di persone che invocavano la liberazione di Ventura, questi venne rilasciato.

8. Angelo Ventura.

Nato il 16 agosto 1904 e morto il 15 novembre 1943. "Nell'avanguardia eroica che sul monte S. Martino affrontò il tedesco invasore. cadeva il partigiano Ventura Angelo, che qui abitava. 1904-1943'. E' questa l'indicazione della lapide di via Palmieri 11 (foto 13) in cui è conservata la memoria di uno dei tanti partigiani della zona 15 di Milano che sacrificò la propria vita a causa della violenza fascista in nome di un ideale di libertà. Per quanto riguarda questo caduto, le nostre conoscenze si basano sulla testimonianza diretta del fratello Emilio e su quella di due compagni di quartiere, Biagio Colamanico e Francesco Di Bisceglie. Siamo nel 1943, Angelo Ventura ha quasi quarant' anni, tassista da una vita è costretto a rinunciare alla sua attività a causa della mancanza di benzina e ad improvvisarsi operaio della vetreria Bordoni. Nello stesso periodo entra a far parte di un gruppo antifascista. Uno dei numerosi attacchi dell'aviazione alleata su Milano tocca anche lo stabilimento che, bombardato e distrutto, diviene la causa della disoccupazione di tutti coloro che vi lavoravano, tra cui il nostro Angelo Ventura. Assunto dalla organizzazione TODT, che reclutava volontari italiani per lavori di sterramento e fortificazioni, decise di raggiungere il fratello Emilio che da circa una settimana si trova in montagna, a San Martino di Valcuvia (Varese). Entrato a far parte della compagnia del fratello Angelo, essendo un ex tassista, diventa l'addetto alla guida di un camion. E' il 15 novembre, già in pieno rastrellamento tedesco, Angelo e 10 suoi compagni vengono mandati sulla cima della montagna. Errore strategico da parte del comandante: Angelo e i suoi compagni rimangono intrappolati in quanto i fascisti bloccano la loro unica via di uscita. Lottano duramente fino all'esaurimento delle munizioni; attaccati anche dall' aviazione tedesca, riescono a colpire un aereo facendolo schiantare contro una montagna dirimpetto. Ma il loro coraggio non è sufficiente, giocano a loro sfavore la superiorità numerica dei nemici e l'improvviso esaurimento delle munizioni. E' il 16 novembre, i nostri partigiani vengono catturati e portati in quella che il testimone chiama "casermetta", l'usuale luogo di ritrovo dei compagni. Qui vengono interrogati e il 17 novembre fucilati (foto 22). Angelo ha quasi quarant' anni ed è uno dei più anziani del gruppo: gli altri suoi compagni non superano i vent' anni. Questo è l'epilogo della storia del "vecchio" Ventura, la cui morte, a detta del compagno Di Bisceglie, poteva essere evitata. Non fu solamente la violenza fascista, motivo di morte di tutti i partigiani, a segnare le sorti di questi ragazzi, ma ad essa contribuì, secondo il nostro testimone, un errore tattico dello stesso colonnello che ordinò l'azione senza aver capito che «nella guerra partigiana l'individuo deve essere in grado di sganciarsi, il partigiano non può fare una guerra di posizione». E' facile infatti soccombere se si è in 150 a lottare contro duemila, favoriti dall' appoggio dell'aviazione e da un numero nettamente superiore di armi.

9. Dino Colombo

"27/4/1922 - 26/4/1945. Caduto combattendo contro i nazifascisti per la libertà. I compagni e cittadini del quartiere": così la lapide di via Palmieri 5 (foto 11). A lui e dedicata anche la lapide di via Valleambrosia di Rozzano (foto 5). Secondo la testimonianza dell'ex partigiano Virginio Gallazzi, Colombo era un ragazzo cresciuto nel quartiere Baia del Re, via Palmieri al 5; morì il giorno prima del suo ventitreesimo compleanno, a causa di un comportamento un po' troppo spavaldo che lo portò ad abbandonare ogni forma di prudenza. Egli faceva parte della 114° brigata Garibaldi che aveva come punto di ritrovo un' ex sede fascista in via De Sanctis. Il 26 aprile del 1945, un gruppo di partigiani stava assediando un contingente di tedeschi asserragliati all'interno della cascina Valleambrosia, all' angolo dell' omonima via di Rozzano; si era nei giorni della insurrezione e i nazi-fascisti si stavano arrendendo. Dino Colombo, fiducioso in un successo, fece irruzione dal portone della cascina intimando la resa. L'imprudenza lo espose alla morte: un ufficiale tedesco lo uccise con un colpo di pistola, per poi scaricare l'arma contro se stesso. Ciò che ci riferisce Biagio Colamonico su Colombo riguarda l'atteggiamento di spavalderia tipico dei giovani in quel periodo, i quali non si curavano della paura e della cautela (che può esserci oggi "in questi giorni di tranquillità"), per una sorta di assuefazione alla guerra. A stimolare questo genere di comportamento era un clima di continua sfida. Dino Colombo era una tipica figura di quartiere che incarnava queste caratteristiche giovanili. Ha dato la vita in questo modo a 23 anni.

10. Giovanni Paghini e Domenico Bernori.

"In questa casa fiorì la giovinezza del patriota Paghini Giovanni, della 113° Brigata Garibaldi, stroncata dal piombo nazifascista. Milano 20/3/1924 - Milano 25/4/ 1945': questo si legge nella lapide di via Chiesa Rossa 113, che ha la stessa scritta di quella dedicata a Domenico Bernori in via Neera 16 (foto 9 e 3). Virginio Gallazzi dichiara di conoscere le circostanze della morte di Paghini e Bernori solo "per sentito dire". Giovanni Paghini (nato a Opera il 5 maggio 1927, morto a Milano il 25 aprile 1945) lavorava nella fonderia Stabilini in via De Sanctis, Domenico Bernori abitava in via Neera 16. Quest' ultimo era un ragazzo molto attivo politicamente, in quanto apparteneva, come Pagnini, alla 113° brigata Garibaldi. In questa veste gli sarebbe stata affidata la missione di uccidere il proprietario della fabbrica Grazioli, uomo che, grazie al fascismo, dal nulla aveva fatto fortuna. Il 25 aprile, il Naviglio era asciutto e questi tre partigiani vi entrarono con l'intenzione di aggirare i tedeschi presso il ponte di San Cristoforo (per Virginio Gallazzi presso il dazio del Naviglio Grande). Non si accorsero dei nemici alle spalle, che con una raffica li ammazzarono. Sono caduti, quindi, in un' azione di arresto di una colonna nazifascista. Avevano rispettivamente 18 e 21 anni. L'ex partigiano Di Bisceglie, conosceva Domenico Bernori (nato il 20 marzo 1923, morto il 25 aprile 1945 a Milano) tramite quella che sarebbe stata sua moglie, la quale abitava in via Neera nell'appartamento attiguo a quello del partigiano in questione. Spesso infatti, quando i giovani antifascisti venivano ricercati, la gente del quartiere offriva loro rifugio, rischiando la vita di tutti i familiari. Gli ufficiali nazisti non si facevano scrupoli ed erano pronti a fucilare donne e bambini colpevoli solo di troppa solidarietà.

11. Domenico Adorni. Dalla testimonianza di Virginio Gallazzi ricaviamo anche qualche notizia riguardante Domenico Adorni, (residente in via Palmieri 11), comandante di distaccamento della 114° Brigata Garibaldi, 4-bis. Ha combattuto negli anni della Resistenza, tuttavia la sua morte risale a qualche anno dopo la fine della guerra. Gallazzi così ce lo descrive: «era un ragazzo che, nonostante la sua menomazione fisica poichè era un po' claudicante, riteneva fosse opportuno battersi ugualmente come tutti gli altri. Aveva qualche anno più di noi, sui venticinque, ventisei anni. lo l'ho conosciuto dopo, era un ragazzo simpaticissimo».

12. Renato Agliati.

Il ricordo di questo partigiano ci è tramandato dal fratello Arnaldo, detto Arnò in quanto pittore. Era residente in via Palmieri 18 e le notizie sulla sua fine sono molto vaghe. Sappiamo che nel '43, ritornò a casa un'amico di Renato che abitava in via Spaventa: si chiamava Cesare Ratti ed era in marina. A seguito dell'affondamento del suo sommergibile aveva ottenuto una licenza. Subito dopo l'armistizio dell' 8 settembre Renato, Ratti e un'altro amico, Augusto Robbiani, si misero d'accordo per presentarsi in caserma: Renato avendo diciassette anni avrebbe dovuto compiere il servizio militare e gli altri dovevano ritornare sotto le armi. Tuttavia, più che all' esercito repubblichino hanno preferito darsi "alla macchia" e si sono trasferiti a Missaglia, una località in provincia di Como. Lì il gruppo si unisce con Giancarlo Puecher. Il fratello Arnaldo precisa che non sa come andarono esattamente le cose. Racconta infatti: «Sono stati lì pochissimo e poi si sono trasferiti in un' altra valle. L'unica cosa che so è che hanno fatto un'azione: c'era mio fratello, Augusto Robbiani e Cesare Ratti. Erano su un motocarro a legna di carboncino, mio fratello era sopra e gli altri due erano dentro, quando sono stati bloccati dai tedeschi e dai fascisti. Questi hanno sparato colpendo mio fratello che è così caduto, mentre gli altri sono riusciti a scappare. Ancora oggi non sanno se mio fratello fosse morto o solo ferito. Dopo un po' di tempo si è saputo che era stato fucilato e buttato nella valle del Diavolo. Il corpo non è stato più ritrovato. lo e mio padre abbiamo aspettato per anni che ritornasse a casa, ma invano».

13. Martino Cavallotti e Nello Cirielli.

"Perché viva sempre il ricordo di Cavallotti Martino (29/11/1929 - 16/12/1944) che giovanissimo è salito nella schiera dei martiri della libertà" Così è scritto nella lapide intestata a Martino Cavallotti in via Bonghi 12 (foto 4), dove abitava durante la resistenza, anche se non esistono fonti dirette e certe per quanto riguarda la sua vicenda. Tutte le nostre informazioni si basano sui ricordi di Virginio Gallazzi. Da questi abbiamo appreso che la morte di Cavallotti fu casuale, in quanto rimase ucciso, mentre usciva da un cinema, da alcuni colpi sparati da uomini di una pattuglia fascista durante una retata; colpi destinati ad una altra persona. Cavallotti fu dunque una vittima indiretta; infatti non partecipava alla lotta partigiana, ma si era solamente trovato «nel posto sbagliato al momento sbagliato». Il caso di Cavallotti non fu isolato: infatti capitava frequentemente che venissero coinvolti in sparatorie dei passanti, anche perché molto spesso c' erano dei ragazzini che giravano per le strade con il mitra. Secondo la testimonianza del Gallazzi: «tra quelli che giravano armati di mitra c'erano anche ragazzi di quindici-sedici anni. Portando un mitra, prima o poi un colpo sarebbe potuto sfuggire e a chi capitava, capitava». Questo è confermato anche dal caso di Cirielli (nato il 18 giugno 1927, morto a Milano il primo gennaio 1945) che, come Cavallotti, fu vittima indiretta, in quanto coinvolto in una sparatoria da parte di una delle tante bande fasciste che giravano allora per Milano. 14. Silvano Martinini.

" 13/5/1923 - 11/9/1944. Silvano Martinini, patriota, fucilato dalle orde nazifasciste a Pratiglione. A perenne ricordo". Questa è la lapide (via Palmieri 6, foto 12) di un altro caduto della zona 15, di cui però non possediamo alcuna notizia. Gallazzi, suo compagno di scuola lo ricorda come «uno dei tanti ragazzi del quartiere». Dal termine della scuola non seppe più nulla di lui, fino a quando gli giunse la notizia che l'avevano ucciso a Pratiglione, l' 11 settembre del '44: aveva ventun anni.

15. Giuseppe Ghioni.

Secondo la testimonianza di Riccardo Fusetti, Giuseppe Ghioni (nato il 12 marzo 1926, morto a Milano il 9 maggio 1945) è partito con Luigi Fiore per Colico e poi è tornato a Milano. Qui, tra le altre cose, ha preso le armi a gioco: ha fatto la roulette russa e si è ucciso per scherzo. Commenta Virginio Gallazzi: «Ghioni è il classico tipo per il quale le armi si possono anche usare per giocare e alle volte possono fare anche molto male. Preso da euforia, davanti al padre e alla fidanzata, si è puntato sulla tempia una rivoltella che non riusciva a far funzionare, nella convinzione che non sarebbe partito neppure un colpo. Invece il colpo è partito ed è morto». A lui non è stata dedicata alcuna lapide nel quartiere della Baia del Re, dove abitava. Non è stato possibile reperire testimonianze particolari sui seguenti caduti: Tito Berni (nato il 4 aprile 1922, morto il 16 febbraio 1943 in Croazia), Giordano Bertini (nato il 18 settembre 1920 a Milano, morto il 10 gennaio 1954 in Germania), Luciano Soffi (nato l' 1 marzo 1918, morto il 13 aprile 1942 a Daharelthell), Antonio Bonalumi (nato il 23 gennaio 1925, morto il 23 aprile 1945, deportato a Muldenstein), O Bucella, F.Chiesa, Giuseppe Confalonieri (nato a Legnano il 10 ottobre 1903, morto a Milano il 26 aprile 1945), G. Croce, Enrico Giannelli (nato il 29 luglio 1920 a Milano, morto il 30 agosto 1942 a Sanremo), Ulderico Gilardi (nato il 14 aprile 1921 a Milano, morto sul fronte russo dal 16 gennaio all' 1 febbraio 1943), Umberto Ginosa (nato il 23 maggio 1920 a Spinazzola, morto il 16 gennaio 1941 in Albania), Valentino Maganza (nato il 10 marzo 1915 a Milano, morto il 22 gennaio 1941), Lidarno Marini (nato il 5 aprile 1907 a S. Stefano Magra, morto il 7 maggio 1945 a Mauthausen), Carletto Merli (nato l' 11 giugno 1921 a Milano, morto il 10 settembre 1944 a Domadossola), Emilio Moretti (nato il 30 agosto 1902, morto il 7 marzo 1945 a Mauthausen), G. Musatti, Luigi Negri (nato il 20 giugno 1910 a Insbruck, morto il 23 gennaio 1943, disperso il Russia), Adriano Passerini (nato il 7 ottobre 1914 a Milano, morto l' 1 febbraio 1945 a Mauthausen), Giovanni Prada (nato il 23 dicembre 1903 a Milano, morto il 7 marzo 1945 in Germania), Luigi Robbiati (nato il 29 novembre 1015 a Settala, morto il 17 maggio 1943), Egisto Salvatici (nato l' 8 marzo 1921 a Venezia, morto il 31 maggio 1944 a El Alamein), Lorenzo Sottocorna (nato a Treviglio il 15 agosto 1922, morto il 21 agosto 1944 a Fenigli) (foto 16) (I dati anagrafici sono tratti dalla documentazione presente negli archivi del Consiglio di zona 15). - VII - LE LAPIDI E LE IMMAGINI DEI CADUTI Foto 1 - via Palmieri 20 Foto 2 - via Palmieri 20 IN QUESTA CASA FIORI' LA GIOVINEZZA DEL PATRIOTA BERNORI DOMENICO DELLA 113° BRIG. GARIBALDI STRONCATA DAL PIOMBO NAZ1FASCITA MILANO,20. 3. 1924 MILANO 25.4.1945 Foto 3 - via Neera 16

PERCHE' VIVA SEMPRE IL RICORDO DI CAVALLOTTI MARTINO 29.11.1929 - + 16.12.1944 CHE GIOVANISSIMO E' SALITO NELLA SCHIERA DEI MARTIRRI DELLA LIBERTA' Foto 4 - via Bonghi 12 FOTO 5 - Via Valleambrosia 1 Foto 6 - via Tibaldi 26 IL PARTIGIANO FIORE LUIGI CHE ALLA LIBERTÀ ED ALLA PACE DELLA PATRIA SACRIFICAVA LA GIOVINEZZA ABITÒ IN QUESTA CASA COLICO 1944 Foto 7 Via Barrili 12


QUESTA LAPIDE RICORDA IL GARIBALDINO BIRAGHI BRUNO CHE IMMOLO' LA SUA GIOVINEZZA COMBATTENDO CONTRO I NAZI-FASCISTI N. 27.1.1928 GRAVELLONA TOCE 12.9.1944 Foto 8 via Barrili 9 Foto 9 via Chiesa Rossa 113

MARIO PELUZZI PARTIGIANO DELLA 113 BRIGATA -GARIBAIDI- AMÒ LA LIBERTÀ PIU' DI SE STESSO E PER LEI SACRIFICÒ LA SUA GIOVINEZZA LA SUA MORTE SEGNÒ IL RITORNO ALLA VITA PER TUTTI GLI UOMINI OPPRESSI NATO IL 29-11-1914 FERITO IN COMBATTIMENTO A MILANO IL 26-4-45 DECEDUTO IL 1.5-45 Foto 10 via Spaventa 11 Foto 11 - via Palmieri 5

13-5-1923 11-9-1944 SILVANO, MARTININI PATRIOTA FUCILATO DALLE ORDE NAZIFASCISTE A PRATIGLIONE A PERENNE RICORDO Foto 12 via Palmieri 6 Foto 13 via Palmieri 11

ALL'ALBA DELLA LIBERAZIONE DECEDEVA NEL CAMPO DI STERMINO TEDESCO Il PARTIGIANO CARLO CIOCCA CHIUDENDO UNA INTERA ESISTENZA CONSACRATA ALLA GIUSTIZIA ED ALLA LIBERTÀ D'ITAALIA EBENSEE 30 MAPRILE 1945 Foto 14 via Palmieri 18 RICORDI QUESTA LAPIDE L'EROICA MEMORIA DEI PARTIGIANI FPAZZA LUIGI NEGRONI LUIGI PROVASI MARIO VOLPI PAOLO CHE NEI CAMPI DI STERMINIO DELLA GERMANIA NAZI-FASCISTA SACRIFICAQONO LA LORO ESISTENZA PER LA GIUSTIZIA LA LIBERTA'- L'INDIPENDENZA D'ITALIA MATHAUSEN 1944-45 FOTO 15 via Palmieri 22

Foto 16 via Boifava 17 Foto 17 Giancarlo Puecher GIANCARLO PUECHER PARTIGIANO CADUTO PER LA LIBERTA' I° MEDAGLIA D'ORO DELLA RESISTENZA LOMBARDA NATO A MILANO IL 22 AROSTO 1923 FUCILATO DAI NAZIFASCISTI AD ERBA Il 21 DICEMIIE 1943 "...L'AMAVO TROPPO LA MIA PATRIA; NON LA TRADITE. E VOI TUTTI, GIOVANI D'ITALIA, SEGUITE LA MIA VIA ED AVRETE IL COMPENSO DELLA VOSTRA LOTTA ARDU..." PROVINCIA 01 MILANO COMITATO UNITARIO ANTIFASCISTA ZONA 15 25 APRILE 1990 Foto 18 via U. Dini 7 GIANCARLO PUECHER

Foto 19 - via U. Dini 7

Foto 20 - via U. Dini 7 Foto 21 - Luigi Fiore, Colico (CO) Foto 22 - I fucilati del S. Martino di Valcuvia: gruppo "5 giornate" - 17 novembre 1943 MINISTERO DELLA DIFESA

Foto 23 - Achille De Vlncenzi

Foto 24 - Chiodi per fermare i camion tedeschi prodotti clandestinamente dagli operai della fabbrica Grazioli - VIII - GIANCARLO PUECHER PRIMA MEDAGLIA D' ORO DELLA RESISTENZA IN LOMBARDIA di Elena Riganti e Vincenza Gagliardi

I. Premessa.

Giancarlo Puecher è ormai considerato un vero e proprio "eroe" della Resistenza e un modello non solo per la sua generazione, ma anche per tutte le generazioni successive. I tre aspetti più originali della sua figura sono la giovane età (era infatti poco più che ventenne quando ha affrontato con coraggio la morte), la ricca famiglia di origini nobili, la sua profonda fede cattolica. Ciò che ci interessa capire è cosa abbia spinto questo personaggio facoltoso, credente e così giovane a sacrificare la propria vita per la lotta antifascista, per salvare la propria patria dalla dittatura e dalla occupazione tedesca e per restituire all'Italia la democrazia e la libertà perdute durante il ventennio del regime fascista. Come mai indagare proprio sulla figura di Giancarlo Puecher, prima medaglia d'oro alla Resistenza in Lombardia, e non su qualche altra figura parimenti espressiva della Resistenza? Poichè a Giancarlo Puecher è stato intestato il complesso scolastico della Provincia di Milano che comprende il Liceo Scientifico "S Allende", l'Istituto Tecnico "E. Torricelli" e l'Istituto per Ragionieri "P. Custodi". In vista del cinquantenario della Resistenza anche noi studenti del Liceo ci siamo, quindi, impegnati in un approfondimento del fenomeno della Resistenza, a partire da questa figura esemplare.

II. Biografia.

1. La famiglia. Un punto fermo nell' albero genealogico dei Puecher Passavalli risale al 1558, anno in cui alcuni documenti riferiscono di uno Stefano Puecher figlio di Cristiano residente a Roveda nell' alta Valle del Fersina; nel 1770 un suo discendente, Giovanni, era andato a stabilirsi a Pergine in Valsugana, meritandosi per questa breve trasmigrazione l'appellativo di "Passavalle"; suo figlio Giorgio, avvocato e notaio, continuava a peregrinare di valle in valle e a mettere al mondo figli (1). Da due di questi, Francesco ed Ignazio, si staccarono poi due rami: uno proteso verso la cultura mitteleuropea andò ad attestarsi in Trieste; l'altro ramo si diresse verso la Lombardia, fermandosi a Como, dove nacque il notaio Giorgio, padre di Giancarlo (2). Giorgio Puecher, nato a Como il 14 Maggio 1887, integerrimo e scrupoloso nella sua professione notarile, aveva il suo studio a Milano in Via Gaetano Negri 10. Durante la prima guerra mondiale aveva combattuto come volontario con grande eroismo, subendo intossicazioni ed ustioni per il lancio di gas da parte austriaca (3). Faceva parte di quel ceto medio che per decenni ha costituito il tessuto della vita sociale milanese e lombarda. Politicamente si considerava un liberale, poi l'avvento del regime, di cui disprezzava le declamazioni di guerra e morte, l'aveva indotto a dedicarsi esclusivamente al lavoro e alla famiglia. Era infatti un gentiluomo tranquillo, legato alle proprie tradizioni e cercò sempre di assicurare un largo benessere ai suoi cari, tentando di tenerli lontani da ogni preoccupazione. La madre Annamaria Gianelli (Milano 1889) era di temperamento diverso dal marito: donna disinvolta e moderna nei gusti, sapeva trasmettere ai suoi cari la propria giovialità e il proprio credo. Era un donna molto energica, vitale ed attiva. Era lei che si occupava un po' di tutto: dall'educazione dei figli ai lavori di casa e persino dell'automobile su cui portava tutta la famiglia in gita di domenica. Nonostante la sua salute fosse precaria e fosse soggetta ad esaurimenti, cercò sempre di approfondire la sua cultura per poter essere anche una guida intellettuale per i figli. Aveva una salda base morale, originata da profonde convinzioni religiose che la portavano ad opere di assistenza ai bisognosi. In perfetta sintonia con il marito sui problemi religiosi, entrambi nutrivano una profonda fede in Cristo e nella sua istituzione terrena, la Chiesa Cattolica. Alla sera familiari e domestici si riunivano per recitare il rosario, sempre presenti in gruppo pure in Chiesa alla domenica e in tutte le feste comandate (4). I coniugi Puecher avevano altri due figli, oltre Giancarlo, Virginio che aveva 17 anni al momento della morte del fratello maggiore e frequentava ancora la scuola e Gianni nato nel 1930, il più piccolo della famiglia. Ma ancora, una figura insostituibile era la zia Lia Gianelli, soprannominata "Sza", che sempre si adoperò per la famiglia, soprattutto nei momenti più difficili, durante gli arresti di Giorgio e Giancarlo e si prese cura di Virginio, Gianni e della casa di Lambrugo, sul lago di Como. E' dai suoi scritti e ricordi che si è potuta in gran parte ricostruire la personalità di Giancarlo. Infine completavano il quadro la cameriera Vanna, la cuoca Rosa e Alberta Dossi, soprannominata Berta, al fedele servizio dei Puecher dal 1927. Giancarlo era nato quindi sotto auspici favorevoli, appartenendo ad una famiglia ricca di sostanze e nobile per rango, che abitava al secondo piano di un palazzo molto signorile in Via Broletto 39, a poche centinaia di metri dal Duomo.

2. L'infanzia e l' adolescenza. Giancarlo Puecher nacque a Milano il giorno giovedì 23 Agosto 1923 alle ore 11. Il 10 settembre, due settimane dopo la nascita, venne portato al fonte della vita in San Tommaso, dove i genitori si erano sposati il 14 aprile 1920. Al battesimo erano presenti solo i parenti più stretti (6). Giancarlo era un bimbotto robusto con una carnagione bianca e rosa illuminata dagli occhi di color azzurro. La mamma, seguendo la moda degli anni venti, lo vestiva spesso con giubbetti arricciati sulle spalle , dando la preferenza al colore azzurro, come i suoi occhi, mentre lo pettinava facendo ricadere sulla fronte una ciocca di capelli castano chiaro. Tutta la famiglia circondava di affetto e di attenzioni il progredire del ragazzo che delineava precocemente un carattere esuberante, ma soffuso anche di sentimenti delicati (7). Frequentò le scuole elementari di Via Spiga, luogo decretato per accogliere i figli della Milano bene. Per andare a scuola Giancarlo doveva percorrere una lunga strada, che serviva anche a conoscere da vicino la propria città, a indovinarne i problemi passando davanti a negozietti e portinerie, vivendo a contatto con tanti diversi tipi umani. Nei primi anni fu affidato alla mano della Berta, un'altra autentica persona di famiglia, che spesso lo portava a spasso per la città. Appena più grandicello la mamma diventò la programmatrice del tempo libero. Così iniziò a frequentare i cinema, i teatri e a fare escursioni in montagna sulla neve. Alpinismo e sci assorbirono ben presto gli interessi del giovanotto che completava le sue passioni sportive con i motori. Aveva molti amici, organizzava diversi momenti di svago, amava terribilmente il calcio. Ricco, intelligente, vivace, ma anche ordinato e preciso era il giovane Giancarlo. La stessa formazione religiosa era agevolata dall'esempio familiare, ma veniva ad innestarsi su una naturale inclinazione: egli soleva prega-re ogni sera in ginocchio nella propria cameretta. Non aveva un confessore fisso, ma frequentava diversi sacerdoti. Terminate le elementari in Via Spiga e le medie al Parini, si era iscritto all'Istituto gestito dai padri gesuiti, il Leone XIII, dove intraprese gli studi classici. Si presentava con il fisico di atleta semplice, simpatico, sicuro di sè, ma non si dava mai alcuna importanza. Appassionato di tutte le attività agonistiche, Giancarlo si esercitava nel ciclismo, nel nuoto, in equitazione, nell'atletica leggera, nella corsa campestre, nel tennis e negli sport della montagna. A quindici anni aveva inoltre sufficienti nozioni di guida e un'incontenibile passione per l'aviazione. A scuola seguiva con attenzione, per puro dovere, le varie materie, ma era chiaramente assorbito dalla fantasia volando verso spazi lontani (8).

3. La giovinezza. Gli anni della giovinezza di Giancarlo sono ben ricordati da alcuni suoi compagni di classe o intimi di famiglia. Urbano Aletti, suo migliore amico, lo descrive come un giovane che studiava con equilibrio, il necessario. Il suo carattere era esuberante, ma tranquillo, ispirava simpatia e fiducia a tutti. Sportivissimo, la sua prestanza fisica era invidiata da tutti i compagni (9). Franco Pavesi ricorda come Giancarlo guidava in casa i fratelli minori come se ne fosse il tutore. E ancora come egli fosse molto riservato e credente (10). Ignazio Lado, che frequentò con Giancarlo elementari, medie, liceo e due anni di università, ricorda che di politica non si discuteva mai, tuttavia le due famiglie avevano affinità in senso democratico e antifascista. A volte avevano partecipato a manifestazioni di piazza senza però la minima convinzione di ciò che facevano, ma solo per fare un po' di chiasso. La cugina Maria Luisa Fontana Fornoni ricorda il suo magnifico temperamento, eternamente allegro, e il suo entusiasmo per ogni cosa (12). Infine Gianluigi de Fernex ricorda la comune passione per lo sci, mentre a riguardo della politica anche lui afferma che non se ne parlava, che era fuori dai loro interessi. Secondo lui " bisognava comprendere il clima dell'epoca e la disaffezione dei giovani verso l'apparato politico, dominato dal regime fascista e quindi l'impreparazione politica. Ci rifugiavamo perciò nello sport" (13). Molto sport e poca - o niente - politica. La propensione alle attività fisiche si conciliava poco, quindi, con l'assiduità nello studio e la riflessione culturale. Leggeva poco, solo per obbligo scolastico. Una volta, però, assecondato dalla madre, aveva composto una poesia confusa e un po' ingenua sulla sua patria, l'Italia, imboccando una strada letteraria, che abbandonò ben presto. Al momento opportuno sapeva, però, intensificare lo studio per arrivare a quei risultati formali a cui teneva pochissimo. Con due compagni Urbano e Ignazio volle poi puntare ad un ambizioso traguardo, il salto della terza liceale, presentandosi come privatista direttamente alla maturità classica. Quell'inverno fu duro sia per gli studenti che per la signora Puecher, che sentiva il tumore avanzare, tentando di coprire le sofferenze. Giancarlo conquistò la maturità classica alla prima sessione, ma la sua felicità fu di breve durata por la precoce morte della madre (14). La signora Annamaria Gianelli Puecher aveva ceduto in pochi giorni al male incurabile da cui era stata aggredita circa un anno prima. Soffrì in silenzio, aggrappandosi alla fede e resistette fino alla crisi che in poche ore ne determinò la morte. Era il 31 luglio 1941. Aveva 52 anni appena (15). Per tutti fu un duro colpo, per Giancarlo l'inizio di un periodo nero. Secondo la zia Lia "l'amava più che non se ne fosse reso conto prima" (16). Scrisse all'epoca Giancarlo nel suo quaderno di appunti: "Ricordati della tua santissima e unica mamma. Ricordati di essere buono con il tuo papà e con i tuoi fratelli. Ricordati che dopo tante amare delusioni che hai provato non ti resta che morire combattendo per la tua Patria, forse ciò potrà darti una viva soddisfazione e ti riporterà a godere ancora di colei che tanto amasti in terra, purtroppo non sufficientemente dimostrandolo e così riuniti ripercorrerai il lungo cammino della eternità" (17). Alla depressione più assoluta, per un paio di mesi, seguì una decisa reazione psicologica tesa a sfruttare fino in fondo le occasioni della vita. Si rafforzò anche in lui il senso di responsabilità verso se stesso e verso gli altri familiari, in particolare verso i due fratelli minori. Inoltre si manifestò in lui un desiderio ben definito di riempire il vuoto affettivo aperto con la scomparsa della madre e aveva allora scelto una ragazza, che voleva compagna della sua vita, dallo sguardo celestiale, che aveva per lui una venerazione fresca e gentile. Erano molto giovani e i genitori non volevano sentir parlare di matrimonio, ma gli amici li vedevano sempre uniti e comprendevano il forte legame che ugualmente li univa. La ragazza si chiamava Elisa Daccò, studentessa di carattere dolcissimo (18). Il loro fu un amore breve e drammatico, vissuto meno di due anni e coltivato per l'eternità. La perdita della madre lo aveva influenzato moltissimo: era diventato un educatore nei confronti dei fratelli, sentiva maggiori responsabilità non solo verso la famiglia ma anche verso la società: avvertiva la rapida trasformazione ideologica in ogni ambiente, il dissolversi di ogni sicurezza e il significato diverso da dare a parole come "nazione" e "patria" (19). Per quanto riguarda la scelta universitaria, egli stesso disse: "Sì, mi iscrivo a legge per fare piacere a mio padre e continuare la tradizione di famiglia che mi vuole notaio ma questa professione mi attrae proprio poco [...]. Non mi rassegno a stare rinchiuso tra gli archivi. Ho bisogno di vita, d'amore, d'audacia" (20). II sabato e la domenica frequentava le adunate della milizia universitaria e trascorreva l'estate al campo estivo di Caglio in Valsassina riservato agli aspiranti allievi ufficiali. Il giovane Puecher, intanto, portava avanti i suoi sogni di "defensor patriae" e faceva domanda di volontario quale pilota, che rispondeva alla sua passione per il volo (21). Non riuscendo ad entrare nell'arma azzurra maturò, in modo autonomo e spontaneo, una scelta ideale condivisa da molti: percorrere la strada della clandestinità e della lotta sulle montagne, in bande armate "per il raggiungimento di uno stato di libertà e di giustizia" (22). Ebbe allora le prime discussioni con il padre, che, pur non essendo contrario alle idee del figlio, ne sentiva la responsabilità, conoscendo il suo impeto e il suo impulso generoso.

4. La Resistenza. Giancarlo non aveva avuto dubbi, "sentiva" che la parte giusta si trovava sulle barricate democratiche, comprendeva che il mondo nel quale era cresciuto non aveva per nulla contribuito ad edificare la libertà. E così aveva scelto di getto: la lotta partigiana in proprio, con pochi amici coraggiosi, senza progetti politici e con limitate cognizioni tattiche. Molta volontà, qualche arma, nessuna violenza. Riunì nella sua villa a Lambrugo una ventina di giovanotti (23). Ma avrebbero combinato ben poco se il caso non li avesse fatti incontrare con un bresciano tenente degli alpini, Franco Fucci, dotato di tempra antifascista. Il giorno 13 settembre 1943 diedero vita, assieme, ad una banda armata, il gruppo autonomo partigiano di Ponte Lambro. Comandato dall'Ufficiale Fucci, Puecher diventava il suo vice, mentre un prete brianzolo, don Giovanni Strada, assumeva il ruolo di consigliere (24). Erano in pochi, pieni di volontà, giovanissimi dai diciotto ai ventitré anni. Giancarlo faceva da punto di riferimento per l'intera banda, che cominciò ad operare con poche armi e tanto entusiasmo nella zona tra Lambrugo e la montagna che sovrasta Erba (25). Presto sorse il problema dei viveri e dei mezzi di spostamento, quindi cominciarono a requisire materiali dell'esercito che i contadini avevano raccolto. Di qui, forse, l'accusa infondata di banditismo attribuita al Puecher al momento del suo arresto e commentata dalla stampa fascista dopo l'esecuzione capitale. Gli obbiettivi del gruppo erano pochi ma funzionali: offrire assistenza agli sbandati e agli eventuali prigionieri alleati in fuga, arrecare disturbo ai tedeschi, colpire il nemico senza spargimento di sangue, ma con azioni di risonanza, effettuare qualche azione di sabotaggio e di esproprio (26). Giancarlo lavorava abbastanza allo scoperto. Era un autentico animatore; correva da un paese all'altro in bicicletta per organizzare riunioni e distribuire compiti, aiutava finanziariamente le persone bisognose, indicava agli ex prigionieri alleati la strada verso la Svizzera (27). Testimonia la zia Lia: «correva in bicicletta ogni giorno, fino a tarda sera, sempre in movimento, sempre pieno di ardore [...] cominciarono poi le missioni e fu lavoro strenuo che lo dimagrì e tese i suoi lineamenti nello sforzo e nell'audacia, consapevole del rischio, ma inflessibile [...] talvolta, ed era più sovente, erano fortunate le spedizioni, e Giancarlo ritornava stanco ma con un sorriso di soddisfazione che gli illuminava il volto» (28). Si lottava anche contro la borghesia nera, spesso in funzione degli stessi fascisti.A questo scopo una sera il suo gruppo puntava sull'albergo «Crotto Rosa» di Erba dove, si sapeva, i proprietari occultavano diversi quantitativi di benzina ad uso e beneficio dei fascisti locali, con i quali erano in stretta combutta. A prelievo compiuto una donna si sentiva male e nel soccorrerla il Puecher, con estrema ingenuità, si faceva riconoscere. Il meccanismo della denuncia e delle ricerche si mise subito in moto e Giancarlo riuscì a sfuggire all'arresto grazie all'avvertimento di un amico di famiglia, il dottor Umberto Cenerelli (29). Giancarlo aveva l'animo sereno, non aveva mai usato le armi, né per ferire né per uccidere. Odiava la violenza. La sua rivolta era di carattere ideale, nel suo cuore non si insinuavano sentimenti malvagi. Egli non si collegava ad alcun partito politico, bensì ad un'idea, ad una speranza, ad una volontà, ad una questione di coscienza. E anche ad un problema di libertà, perché il vero credente si pone nelle condizioni di vivere senza costrizioni terrene, avendo soltanto finalità spirituali e non legandosi a particolari strutture politiche (30). In questa atmosfera si arrivò al 12 novembre, un venerdì. Nel pomeriggio ad Erba due sconosciuti avevano tentato di sequestrare un cassiere di banca, Ugo Pontiggia, ma alle sue grida era accorso un amico, Angelo Pozzoli. Gli assalitori, disorientati, avevano allora sparato a ripetizione uccidendo i due uomini. Si parlò subito di agguato politico da parte di partigiani, poiché si pensava che Angelo Pozzoli fosse stato scambiato per il fratellastro Lorenzo, questore fascista di Como. Nello stesso pomeriggio. Fucci e Puecher si trovavano nella vicina Canzo a colloquio con un ex consigliere nazionale del PNF, Alessandro Gorini, che aveva trasformato in senso democratico le simpatie politiche ed era disposto ad un finanzemento dell'attività clandestina. Il Puecher e il Fucci sembravano soddisfatti; ignoravano però il fatto gravissimo verificatosi ad Erba nel pomeriggio e che aveva determinato l'improvvisa istituzione del coprifuoco e dei posti di blocco. Con il sopraggiungere dell'oscurità si mettevano in bicicletta per tornare a casa, una ventina di chilometri. Attraversando Erba intendevano anche ficcare un tubo di gelatina sotto l'abitazione del podestà Lorenzo Pozzoli, solo per spaventarlo. Dopo lo scoppio la gente, accorrendo sul posto, avrebbe potuto leggere alcuni manifestini contro Salò (31). Nei pressi della cittadina brianzola una pattuglia fascista li bloccava: «Documenti! C'è il coprifuoco ... Non li avete? Allora si va in caserma». Scortati, i due capivano che l'identificazione significava anche l'arresto, non solo perché noti come ex-militari entrati nella clandestinità, ma soprattutto poichè erano in possesso di pistole, del tubo di gelatina e dei manifestini. Nel buio non li avevano perquisiti. Ad un tratto il Fucci riuscì ad infilare la mano sotto il giaccone e a tirar fuori la pistola; premette il grilletto contro il milite più vicino, ma il colpo non esplose. Il soldato sparò a sua volta centrando allo stomaco il Fucci (32). II tentativo di fuga era fallito. Il ferito fu ricoverato in gravissime condizioni all'ospedale di Sant'Anna e questa circostanza servirà ad evitargli il processo e a salvargli la vita (33). Giancarlo venne portato dapprima in municipio nelle mani dei repubblichini, dove venne raggiunto da altre diciasette persone, fra cui il padre Giorgio, caduto nel rastrellamento. Lindomani a scaglioni furono tutti trasferiti a Como, Giancarlo nel carcere di S. Donnino, lurida prigione angusta ed austera. Aveva paura e non provava vergogna ad ammetterlo. Fortunatamente ben presto venne trasferito nella stazione dei carabinieri di Borghi, dove già si trovava custodito il padre e dove migliori erano la sistemazione ambientale e le condizioni alimentari ed igieniche. Offrirono anche al giovane, a quanto sembra, una possibilità di fuga che fu rifiutata per non danneggiare la posizione del padre. Intanto Giancarlo continuava a subire interrogatori, ma non tradiva. I repubblichini picchiavano, ma il giovane resisteva, non mentiva, rispettava la propria coscienza e non nuoceva agli amici. La situazione di per sè precaria, precipitò in seguito ad altri attentati. A Milano il 18 dicembre 1943 tre gappisti tendevano un agguato mortale al federale Aldo Resega. Qualche giorno dopo, in risposta alla affissione di un manifesto che sanzionava dure rappresaglie in caso di ulteriori azioni terroristiche, veniva ucciso il noto squadrista locale Germano Frigerio (34). Il questore Pozzoli ne informò subito il prefetto Scassellati, che ordinò di costituire un tribunale militare straordinario di guerra per giudicare gli omicidi di Pozzoli, Pontiggia e Frigerio. Gli imputati erano Puecher, Gottardi Ermanno, Gottardi Silvio, Testori Giulio, Grossi Luigi, Testori Vittorio e Cereda Giuseppe. Nei confronti dei Puecher il funzionario fascista mostrava una chiara avversione, una antipatia personale più volte espressa a chi si interessava al loro caso. In questura Pozzoli, secondo ordini di Scassellati, disse che almeno cinque de-gli imputati dovevano essere condannati a morte. Lavvocato Gianfranco Beltramini venne nominato difensore d'ufficio. Si rivelarono intanto i capi di imputazione, ma secondo l'avvocato, erano solo fatti generici, non accuse specifiche, non erano stati menzionati titoli di reato e non competeva giudicare ad una corte militare. Pozzoli ordinò che gli imputati fossero prelevati dalle caserme per essere tra-sportati ad Erba. Alle ventuno ebbe inizio il processo, non c'era pubblico e gli imputati vennero fatti entrare uno per volta. Primo fu Puecher che negò i capi di imputazione e ammise solo di conoscere l'attività di Fucci. Le accuse rivolte agli altri imputati erano ancor più generiche. Lavvocato Beltramini ricorda che Giancarlo era calmissimo, ma era consapevole del rischio che stava correndo. Il numero dei condannati a morte intanto si riduceva a quattro. Anche il giudice De Vita, che pure apporrà la firma alla sentenza, insisteva col dire che non c'erano elementi per una responsabilità così grave. Il tribunale condannò alla fucilazione solo tre degli imputati, Giancarlo Puecher, Luigi Giudici, e Giulio Testori; i rimanenti furono condannati a pene varie. Allora l'avvocato Beltramini fece l'ultimo tentativo e si recò dal prefetto Scassellati affinché non venisse compiuta alcuna esecuzione capitale ma non sortì il risultato sperato (35). Niente pena capitale per gli imputati, salvo per uno, incriminato per "aver promosso, organizzato e comandato una banda armata di sbandati dell'ex esercito, allo scopo di sovvertire le istituzioni dello Stato" (36): Giancarlo Puecher meritava la morte.

5. La morte. La condanna a morte di Giancarlo era irrevocabile. Al condannato concedono il tempo per una lettera alla famiglia e per una confessione cristiana. Erano quasi le due del 21 dicembre 1943. Padre Fiorentino Bastaroli si avvicinava al morituro e ne riceveva le estreme volontà (37). II giovane aveva appena finito di scrivere una lettera al padre, racchiudendovi una somma di pensieri che l'avevano scosso nelle fasi drammatiche del processo e nei momenti di solitudine di quella interminabile nottata. Tre foglietti, calligrafia lineare, caratteri precisi e larghi, con frasi che si collegavano a distanza tra spunti strettamente privati e atte-stati di respiro pubblico (38).

"21 dicembre 1943 Muoio per la mia Patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato. Spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto, accetto con rassegnazione il suo volere. Tutti i miei averi vadano ai miei fratelli e a Elisa Daccò. Vorrei che sul mio avviso mortuario figurassero i miei meriti sportivi e militari. Non piangetemi ma ricordatemi a coloro che mi vollero bene e mi stimarono. Viva l'Italia. Raggiungo con cristiana rassegnazione la mia mamma che santamente mi educò e mi protesse nei vent'anni della mia vita. L'amavo troppo la mia Patria, non la tradite, e voi tutti giovani d'Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale. Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non Pensano che l'uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia. Vorrei si lasciasse L. 5000 alla mia guida alpina Motele Vidi di Madonna di Compiglio e L. 5000 al mio allenatore di sci Giuseppe Francopoli di Cortina. L. 5000 a Luigi Conti e L. 1000 a Vanna de Gasperi, Berta Dossi, Rosa Barlassina. Il mio guardaroba ai miei fratelli e a Pussy Aletti mio indimenticabile compagno di studi. L. 1000 alla chiesa di Lambrugo. Il mio anello d'oro, ricordo della povera mamma a Papà, il braccialetto a Ginio e l'orologio Universal a Gianni. Alla zia Lia Gianelli una mia spilla d'oro con pietra. Un ricordo delle mie gioie alla mia cugina e a Elisa. Stabilite una somma per messe in mio suffragio e per una definitiva sistemazione pacifica alla Patria nostra. A te Papà vada l'imperituro grazie per ciò che sempre mi permettesti di fare e mi concedesti. Elisa si ricordi del bene che le volli che forse non sufficientemente apprezzò. Ginio e Gianni siano degni continuatori delle gesta eroiche della nostra famiglia e non si sgomentino di fronte alla mia perdita. I martiri convalidano la fede in una vera idea. Ho sempre creduto in Dio e perciò accetto la sua volontà. Baci a tutti. Giancarlo Puecher Passavalli' (39) Non mostrava alcuna paura per quella morte tanto temuta da coloro che si aggrappano solamente ai beni terreni. Superate le minuzie terrene, Giancarlo si avvicinava alla morte in piena consapevolezza e con assoluta fierezza. Testimonia il Bostaroli: «Volle fare la sacramentale confessione di tutta la sua vita, poi si comunicò col fervore di un angelo» (40). Arrivando sul luogo scelto per l'esecuzione (lo spazio del nuovo cimitero, vicino alla provinciale Lecco-Como) Giancarlo chiedeva ai brigatisti del plotone il loro nome: «Così potrò pregare anche per Voi». E li abbracciava, perdonandoli. Prendeva in mano il rosario offertogli dal cappellano e chiedeva di non essere legato. Al suo grido «Viva l'Italia» faceva eco la scarica. Molti colpi conficcati sul muro di cinta avevano formato una rosa di buchi nei quali, successivamente, decine e decine di persone infilavano fiori a testimonianza che il sangue di un innocente genera forza e coraggio tra chi resta a combattere (41). Sul capo di Giancarlo tre proiettili erano bastati ad ucciderlo; un'altra ferita alla spalla, un'altra ancora lo aveva trapassato all'altezza del petto. Gli uomini aveva-no sparato mirando in punti vitali per evitargli ogni ulteriore sofferenza. La morte era stata immediata. Il ritorno in caserma fu mestissimmo e terribilmente doloroso fu comunicare alla famiglia l'avvenuta esecuzione (42). In una cassa di legno grezzo depositata all'interno del cimitero, il corpo del giovane fucilato attendeva la tumulazione. Ai fascisti questo morto dava fastidio, dal momento che era chiaro che la fucilazione appariva più che un esempio di forza e giustizia, un vero e proprio atto di sopraffazione. In principio le autorità avevano cercato di evitare ogni contatto con il morto, finché dovettero cedere per non gravare con un' ulteriore crudeltà. Allo zio Cesare Fontana, chiamato per il riconoscimento legale, venne consentito di ricomporre le membra contratte, di lavare il giovane volto sporco di sangue e di terriccio, di incrociargli le braccia sul petto. Dopo lo zio solo il fratello Virginio era stato autorizzato a sostare in raccoglimento presso la salma. Egli vegliò per due notti il fratello, avviando con lui un lungo, appassionato e allucinante discorso. Il 28 dicembre, un'intera settimana dopo la fucilazione, giungeva il nulla osta per il trasferimento a Lambrugo del feretro. Lì giungeva il giorno 30 e lì veniva seppellito in tutta fretta in un loculo posto accanto alla bara della madre (43). La morte di Giancarlo diventava leggenda. Al suo nome si ispiravano diversi raggruppamenti partigiani in Brianza e altrove: persino la 52a Brigata Garibaldi, di formazione comunista, intitolava un suo distaccamento al giovane cattolico. Attivissimo si mostrava il battaglione Puecher, poi brigata, nel quadro delle Divisioni patrioti «Alfredo Di Dio» e un'altra Divisione Puecher, con tre brigate operanti tra il Lambro e il Seveso, agiva agli ordini di Umberto Rivolta, dirigente dei partigiani cristiani lombardi. Decine di caduti, tra cui il padre di Giancarlo, Giorgio Puecher, morto nel lager di Mauthausen, onoravano le bandiere di queste formazioni (44).

III. Riconoscimenti.

La storia riconosceva formalmente Giancarlo, con imprevista sollecitudine, all'indomani della Liberazione. L'avvocato Luigi Meda poteva infatti annunciare alla signorina Giannelli, addirittura il 2 maggio 1945, la concessione della medaglia d'oro e l'attestato ufficiale arrivava il 26 ottobre con decreto del luogotenente generale del Regno, Principe Umberto di Savoia. Questo il testo, con la motivazione di tale riconoscimento, che accompagnava la medaglia: «Patriota di elevatissima idealità, scelse con ferma coscienza dal primo istante la via del rischio e del sacrificio. Subito dopo l'armistizio attrasse, organizzò, guidò un gruppo di giovani iniziando nella zona di Lambrugo, Ponte Lambro, il movimento clandestino di liberazione e offrendo la sua casa come luogo di convegno. Con l'esempio personale fortificò nei compagni la fede nella azione che essi dovevano più tardi proseguire in suo nome. Presente e primo in ogni impresa, gettò nella lotta tutto se stesso, prodigandoVi le risorse di una mente evoluta e di un forte fisico, ed associando alla audacia un particolare spirito cavalleresco. Braccato dagli sgherri fascisti, insidiata la sicurezza della sua famiglia, non desistette. Incarcerato con numerosi suoi compagni e poi col padre, d'accordo con questi rifiutò l'evasione per non allontanarsi dai compagni di fede e di sventura. Condannato a morte, dopo sommario processo, volle essere animatore fino all'estremo, lasciando scritti di ardente amor patrio e di incitamento alla continuazione dell'opera intrapresa. Trasportato al luogo del supplizio, chiese di conoscere il nome dei suoi esecutori per ricordarli nelle preghiere in quell'aldilà in cui fermamente credeva, e tutti i presenti abbracciò e baciò, ad ognuno lasciando in memoria un oggetto personale, pronunciando parole nobilissime di perdono e rincuorando coloro che esitavano di fronte al delitto da compiere. Cadde a vent'anni da apostolo e da soldato, sublimando nella morte la multiforme e consapevole spiritualità che aveva contraddistinto la sua azione partigiana. Como-Erba, 9 settembre - 22 dicembre 1943» (45). Fu la prima medaglia d'oro della Resistenza in Lombardia. A indicare il luogo esatto della sua sepoltura, accanto alla madre, al padre e alla zia Lia, dal giugno 1949, è stato eretto un cippo funebre costituito da una colonna quadrata con capitello sormontato dal Cristo in Croce e dalle figurette doloranti della Vergine Maria e di Giovanni diffusore della buona Novella (46). Ancora, una lapide posta il 17 febbraio 1963 dal Centro di cultura Puecher sulla facciata della risorta casa di Via Broletto a Milano, dove il giovane nacque e visse, sintetizza icasticamente: "morto solo perché reo di aver amato intensamente la patria e la libertà» (47). A quella occasione risalgono le parole di Amintore Fanfani, allora Presidente del Consiglio: «Grato per l'invito desidero inviare la mia adesione alle manifestazioni indette per onorare Giancarlo Puecher, meadaglia d'oro al V.M. ed eroe della Resistenza, la cui memoria resta per noi esempio e monito» (48). Infine il 17 novembre 1946, presso l'Università degli studi di Milano all'inaugurazione dell'anno accademico 1946-47, il Magnifico Rettore, prof. Felice Perussia, nel corso della sua relazione, ha proclamato dottori honoris causa gli studenti "qui vitam, fato debitam, legibus, libertati, dignitatique Patriae reddiderunt". Tra essi, nella Facoltà di giurisprudenza, Puecher Passavalli Giancarlo fu Giorgio «medaglia d'oro alla memoria» (49).

IV. Valutazioni

L'insegnamento della morte di Giancarlo Puecher è stato definito grandioso. Egli ha perso la vita inseguendo un ideale: la resistenza al nemico per riscattare la Patria. Commoventi e naturali sono le parole uscite dal cuore. Per esempio quelle del padre Giorgio che rivolgendosi ad un carissimo amico disse: «La sua fine è stata da uomo forte e generoso, testimonianza per tutti voi ...» (50). Oppure quelle della Sza: «Vita breve quella del giovanetto caduto, insegnamento grande della sua morte: amare, battersi per amore, morire per confessare l'amore. Per questo il giovanetto Puecher Passavalli non è morto ma vive la vita immortale degli eroi più significativi della patria» (51). Con estrema semplicità e sicurezza, il fratello Gianni parla di un autentico «eroe cristiano» (52). Di Giancarlo interessa non solo l'aspetto spirituale, bensì la personalità umana, consapevole dei sacrifici da affrontare. Giancarlo non è diventato un eroe in nome della forza; al contrario ha dovuto sottomettersi ai fascisti proprio per la sua educazione morale e religiosa che gli impediva di compiere alcun atto di violenza: non a caso le sue azioni partigiane erano sempre improntate allo scontro aperto. Agguati, terrorismo, uccisioni erano parole sconosciute al suo vocabolario. Lealtà contro arroganza, era il suo credo guerrigliero. Ancora un giudizio di Parri: «Io mi domando sempre che cosa avrebbe fatto Puecher, questa grande energia, perché era un uomo molto intelligente, molto capace, cosa avrebbe potuto fare lui, e come lui tanti altri. Che bellissima generazione abbiamo perso ai fini di una autentica ricostruzione della Repubblica italiana» (53). Ricorda Vittorio Testori: «Giancarlo! Noi seguimmo l'esempio tuo. La tua consegna d'amore e di pace è stata da noi pienamente rispettata ed innalzata a bandiera. Ciò perché ogni pianta dà il proprio frutto e logicamente il ns. non poteva essere che quello: il perdono ... Ai ricatti, alle vili imboscate, al terrorismo, ai fraticidi, i patrioti del settore Erba hanno opposto libertà, perdono, pace al solo fine di una sana, pacifica, fraterna ricostruzione nazionale ..» (54). Di pari passo monsignor Aristide Pirovano: «Non l'ho conosciuto personalmente. Ma tutti ne parlavano come una persona superiore, nonostante la giovanissima età. Uno spirito generoso, una coscienza limpida. Certo, secondo me, Giancarlo non pensava al domani con una prospettiva di potere. Egli operava per la pace, si batteva apertamente contro il nemico. Senza odio, in vista di nuova vita, mai di morte» (55). Anche il generale Raffaele Cadorna rimarcava: «La sua vita e la sua morte, da cristiano e da patriota, rimarranno nella ns. memoria come imperituro esempio, rimarranno simbolo del movimento di resistenza quale fu da noi inteso: dovere morale di non restare inerti allorché era in gioco l'indipendenza della Patria e la libertà dei cittadini» (56). Con forte coerenza di carattere, egli si batteva per un mondo migliore, subiva gli avvenimenti più che attizzarli; dimostrava sobrietà e distacco nei confronti dell'avversario; diventava un aiuto inatteso per i suoi nemici con la sua passività. Restava tuttavia consapevole degli eventi di cui era protagonista leggendo la storia in termini di esperienza e sofferenza (57).

Giancarlo ha insegnato a tutti a morire bene, cercando in ogni cosa la pace. Nella vita e nelle sue caducità, egli sapeva disimpegnarsi serenamente: l'aveva dimostrato durante gli studi, poi con lo sport e con l'amore, per darne infine il massimo esempio di coerenza con la morte. Una lunga preparazione avviata in tenera età e proseguita nell'adolescenza; addestrato alla fede, a credere nell'immortalità dell'anima e di conseguenza a non temere l'apparire della morte. Giancarlo ha saputo dunque morire e il suo insegnamento appare rilevatissimo, tanto che il suo sacrifico è rimasto nell'albo della storia (58). «Ma è servito a qualcosa il sacrificio di Giancarlo e servirà a qualcosa questa sua rievocazione?»: questo è ciò che si chiede Maria Maddalena Kestenholz, moglie di Gianni Puecher Passavalli. E continua: «Questa ultima generazione sembra tanto svagata, indifferente ai valori etici e politici, tesa verso un consumismo sfrenato. Sarà allora in grado di comprendere ed accettare il messaggio di un ventenne immolatosi per la Patria?» (59). Sta ora a noi giovani dimostrare che non siamo così disattenti e che sappiamo batterci e impegnarci con maturità nelle prove più difficili. (1) G. De Antonellis, Il caso Puecher, Rizzoli, Milano 1984, p.43. (2) ibidem, p. 44 (3) ibidem, p. 45 (4) ibidem, p. 46 (5) ibidem (6) ibidem (7) ibidem, p. 47 (8) ibidem, pp. 47-51 (9) ibidem, p. 52 (10) ibidem (11) ibidem (12) ibidem (13) ibidem, p.43 (14) ibidem, pp. 53-56 (15) ibidem, pp. 56-57 (16) ibidem (17) ibidem (18) ibidem, p. 58 (19) ibidem, p. 64 (20) ibidern, pp. 51-52 (21) ibidem, p. 67 (22) ibidem, p. 76 (23) ibidem, p. 86 (24) G. De Antonellis, Giancarlo Puecher, un tipico martire dell'ideale, in AA.VV., La guerra partigiana in Italia, Edizione Civitas, Roma 1984, p. 50. (25) G. De Antonellis, op, cit, p.91 (26) ibidem (27) G. De Antonellis, Puecher prima medaglia d'oro della Lombardia,"Storia Illustrata", dicembre 1983, p.63 (28) G. De Antonellis, op, cit, p.91 (29) G. De Antonellis, op, cit, p.63 (30) G. De Antonellis, op, cit, p.94 (31) AA. VV., op, cit, p.51 (32) G. De Antonellis, op, cit, p.61 (33) AA.VV., op, cit, p.51-52 (34) G. De Antonellis, op, cit, p.64 (35) G. Bianchi, Giancarlo Puecher, A. Mondadori, 1965, pp.101-118. (36) G. De Antonellis, op, cit, p.64 (37) ibidem (38) G. De Antonellis, op, cit, p.121 (39) G. Bianchi, op, cit, pp.122-123 (40) G. De Antonellis, op, cit, p.123 (41) G. De Antonellis, op, cit, p.64 (42) G. De Antonellis, op, cit, p.125 (43) ibidem, pp. 132-133 (44) G. De Antonellis, op, cit, p.64 (45) G. De Antonellis, op, cit, pp.183-184 (46) ibidem, pp. 184-185 (47) ibidem, p.188 (48) G. Bianchi, op, cit, p.221 (49) ibidem, p.213 (50) G. De Antonellis, op, cit, p.182 (51) ibidem, p.183 (52) ibidem, p.185 (53) ibidem, p.186 (54) ibidem, (55) ibidem, p.187 (56) ibidem, (57) ibidem, p.189 (58) ibidem, pp.194-195 (59) ibidem. -IX- UN MUSEO DELLA RESISTENZA NELLA ZONA 15 Progetto di riuso del complesso della "Cascina Chiesa Rossa" di Rossana Cipolloni

Il progetto di ristrutturazione della "Cascina Chiesa Rossa" è parte di una iniziativa che coinvolge varie discipline e che affronta il tema della Resistenza quale fenomeno storico. La zona 15 non è estranea a questa tematica dato che molti nomi appartenenti ad un capitolo di storia milanese così significativo provengono da quest'area che oggi suscita un rinnovato interesse sul piano urbanistico. Partendo dal progetto dell'arch. Franco Grossi il gruppo di lavoro propone di destinare le costruzioni così ristrutturate a nuove funzioni. La possibilità di adibire gli spazi coperti a "Museo dell'uomo" è stata vagliata dalle autorità competenti con la collaborazione dei responsabili del Museo delle scienze naturali e questa soluzione ci è apparsa un ottimo suggerimento. L'azione progettuale, per attinenza al tema affrontato ha inserito nell'ambito del Museo una sezione da destinare al "Museo della Resistenza". La proposta alternativa a quella dell'arch. Franco Grossi è quella di adibire lo spazio antistante il complesso a spazio urbano che possa evocare la funzione della "piazza cittadina". La "piazza" ha avuto in ogni epoca una funzione sociale importante costituendo il punto nodale della maglia urbana; ma oggi sta scomparendo nel caos delle periferie. Il complesso viene concepito come spazio attrezzato polifunzionale: a) l'inserimento di edicole o canti, ossia elementi di arredo urbano ove sostare e di punti di illuminazione favorirebbero la fruibilità; b) un'area riservata agli ambulanti (prediligendo l'attività artigianale) può suscitare l'atmosfera del borgo quale organismo urbanistico rispondente alle esigenze di una esistenza più umana. Il tema del Museo dell'uomo nel quale è inserito un padiglione destinato ad un capitolo di storia recente (quale la Resistenza), il tema della rivalutazione dell'attività umana (come l'artigianato) e il tema dell'"agorà" quale luogo di importanza sociale si concatenano al fine di sottolineare un unico soggetto: l'uomo. Il gruppo di lavoro ha concepito l'argomento affrontato (la Resistenza) come la testimoniaqnza dell' "agire umano" e non come compianto. La rievocazione del borgo, con le sue botteghe artigiane quale luogo di incontro, è occasione di memorie e quindi nel progetto sarà inserita una pietra miliare, un unico blocco di pietra non lavorata nello specchio d'acqua che attraversa il complesso della Cascina Chiesa Rossa. Un blocco di pietra sul quale saranno graffiti i nomi di coloro che hanno lasciato un segno incisivo nella storia, come i caduti della Resistenza. VERDE ATTREZZATO AREA RISERVATA AGLI AMBULANTI PARCHEGGI PIAzzA SPECCHIO D'ACQUA EDICOLE O CANTI MONUMENTI ALLA RESISTENZA EDIFICI DA ADIBIRE A MUSEO DELL'UOMO PADIGLIONE DEDICATO A MUSEO DELLA RESISTENZA VERDE ATTREZZATO AREA RISERVATA AGLI AMBULANTI PARCHEGGI PIAzzA SPECCHIO D'ACQUA EDICOLE 0 CANTI MONUMENTI ALLA RESISTENZA EDIFICI DA ADIBIRE A MUSEO DELL'UOMO PADIGLIONE DEDICATO A MUSEO DELLA RESISTENZA

I disegni sono degli studenti Michele Cerminara, Alex Guida, Elena Riganti e Chiara Sanvito. -X- Appendice 1 I MONUMENTI DELLA RESISTENZA A MILANO Con l' intento di documentare le immagini della memoria di Antonia Peruchetti Romagnoli

La ricerca svolta da studenti di alcune classi del Liceo dischiude uno spazio, quello visivo, che concretamente alimenta la riflessione; amplia e rafforza la comprensione della dinamica che lega la Resistenza alle vicende belliche e all'antifascismo, alla riaffermazione di identità e diritti che hanno scosso la storia di allora e sono aperti al presente, trovando un collegamento attivo con l'espressione manifesta dell'opposizione democratica e civile dal '45 in poi. Un modo per riflettere sulla storia della democrazia. Un recupero della memoria storica che passa attraverso la comunicativa e la carica di denuncia delle immagini, l'espressività dell'arte e dei suoi registri realistici o evocativi: è un percorso dialettico di grande impatto emotivo, è un valore aggiunto a comporre la trama della storia e del patrimonio culturale. Molti artisti, infatti, in quegli anni hanno vissuto la lotta, la macchia o sono stati deportati, altri sono stati incarcerati e mandati al confino. La prima parte del lavoro grafico è illustrativa e consiste in una documentazione fotografica di immagini di repertorio storico, di manifesti di guerra e di monumenti eretti dal '45 in poi, a Milano o nelle immediate vicinanze, alla Resistenza e all' antifascismo o alla pace; monumenti dei quali si distingue la qualità artistica, ma che comunicano tutti lo stesso impegno civile o ideologico. Può essere interessante riportare che "la distribuzione dei monumenti sul territorio nazionale tende a rispecchiare abbastanza fedelmente la `geografia' della Resistenza" (da Monumenti della libertà, di Luciano Galmozzi, La Pietra, 1986). La documentazione si completa con foto o riproduzioni di disegni del pittore Aldo Carpi tratte dal suo libro Diario di Gusen, scritto in quel lager dal Natale del '44 al luglio del '45 (il suo primo internamento era stato a Mauthausen); con disegni e poesie di bambini e adolescenti internati nel campo di concentramento di Terezin (località cecoslovacca della Boemia) dal '42 al '44. La seconda parte del lavoro è operativamente diversa: le immagini sono riproposte in forme analogiche e associative; sono elaborate dal punto di vista compositivo con modalità espressive adeguate ai linguaggi e al contenuto. Bibliografia - Tempo di vivere, tempo di morire. Manifesti della guerra italiana '40-45, Ed. Giarrapico Roma - Monumenti alla libertà, di Luciano Galmozzi - Terezin 1942-44. Poesie e disegni dei bambini di Terezin, Ed.Lerici - Diario di Gusen, di Aldo Carpi - La II guerra mondiale. Parlano i protagonisti, di Enzo Biagi (Raccolta del Corriere della Sera) - La Resistenza italiana. Dall' opposizione al fascismo alla lotta popolare, Ed. Mondadori - Rapporto sulla violenza in Lombardia, Ed. Coop. Scrittori (Archivio di Stato) - Catalogo mostra: Sotto le stelle del '44. Storia, arte e cultura dalla guerra alla Liberazione, Ed. Zefiro. Aprile '45. I corpi di Mussolini, della Petacci e di altri gerarchi sono esposti a Milano in piazzale Loreto. Aprile '45. Combattimenti per le strade di Milano nelle giornate di insurrezione. La città cade nelle mani di "Volontari per la libertà" che tengono fino all'arrivo degli alleati. 1947. Quartiere di Gorla, Piazza dei Piccoli Martiri. Il monumento è una cripta-ossario: contiene le spoglie delle vittime del bombardamento compiuto il 20 ottobre '44 dagli Alleati. Muoiono 250 bambini, 2 maestre della scuola elementare di quartiere. Un tragico errore: gli Alleati dovevano colpire lo scalo ferroviario di Greco. I fascisti della Repubblica di Salò sfruttano la tragedia per la loro propaganda. L'opera di Remo Brioschi ha la tipica struttura cimiteriale e il tono è retorico. Milano. Monumento di Giannino Castiglioni eretto sul luogo dell'eccidio. 1960. Stele ai caduti per la libertà,piazza Loreto. Il monumento è dedicato ai 15 antifascisti fucilati per rappresaglia il 10 agosto '44 e lasciati a terra per 24 ore esposti per sgomentare la città così attiva nell'impiegno di lotta. Sulla stele è rappresentato San Sebastiano, simbolo di forza e di resistenza; dietro la stele i nomi dei patrioti e l'epigrafe "Alta: illuminata fronte: caddero nel nome della libertà". 1963. Sesto S. Giovanni, piazza della Resistenza Monumento alla Resistenza di Anna Praxmayer e di Piero Bottoni L'opera è stata inaugurata nel 20° anniversario della Resistenza. La collocazione ambientale e la tematica evocano sentimenti e valori di autentico contenuto ideologico. Alla città di Sesto S. Giovanni nel 1971 è stata conferita la medaglia d' oro al valore militare per l'alto contributo dato alla Liberazione. E' un murale: un'opera popolare che racconta la lotta antifascista dal 1922 alla Liberazione. Si snoda in sequenza la figurazione, date e scritte ricordano gli eventi storici. CARLO RAMOUS - Due monumenti ai caduti di Milano 1985. Quartiere Barona, piazza Miani - Milano L'artista ha eseguito quest'opera nel 1969 intitolandola "Finestra sul cielo". E' stata esposta nel 1973 alla Biennale di Venezia. In seguito è stata acquistata dal Comune di Milano per abbellire i giardini della Galleria d'arte moderna di via Palestro: il 21 aprile 1985 è stata portata in Piazza Miani e dedicata ai caduti per la libertà, libertà evocata da movimenti e tensioni della scultura. 1972. Quartiere Isola, via Sassetti - Milano Il monumento è stato inaugurato il 25 aprile '72. La composizione evoca "...la violenza, il ricordo, la libertà nel vento delle bandiere per affermare un clima di fede nella dignità umana..." (Carlo Ramous). Il quartiere dell' Isola, di vera tradizione proletaria, dedica il monumento ai suoi caduti nella lotta per la liberazione. -XI - Appendice 2 ELABORAZIONI GRAFICHE SUL TEMA DELLA RESISTENZA (a cura di Antonia Peruchetti Romagnoli) "QUI FUMMO TRUCIDATI VITTIME DI UN SACRIFICIO ORRENDO" 25 LUGLIO '43 25 APRILE '45 L'antifascismo ha il suo riferimento etico nella RESISTENZA. ALESSANDRA COSTA CLASSE IV* F reclamiamo i nostri diritti VOCE OPERAIA LIBERTA' LIBERTA' "IL 28 OTTOBRE 1042 E'L'ULTIMO ANNIVERSARIO FASCISTA CHE VEDE MUSSOLINI AL POTERE" XX RAPPRESAGLIE PARTIGIANI VALSESIA RASTRELLAMENTI ECCIDI 1943 - 1045 PARTITO D'AZIONE "Noi combattiamo perché tutti, anche i padroni, anche i nemici, capiscano, dov'é la salvezza",,,

C. PAVESE: LA CASA IN COLLINA CARLOTTA AROSIO 4 E Oggi il mio sangue pulsa ancora, ma i miei compagni mi muoiono accanto. Piuttosto di vederli morire vorrei io stesso trovare la morte. Ma no, mio Dio, noi vogliamo vivere! Non vogliamo vuoti nelle nostre file. Il mondo è nostro e noi lo vogliamo migliore. Vogliamo fare qualcosa. E' vietato morire CASTELLAZZI MORENA 4* F ROGNONE ALESSIA 4* F FUORI I TEDESCHI Avanti! Mussolini fucilato MUSSOLINI LOTTA PER LA RESISTENZAta Invano

Invano giace il derelitto invano si lamenta la sua voce. Forse morirà. E' bello oggi il mondo, vero?

Anonimo -XI- Appendice 3 LETTERATURA E RESITENZA di Francesca Galbusera, Chiara Peyrani,Elisabetta Randolfi e Chiara Sanvito (a cura di Andrea Marino)

I. La drammatica testimonianza dei condannati a morte

1. Premessa

La Resistenza nasce come opposizione al fascismo e dopo l'armistizio continua come lotta al tentativo di riaffermazione del regime fascista. Il tema della Resistenza viene solitamente affrontato con un approccio puramente manualistico, concedendo ampi spazi agli aspetti storico-politici e ideologici, e meno alle sofferenze che tanti uomini hanno patito. In questa analisi prendiamo in considerazione l'agire concreto delle persone comuni che sono i protagonisti reali della lotta partigiana con le loro paure e i loro patimenti, ma nonostante tutto animati da una determinazione incrollabile nel perseguimento dei loro ideali. Particolarmente preziosa in questo senso è stata la lettura delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea ed italiana. Le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea sono state reperite nei paesi belligeranti, ma anche in alcuni paesi che non furono tali, in cui comunque nacquero movimenti antifascisti. Questi ultimi soprattutto tra il 1939 e il 1945 si affiancano come gruppi di lotta clandestina alla guerra ufficiale e finiscono a volte per condizionarla. Con questo lavoro ci proponiamo di mettere in evidenza la vasta gamma di sentimenti di quanti, impegnati nella lotta partigiana a difendere i valori di libertà, di liberazione dall'oppressione nazifascista, si sono accostati alla morte, alla quale erano stati condannati dai tribunali del regime. Nelle raccolte di lettere dei condannati a morte sono riuniti gli estremi messaggi che patrioti e partigiani italiani e europei hanno scritto, dopo essere stati catturati, con la consapevolezza di essere giunti alla fine della loro vita. Per quanto riguarda le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (1) le lettere dei 112 condannati sono state scelte per documentare nel miglior modo possibile le esperienze di individui appartenenti a classi sociali diverse, catturati e uccisi nei luoghi e nelle situazioni più varie. Ogni lettera è corredata da una breve nota biografica che riassurne gli elementi essenziali dell'attività svolta all'interno del movimento clandestino, le condizioni di cattura e di uccisione dell'autore della lettera stessa. A volte vengono anche indicate le condizione di ritrovamento di queste testimonianze. Tutte le informazioni utili alla composizione delle biografie sono state ricavate da testi o documenti di archivio oppure da notizie ricevute da famigliari e compagni dei caduti. Dalle note biografiche è possibile constatare quanto diverse siano le estrazioni sociali dei condannati: si incontrano operai, contadini, meccanici, artigiani, impiegati, impiegati, ma anche ufficiali (tenenti dell'Arma dei Carabinieri come Luigi Bonc), studenti e docenti universitari. Tra i 112 caduti solo quattro sono donne, mentre i giovani sotto i venti anni sono molto numerosi. Come varie sono le professioni così sono anche le città natali: infatti i partigiani accorrevano per fornire il proprio contributo alle zone direttamente coinvolte nella Resistenza anche da centri come Roma, Ragusa, Agrigento, Cagliari, Sassari, Napoli e addirittura dalla Svizzera. La maggior parte dei condannati a morte svolgeva la propria attività clandestina all'interno dei GAP, dei SAP e dei CLN delle proprie regioni. Infatti molti furono catturati mentre partecipavano a riunioni di queste associazioni che generalmente si svolgevano a casa di conoscenti o spesso nelle sagrestie delle chiese; altri, invece, durante combattimenti o nel corso di missioni a loro affidate o addirittura sul posto di lavoro. Queste catture erano possibili grazie alla denuncia di delatori oppure attraverso rastrellamento effettuati da reparti tedeschi o fascisti; talvolta anche questi ultimi vivevano con una tale tensione da rendere vittime delle loro retate anche persone che erano estranee al movimento partigiano. E' il caso di Giuseppe Bianchetti che, dopo aver aiutato un militare tedesco prigioniero e ferito, fu in seguito riconosciuto da questi e tratto in arresto. Una volta catturati, i partigiani o erano fucilati immediatamente oppure venivano condotti in carcere dove molto frequentemente subivano crudeli torture. Antonio Fossati descrive in questo modo gli strumenti utilizzati dai suoi carcerieri per estorcergli i nomi dei suoi compagni ed informazioni sulla loro attività: "Il giorno 31 mi fu fatto la prima tortura ed è questo mi hanno strappato le ciglia e le sopraciglia. Il giorno 1 la mia seconda tortura 'mi hanno strappato le unghie,le unghie delle mani e dei piedi e mi hanno messo al sole che non puoi immaginare, ma portavo pazienza e dalla mia bocca non usciva parola di lamento'. Il giorno 2 la terza tortura 'mi hanno messi ai piedi delle candele accese ed io mi trovai legato su una sedia mi son venuti i capelli grigi ma non ho parlato ed è passato'. Il giorno 4 fui portato in una sala dove c'era un tavolo sul quale mi hanno teso in un laccio al collo per dieci minuti la corrente.."(2). In ogni caso le condizioni in cui erano tenuti prigionieri erano per tutti disumane; Sabato Martelli Castaldi testimonia attraverso i biglietti da lui inviati clandestinamente alla moglie la sua terribile situazione: "La mia camera è di m. 1,30 per 2,60. Siamo in due, non vi è altra luce che quella riflessa da una lampadina elettrica del corridoio antistante, accesa tutto il giorno. Il fisico comincia ad andare veramente giù e questa settimana di denutrizioni ha dato il colpo di grazia. Il trattamento fattomi non è stato davvero da `gentleman'. Definito `delinquente' sono stato minacciato di fucilazione e percosso, come del resto è abitudine di questa casa: botte a volontà "(3). Nonostante tutto ciò, solo un numero ristretto cedeva tradendo i compagni. Il passaggio dalla tortura alla morte avveniva quasi sempre rapidamente senza alcun rispetto per i diritti inalienabili dell'uomo e per la sua dignità. Infatti gli individui venivano condannati con processi sommari o addirittura del tutto inesistenti e perciò di frequente non era loro concesso neanche il tempo di scrivere un ultimo messaggio da inviare alla famiglia. A questo fine, non avendo altra possibilità, usavano chiodi, lame o addirittura il sangue per lasciare traccia dei loro ultimi pensieri su muri e porte delle celle. Fu anche ritrovata una pagnotta su cui era scritto "coraggio mamma"(4). Quando, invece, riuscivano a scrivere una lettera spesso la inviavano ai famigliari affidandola a dei latori clandestini; nel caso fossero consegnate ai carcerieri, senza smentire la loro già nota crudeltà, questi le stracciavano sotto gli occhi dei parenti accorsi al carcere alla notizia della morte dei loro cari. A volte questi ultimi messaggi di vita venivano sottoposti a una dura censura, come nel caso di Andrea Luigi Paglieri che, da quanto si riesce a scorgere al disotto del rigo nero, afferma di essere costretto a scrivere con le manette. La maggior parte dei testi, però, fu rinvenuta o tra gli effetti personali, quali le pagine di diario e i portafogli, oppure nascosti nelle fessure dei muri e tra i calcinacci delle pareti delle celle. Anche una volta conosciuta la loro condanna i partigiani continuavano a dimostrare il loro coraggio, tant'è vero che nessuno di loro fu debole, svenne o implorò, nonostante i metodi di esecuzione fossero terribili: i più comuni erano la fucilazione e l'impiccagione eseguite nelle piazze, nei cimiteri e nei cortili delle scuole. Generalmente queste dovevano servire da monito per tutta la popolazione che avrebbe dovuto esserne intimorita, ma che invece a volte era stimolata alla azione. Per quanto riguarda le Lettere dei condannai a morte della Resistenza europea (5) le lettere sono state raccolte grazie alla collaborazione di associazioni, deportati politici, organizzazioni politiche ed assistenziali, direttori di archivi, centri di documentazione di Istituti e biblioteche specializzate, cappellani di carceri, esponenti della Resistenza, familiari di caduti ed editori. Sono stati esclusi testi in versi scritti con intenzioni letterarie. La ricerca è stata compiuta prevalentemente tra il 1951 ed il 1952 ed è stata più volte ripresa negli anni 1961-62. Le lettere sono state suddivise per paesi, in base all'area d'azione dei singoli autori e non in base alla loro nazionalità; inoltre sono state disposte in ordine cronologico secondo la data di morte di chi scrisse; sugli autori sono stati ricercati dati biografici. La traduzione dei testi è avvenuta generalmente in Italia. Esse comprendono qualsiasi messaggio scritto di chi sentiva che sarebbe stato ucciso da mano fascista, e di chi fu vittima della persecuzione fascista e non semplicemente della guerra. Rispetto al grande numero di vittime, solo pochi condannati, quanti erano prigionieri dei fascisti, riuscirono a lasciare un messaggio scritto; spesso, infatti, o erano impediti dalla volontà degli aguzzini o non disponevano dei mezzi necessari, anzi, nella grandissima maggioranza, molti partigiani furono uccisi sul luogo della cattura. In ogni caso, anche se alcuni ebbero a disposizione del tempo prima di essere giustiziati, pochi tra questi riuscirono a lasciare un estremo saluto spesso affidato al cappellano del carcere, unico a godere di una certa immunità, o nascosto, nella speranza che qualcuno lo ritrovasse. Questa esigenza di scrivere prima di essere giustiziati, per calutare se non direttamente almeno un'ultima volta i propri cari, era sentita dalla maggior parte dei condannati, anche se interi gruppi non lo fecero (si pensa che ciò non sia da attribuire ad una scelta autonoma, ma ad un'imposizione dettata dal regime che risultò un'esplicita violenza psicologica). I condannati erano uomini e donne di diversa estrazione sociale: contadini, studenti, operai, artigiani, scrittori, parroci, ingegneri e così via. Alcuni rimasero ignoti ed i loro messaggi non furono che iscrizioni ritrovate sui muri delle celle. Diversi partigiani furono catturati in gruppo durante le azioni, altri singolarmente; chi non veniva ucciso sul posto veniva tradotto in carcere; i più fortunati venivano condannati a morte dopo la sentenza di un tribunale che comunque veniva pilotata dal regime. Solo coloro che decidevano di collaborare potevano sperare di ricevere la grazia, ma molti erano disposti a subire innumerevoli torture in nome dei propri ideali e per non tradire la fiducia dei loro compagni. Tra essi non mancavano addirittura giovanissimi come il russo Jasa Gordienko di sedici o diciassette anni che, nonostante la giovane età, sentiva intensamente la causa patriottica e dimostrava già di avere un forte carattere. Egli,infatti, scrive: "[...] Durante gli interrogatori sono rimasto sereno. Negavo tutto. Mi hanno portato per essere picchiato. Tre volte mi ci hanno portato e mi hanno picchiato per 4-5 ore. Alle tre e mezzo hanno smesso di picchiarmi. Nel frattempo ho perso la memoria tre volte e una volta ho fatto finta di aver perso conoscenza. Mi hanno picchiato con una gomma avvolta con un sottile filo di ferro ritorto; con un bastone uncinato lungo un metro e mezzo; sui tendini delle mani con una verga di ferro... Dopo queste percosse mi sono rimaste cicatrici sulle gambe e più in alto. Dopo queste percosse ho cominciato a perdere l'udito. Quelli che si trovavano normalmente nel mio gruppo circolano in libertà, nessuna tortura mi ha estorto i loro nomi. [...]" (6). E ancora una dimostrazione di quanto queste torture fossero atroci viene dalla lettera dello jugoslavo Franc Mernik: "Cara moglie, tu non sai come ci torturano. Ci spengono sul petto nudo le sigarette accese, e, di giorno in giorno, quando ci sono gli interrogatori, ci tirano la pelle con tenaglie arroventate, ci mettono le dita sui ferri arroventati o ci estraggono le unghie dalle dita. Sono sofferenze terribili... [...]" (7).

2. I temi

Le lettere dei condannati presentano molti punti comuni proprio dal momento che il loro unico scopo era quello di comunicare alle famiglie un ultimo saluto e le estreme volontà. Nonostante i mittenti provenissero dalle classi sociali più disparate e anche le loro età fossero le più diverse avevano tutti la medesima preoccupazione. Le lettere erano indirizzate ai parenti più stretti e in particolar modo alla madre, alla moglie o alla fidanzata e ai figli a cui si rivolgevano con toni affettuosi e rassicuranti; ma non mancano quelle per gli amici e per i cornpagni che avevano un carattere più propriamente politico. Da tutti i messaggi emerge la consapevolezza della prossima morte. Sono ricorrenti alcuni temi: la tenacia con la quale, anche dopo la condanna, questi uomini credevano ancora nei propri ideali, i rimproveri contro se stessi per il dolore causato ai propri cari, la fierezza del proprio coraggio e della propria forza di carattere, i pensieri sulla morte e su ciò che sarà dopo la morte. Le lettere dei condannati italiani ed europei diventano lo spazio per esprimere ai parenti e agli amici tutta la gratitudine per il bene ricevuto e il rammarico per le sofferenze arrecate. Nella solitaria attesa dell'esecuzione i condannati non pensano solo a se stessi e a come hanno condotto la propria vita: allora si preoccupano di essere causa di dolore per coloro che amano e arrivano a chiedere loro perdono. Così, infatti, Valerio Bavassano si rivolge alla madre: "Mammina cara,il destino continua ad essere crudele con te.[...] Ti sia di conforto il pensiero che io sarò forte fino all'ultimo.[...] L'unica grande spina del mio cuore è il sapere che tu e Milli resterete sole al mondo.[...] Perdonami, mammina, se ti cagiono questo grande dolore. "(8). Ma sono anche frequenti le esortazioni accorate "siate forti", "fatevi coraggio" ed altre rivolte ai parenti, come nella lettera scritta da Louis Defour alla moglie: "[...] Che colpo per te! Su, sii coraggiosa, ti abbraccio con tutto il cuore. [...] Sii coraggiosa, cara, e che il gran dolore non ti abbatta. [...] Mia moglie amata, sto per dirti addio. Coraggio cara! [...] In nome del nostro amore, abbi coraggio. [...] Da parte tua, sii coraggiosa! [...]" (9). Emergono, a un veloce sguardo, molteplici comportamenti, sia dei condannati italiani che di altre nazionalità, nei confronti di parenti destinatari delle lettere, tutti comunque rivelatori di un comune stato d'animo: ciò che turbava maggiormente la loro serenità al momento della morte era un'intensa preoccupazione verso coloro che sarebbero rimasti ad affrontare le difficoltà della lotta e che avrebbero dovuto cercare in se stessi la forza e il coraggio di continuare a vivere. Qualcuno rassicura i familiari che pur trovandosi prossimo alla morte non stava soffrendo: così scrive Albino Albico, un operaio fonditore fucilato in via Tibaldi 26 a Milano: "[...] mi trovo senz'altro a breve distanza dalla esecuzione. Mi sento però calmo e muoio sereno e con l'animo tranquillo [...]"(10). Queste frasi servivano come consolazione e incoraggiamento. ma altri partigiani sceglievano di non comunicare la loro situazione come Benedetto Bocchiola che poche ore prima della fucilazione, quando già era a conoscenza della sua sorte,decise di scrivere ai parenti: "[...] vi scrivo queste poche righe per farvi sapere che la mia salute è ottima come spero sia anche la vostra, non pensate per me perché io sto bene. Se non riceverete mie notizie non allarmatevi [...]"(11). Oltre alle comunicazioni di carattere affettivo e patriottico, non mancano brevi stralci conclusivi che svolgono la funzione di testamento. Tutti i condannati, dai più ai meno abbienti, si preoccupavano che i loro averi venissero legalmente ripartiti tra gli eredi. Alfredo Formenti decise di affidare la sua fortuna interamente alla moglie: "Lascio alla mia cara moglie n. 1 anello d'oro con diamanti n. 1 anello bianco con pietra bianca n. 1 catena d'oro con ciondolo (5 dollari) n. 1 orologio d'argento con mie iniziali. La somma di L. 10.370 (L. 5.000 già ritirate)."(12). Quinto Bevilacqua, al contrario. manifestava a questo modo la sua profonda volontà che i suoi possedimenti rimanessero assegnati alla moglie anche se questo avrebbe potuto contrastare la legge: "P.S. Questo serve come testamento. La roba mia che si trova ora in casa di Marcella per nessun motivo le venga mai presa neanche per mezzo della legge. Non scrivo questo per diffidare ma siccome qui in Piemonte le usanze sono che in mancanza di un coniuge i familiari se vogliono possono prenderle tutto."(13). In molte lettere gli estensori si raccomandano che persone fidate si prendessero cura dei loro cari e sovente esortano ad essere orgogliosi delle loro azioni, compiute per una giusta causa. Tutti i condannati erano fermamente convinti di trovarsi dalla parte del giusto morendo innocenti per un'alta causa e certi che la loro vita non fosse sacrificata inutilmente. Infatti il loro comportamento di fronte alla condanna, ingiusta e inferta solo a causa della loro ideologia, li avrebbe portati alla gloria e morendo felici per la patria avrebbero incitato altri a seguire le loro tracce. In una lettera di un ignoto (Renzo) è anche testimoniata una richiesta di vendetta che non è difficile ritrovare ali'interno di altri messaggi: "Muoio da eroe e non da vile, muoio per la mia cara Italia che ho sempre adorato, muoio e nel più estremo dei miei momenti di vita terrena grido vendetta per il mio sangue sparso così innocentemente."(14). Non mancano anche gli ultimi gridi disperati e speranzosi come "W l'Italia martoriata che presto rifiorirà libera e indipendente."(15), rivolti alla patria oppure al partito di appartenenza: "Parenti cari consolatevi, muoio per una grande idea di giustizia... Il Comunismo!!"(16). Si possono prendere ad esempio alcune lettere di condannati in cui emerge quella costanza tipica di chi ha creduto fermamente in ciò che faceva, e nell'attesa dell'esecuzione si aggrappa ai propri ideali per sopportare le ultime e più atroci sofferenze. Scrive ad esempio il bulgaro Dobrev: "[...] Fra lo strepito delle esplosioni e le lacrime di milioni di uomini nasce una nuova vita, più bella e più buona. Ogni giorno, ogni momento io l'ho desiderata e ho dato per essa la maggiore offerta offerta che un uomo può dare: la sua vita. Ti ho detto che desidero che tu sia orgoglioso di avere un fratello così. Non c'è posto per le lacrime. Sono orgoglioso di morire come uno che ha combattuto per il suo popolo. Nella mia vita non ho avuto paura della morte; e morirò adesso orgoglioso e senza timore. [...] Questa è l'ultima mia lettera che leggerai. Ti ho detto che muoio fiero, con la piena coscienza di aver agito non per mio vantaggio, ma per il bene comune; mi sono avviato per la via diritta, per la via larga, luminosa, per la quale sono passati con passo risoluto milioni di combattenti. [...] lo desidero, fratello caro,che tu accolga con fierezza la mia morte. So che ti sarà difficile, ma la vita e i giorni uccideranno il dolore. Rimarrà solo il ricordo della mia bella fine. [...]" (17); e ancora scrive Avgust Dimcev:" Cari genitori e fratelli, vi scrivo l'ultima mia lettera prima di morire. Ieri sera abbiamo detto l'ultima parola. Io affronterò la morte tranquillo e fiero, con la coscienza di un dovere compiuto con onore sino alla fine, nel nome di una causa cui ho dato tutta la mia vita cosciente. Questa causa io la vedo realizzata nella grande patria del socialismo. Là io ho trascorso gli anni più felici della mia vita. Là ho potuto convincermi che questa è davvero una causa grande, gloriosa, e un avvenire felice per tutta l'umanità. Per essa un uomo può morire tranquillo; noi piccoli e sconosciuti combattenti, avvicinandoci ad essa, diventiamo nobili e grandi. [...]" (18). La morte in genere non spaventa, ma alcuni non riescono a capacitarsi della crudeltà della condanna, e ciò che fa più soffrire è la consapevolezza di non rivedere i propri cari. Ivan Vladkov nella solitudine della sua cella scrive: "L'unico desiderio che ho è di vivere. Qualcosa ti soffoca, ti porta via, ti toglie lentamente la coscienza; lo spazio della cella diventa stretto,la cella sembra senz'aria. Eppure, avere tanto desiderio di vivere! E il bambino! Caro il mio figliolo, che fin da adesso sente la mancanza del suo papà. [...] Ma questi che ci hanno condannato a morte non hanno forse bambini? Non capiscono gli errori, non hanno compassione? Certo per se stessi trovano sempre una giustificazione, ma quando, se non altro per i nostri figli, dovrebbero mitigare la condanna, essi dicono che la legge non lo permette. Che sciocchezze! Ma forse non sentono un amore altrettanto forte per i propri figli? Perché, se non lo sentissero, agirebbero in altra maniera." (19). Di fronte alla morte è quasi inevitabile riflettere sul suo significato, su ciò che sarà dopo di essa; il tema della fede emerge, allora, da numerose lettere, naturalmente in modo diverso a seconda che lo affronti un cattolico o un laico. Per rincuorare maggiormente i propri cari, molti partigiani esprimono la convinzione che la condanna e la loro morte fossero opera della volontà divina e desiderano rimarcare l'importanza del loro sicuro futuro in cielo assieme ai giusti. Leandro Corona è in grado di fissare con estrema chiarezza questi concetti: "...vi voglio scrivere per confortarvi e assicurarvi che ho accettato ogni cosa dalle mani del Signore. [...]Per me non piangete che sono sicuro che il buon Dio accetterà il mio sacrificio ed ora mi trovo contento di unirmi a Lui. [...] per me non vi angustiate non piangete mi fareste dispiacere perché sono rassegnato alla volontà del Signore."(20). La maggior parte dei condannati richiedeva la presenza di un prete per potersi confessare e comunicare; ritenevano infatti che fosse importante morire spiritualmente puri rimanendo fedeli a quei principi cristiani che li avevano accompagnati nel corso della loro esistenza. Informando la famiglia di questi ultimi gesti ancora una volta li rassicuravano riguardo al destino futuro del proprio congiunto. Mario Lossani esprime questo con una frase sintetica: "E'la fine, c'è il Prete che mi confessa e faccio la Comunione. Addio." (21). Molte testimonianze fanno discendere l'impegno nella lotta contro la violenza fascista dalla fede cattolica,altre testimonianze rivelano un rafforzamento della fede nel momento di maggiore sofferenza. Scrive il parroco Joseph Peeters: "Il patriottismo è una virtù cristiana. Ho fatto il mio dovere di patriota come sacerdote, per amore di Dio. [...] Miei cari parrocchiani, vi lascio per questa vita terrena." (22); e il sacerdote Josef Jilek ricorda: "[...] lo sono già a posto con tutto e non temo, poiché sono vicino a Dio. Perciò anche voi siate coraggiosi e tutte le vostre attenzioni dedicatele a Dio il quale si cura paternamente di tutti noi e tutte le strade per le quali Egli ci conduce sono strade dell'amore e della grazia infinita." (23). Ancora più profondi sono i pensieri della gente comune, che esprime la propria religiosità cattolica attraverso i propri sentimenti; alcuni, come Emil Balslev, arrivano a rafforzare la propria fede nei disperati momenti di prigionia; infatti egli dichiara: "[...] Durante la permanenza in prigione sono giunto a credere ciecamente in Dio e nella Sua Sapienza e Misericordia. Oggi ci è forse difficile trovare una risposta alla domanda: 'perché?', ma ti prego di ricordarti: `Tutte le cose collaborano a beneficio di chi ama Iddio' [...] Amata mia, abbi fiducia in Dio e nella Sua Giustizia. [...] Credo che ci incontreremo presso il Signore per non separarci mai più. Ho avuto la gioia di passare gli ultimi 8 giorni con un essere credente che mi ha assai aiutato in questi giorni difficili. Tu devi vivere ricevendo gli eventi futuri dalla mano di Dio. Affidati ' Dio e insegna ai nostri bimbi a cercarLo e a vivere con Lui." (24). Tra i non credenti, invece, è diffusa l'idea di una certa spiritualità dopo la morte, e molti si consolano pensando di essere vicini al ricongiungimento più alto con i loro amati che saranno per sempre accanto a loro, in ogni luogo ed in ogni istante, come se si trasformassero nell'aria che li circonda, come se potessero essere riconosciuti in ogni oggetto che i loro cari guarderanno.

3. Valore storico e letterario

Nell'ambito di un lavoro riguardante la Resistenza europea ed in particolare italiana, le lettere dei condannati a morte svolgono l'importante ruolo di documento prodotto direttamente dai reali protagonisti coinvolti nell'azione antifascista. Ci si trova, perciò, di fronte a fonti storiografiche che fotografano da un'angolazione particolare il complesso movimento di opposizione. Infatti trattandosi di messaggi personali e pertanto soggettivi ogni autore si trova a descrivere la realtà in cui è immerso attraverso le proprie emozioni e gli ultimi pensieri,che benché riflettano tematiche comuni conservano la loro unicità derivante dall'esperienza di ciascun individuo. La modalità di stesura delle lettere rispecchia l'eterogeneità degli autori. E'possibile infatti notare che coloro che possedevano un'ampia cultura (come studenti, universitari, docenti e ufficiali militari) spesso incontravano notevoli difficoltà nel comunicare i propri stati d'animo con parole adeguate. Eusebio Giambone si rivolge alla moglie in questo modo: "[...] le cose che vorrei dirti sono tante che non so dove cominciare, nella mia testa vi è una ridda di pensieri che potrei esprimerti bene solo a voce, pur essendo calmo, cercherò di coordinare per esprimerti esattamente tutto ciò che penso e il mio vero stato d'animo in questo momento."(25). Queste persone, in genere, scrivono lettere lunghe e con un lessico complesso: ne offre un esempio la lettera di Franco Balbis: "La Divina Provvidenza non ha concesso che io offrissi all'Italia sui campi d'Africa quella vita che ho dedicato alla Patria il giorno in cui vestii per la prima volta il grigioverde. Iddio mi permette oggi di dare l'olocausto supremo di tutto me stesso all'Italia ed io ne sono lieto, orgoglioso e felice!"(26). Talvolta i partigiani decidevano di lasciare messaggi poetici sui muri delle celle; il componimento di Sabato Martelli Castaldi è particolarmente significativo: "Quando il tuo corpo non sarà più, il tuo spirito sarà ancora più vivo nel ricordo di chi resta - Fa che possa essere sempre di esempio."(27). La maggior parte dei condannati, però, possedeva un istruzione elementare; da ciò consegue che le lettere fossero brevi ed essenziali e talvolta non corrette dal punto di vista grammaticale: questo risulta particolarmente evidente nella breve lettera di Domenico Caporossi: "Cara Mamma; vado a morire, ma da partigiano, col sorriso sulle labre ed una fede nel cuore. Non star malinconica io muoio contento. Saluti amici e parenti, ed un forte abraccio e bacioni alla piccolo Imperio e Ileno e il Caro Papa, e nonna e nonno e di ricordarsene e sempre. Ciau Vostro figlio Domenico."(28). Ci sono casi isolati di biglietti scritti in lingue straniere, come nel caso di Alessandro Loggia che stende il suo messaggio per i genitori in francese. Ancora più particolare è lo stratagemma utilizzato da Simon Simonia che invia notizie di sè alla famiglia attraverso un testo cifrato: "Simon Simonia - cella - dodici - Giuseppe - Ferrai - due. - Sono - malmenato - soffro - con - orgoglio - il - mio - pensiero - alla - patria - e - alla - famiglia." (29).

4. Conclusioni

Thomas Mann, nella sua prefazione, propone una riflessione estremamente puntuale sull'importanza, per questi condannati di credere nel futuro, o meglio in un futuro migliore; essi sperano, anzi molti sono convinti, che il loro sacrificio non finisca nel nulla, ma serva a costruire almeno le premesse per quel futuro che ormai non è più per se stessi, ma per i loro figli e più in generale per l'umanità intera. Scrive, infatti, Rudolf Seiffert: "[...] si affacciano tempi grandiosi. Una nuova èra della storia sta per irrompere sull'Europa. La conseguenza della guerra, che porta a una nuova ripartizione del mondo, è il socialismo. La Germania vuole difendersi da una necessità storica. [...] Da un sistema brutale che si oppone al progresso con tutte le sue forze. Da un sistema che non stimava la vita umana ma solo le leggi del profitto. Quando i nostri figli saranno più grandi e in grado di pensare da soli, capiranno che il mio sacrificio non sarà stato vano. Quando le bandiere del proletariato vittorioso sventoleranno sulla Germania, allora il passo verso il socialismo sarà una realtà, e il passo non è più lontano. I nostri figli potranno poi costruire un mondo quale il loro padre aveva immaginato nella lotta. E anche questa sarà una dura lotta, dalla dittatura del proletariato all'ordinamento socialista della società. E' il più grande compito che mai si sia posto alla umanità. Che cos'è la vita di un uomo di fronte al raggiungimento di un fine così grandioso?" (30). Indipendentemente dalle idee politiche di ognuno Thomas Mann riflette sul tempo tempo presente, lo descrive come "un mondo di perfida regressione, in cui un odio superstizioso e avido di persecuzione si accoppia la terror panico; un mondo alla cui insufficienza intellettuale e morale il destino ha affidato armi distruttive di raccapricciante violenza" (31), e si pone la domanda se la lotta della Resistenza europea sia stata vana. Noi pensiamo fermamente che non lo sia stata, anche se corriamo il rischio di dimenticarne la lezione o, cosa molto più grave, di tradirne negli atteggiamenti individuali e/o collettivi, il grande insegnamento. Confidiamo, comunque, che soprattutto in noi, nuove generazioni, la memoria di quella esperienza in nome della libertà, della giustizia, della solidarietà rimanga sempre viva ed attuale e ci orienti verso comportamenti, soprattutto sociali, improntati ai grandi valori di rispetto del-la dignità dell'uomo, di pacifica convivenza nazionale ed internazionale, insomma alla volontà di rendere la nostra realtà sempre migliore. Questo hanno fatto i combattenti della Resistenza, che non è stata una lotta individuale, ma di massa, i cui partecipanti, adulti peraltro, erano consapevoli che avrebbero potuto non godere dei risultati del loro impegno. Per questo non solo è da guardare con ammirazione al loro sacrificio, ma bisogna, al di là di ogni cultura e di ogni fede, sapere conservare gelosamente il loro messaggio di condanna di ogni fenomeno, sociale e politico, che si fonda sulla violenza e sulla prevaricazione, e di avversione di ogni estremismo che direttamente o indirettamente calpesti i diritti dell'uomo, la sua dignità, e che soffochi ogni tentativo di costruzione di un mondo migliore, libero e giusto.

II. La Resistenza nella letteratura: due esempi

1 Introduzione

Per qunto riguarda l'esperienza resistenziale si registra una duplice produzione letteraria, duplice non tanto per la diversa forma, quanto per le diverse finalità. Si può parlare così di letteratura di Resistenza e letteratura della Resistenza, anche se - ormai è un dato acquisito fra gli studiosi e dei più recenti manuali di letteratura - le opere letterarie che hanno adottato la Resistenza o situazioni esistenziali e sociali ad essa riferibili a loro oggetto di rappresentazione non definiscono più un capitolo apposito di storia letteraria, ma si inseriscono nel più articolato sistema dei generi in base a valutazioni di natura formale e strutturale, oltre che tematica. Il primo tipo di produzione, composto durante la lotta armata e costituito da opuscoli politici clandestini, diari, cronache, canti di protesta, lettere di condannati o di deportati, offre testimonianze dirette e spesso drammatiche, che assumono un alto valore storico documentario, ma non sempre una vera dignità letteraria (32). Accanto a questa attività, che si potrebbe definire militante, é presente la vera e propria letteratura della Resistenza, sviluppatasi dopo il 1945 in Italia, e caratterizzata da una produzione più ampia, non collocabile, pertanto, in un periodo ben definito, come per la letteratura di Resistenza, e che tende, come è specifico di ogni fatto letterario, a ricondurre anche la vicenda della Resistenza ali'interno di una più complessa modellizzazione simbolica. Si può comunque legittimamente ritenere che questo tipo di letteratura nasce dalla "immediatezza di comunicazione che si stabilisce fra lo scrittore e il suo pubblico" (33) e dalla "smania di raccontare" (34) di quanti avessero vissuto in prima persona quel periodo; infatti "chi cominciò a scrivere si trovò a trattare la medesima materia dell'anonimo narratore orale" (35). 2. Renata Viganò, L'Agnese va a morire, Einaudi, Torino 1994

a) Trama

Il libro narra la "vita partigiana" di Agnese, una donna di mezza età, semplice e poco istruita. Dopo una giornata di lavoro al lavatoio, Agnese incontra un giovane soldato e lo invita, mossa da compassione, a trascorrere alcuni giorni nella sua casa, prima di riprendere il viaggio che lo porterà dai suoi familiari. Ma i tedeschi, venuti a conoscenza della presenza di questo "disertore", durante un rastrellamento portano via Palita, marito di Agnese. Disperata per questa perdita, Agnese accetta l'invito ad impegnarsi nella lotta partigiana come staffetta. Grazie a tale incarico, scopre questo "movimento" clandestino, che fino a poco tempo prima non conosceva, se non attraverso i discorsi di suo marito, e di cui non comprendeva l'importanza. Purtroppo un giorno uno degli uomini che erano stati presi dai tedeschi insieme a Palita le porta la triste notizia della morte di suo marito. Da questo momento in poi il suo impegno nella lotta partigiana crescerà insieme all'odio nei confronti dei tedeschi, che le avevano tolto il suo amato compagno. Questo odio trova in parte sfogo quando uccide il tedesco, che precedentemente aveva sparato alla sua gatta. Per non essere scoperta, Agnese é costretta a scappare dal suo paese e a raggiungere i "ragazzi", ai quali fino ad allora aveva portato solo rifornimenti. Inizia così per lei la vera e propria "attività" partigiana: infatti, spostatasi con i partigiani in un luogo più sicuro, le viene assegnato il compito di governare la cucina. Questo rimane il suo unico incarico, oltre a quello, naturalmente, di sostenere e confortare i suoi compagni, fino a quando, per paura di essere scoperti, i partigiani decidono di abbandonare la loro "base". Così Agnese e Rina, una giovane ragazza moglie di uno dei "ragazzi", non potendoli seguire, vengono mandate da Walter, una delle persone che organizzano il lavoro delle staffette, e qui riprendono questo incarico. Pure questo tipo di contributo alla lotta, anche se non comporta una vera e propria partecipazione, espone a gravi pericoli: infatti Walter ed altri uomini vengono catturati e torturati dai tedeschi. La "risposta" partigiana non si fa attendere: dopo pochi giorni una loro spedizione riesce a liberare i prigionieri e ad uccidere tutti i tedeschi responsabili. Agnese intanto si trasferisce, insieme al "comandante" e a Clinto, in una rimessa della casa di contadini, dove le vengono assegnate tutte le mansioni che aveva assunto separatamente fino a quel momento: diventa cuoca, responsabile delle staffette e copertura per i partigiani che, di volta in volta, si nascondevano in quella casa. Successivamente si sposta nuovamente, da sola, dal fabbro Magon: ma, mentre sta svolgendo il suo compito di staffetta, viene catturata dai tedeschi insieme ad altri civili. Vengono liberati, dopo qualche giorno, tutti tranne lei che, riconosciuta dai compagni del tedesco che aveva ucciso per la morte della gatta, viene uccisa.

b) Rapporto tra storia e finzione

Nel libro il rapporto tra storia e finzione va individuato su due distinti livelli di analisi. Per quanto riguarda il primo, come afferma la stessa autrice, il libro é basato sulla storia di una donna realmente esistita. L autrice non solo ha avuta l'occasione di conoscere questa donna, ma anche di condividere con lei l'esperienza della Resistenza; pertanto le vicende narrate riassumono un po' tutti i momenti che l'autrice e la donna, che nel libro viene chiamata Agnese, hanno vissuto. La loro esperienzaa diventa paradigmatica anche per un altro forte elemento che le accomuna: il dolore per l'assenza (temporanea per l'autrice) del marito, dolore che agisce da stimolo a un maggiore coinvolgimento nella lotta, cosi come appunto afferma la stessa autrice: "Il dispiacere bisognava farlo diventare piccolo, che stesse nello spazio di un cuore, di fuori non c'era posto, perché dei dispiaceri ne avevamo tutti. Piuttosto lavorare più forte; almeno quella sparizione di uno servisse a qualche cosa per gli altri, non portasse agli altri un danno troppo grande."(36). Così avviene che le vicende di Agnese e dell'autrice si confondono diventando un tutt'uno, ed esemplificano non la storia di due, ma di tutte le donne, che hanno avuto un ruolo attivo e fondamentale nella Resistenza. Ma così come si intrecciano le vicende delle due donne, si combinano anche storia e finzione. La finzione, che pure non contraddice l'affermazione dell'autrice che "tutto esiste"(37), orienta la costruzione "oggettiva", ma non fondata sulla veridicità storica, del sistema dei personaggi e la ricostruzione dei luoghi e degli spazi, e questo "per avere moto più libero nell'acqua corrente del racconto" (38).

c) Valore testimoniale

Il romanzo rappresenta una importante testimonianza della lotta partigiana vissuta da una donna: esso, pertanto, può essere considerato come narrazione non solo delle imprese eroiche dei partigiani, ma anche della presenza e partecipazione femminile al movimento di libérazione. Questa partecipazione era naturalmente meno esposta ai pericoli della lotta vera e propria, ma altrettanto importante e fondamentale. Per quanto riguarda Agnese, parte da un atteggiamento passivo: infatti quando i compagni del marito vanno a trovarla e le propongono di partecipare alla lotta clandestina, afferma: "Erano cose da uomini, io non ci badavo"(39), dimostrando di non preoccuparsi di questo "movimento"; ma, allo stesso tempo, avverte un sentimento che definiva come "un odio adulto, composto ma spietato, verso i tedeschi che facevano da padroni,verso i fascisti servi, nemici essi stessi tra loro e nemici uniti contro povere vite come la sua, di fatica,inermi, indifese."(40). Gradualmente arriva ad un impegno sempre più attivo e importante, cioè nasce in lei il desiderio di essere utile a qualcuno, di lottare contro chi le aveva tolto tutto: "lo non capisco niente, ma quel che c'é da fare si fa."(41). Alla fine "consacra" tutta la sua vita alla lotta clandestina fino alla sua morte, inaspettata per il lettore (ma già preannunciata dal titolo), ma inevitabile e da lei attesa, forse anche come un sollievo perché, avendo perso tutto, dopo la fine della guerra, avrebbe considerato la sua vita ormai inutile. Agnese agisce in ogni caso, e soprattutto alla fine del libro, con forte convinzione, con la stessa forza e coraggio che animavano tutte le persone coinvolte nella lotta clandestina. In questo modo viene ricordata dall'autrice: "Lei che risultava sempre presente, che non mancava mai a nessuna chiamata"(42). Questo romanzo oltre ad essere una testimonianza della partecipazione femminile presenta anche delle considerazione sulla guerra e sul movimento di Resistenza, considerazioni nelle quali, forse, ogni persona coinvolta nella guerra si può riconoscere. Ma, accanto a queste considerazioni sulla Resistenza, sono presenti, in minor misura, anche alcuni momenti in cui l'aspetto duro e spiacevole della guerra passa in secondo piano e affiorano sentimenti forse più remoti e considerati meno importanti, se non pericolosi, in quei momenti di lotta. Quindi accanto all'atteggiamento di difesa del Paese, di espressione di valori come l'amor di patria e l'identità nazionale, trovano spazio momenti in cui diventano prevalenti le considerazioni sulla comune natura degli uomini e sul rispetto dell'individuo.

3. Beppe Fenoglio, I ventitrè giorni della città di Alba, Einaudi, Torino 1952

a) Trama

Il libro é composto da 12 "storie partigiane". Il primo racconto, che dà il titolo al libro, narra la presa e la perdita di Alba da parte dei partigiani. Il 10 Ottobre 1944 duemila partigiani occuparono la città, scacciando così i repubblicani che erano stati fino a quel momento insediati all'interno. Il primo tentativo da parte dei repubblicani di rientrare nella città viene messo in atto il 24 Ottobre ma senza successo. Successivamente avviene un colloquio tra i partigiani e i repubblicani: il mancato accordo scatena la battaglia. Questa inizia il 2 Novembre ed é combattuta dalla parte partigiana solo da duecento uomini, che alla fine si arrendono e lasciano la città "che laggiù tremava come una creatura"(43) in mano ai repubblicani. Nel racconto "L'andata", un gruppo di giovani partigiani giunge in un'osteria di Alba per un'azione. Lì catturano un sergente e, allontanati dalla città lo uccidono e poco dopo in uno scontro con la cavalleria loro stessi muoiono. Ne "Il trucco" si parla di un partigiano che uccide un prigioniero, togliendo questo "piacere" a due suoi compagni. La quarta storia riguarda un giovane ragazzo che decide di arruolarsi tra i partigiani. Il primo approccio alla vita partigiana risulta per lui così traumatico che durante la prima notte sogna la sua morte e quella dei suoi compagni in un agguato. Nel racconto "Vecchio Blister" il protagonista é un vecchio partigiano che, ubriaco, ha compiuto una rapina a mano armata. Dimostrata la sua colpevolezza, é processato e giustiziato dai suoi stessi compagni. Nel sesto racconto "Un altro muro" Max, un soldato badogliano, viene catturato dai repubblicani e in prigione fa amicizia con un ladro partigiano, Lancia. Dopo qualche giorno i due prigionieri vengono portati in un cimitero: lì Lancia viene ucciso mentre a Max viene comunicato lo scambio con un altro prigioniero, e questo gli permette di tornare libero. Il periodo in cui sono ambientate le storie successive non é più quello resistenziale, ma il dopoguerra in tutti i suoi aspetti.

b) Rapporto tra storia e finzione

L' autore nomina nel libro luoghi, persone e date con precisione, conferendo alle vicende descritte un carattere storico verificabile. Questo vale in modo particolare per i primi racconti che presentano episodi della Resistenza: ad esempio un avvenimento storico come la battaglia di Alba e momenti particolari della vita dei partigiani, come un arruolamento (Gli inizi del partigiano Raoul), una esecuzione (Vecchio Blister) e uno scambio tra i prigionieri (Un altro muro). Nei rimanenti racconti l' obiettività storica lascia sempre più il posto alla "finzione": infatti sono narrate vicende non più di una parte della popolazione impegnata nella lotta clandestina, ma di gente comune nell'immediato dopoguerra: è più debole il riferimento a date e luoghi precisi e storicamente verificabili, presente nella prima parte di questo libro. La "finzione", comunque, non cancella del tutto il riferimento riferimento storico/ambientale, in quanto le vicende descritte possono considerarsi, in generale, realmente accadute; esse affrontano problemi e avventure che molte persone nell'immediato dopoguerra, e non solo, hanno dovuto affrontare, come, ad esempio, la ricerca di un lavoro o un matrimonio riparatore.

c) Valore testimoniale

Questo libro presenta un duplice livello testimoniale: nella prima parte (le prime sei storie) della lotta clandestina, nella seconda parte (le rimanenti sei storie) della vita nell'immediato dopoguerra. La lotta clandestina é descritta da Fenoglio non con l'intento di celebrarla, ma con quello di presentarla in tutti i suoi aspetti, anche con ironia. Ad esempio, ne "I ventitré giorni della città di Alba", descrive non solo la presa della città da parte dei partigiani, quindi un'azione gloriosa, ma anche i loro saccheggi e la loro sconfitta in seguito all'assalto dei repubblicani per riconquistare la città. In "Vecchio Blister" presenta,oltre alla rapina a mano armata di un partigiano ubriaco, la freddezza dei suoi compagni nell'ucciderlo. Fenoglio, narrando queste storie, si comporta, così, quasi da "osservatore esterno" della vita partigiana. Egli, infatti, a differenza dei memorialisti, che non falsificano la verità storica, e dei narratori, che fondano le loro opere sulla pura invenzione di personaggi e situazioni, "è l' unico che riesce a rispettare la verità dei fatti pur dando ai propri scritti un taglio autenticamente letterario e a superare le incertezze fra lirismo e realismo, tipiche degli autori minori di racconti, a tutto vantaggio d' un realism Robusto e spesso potente" (44).


(1) P. Malvezzi-G. Pirelli (a cura di), Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1994. (2) ivi, p. 3. (3) ivi, p. 184. (4) ivi, p. 332. (5) G. Pirelli (a cura di), Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea, Einaudi, Torino 1975. (6) ivi, p.782. (7) ivi, p.598. (8) P. Malvezzi-G. Pirelli (a cura di), cit., p.23. (9) G. Pirelli (a cura di), cit., p.94. (10) P. Malvezzi-G. Pirelli (a cura di), cit., p.8. (11) ivi, p.50 (12) ivi, p.117. (13) ivi, p.42. (14) ivi, p.6. (15) ivi, p.76. (16) ivi, p.273. (17) G. Pirelli (a cura di), cit., pp.143-144. (18) ivi, p.122. (19) ivi, p.146. (20) P. Malvezzi-G. Pirelli (a cura di), cit., p.84. (21) ivi, p.168. (22) G. Pirelli (a cura di), cit., pp.92-93. (23) ivi, pp. 224-225. (24) ivi, pp. 241-242. (25) P. Malvezzi-G. Pirelli (a cura di), cit., p.140. (26) ivi, p.17. (27) ivi, p.185. (28) ivi, p.66. (29) ivi, p.293. (30) G. Pirelli (a cura di), cit., pp.424-425. (31) T. Mann, Prefazione a G. Pirelli (a cura di), cit., p.XIV. (32) Enciclopedia Generale Mondadori, Verona 1985, vol. X, p.355 alla voce Resistenza. (33) F Fortini, La resistenza della parola, "Il Sole 24 Ore", 11 dicembre 1994, p. 21. (34) ivi. (35) ivi. (36) R. Viganò, La storia di Agnese non è una fantasia, epilogo di L' Agnese va a morire, Einaudi, Torino 1994. (37) ivi. (38) ivi. (39) R. Viganò, L' Agnese va a morire, cit., p.21. (40) ivi, p.20. (41) ivi, p. 142. (42) R. Viganò, La storia di Agnese non è una fantasia, cit., p.249. (43) B. Fenoglio, I ventitré giorni della città di Alba, Einaudi, Torino 1952, p. 24. (44) G. Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa italiana, Einaudi, Torino 1976, p. 152. -XII- Appendice 4 LA MORALE NELLA RESISTENZA nell'interpretazione di Claudio Pavone di M. Campanella, A. La Francesca e G.L. Thione


I. Premessa: La Resistenza come alternativa etica

La Resistenza è uno dei fenomeni della storia contemporanea più studiati e maggiormente discussi, poiché gli avvenimenti militari e politici che appartengono al periodo immediatamente successivo alla caduta del fascismo hanno inciso in maniera determinante sull'assetto moderno dell'Italia. La ricerca degli storici è sempre stata mirata ad interpretare ed a valutare le azioni militari dei partigiani che, in particolar modo nel settentrione italiano, esercitarono un'attiva e costante opposizione alle forze nazifasciste cercando di realizzare quegli ideali politici ed etici che consideravano in grado di migliorare lo stato del paese, risollevandolo dalla forte crisi che aveva attraversato durante il ventennio fascista e che aveva raggiunto il suo apice negli anni del conflitto. Ma se spesso la ricerca storica ha riflettuto sui connotati politici della Resistenza, raramente gli studiosi si sono soffermati a valutare ed interpretare l'azione dei partigiani sotto un punto di vista strettamente etico. E' questa l'intenzione di Claudio Pavone nel suo libro Una guerra Civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, che affronta il fenomeno resistenziale inquadrandolo in un contesto culturale differente da quello in cui solitamente è inserito. L'autore ha voluto in tal modo sottolineare come anche alla base dell'azione partigiana vi fossero principi morali nati da situazioni culturali e sociali, che avevano fortemente influenzato la coscienza del popolo italiano, incarnandone le speranze per un futuro diverso da quello che l'evoluzione dei fatti sembrava presagire, costruito su ideali di democrazia, libertà ed uguaglianza. E' infatti impossibile ritenere che i partigiani abbiano potuto persistere nella loro lotta politico-militare, sopportando gravi conseguenze fisiche e psicologiche (va ricordato che essi non avevano a disposizione armamenti in grado di poter seriamente impensierire le forze nemiche) se non perché motivati e spinti da convinzioni e da ideali che non potevano più essere tenuti segreti ma che dovevano essere realizzati e trovare un riscontro reale nella vita della popolazione italiana. La storia insegna che solo grazie alla volontà di realizzare progetti dettati da ideali morali o politici, imprese apparentemente impossibili incontrarono un pieno successo: esasperati dalle condizioni in cui la povera gente versava ormai da anni, i partigiani, che esprimevano la rabbia e lo scontento della grande massa, trovarono in loro stessi la forza di combattere per quegli ideali un nemico tanto meglio organizzato ed attrezzato da sembrare invincibile. Questa reazione non fu comunque immediata poiché prima di comprendere la necessità di attivarsi militarmente e socialmente, combattendo in prima linea, la popolazione passò attraverso momenti di sconforto e di abbandono, attendendo la totale distruzione che sembrava incombere; questo in particolare era dovuto allo stato, pressoché confusionario, in cui versavano e l'esercito e la popolazione. «Così in mancanza di direttive precise e inequivocabili, moralmente prima ancora che tecnicamente, l'Italia si avviava verso una sorte analoga a quella che Churchill nel 1942 ricordava con vivezza a proposito della Bulgaria del 1918: quando una nazione viene completamente sconfitta fa ogni specie di cose che avremmo credute impossibili prima. Il modo brusco, fosco, universale, simultaneo onde la Bulgaria - governo, esercito, popolo - si tolse di mezzo nel 1918, è rimasto impresso nella mia memoria. Senza preoccuparsi di provvedere al loro futuro o alla loro sicurezza, le truppe semplicemente abbandonarono il fronte e se ne tornarono a casa»(1). Nel nostro caso «Il soldato italiano non combatterà più agli ordini di Mussolini, né per Hitler né contro Hitler, nemmeno per l'Italia. ll soldato italiano incrocerà le braccia e si lascerà uccidere dal nemico. [..] Il 25 luglio - ricorda un reduce della deportazione - all'improvviso siamo stati tutti contenti, come una liberazione perché abbiamo scambiato il 25 luglio per la fine della guerra; e poi ci siamo accorti che non era così: ci è venuta una rabbia in corpo, una rabbia terribile»(2). Questi sentimenti si riflettono in ogni singola parte dell'attività e dell'organizzazione di questo fenomeno,tanto esteso quanto profondamente radicato a livello del territorio e delle classi sociali più deboli. Tale spinta etica e tale coscienza morale costituiscono il fulcro attorno al quale ruota lo studio di C. Pavone di un momento peraltro complesso, quale quello resistenziale. E ciò è evidente fin dalla prime pagine in cui l'autore evidenzia le motivazioni etiche che spinsero ragazzi estremamente giovani e spesso mai neppure venuti a contatto con una vita diversa da quella familiare a buttarsi, anima e corpo in un'avventura che per molti avrebbe significato la morte sotto il fuoco dei tedeschi. Lo scopo di questo saggio, che nasce dalla analisi del saggio di Pavone, attraverso la sua documentazione e l'originale teoria delle tre guerre, è quello di mettere appunto in evidenza tutti gli ideali, tutte le sensazioni, le motivazioni e le paure, che messe sul piatto della bilancia, insieme al pericolo imminente di cadere sotto un'occupazione permanente delle truppe tedesche, o, ipotesi che alle masse sembrava ancora peggiore, di un ritorno in auge del regime fascista, hanno spinto uomini e donne di differenti fasce sociali e d'età a combattere e a sacrificare la propria giovinezza e in molti casi anche la propria vita in nome di una libertà su cui costruire una nuova democrazia repubblicana. La nostra repubblica è dunque anche e soprattutto frutto di quegli sforzi e di quella sofferenza, una repubblica fondata sul valore del lavoro e della democrazia, sulla libertà personale e sull'uguaglianza: un'eredità importante che la Resistenza ha lasciato ai contemporanei. Per questo ora è importante scoprire quali spinte e quali valori fossero alla base di questo fenomeno tanto complesso e controverso, per dare ad esso un valore nuovo e riscoprire l'importanza di un patrimonio sociale, politico e morale che non può essere dimenticato o distrutto. E' necessario però affermare che questi ideali non sempre rappresentavano l'unico motivo e l'unica ragione a spingere i partigiani all'azione; vi era chi, da una parte, lottava per gli ideali, chi, dall'altra, cercava nella lotta armata una scusa per arricchirsi, approfittando della disperazione e della violenza diffusa, commettendo azioni inutili alla lotta contro il nemico.

II.La ricerca storiografica: il valore del libro di Claudio Pavone

1. La tesi delle tre guerre: guerra civile, guerra di classe, guerra patriottica. Il testo di Claudio Pavone apre nuove prospettive interpretative del fenomeno resistenziale: in esso, accanto all'analisi della psicologia comune dei civili e dei militari coinvolti, sia nel conflitto bellico vero e proprio sia in quello resistenziale, l'autore delinea un'ipotesi tanto originale quanto affascinante e realistica, la "tesi delle tre guerre". L'autore ci parla del fenomeno resistenziale sotto una luce diversa rispetto alla tradizione storiografica: il conflitto, la guerra combattuta sul fronte dai partigiani non si configura più come un singolo scontro di carattere politico fra oppressi ed oppressori, animato dalla sola brama di libertà e democrazia, ma si scinde su tre piani fra loro interattivi e complementari: guerra civile, guerra di classe e guerra patriottica, sottese ciascuna da precise motivazioni etico-politiche.

A. Una guerra patriottica. Il conflitto resistenziale può essere visto sotto un aspetto strettamente ideologico, collegato a ciò per cui sembrava che si dovessero realmente "sollevare gli animi": la Patria. La tesi delle tre guerre, patriottica, civile e di classe, evidenzia differenti motivazioni e differenti aspetti di carattere morale, ideologico e strutturale del conflitto. Tra queste, la guerra patriottica è quella che maggiormente si rivela vicina all'idea tradizionale della lotta partigiana. E' infatti facile ed immediato accostare la guerra tra Resistenza e nazifascismo alla difesa della patria. In effetti, come si vedrà, la lotta resistenziale ha rappresentato per gli uomini direttamente coinvolti ben più che la sola, dura opposizione verso un regime che opprimeva la patria e annullava le libertà, che faceva ampio uso della violenza e della repressione creando ingiustizie e malessere in ogni fascia sociale. Ciò che era alla base di questo conflitto era il sentimento diffuso di una precisa identità nazionale. L'ideale della patria era molto forte: la memoria ancora viva degli sforzi compiuti per conseguire l'obiettivo dell'unità, il sentire comune di un unico popolo, il desiderio di libertà e di democrazia, la necessità di giustizia. Il popolo italiano percepiva che quegli ideali per cui aveva già sofferto a lungo erano stati violati e in alcuni tali sentimenti sfociarono nella ribellione, nelle azioni di rappresaglia e di sabotaggio: la Resistenza fu avviata così da persone comuni, da giovani e vecchi il cui amor-patrio era più forte di ogni altra cosa; uomini e donne disposti a rischiare in prima persona per la difesa dei propri ideali e per il ripristino di un ordine violato. L'8 settembre, Badoglio, «con un radio messaggio, ordinava alle forze armate di cessare le ostilità contro gli alleati e di tenersi pronte a reagire all'eventualità di attacchi da qualsiasi altra provenienza. Era un'ulteriore affermazione equivoca che doveva provocare non poche perplessità e confusione tra i comandanti delle unità militari. [:.] La disintegrazione del dispositivo militare italiano doveva indebolire gravemente il paese nei suoi rapporti con gli alleati. [...] Con la perdita dell'esercito, l'Italia veniva privata della sua capacità di guadagnarsi le concessioni promesse. (...] Così il paese rimaneva diviso in due parti: le regioni meridionali e le isole sotto controllo alleato, tutto il resto in mano ai tedeschi. La giurisdizione italiana rimaneva limitata ad alcune provincie pugliesi - il cosiddetto "Regno del Sud"»(3). Infatti, «Ad alcuni giovani romani che subito dopo l'8 settembre si erano presentati ai tedeschi per continuare a combattere al loro fianco, l'ufficiale fece notare che "L'Italia non c'era più; non c'era più governo; [non c'era più] esercito"»(4). L'unico vero nemico della patria sembrava essere sempre stato il fascismo e nelle menti e negli animi dei resistenti, ciò che era più vivo era il ricordo delle ingiustizie subite direttamente e indirettamente, dell'oppressione e del clima generale di infelicità e di insoddisfazione che caratterizzava la popolazione della penisola: non importava se il proprio territorio fosse o meno sotto la giurisdizione italiana, ciò che realmente contava era l'Italia, nel suo insieme; la nazione doveva tornare presto ad essere unita, e così anche la sua gente. Col passare del tempo fu però sempre più difficile costruire un reale concetto di patria «capace di restituire alla nazione un volto umano. [ ..] Il senso dell'infelicità individuale e collettiva già altre volte nella storia era stato visto, illuministicamente, come generatore di patriottismo»(5). Si veniva a formare così una vera e propria etica della patria, un sentire diffuso e concreto che spingeva all'opposizione e all'organizzazione di strutture, anche rudimentali, che fossero in grado di ostacolare, seppur in misura infima, i progetti e le azioni nazifasciste. Si giunse così, in effetti, alla formazione dei primi gruppi ribelli veri e propri, delle prime squadre partigiane fondate sull'ideale patriottico. Questo sentire, questo ideale si rifletteva in ogni cosa, in ognigesto anche minimo, in ogni decisione presa singolarmente o in gruppo. La stessa scelta resistenziale, come pure si vedrà in seguito, si fonderà su questi fattori. Nel linguaggio comune, i termini "Italia" ed "Italiano" assumono significati diversi, si concretizzano di volta in volta in diverse realtà, esprimono giudizi morali sempre diversi. «Da quando si sono formati i primi gruppi di cosiddetti "ribelli" abbiamo visto che il nome "Italia" veniva pronunciato con un certo senso di ammirazione, non più con disprezzo»(6). L'Italia, la nazione, la patria entravano a far parte della tradizione popolare: la cultura si modificava, nascevano canzoni e ballate a sfondo popolare, sul tema della patria e dell'unità nazionale: gli inni partigiani e i canti intonati dai soldati e dalla gente comune testimoniano il valore della nazione e il significato che questa aveva per tutti gli italiani. Il fatto che italiani combattessero anche contro italiani, ma che entrambi invocassero l'Italia creava, da un lato una situazione difficile non priva di implicazioni morali, dall'altro «la riconquista di un sicuro senso della patria»(7) da entrambe le parti. «"Italia, Italia, cosa importa se si muore" cantava, in un carcere delle SS, un partigiano ferito, usando le parole di una canzone nazionalfascista, riutilizzata anche dai partigiani; e lo stesso partigiano, udendo le SS italiane cantare "canzoni italiane con ritmo tedesco", commentava, quasi a spiegazione di questi ribaltamenti: "Li hanno avvelenati."»(8) L'offuscamento del carattere antifascista della nuova guerra, combattuta, in termini generali, contro ogni "nemico della patria", inibiva, in un certo senso, la riconquista piena dell'identità nazionale. L'unica spinta comune che muoveva i resistenti all'opposizione al nazifascismo era la necessità di quella riconquista. Il conflitto sottolineava «l'impegno a sconfiggere l'egoismo, l'apatia, l'infingardaggine che gravavano sugli italiani come singoli e come popolo»(9): non si poteva più aspettare dei liberatori, bisognava agire. «Non esistono liberatori, ma soltanto uomini che si liberano!»(10) L'identità nazionale poteva essere ricostruita soltanto lasciandosi alle spalle un'epoca, scrollandosi di dosso un destino secolare che aveva reso l'Italia scenario di conflitti condotti da altri sul suo suolo. Un passato fatto di grandi drammi storici: si rendeva così necessario ricercare elementi nella storia più recente che offrissero dell'Italia una visione "meno deprimente", un quadro che rivalutasse la patria e la rendesse di nuovo motivo d'orgoglio. «Luoghi comuni, retorica, riciclaggio di memorie e di stereotipi culturali, autonoma riflessione sul proprio passato come popolo circolano nell'ambiente resistenziale, e puntano soprattutto sul Risorgimento [da cui] la Resistenza trasse [..] forza e insieme ambiguità»(11). L'espressione storica più largamente utilizzata per indicare questa tendenza a rivalutare l'Italia e il suo recente passato nella coscienza comune è quella di "secondo Risorgimento", ma in effetti ciascuna parte coinvolta nel conflitto ed anche le diverse componenti politiche e ideologiche dello schieramento resistenziale «si scelsero il proprio pezzo di Risorgimento cui riferirsi»(12). Ma in effetti, quali furono i reali tratti etici di questo particolare aspetto del conflitto resistenziale? Alla base di ogni azione, di ogni scelta, di ogni sacrificio erano ideali forti, valori e disvalori la cui unione si faceva forte dei sentimenti comuni, generava forza, si appoggiava ad una coscienza nazionale che spingeva gli uomini anche al sacrificio estremo. Gli ideali comuni assumevano tuttavia delle sfumature diverse da persona a persona, a seconda della particolare sensibilità etica, dell'orientamento politico e della fede religiosa. La legittimità di ogni azione, sotto il piano etico, quasi mai coincideva con quella che, in quel determinato momento, era il concetto vigente di legalità. La Resistenza si pose, in diverse occasioni, non solo al di fuori di una legalità che non accettava, ma anche al di fuori di una moralità definita a posteriori, dalle generazioni che in seguito studiarono il fenomeno, ma che non lo vissero in prima persona. Il problema della moralità della Resistenza, non inteso questa volta, come quello delle motivazioni etiche che spinsero i resistenti a prendere parte alla lotta partigiana, bensì come quello del giudizio a posteriori delle azioni di cui questi stessi si resero artefici, secondo determinati canoni etici o morali, porta in rilievo elementi differenti che possono condurre ad una considerazione più critica del fenomeno resistenziale. Il dilagare della violenza, il decadimento morale diffuso, cui anche la Resistenza fece appello durante i processi che seguirono alla Liberazione e che cercavano di fare luce sugli avvenimenti che avevano sconvolto l'Italia negli anni caldi della lotta fra partigiani e nazi-fascisti, il collaborazionismo e l'ambiguità dell'atteggiamento di molti nei confronti della Resistenza e del potere nazifascista, si scontravano violentemente con quegli ideali che animavano la lotta nelle sue componenti più sincere e che si fondavano, ancora una volta, su un sincero senso della patria e della libertà. Lo spirito neorisorgimentale, al quale si accennava in precedenza, aveva influenzato a fondo ogni tipo di azione resistenziale. Ciò fu evidente fin dalla comparsa delle prime organizzazioni partigiane: sebbene, però, molte di esse avessero nomi o motti che richiamavano direttamente il tema della patria e dell'Italia (GAP, SAP, Brigate Garibaldi), "l'impressione del dilagare di [tale spirito] [...] viene ricondotta entro limiti più ristretti. Nei giornali prevalgono invece i titoli generici, imperniati su parole quali libertà, liberazione, lotta, battaglia, rinascita, riscossa, combattente, volontario e simili, coniugati spesso con nomi geografici, oppure politici o ideologici'(13). Il tema della patria e della guerra patriottica ha molti punti di contatto, sotto diverse angolazioni, con la questione del nazionalismo, che ancora una volta si riproponeva verso la fine del secondo conflitto mondiale, quando, a poco tempo dalla liberazione, si sarebbe riproposto il problema dei confini, della ricostruzione, del rispetto delle popolazioni e delle culture nazionali nella riscrittura delle carte europee. Tuttavia in Italia il nazionalismo non trova terreno fertile nell'opinione pubblica, restando invece limitato a schemi più tradizionalmente fascisti. «Compaiono posizioni ispirate a un nazionalismo ritardatario e velleitario, ma che pur tuttavia trovava (e troverà) riscontri in un'area non piccola di media opinione pubblica quando venivano ai pettine questioni come quelle dei confini, specie di quelli orientali, dello smantellamento delle forze armate italiane, delle colonie, delle condizioni dell'armistizio. [..] Quello che era un dramma della coscienza collettiva diventava in queste posizioni, la richiesta, oscillante fra superficialità, sfrontatezza e servilismo, di riscossione del prezzo del mutamento di fronte, quasi che l'Italia potesse ripetere l'operazione che aveva portato la Francia della Restaurazione a sedere nel congresso di Vienna a fianco delle potenze vincitrici»(14). Dopo l'armistizio dell'8 settembre ci fu un totale ribaltamento delle alleanze e si trasferiva il ruolo del nemico dagli alleati ai tedeschi che, agli occhi degli italiani, meritavano molto più di ogni altro di essere combattuti: nei tedeschi i partigiani riassumevano tutte le qualità negative manifestate durante tutti quegli anni, rendendoli esempio di disvalori assoluti; d'altra parte l'atteggiamento dei resistenti non si limitava alla critica e al desiderio di vittoria, ma proponeva anche una sorta di antidoto contro questa degenerazione sulla base dei valori che animavano il loro agire. «Popolo tedesco, tu sei potente: tu agogni il primato nel mondo: tu sai anche mostrarti civile e gentile, dirò cortese, ma sotto la cute sei selvaggio! Per te la civiltà resta un mito e ogni tuo sforzo per raggiungerla si trasforma in ringhio bestiale»(15): il nemico veniva identificato come «automa teutonico», un mostro tecnologico nemico dell' "umanesimo garibaldino"; insomma, il nemico della patria italiana era il nemico assoluto che, però, proprio nell'ambito di una guerra di tipo patriottico mostrò tutta la sua debolezza. «"Eccoli i conquistatori del mondo"pensa un antifascista vedendo due soldati tedeschi scappare dal finestrino di un treno in seguito ad un allarme aereo [..] vedere i tedeschi fuggire e avere paura della morte costituiva la riprova, dura per l'orgoglio tedesco che essi erano uomini come tutti gli altri»(16). Tuttavia «il prestigio dei signori della guerra tedeschi rimaneva tale che talvolta i partigiani sembrano attendere proprio da essi il riconoscimento delle proprie qualità militari»(17). Dunque, l'impegno per liberare l'Italia dall'oppressione nazifascista assumeva i connotati della guerra patriottica, sotto tutti gli aspetti considerati, tuttavia non era solo il comune sentirsi italiani che spingeva i gruppi resistenziali ad agire in questo senso, ma anche una sorta di sentimento di solidarietà nel momento del bisogno; così, sentimento nazionale, ideali politici e necessità comune si fondevano tra loro a creare quell'atteggiamento esteriore che accomunava tutta la popolazione antifascista nella lotta contro il nemico, lotta che era innanzitutto ideologica e proprio dalla quale scaturiva la risposta armata. Il fascismo era un nemico reale da combattere su diversi fronti; in questo senso si poterono conciliare l'impegno di "compagno" e l'impegno di patriota. Il male comune diffuso fra la gente era costituito dalla struttura politico - amministrativa del fascismo, struttura nata e rafforzata da un'ideologia di fondo che presupponeva l'esistenza di un regime di tipo dittatoriale; non si poteva quindi pensare di eliminare tale male solo fisicamente, poiché esso non era la degenerazione di un giusto ideale politico, ma la necessaria conseguenza di un ideale errato. Liberare l'Italia significava dunque cacciare il nemico e distruggerne i residui dal punto di vista politico tramite la proposizione di un nuovo modello, democratico e repubblicano. E' perciò evidente l'identità tra democratici compagni di lotta e patrioti contro un governo che "uccideva l'Italia". Questo era allora uno degli obiettivi principe della strategia resistenziale: ricreare una patria nuova, scevra da ogni tipo di prigionia politica e militare, in cui la libertà di ognuno potesse manifestarsi palesemente. L'Italia doveva essere democratica, non avrebbe potuto più essere dittatoriale perché questo avrebbe significato un ritorno a quel governo di stampo fascista, che i partigiani stavano cercando in ogni modo di estirpare. E' pur vero però che in quel periodo l'Italia era immersa nella più totale confusione politico-istituzionale (confusione che tra l'altro sta alla base della guerra civile di cui più avanti): coesistevano sullo stesso suolo, in una stessa nazione più riferimenti politici che andavano dalla RSI al CLN e ognuna di queste pensava di costituire un'unità nazionale secondo i propri modelli, quello fascista o quello democratico; perciò guerra civile e guerra patriottica si fondevano, e l'italiano si scindeva in oppresso ed oppressore. B. Una guerra civile. La lotta resistenziale è stata giustamente considerata in un ambito globale che la vede inserita in un contesto più ampio di lotta per la liberazione nazionale. In realtà, con la caduta di Mussolini, ingenuamente identificata da molti, in un primo momento, con la fine della guerra ed il ripristino della democrazia, la Resistenza si trovò ad affrontare il vecchio nemico fascista concretizzato nella Repubblica Sociale. «L'interpretazione della lotta fra la Resistenza e la Repubblica Sociale Italiana,come guerra civile, ha incontrato da parte degli antifascisti, almeno fino a questi ultimissimi tempi, ostilità e reticenza, tanto che l'espressione ha finito con l'essere usata quasi soltanto dai vinti fascisti,[..] provocatoriamente agitata contro i vincitori»(18). E' certo che pur affermando che la Resistenza sia stata anche guerra civile, è indispensabile notare che, come per la guerra di classe, nessuno o quasi, la visse esclusivamente sotto quel profilo. E' indispensabile comprendere che i tre aspetti della lotta antifascista, patriottica, civile e di classe, erano vissuti dagli stessi protagonisti, convivendo fra loro nello stesso territorio, nelle stesse istituzioni. Proprio per questo può configurarsi il giudizio storiografico della Resistenza come guerra interna alla nazione, fuori da ogni forma di legalità, da entrambe le parti. Il conflitto civile nasce da differenti e contrastanti sentimenti patriottici: da una parte il fascismo sentiva propria e ancora forte l'idea di una identità nazionale, il ruolo di un'Italia destinata a ripristinare gli splendori di cui era stata teatro nell'antichità, dall'altra, quella parte della popolazione che combatteva contro la dittatura, lottava guidata da un acceso desiderio di liberazione nazionale. «Il prevalere della formula guerra, o movimento di liberazione nazionale rispetto a quella di guerra civile occulta la parte di realtà che vide italiani combattere contro italiani»(19). La questione dell'antifascismo comincia ad assumere corpo e rilevanza dal 1943, con la deposizione del duce, nonostante l'antifascismo fosse stato presente nella coscienza comune, in particolare in quella dei ceti medio bassi, anche prima della fine vera e propria del regime. II luglio 1943 era stato preceduto da un periodo di crisi per il partito. «Questa crisi era stata vissuta dai fascisti in modi vari, [..] alla domanda: come è potuto accadere il crollo? la risposta più a portata di mano stava nell'addossare tutte le colpe ai traditori con i quali era giunto il momento di fare i conti. [ ..] Punizione esemplare dei vili traditori è preannunciata da Mussolini stesso nei discorso registrato per la radio dopo il suo arrivo in Germania»(20). Quello del tradimento è un problema che assillò per mesi il regime ormai deposto, forse anche durante tutto il periodo intercorrente fra il 25 luglio e la liberazione. In realtà quali fossero le reali responsabilità nell'intera questione non fu mai facile determinarlo, né ai fascisti, che del "tradimento" pagavano le dirette conseguenze, né agli studiosi del fenomeno. Tuttavia tale questione ebbe l'immediata conseguenza nel sorgere, nelle coscienze dei fascisti, del desiderio di vendicarsi del torto subito. «Il desiderio di tendersi le braccia al di sopra delle baionette straniere, per sincero che potesse essere in alcuni fascisti, era dunque destinato a cedere il passo alla spinta più profonda a vendicarsi degli italiani antifascisti all'ombra di quelle stesse baionette»(21). Erano anni ormai che l'Italia non viveva più in un regime democratico: il desiderio di tornare ad essere liberi, di contare nella determinazione del proprio governo, il ricordo lontano delle ultime elezioni democratiche avevano contribuito ad animare una guerra "fratricida" che aveva in qualche modo messo in disparte quella contro il nemico esterno: l'ideale di democrazia animò tutto il fenomeno resistenziale ed in particolare il conflitto civile. L'idea di patria, la voglia di libertà e il sogno di una democrazia animavano questi uomini e queste donne, spingendoli a scegliere "la via dell'onore e della vita"; e di certo la lotta tra italiani era tutt'altro che priva, per i suoi diretti protagonisti, di conflitti etici: combattere contro propri compatrioti abbatteva i giovani ed i vecchi, fino ad allora convinti di dover combattere contro una minaccia straniera e lontana: «Se sapeste anch'io come sto! Non ne posso più! che si debba far questo fra italiani!»(22). Le giornate e le settimane, che seguirono 1'8 settembre, avevano creato i sentimenti più disparati nell'animo degli italiani, fascisti ed antifascisti: una gioia incontenibile, uno smarrimento incredulo, fino alla ribellione irosa, e infine seguita a tutto questo, una stanchezza rassegnata, totale. Era necessario reagire allo stallo, trovare nuovi stimoli, aggrapparsi a forti ideali quali la democrazia, la giustizia, la libertà, la voglia di rivoluzione. La costituzione dei CLN, delle Sap, delle Gap, e di ogni altra organizzazione intesa a liberare l'Italia da un'oppressione endemica e da una minaccia straniera, fu il primo segno evidente di questo nuovo sentire comune. Nonostante le continue ingiustizie cui il popolo italiano era stato abituato da vent'anni di egemonia fascista e da una lotta civile al di fuori di ogni legalità e legge morale, l'ideale della giustizia era vivo più che mai. E proprio l'ideale di giustizia si poneva alla base della scelta resistenziale; insopportabile era stato forse per molti un periodo così lungo di sospensione di ogni valore etico e di ogni giustizia. E soprattutto fra i giovani era più viva questa voglia di reazione, fra i giovani risorgeva l'ideale di giustizia. «Non vogliamo più vedere le vostre facce, [..] non le vogliamo più vedere perché tutti siete responsabili della catastrofe che ci ha travolto; non le vogliamo più vedere perché conservate la vecchia mentalità, perché avete i vecchi metodi, perché infine, fin che voi rimarrete al seggio dove vi siete di nuovo assisi, nessuno sarà capace di credere al rinnovamento, al nuovo impulso di marcia, al nuovo idioma che voi predicate. Vogliamo gente nuova e per gente nuova intendiamo: moralmente sana e illimitatamente onesta»(23). I giovani erano dunque i depositari di un patrimonio morale che la dominazione e il regime non erano riusciti a sradicare, nonostante tanti fossero stati gli sforzi dei fascisti nell'allevare una generazione asservita alla dittatura. Il duce, durante il ventennio in cui esercitò il suo potere dittatoriale, aveva cercato, con tutti i mezzi possibili, sfruttando tutte le possibilità che gli si erano prospettate favorevoli, di educare le nuove leve, fin dagli anni della scuola elementare, in modo tale che i giovani crescessero con una mentalità di totale rispetto ed obbedienza verso il regime. Inoltre la pesante censura cui erano sottoposte lettere e missive, che costituì solo uno dei tanti mezzi del ferreo controllo dittatoriale, impediva la divulgazione di idee che potevano in qualche modo andare contro gli ideali fascisti. In tali condizioni di oppressione, la giustizia e la libertà erano diventati ideali di vita irrealizzabili e lontani. Fu proprio questa prolungata "lontananza" ad alimentare il desiderio dei partigiani di rovesciare il regime, visto come disgregatore di quei valori per i quali l'uomo è sempre stato disposto a lottare, compiendo sacrifici e rinunciando perfino ad una vita agiata e tranquilla, pur di ottenere una società fondata sui diritti e sulla libertà. E' immediato, a questo proposito, il richiamo a quei partigiani, come Giancarlo Puecher, che furono disposti a rinunciare ad una vita che si prospettava relativamente comoda, impegnandosi a combattere in prima linea rischiando e perdendo, talora, la propria vita, affinché un valore nobile ed essenziale come la giustizia si realizzasse in un paese come l'Italia che,ormai da anni, ne avvertiva la mancanza. Ad accusare per primi il clima generale di illegalità e ad avvertire il bisogno di ritrovare questo ideale tanto sentito furono, come sempre, le classi meno elevate, che risentivano in prima persona degli effetti che l'assenza di quegli ideali provocavano sulla popolazione; in particolare, l'impossibilità di diffondere o aderire a idee diverse da quelle fasciste, o comunque l'obbligo di seguire e di approvare, almeno "salvando le apparenze", il governo del duce, fu il modo più evidente in cui il clima di ingiustizia che si respirava in Italia si manifestava. Si può inoltre affermare che giustizia e libertà costituissero un binomio indivisibile, perché il desiderio di libertà, dovuto all'insofferenza causata da anni di oppressione culturale e di pensiero, andava ad unirsi alla necessità di giustizia, che non può essere pienamente concretizzata dove l'uomo non sia completamente libero. La negazione dei più essenziali diritti umani portò la popolazione a vivere in condizioni tali per cui la mentalità e la sensibilità personale non erano più date dall'esperienza e dall'interiorità di ciascuno, ma erano imposte, senza alcun tipo di alternative, dall'esterno; se un individuo non è libero di pensare e tantomeno di agire, a causa del volere di un dittatore, significa che non vi è più la giustizia, cioè non vi è più quella virtù rappresentata dalla volontà di riconoscere e rispetta-re il diritto di ognuno mediante l'attribuzione di quanto gli è dovuto (in primo luogo la libertà) secondo ragione e legge. E' solo tenendo presente questo concetto che si comprende il valore rivoluzionario che ha avuto la Resistenza. I partigiani, infatti, combattevano per l'affermazione di ideali che avrebbero dovuto costituire la base di una società caratterizzata da un clima culturale e politico completamente opposto a quello che vigeva durante il regime fascista; la rivoluzione, in altre parole, avvenne innanzitutto su un piano etico e psicologico prima ancora di realizzarsi concretamente attraverso un'azione militare violenta. E' impossibile interpretare i fatti e gli avvenimenti che caratterizzarono la Resistenza senza prima valutare le spinte morali e culturali che essa ebbe; questo significa che il fenomeno non si basava su dei "capi" ideologici particolari, ma raccolse più che altro la varietà di valori e di desideri che ogni italiano sentiva. La Resistenza, analizzata nella sua componente rivoluzionaria, fu un movimento talora violento col quale si cercò di instaurare un nuovo ordine sociale e politico; la Resistenza cercò di ribaltare un insieme di condizioni imposte dalla volontà di una persona in favore di ideali comuni all'intera popolazione. E come una rivoluzione, la Resistenza coinvolse una popolazione male armata, spesso male gestita e male organizzata, che tuttavia non desistette dal combattere e che non si scoraggiò, nonostante le gravi perdite che ogni giorno segnavano tragicamente la storia dei gruppi di azione partigiana. E' solo il supporto materiale e morale fornito dalla popolazione che, in sintonia con l'azione dei partigiani, ebbe un ruolo fondamentale nelle vicende della lotta dei militanti. E come in una rivoluzione, la moralità nella Resistenza ebbe un ruolo fondamentale, essenziale e primario perché animò costantemente ed energicamente un'azione che, se fosse stata priva di una spinta etica di base, non avrebbe sicuramente ottenuto i risultati che storicamente ebbe. Gli stessi nemici dei partigiani, sia i fascisti che i tedeschi, combatterono la Resistenza proprio in qualità di rivoluzione, in quanto non avevano un esercito, nel senso proprio del termine, da combattere, ma si trovavano di fronte ad una popolazione sollevatasi improvvisamente e fortemente determinata, più di ogni altra coalizione armata, nella conquista e nella realizzazione di quegli ideali da tanto disattesi. Episodi come quello delle Fosse Ardeatine, avvenuto nei pressi di Roma il 24-25 marzo 1944, è solo uno degli avvenimenti che testimoniano come i tedeschi cercassero attraverso azioni punitive e dimostrative, di scoraggiare gli insorti prima ancora di combatterli sul piano militare. Il grande valore che hanno le rivoluzioni sta nella condivisione degli ideali da parte di tutta la popolazione e nello spirito d'unità che ne deriva; ma nonostante ciò la storia ci insegna che le rivoluzioni, quando riescono a ribaltare il regime contro cui lottano, non sempre hanno successo, una volta terminato il periodo di lotta nel porre al potere uomini in gra.Jo di mantenere l'ordine e di valorizzare gli ideali per cui la rivoluzione è avvenuta. Fu difficile per il popolo italiano cercare di realizzare concretamente quelle virtù che tanto aveva desiderato, e tutt'oggi, parlando con chi visse direttamente quegli anni,si avverte una delusione, magari non esplicita,ma comunque palpabile,poiché sembra, dopo anni,che l'Italia non possa ancora godere di quei valori per cui i partigiani tanto lottarono.

C. Una guerra di classe. Questa fra le tre è con ogni probabilità la più permeata di significati e motivazioni di carattere morale e politico. Ciò che nelle menti e agli occhi della più parte dei partigiani fu evidente, era la coincidenza dei due nemici: della patria e della classe; tale coincidenza scemò, con il procedere del conflitto a causa di una sempre maggiore coscienza nazionale necessariamente interclassista, professata e propagandata «dai maggiori partiti della sinistra: [..] cogliendo un travaglio volto a non fare annegare nell'unità nazionale ogni opposizione di classe»(24). La coscienza della necessità dell'affermazione della classe operaia nacque quando diventò sempre più evidente il legame tra imprenditori e governanti, tra mentalità capitalistica e regime fascista. Resta quindi inscindibile dalla lotta antifascista, una ribellione proletaria, di tipo classista. «Il proletariato veniva così caricato di un sovrappiù di responsabilità nazionale»(25), verso una patria che in realtà non era loro, «perché i borghesi gliela rubano»(26). Quando lentamente si fu fatta strada la consapevolezza fra le masse operaie che l'asservimento ai padroni era equivalente all'asservimento all'imperialismo straniero, l'impegno politico, la guerra per la libertà, il desiderio di democrazia si caricarono di un nuovo valore: quello del conflitto interclassista: «la lotta per l'indipendenza nazionale veniva perciò ricongiunta alla lotta di classe contro l'alta borghesia indigena: [ ..] è la battaglia non tra due ceti economici, bensì tra due concezioni di vita, fra due concezioni, politiche: [..] la concezione della vita come creativa libertà e quella della vita come subordinazione ed ordine gerarchico»(27). Le motivazioni di classe alla base dei comportamenti di molti resistenti, operai o contadini, come pure vedremo in seguito, si accompagnavano spesso ad altre più strettamente patriottiche ed antifasciste. Sia che gli operai fossero più o meno politicizzati, la figura più forte e riassuntiva di nemico era quella di padrone fascista e servo dei tedeschi. Quali fossero le motivazioni di questo atteggiamento e se queste facessero o meno riferimento alle convinzioni etiche e politiche di ciascuno dei partecipanti al conflitto è la questione che più ci interessa sciogliere. In realtà soggetti diversi si muovevano spinti da altrettanto distinte motivazioni. In primo luogo è irrealistico e approssimativo pensare che «tutti i padroni industriali o agrari fossero collaborazionisti, [o] tutti fossero fascisti»(28), e allo stesso modo non tutti gli operai erano coinvolti nel conflitto. Lo spirito di classe, più che costituire la naturale evoluzione e manifestazione del senso patriottico, sfociava in violenti episodi di odio sociale, creando un'atmosfera di tensione e un nesso a doppia mandata fra guerra di classe e guerra civile - esplicata fra Resistenza e Re-pubblica Sociale - mentre minor rilievo, o almeno minor clamore suscitava il conflitto patriottico. E' evidente come questo particolare aspetto del fenomeno resistenziale fosse collegato alla linea politica del PCI e in parte a quella del PSIUP: erano, in relazione a questo, presenti alcuni temi che alimentavano atteggiamenti ed aspettative che ben si confanno al conflitto di classe. E' la cosiddetta "doppia anima" della guerra di classe. Esistevano però una doppia anima di vertice e una doppia anima di base, legata a fattori culturali, politici, ideologici, morali. Quali fossero le reazioni del ceto operaio al clima di oppressione e servilismo al quale erano soggetti è un elemento che non solo si differenzia da regione a regione ma che pure si poneva in stretta relazione al patrimonio culturale e al retroterra etico-sociale di ogni singolo individuo. Gli sfoghi più frequenti, avendo perso, o quasi, ogni reale diritto di protesta o di sciopero, si concretizzavano nei sabotaggi o nella formazione di squadre di azione patriottica finalizzate al danno delle fabbriche, i cui padroni si erano mostrati o erano sospetti collaborazionisti. In tutti era forte la voglia di cambiare le cose, gli ideali morali si andavano fondendo alla rabbia e alla stanchezza per un regime che si protraeva ormai da anni, in animi più volte illusi di una imminente liberazione: una fine della guerra tanto agognata ma che per i resistenti nel senso più reale avrebbe tardato a venire. La considerazione della lotta contro i tedeschi e i fascisti non deve distoglierci da ciò che realmente aveva determinato il conflitto interclassista, ossia le condizioni concrete di vita degli operai; lo scoppiare del secondo conflitto mondiale, il protrarsi della dittatura in Italia, la povertà diffusa, l'abbandono dei ceti inferiori da parte delle organizzazioni sindacali, da parte del governo, persino il crollo dell'Italia nei rapporti internazionali avevano creato i presupposti perché l'astio covato dai proletari nei confronti del capitalismo e della borghesia padrona trovasse terreno fertile nella concretizzazione di quel conflitto di classe che gli ideali comunisti avevano da tempo ispirato negli animi, ma che non erano mai riusciti fino ad allora ad attuare. Possiamo dunque considerare la lotta di classe come soltanto parzialmente inserita nel contesto di una lotta per la libertà: è più ragionevole ritenere che agli occhi degli operai, il collaborazionismo e il filofascismo dei padroni rappresentasse il pretesto ideale per realizzare i propri ideali politici nella convinzione radicata di agire realmente nel bene e nell'interesse della nazione. Il sentimento di coscienza nazionale, che. anche i maggiori partiti della sinistra avevano contribuito a diffondere, non aveva in realtà annullato completamente quella coincidenza fra nemico della patria e nemico della classe proletaria di cui si è detto all'inizio, ma aveva tutt'al più consegnato agli operai un motivo e un principio in più cui aggrapparsi per vedere concretizzate le proprie aspettative e i propri ideali, partecipando alla lotta resistenziale più per migliorare le proprie condizioni che per altro, consapevoli, però, che il proprio impegno e i rischi che correvano avrebbero contribuito a creare per tutti uno stato democratico e libero in cui vivere e lavorare.

2. La scelta resistenziale Una delle caratteristiche che accomunavano l'azione di quasi tutti i partigiani era la spontaneità con cui essi scelsero liberamente di unirsi a coloro che per primi sentirono la necessità di intervenire militarmente per quegli ideali di giustizia e di libertà tanto desiderati. Come in precedenza accennato riguardo all'esperienza del partigiano Giancarlo Puecher, la scelta resistenziale non era solo dettata dalla necessità di una vita migliore o dalla ricerca di un futuro non certo peggiore di quello che si prospettava, ma costituiva anche un impegno rischioso e faticoso nel quale si metteva in pericolo la propria stessa vita e quella dei compagni. Certamente la scelta resistenziale nasceva dall'esasperazione e dalla voglia di pace covate nei lunghi anni del regime fascista e del conflitto mondiale, e proprio la consapevolezza di "essere arrivati ultimi" in una risposta di tipo politico e militare, alla situazione contingente, rendeva l'impegno partigiano non solo riferito all'obiettivo più immediato della cacciata dei tedeschi, ma anche rivolto a costruire un futuro migliore. Non sempre, però, si può parlare di "spontaneità", nella scelta resistenziale: come dice Albina Caviglione Russo, «singolare, questa tremenda libertà di scelta nelle massime cose, questa via tracciata nelle minime»(29). Ma proprio per le caratteristiche politico-ideologiche che stavano alla base della scelta partigiana, e che nascevano, come già detto, in risposta a un presente aberrante e come proposta per un futuro diverso e pacifico, la Resistenza veniva caricata di motivazioni tanto individuali quanto collettive: le prime nascevano dall'esigenza di una sorta di "fedeltà a se stessi", le seconde, invece, scaturivano, da un lato da un sentimento di solidarietà comune e di conforto reciproco, e dall'altro, dalla consapevolezza della inutilità di una risposta individuale e frammentata a un nemico che appariva così potente e superiore dal punto di vista militare. Pur seguendo questa distinzione, va però precisato che la scelta puramente personale doveva concretizzarsi e si concretizzava secondo disposizioni comuni. La scelta personale nasceva essenzialmente da due fattori: la considerazione della gravità dei fatti che si stavano verificando in quegli anni e la coscienza di non poter rimanere indifferenti e di dover quindi schierarsi in prima linea per una causa che coinvolgeva tutti gli italiani; di certo la popolazione non era costantemente al corrente delle evoluzioni politiche e militari del conflitto, ma indubbiamente, dopo i fatti e i sentimenti dell'8 settembre, e, ancor prima, del 25 luglio, restava la certezza che né i fascisti, né i tedeschi potevano in alcun modo aiutare l'Italia. «Il vuoto istituzionale creato dall'8 settembre caratterizza in questo senso il contesto in cui gli italiani furono chiamati a scelte alle quali molti di loro mai pensavano che la vita potesse chiamarli»(30). L'Italia doveva cercare la libertà e la giustizia tanto agognate, da sola, attraverso sacrifici e sforzi che avrebbero segnato un'intera generazione e che avrebbero lasciato negli animi di coloro che vissero tanto a lungo da poter assistere ai primi successi della democrazia un sentimento di eroismo, di orgoglio e di commozione. La vittoria conquistata solo grazie a meriti propri fa del vincitore un uomo realizzato e certo che la propria scelta, pur non priva di incertezze e causa di anni di sofferenze, ha fatto sì che un popolo da anni oppresso e "castrato" dal punto di vista ideologico resuscitasse dalle proprie rovine attraverso la strenua lotta per la libertà.«"Da una parte, infatti, il valore di libertà viene attribuito all'atto stesso dello scegliere, dall'altra sembra impossibile evitare il rinvio ai contenuti della scelta stessa»(31). «Compare in molti episodi, la tendenza a essere scelti piuttosto che a scegliere, fino alla tentazione a cedere ad un rassegnato e pallido moralismo»(32). La scelta è difficile quando si è incerti sugli esiti che il proprio agire può avere, tanto più in una contingenza come quella del dopo-governo fascista, quando le incertezze sovrastavano le certezze e quando l'unico stimolo rimaneva la tensione alla libertà, in una situazione governata solo dalla violenza. Questo presupponeva non solo un maggior coraggio, retto da motivazioni più forti dell'attaccamento alla propria stessa vita, ma anche una maggiore determinazione, legata alla consapevolezza del fatto che, una volta unitisi al gruppo di azione partigiana non sarebbe stato più possibile tornare indietro poi-ché questo avrebbe costituito un pericolo per l'incolumità dei compagni, oltre che un "tradimento" verso se stessi e le proprie convinzioni. D'altra parte era giunto il momento in cui non si poteva più rimanere inermi e indifferenti: il clima italiano in quegli anni non permetteva più, dal punto di vista morale, l'immobilità. «Nella banda Italia Libera [..] fu richiesto di impegnarsi con il giuramento di un uomo d'onore a combattere i tedeschi e i fascisti e a perseguire ideali di giustizia sociale e di libertà democratica: per chi avesse tradito era prevista la morte»(33). Questo testimonia il fatto che la scelta resistenziale comportava una responsabilità che andava oltre la dimensione strettamente etica e che assumeva connotati dettati dalla legge marziale che si era dimostrata indispensabile affinché l'azione dei partigiani non si sgretolasse a causa di una inconsistenza organizzativa. I singoli gruppi di azione antifascista dovettero quindi operare una serie di scelte atte a regolamentare e organizzare i loro movimenti: chi voleva aderire ad un gruppo di partigiani doveva accettare che la propria vita poteva essere sacrificata in ogni occasione e che i suoi compiti e le sue responsabilità durante un sabotaggio o comunque durante un'azione mirata a destabilizzare il nemico dovevano essere portate a termine senza alcun errore. Come già detto in precedenza gli ideali che muovevano i singoli erano accomunati dal desiderio di libertà e di riscatto della propria nazione: «Sono figlio d'Italia di anni 21, non di Graziani e nemmeno badogliano, ma sono italiano: e seguo la via che salverà l'onore d'Italia»(34). Di conseguenza le scelte personali andavano fondendosi in una scelta collettiva che senza dubbio fu il punto di forza del movimento resistenziale. Questo non significa che i partigiani avessero anche una decisionalità comune, poiché la frammentarietà dell'organizzazione lo impediva, ma, dal punto di vista etico, che porta le persone a perseguire determinati valori ideologico-morali, lo spirito collettivo fu uno.

3. Il problema della violenza Quanto evidenziato finora nella trattazione, pur presentando la Resistenza sotto aspetti diversi e distinti (la tesi delle tre guerre, la vita partigiana come scelta individuale e collettiva, ecc.), va ricondotto ad una caratteristica comune non solo al fenomeno resistenziale, ma addirittura a tutto il clima politico sociale di quegli anni: l'uso della violenza. Nella realtà contingente, la violenza era l'unico mezzo di comunicazione rimasto; violenza come mezzo di offesa, di difesa e di ribellione: violenza degli oppressori e degli oppressi. Occorre, tuttavia, anche e soprattutto in questo caso, «portare un contributo alla corretta valutazione del tipo di violenza che esercitarono i resistenti e i fascisti, da una parte rapportandolo a quel quadro della seconda guerra mondiale che era comune a tutti, fascisti e antifascisti, italiani e tedeschi, dall'altra tenendo ferme le distinzioni di fondo tra le parti in causa»(35) e contemporaneamente capire cosa si agitava nell'animo e nelle coscienze di coloro che, volenti o nolenti, usavano la forza e la violenza. Esisteva una grossissima differenza ideologico-morale tra la violenza fascista e quella partigiana, che nasceva sostanzialmente dalla rottura del "monopolio statale della violenza": il nazifascismo aveva fondato la sua stessa ideologia e la sua stessa linea di governo sulla brutalità, tanto che essa aveva finito per costituire un vero e proprio valore. E tanto più era considerato un bene, in quanto era gratuita, non necessaria, giustificata unicamente da un'ideologia politica di tipo dittatoriale e repressiva. Nell'Italia del 1943, invece, la violenza esplodeva presso i resistenti, a causa del troppo tempo in cui essa era stata accumulata: nasceva dall'esasperazione di anni di soprusi e crudeltà, da anni di guerra, una guerra che nessuno capiva, perché in realtà senza senso: in una situazione governata dalla disperazione e dalla disumanità, la violenza appariva, ai partigiani, come l'unico modo per dare voce alle loro esigenze politiche e sociali riguardo un presente libero (tale era il fine immediato della Resistenza, cioè cacciare dal suolo italiano nazisti e fascisti) e un futuro democratico. «La violenza come seduzione e la violenza come dura necessità si scontrarono così in modo palese, pur convivendo talvolta nelle stesse persone»(36); infatti era presente tanto nei fascisti, quanto nei resistenti, la dicotomia tra il rifiuto etico della violenza e la necessità di far emergere tutta quella aggressività accumulati in anni di guerra e di oltraggi tanto che è talvolta possibile riscontrare fra gli atteggiamenti di questi ultimi sentimenti e motivazioni più tipiche dei fascisti, quali la consuetudine e l'indifferenza nell'uccidere. La decisione degli antifascisti di intervenire anche militarmente, oltre che politicamente e ideologicamente, all'eliminazione delle compagini nemiche dopo anni di sopportazione, nasceva dalla considerazione del senso che la vita assumeva nella situazione contemporanea, in cui la pratica frequente e l'indifferenza nell'uccidere portava necessariamente ad una sorta di assuefazione all'aggressività e al suo utilizzo in ordine al raggiungimento di qualunque scopo: si arrivava così alla sdrammatizzazione della propria morte violenta proprio perché la violenza era rimasta l'unica strada possibile, uno sbocco ineluttabile per affermare nuovi e più giusti valori di libertà e democrazia. «Quando la magistratura vorrà, dopo la liberazione, applicare ai partigiani le attenuanti generiche per i delitti dei quali venivano imputati per fatti compiuti durante la Resistenza, essa invocherà il clima di "sfacelo morale" in cui quei combattenti si erano a suo giudizio mossi, compiendo così, a fin di bene, un'ingiuriosa assimilazione dello spirito resistenziale ai punti più bassi toccati dallo spirito pubblico in quei venti mesi».(37) D'altra parte in quel clima l'uso della brutalità non andava considerato in quanto tale, ma andava ricondotto alla causa in nome della quale essa veniva esercitata; e le motivazioni resistenziali erano tutte puntate alla vivendi causa dell'umanità, per la quale non si poteva più «tollerare l'intollerabilità dell'aggressione nazifascista»(38). Quella partigiana nasce dunque come violenza di tipo puramente difensivo rispetto ad una situazione che si era fatta insostenibile. In questo senso vanno distinti i due tipi di violenza (quella resistenziale e quella nazifascista) sotto due parametri: quello della legalità, intesa in senso giuridico, e quello della legittimità, intesa in senso ideologico, politico e morale; proprio in virtù di quella vivendi causa dell'umanità di cui sopra, persino i cattolici ammettevano la liceità della violenza anche se, da parte dei partigiani, questa usciva dalla legalità, eludendo il monopolio della violenza detenuto dai fascisti. Quindi l'utilizzo della forza da parte dei resistenti era legittimo, perché in un certo senso necessario e inevitabile, ma non legale perché al di fuori di una violenza "lecita": quella nazifascista. Al contrario i fascisti della RSI agivano tramite aggressioni legali ma non legittime, perché gratuite ed ingiustificate; l'aggressività fascista veniva inoltre accentuata dalla consapevolezza di non avere più la forza politica e "numerica" di un tempo e dalla insoddisfazione di battersi con un nemico, la Resistenza, che considerava, e che in effetti era, militarmente inferiore. Restava inoltre il rancore e la delusione, come se fossero stati derubati di quel diritto alla violenza che il regime garantiva. D'altra parte questo atteggiamento rendeva la lotta partigiana più accesa ed accanita, contro un nemico "onnipotente" e su cui avevano imparato a riversare tutta la loro rabbia: «Altezza di impegno etico e rischio di totalizzazione convivevano dunque nella guerra partigiana condotta contro un nemico - il fascismo ed il nazismo - che aveva tutti i requisisti per essere qualificato come il nemico totale[...] Il carattere disumano che assume il nemico visto nella prospettiva dell'annientamento [...si tramuta nella] disumanità che in tal modo esso tende a riverberare su chi, proprio per quel suo carattere gli si oppone»(39). Era forte il sentimento della liceità della violenza : «alla violenza-rischio, praticata dai partigiani, [ ..] voi fascisti non rispondete da uomini d'onore ma con la consueta vigliaccheria della violenza illegale protetta dalla "giustizia", cioè dal potere costituito dalla vostra repubblica «(40). Tuttavia non bisogna pensare che la vera e propria lotta armata non costituisse per i partigiani alcun problema, nonostante sentissero in qualche modo che era legittima: in particolare costituivano occasione di riflessione il modo con cui veniva condotta la guerra resistenziale e quel "di più" di violenza che rendeva talvolta l'agire partigiano simile a quello fascista. Nel primo caso creava qualche problema il combattere attraverso azioni di guerriglia e imboscate: infatti, pur essendo consapevoli del fatto che per inferiorità militare e per il carattere illegale del proprio lottare la risposta partigiana non poteva risolversi altrimenti, in molti rimaneva «il vago scrupolo che l'imboscata [fosse] pur sempre una guerra un po' a tradimento»(41). Ma era più difficile giustificare, anche e soprattutto agli occhi degli stessi partigiani, il surplus di violenza che si poteva riscontrare nell'agire dei resistenti. Pur considerando il clima di quegli anni, per cui la stessa violenza era divenuta un valore dominante, in cui la brutalità era quasi sempre necessaria e inevitabile, in cui la gente era carica di aggressività, pronta a fuoriuscire in qualunque occasione, rimaneva problematico concordare l'agire con le motivazioni politiche ed ideologiche di democrazia e libertà che avrebbero dovuto sorreggerlo, quando questo diveniva inspiegabilmente e inutilmente crudele. In questi casi l'illegalità giuridica si fondeva con l'illegittimità che era, o almeno avrebbe dovuto essere più tipica degli oppressori nazi-fascisti. Ma forse questo era dovuto proprio all'istintivo senso di una "risposta ad armi pari" degli stessi resistenti. Il contrasto militare tra partigiani e nazifascisti si basò sostanzialmente su una guerra che possiamo definire di logoramento, dato che mai i due schieramenti si scontrarono sul fronte, poiché i resistenti non costituivano un esercito nel senso proprio del termine; le due parti, ma soprattutto i gruppi di azione partigiana, cercavano di danneggiare il nemico attraverso quella modalità bellica che Caludio Pavone indica col termine "rappresaglia". Non essendo possibile per i resistenti fare altro che seguire una strategia siffatta, si rese indispensabile, perché la loro azione avesse una maggiore efficacia, attuare una violenza, spesso inaudita, che, estranea ad ogni tipo di legge morale, fece talvolta dei partigiani dei combattenti privi di scrupoli e tesi unicamente alla vendetta che andava di frequente oltre le reali "necessità" del conflitto. «Permetta, signor colonnello, che io approvi la sua troppa bontà. Nella guerra che conduciamo, e conoscendo gli Italiani, essere buoni è una colpa e non dobbiamo né possiamo esserlo nell'interesse della nostra Patria e della Causa per cui combattiamo. ogni tanto bisogna fucilare, anche per provare le armi»(42). Di qui la necessità dei gruppi di resistenti di autodisciplinarsi e di organizzare la risposta armata e di evitare azioni punitive verso il nemico che, per le ripercussioni che avrebbero poi comportato sull'intera popolazione, si sarebbero rivelate dannose ed inutili al conseguimento di quegli ideali sulla base dei quali la Resistenza era nata. Con il passare dei mesi i gruppi partigiani assunsero sempre più i connotati tipici di un esercito, perfino con l'adozione di divise, creando quindi una serie di regolamentazioni interne al gruppo: queste norme avevano lo scopo di dare all'azione partigiana una maggiore serietà dal punto di vista militare e un maggiore spirito di coesione tra i partigiani stessi, evitando così il verificarsi di episodi di razzie e di abuso da parte dei combattenti nei confronti dei nemici. «Disciplinare la violenza poteva dunque significare esercitarla fino in fondo contro quelli della propria parte che ne stravolgevano le ragioni. [..] Un partigiano temano che aveva svaligiato il magazzino degli slavi, viene condannato a morte. Un partigiano che ruba 10000 lire a un fascista arrestato viene fucilato, mentre il fascista viene rilasciato dopo diffida»(43). La facoltà punitiva scaturiva dunque dalla necessità di una ferrea autodisciplina e dal bisogno di distinguere tra aspetto sostanziale e aspetto formale, cioè tra l'essere realmente un partigiano e solamente il sembrarlo, dimenticando ogni dimensione etico-politica alla base dell'azione resistenziale. Le rappresaglie da parte dei partigiani costituiscono un elemento fondamentale nella lotta contro i nazi-fascisti, poiché l'azione di logoramento si realizzava anche attraverso attentati a gruppi nemici; questi avevano lo scopo di minare il controllo fascista sul territorio e sulla popolazione, tramite l'uccisione di soldati o di civili, che comunque rivestivano il ruolo di nemici,in quanto appoggiavano o avevano appoggiato il regime. Tali azioni, che segnarono il periodo resistenziale con un enorme spargimento di sangue e con atti di violenza che oltrepassavano ogni limite di necessità (la liberazione dell'Italia e la costituzione di un futuro democratico), potevano apportare alla causa dei resistenti grossi vantaggi, ma spesso le controrappresaglie tedesche avevano degli effetti così disastrosi da sconvolgere completamente ogni risultato fino ad allora ottenuto. La rappresaglia cercava di dissuadere il nemico dal continuare a lottare e ad opporre resistenza, la controrappresaglia aveva lo scopo di vendicare l'azione subita, di pareggiare le perdite, e di dimostrare al nemico la propria efficienza militare. Era fondamentale per le parti non mostrare i danni subiti dalle rappresaglie nemiche, poiché «piegarsi di fronte alle rappresaglie poteva essere considerato un implicito riconoscimento del diritto del nemico a esercitarle»(44). Ad ogni attacco partigiano corrispondeva una risposta militare nazifascista, e viceversa; ognuna delle due parti cercava di rispondere in modo più energico del nemico: episodi come quello delle Fosse Ardeatine, di cui si è già parlato, testimoniano le condizioni del conflitto fra partigiani e nazifascisti, e fanno riflettere sulle condizioni di estrema violenza in cui versava l'Italia della Resistenza, violenza che coinvolgeva anche persone innocenti, o almeno estranee al conflitto diretto. «Rappresaglie contro i familiari dei disertori sono stabilite da disposizioni delle autorità sia tedesche che italiane»(45). Le rappresaglie non erano in primo luogo un mezzo per raggiungere gli ideali per cui i partigiani lottavano,ma erano la concretizzazione di uno spirito vendicativo e di un'aggressività, spesso al di fuori di qualsiasi progetto razionale e di giustificazione morale. Lo testimonia il fatto che gli interessi militari delle parti avevano la meglio su quei principi fondamentali, quale il rispetto per le popolazioni innocenti,necessario perché un conflitto non provocasse più morti e più disastri di quanto non avesse già fatto. Ogni individuo catturato, anche se non appartenente ad uno dei due eserciti, poteva costituire un ostaggio ed, in quanto tale, non costituiva più un essere umano ma un mezzo di scambio, una potenziale vittima. La ricerca e la cattura degli ostaggi non era una semplice procedura da eseguire durante un attacco contro il nemico, ma diventò ben presto una strategia che entrambe le parti eseguivano con regolarità, per garantirsi un mezzo attraverso il quale minacciare e ricattare gli avversarsi. Il clima di terrore si era diffuso in tutto il territorio; la strategia della rappresaglia costituiva un elemento indispensabile per impensierire l'azione dei nemici, e gli stessi partigiani erano istigati dai loro superiori, come accadeva anche ai tedeschi, a essere ancora più violenti del nemico, a vendicare i danni e le perdite con azioni ancora più dure di quelle che si erano subite. «Nella guerra che conducono i patrioti delle formazioni partigiane, la rappresaglia del nemico sulla popolazione è quasi inevitabile. Sta a noi intervenire nel modo più acconcio nella difesa degli interessi degli abitanti minacciati dalle rappresaglie nazifasciste. Se i nazifascisti bruciano le case dei contadini noi dovremmo bruciare le case dei fascisti, dei capi fascisti; se uccidono per rappresaglia dei pacifici abitanti dei paesi dovremo passare alle controrappresaglie sui fascisti, tedeschi e anche loro famiglie. Al terrore antifascista bisogna contrapporre il terrore patriottico»(46). Lo spirito che animava le azioni di rappresaglia era più presente nei centri urbani, perché la scarsa possibilità di nascondersi e la massiccia presenza di contingenti tedeschi costringevano ad azioni più rapide e ad una maggior determinazione. E' proprio nelle città che nasce il "terrorismo" partigiano, inteso come estrema reazione ai soprusi nazifascisti, espresso dai GAP (Gruppi di Azione Patriottica), nell'agire dei quali è possibile individuare alcuni dei punti essenziali della vicenda resistenziale. Anche se operare una distinzione non era sempre facile, le azioni gappiste cercavano sempre di essere mirate ad personam, cioè «il terrorismo, in città, non era diretto contro tutti indiscriminatamente i soldati nemici, ma solo contro chi era adibito a compiti di polizia, di repressione, di rappresaglia»(47): le azioni di violenza dovevano essere esemplari solo in quanto dirette verso i reali responsabili: «solo così dimostreremo di essere implacabili sì contro i nemici del popolo e della libertà, ma retti e onesti e soprattutto combattenti rivoluzionari, come sempre lo hanno dimostrato e lo dimostrano i comunisti»(48). Tuttavia la resistenza urbana fu molte volte caratterizzata da elementi superficiali e scarsamente motivati: proprio questo aspetto, accanto a quello ideologico-politico, differenziava la lotta partigiana urbana da quella di montagna; il combattente di città appariva ai combattenti alpini come un politico, animato solo da uno spirito ardito e "colpista", operando una nettissima distinzione tra etica dell' "ardito" e etica dell' "alpino" e tra la definizione di "soldato" e di "colpista". Non bisogna però affrettare il giudizio, senza considerare che i gappisti, proprio a causa dell'ambiente e delle situazioni in cui dovevano operare, erano sottoposti a pressioni fortissime e dovevano tenere conto di problemi estranei alla vita partigiana alpina, o comunque presenti in modo minore come la determinazione e l'agilità dei nemici nelle città, la clandestinità, da cui derivava un forte senso di solitudine e abbandono, ecc. Le azioni partigiane urbane, inoltre, erano tali da comportare una sorta di "privatizzazione" del nemico e la conseguente esigenza di freddezza nell'ucciderlo; ciò portava ancora di più a rinchiudersi in se stessi, per riuscire a tenere saldamenti uniti i valori politico-morali e l'inflessibilità nella lotta contro il nemico. Particolarmente importante ai fini di un'analisi etico-emozionale del fenomeno resistenziale appare la considerazione della fase insurrezionale e postinsurrezionale, la cosiddetta "resa dei conti" affiancata dall'attuazione del processo di epurazione previsto dal nuovo assetto istituzionale. Accanto alla volontà di agire accentuata dal vicino traguardo della fine della guerra, esisteva però anche il timore che quel particolare momento potesse costituire l'ultima occasione per agire scorrettamente protetti dall'impunità che quel clima di assoluto disordine garantiva. Da un lato, quindi, si spingeva all'azione, dall'altro si cercava di frenarla per paura degli eccessi: «E' in questo quadro che va collocata l'esplosione di violenza avutasi in quei giorni cruciali, quando l'esasperazione accumulata in venti mesi di guerra civile venne allo scoperto ed ebbe uno sfogo che, se era legittimato dalla vittoria, la vittoria stessa poteva in breve tempo far scivolare sul terreno della mera e scomposta vendetta»(49). In questo contesto si inserì la politica del CLN che proponeva una giustizia "rapida ed esemplare" che escludesse gli eccessi e la radicalità partigiana. Si cercò, così, di operare, almeno a livello teorico, una distinzione tra attività militare, funzione di polizia e procedimenti giudiziari, anche se la realtà non sempre vi corrispondeva: non si poteva pensare di ridurre il ruolo dei partigiani a semplici militari, proprio per il valore politico e ideologico intrinseco alla risposta resistenziale; si era giunti al culmine di una lotta antifascista durata anni e che per essere conclusa richiedeva paradossalmente altri morti. D'altra parte non era sempre facile sopprimere la rabbia accumulata: così, molte volte, negata la possibilità di punirne i diretti responsabili, essa prendeva altre vie di sfogo, diventando rigetto della viltà nemica. Il desiderio di rivalsa e la necessità di sfogare quella aggressività tipica dell'oppresso non si risolveva quasi mai, però, nella denuncia alle pubbliche autorità, secondo quell'atteggiamento così radicato nell'etica popolare, di rifiuto dell'autorità stessa, qualunque essa fosse. L'abitudine alla violenza conduceva però anche ad atteggiamenti contrari a quanto sopra detto, come il rifiuto delle armi e la propensione al perdono: «il perdono come virtù, il perdono come colpa e come errore politico, il perdono come ripugnanza a stravincere e come desiderio di oblio, si intrecciano, dunque, con la violenza nei giorni di aprile-maggio 1945»(50).

3. La vita e la morte Quella resistenziale, come sopra detto, fu per i partigiani una scelta che li spinse a mettere a repentaglio la loro vita e quella dei familiari, per far sì che l'Italia potesse scrollarsi di dosso l'oppressione nazifascista. Il resistente in quanto soldato non poteva certo prevedere il destino della sua vita: avrebbe vissuto tanto da poter raccontare le imprese sue e dei suoi compagni, o sarebbe finito presto nelle mani dei nemici? Ma la vita di un uomo perdeva di significato in una situazione politica e ideologica come quella del regime fascista, ed il partigiano sentiva la necessità di alimentare quelle speranze che costituivano la unica spinta ad andare avanti, a costo di vivere a un passo dalla morte. La vita dunque, era per il partigiano qualcosa privo di valore se lontana da quegli ideali cui la Resistenza tendeva: la vita era qualcosa che doveva essere sacrificato per il bene comune e per un futuro migliore. La morte non costituiva quindi il tragico epilogo di un tentativo rivoluzionario, ma un atto di estremo amore per la patria e per i propri compagni. Il sacrificio e la morte erano spesso un binomio indivisibile; le perdite registrate dai partigiani erano il risultato di azioni militari contro i nemici che, disponendo di mezzi sicuramente più efficienti e di un maggior numero di uomini si trovavano spesso in vantaggio sui resistenti. L'azione partigiana poteva dunque avere successo solo attraverso gesti eroici da parte di uomini che, disposti al sacrificio, erano coscienti del fatto che l'unica possibilità di imporsi sul nemico comportava azioni nelle quali il rischio di rimanere uccisi era sempre e costantemente presente. I combattenti per la causa partigiana si sentivano gravare sulle spalle il peso di una grandissima responsabilità, di una sorta di promessa che essi avevano fatto non solo a se stessi, ma ai loro amici, ai conoscenti morti a causa del nazifascismo, a tutti coloro che speravano ardentemente, come loro, in un'Italia migliore. Essi si sentivano obbligati a continuare in una direzione che, proprio grazie alla costanza e alla determinazione, avrebbe portato alla liberazione dell'Italia dagli oppressori tedeschi e fascisti. Bisogna comprendere che, nella situazione in cui vivevano i resistenti, la felicità poteva essere data solo dal raggiungimento e dalla concretizzazione degli ideali di libertà e di giustizia; i partigiani erano coscienti della necessità di dovere attuare un'azione militare violenta per liberarsi dagli oppressori ed erano coscienti del fatto che, rinunciando ad una politica di questo tipo, mai essi avrebbero potuto vivere felicemente in un paese democratico e libero. Era dunque più giusto, dal punto di vista etico, continuare a lottare, pur continuando a mettere la propria vita a rischio, che vivere, pur senza correre rischi, in un paese dove la popolazione avrebbe continuato a subire l'oppressione straniera e dove mai si sarebbe potuto essere felici. Proprio per questo motivo i partigiani furono disposti non solo a mettere in pericolo le proprie vite, ma riuscirono a sopportare, pur con gravi conseguenze, il dolore e la sofferenza dovuta alla morte dei propri compagni, alla quale magari, si sarebbe preferita la propria. L'amicizia e la solidarietà erano infatti due elementi che legavano strettamente i compagni di azione partigiana che, coscienti della necessità di agire per il raggiungimento dei valori tanto desiderati, erano mossi da uno stesso sentimento e da una comune ricerca di giustizia. Il legame che univa i resistenti, che magari mai si erano conosciuti se non in occasione di azioni militari, fu un elemento essenziale dell'azione dei partigiani. E questo legame era talmente forte da spingere un uomo a sacrificarsi per salvare la vita ai propri compagni, oltre che per favorirne l'azione; ancora oggi, i testimoni diretti di questi momenti drammatici, ricordano con grande commozione i loro amici morti combattendo contro i tedeschi, spesso dopo agonie indescrivibili o magari torturati dopo essere stati catturati dai nemici. La giustizia e la libertà erano dunque valori, assieme all'amore per la patria, che venivano a mettere in secondo piano l'attaccamento alla vita per cui un uomo è naturalmente predisposto; per un partigiano era dunque moralmente più importante salvare la propria patria che la propria vita. E' questo uno degli aspetti connessi alla dimensione etica del fenomeno resistenziale che maggiormente aiutano gli uomini delle generazioni successive a comprendere la Resistenza, vista come movimento popolare collettivo rivolto alla ricerca della concretizzazione di ideali irrinunciabili. Proprio grazie a questa fortissima determinazione i partigiani poterono lottare con costanza e con risolutezza, raggiungendo quei successi la cui massima espressione venne raggiunta il 25 aprile. La Resistenza, in questo senso, è un esempio di coerenza verso i propri ideali e verso le proprie speranze che ci insegna come attraverso sacrifici, difficoltà, dolore e sofferenza, l'uomo possa raggiungere dei risultati magari apparentemente impossibili ed irrealizzabili. La convinzione morale dei resistenti, secondo la quale era giusto mettere a repentaglio la propria esistenza pur di non vivere in uno stato di oppressione, ci insegna a prendere in grande considerazione i risultati ottenuti grazie al loro agire; ciò significa non solo prendere esempio dal valore e dall'eroismo dell'azione partigiana, ma significa soprattutto non vanificare gli sforzi ed i grandissimi sacrifici di coloro che cinquanta anni fa lottarono per liberare la loro patria. Un altro valore che la Resistenza ci trasmette è quello del perdono; in condizioni di estrema violenza e di grande ingiustizia che caratterizzano gli anni conclusivi del secondo conflitto mondiale, stupisce l'atteggiamento di alcuni partigiani, fra cui Giancarlo Puecher che, pur consapevole del tragico destino che gli si prospettava, grazie anche alla forte sensibilità religiosa, riuscì a perdonare quelli che di lì a poco sarebbero diventati i suoi carnefici. Egli, nella sua giovane età, era consapevole che il suo impegno a favore dell'azione partigiana avrebbe potuto stroncare, come poi è stato, il suo futuro che, date le sue agiate condizioni familiari, sarebbe sicuramente stato meno difficile di quello di altri italiani. Ma un futuro roseo in una Italia oppressa dai nazifascisti non aveva senso, non lo avrebbe reso realmente felice e realizzato; la sua sensibilità interiore lo spinse a sacrificarsi e ad accettare la propria morte prematura in nome di valori superiori. «Non sanno quello che fanno» dice Puecher nella sua ultima lettera, citando il Vangelo: e proprio per questo egli perdona i suoi assassini, perdona coloro che non gli avrebbero permesso di vivere e di realizzare i sogni della sua vita. Non tutti i partigiani, come è d'altronde comprensibile, riuscirono a perdonare i loro nemici, poiché le grandi sofferenze e la disperazione che essi avevano procurato loro andava oltre ogni limite e oltre ogni possibile accettazione, ma non si può fare a meno di trarre un profondo insegnamento etico da coloro che riuscirono a perdonare gli artefici di tanta violenza ed ingiustizia. 4. Le speranze e i progetti per il futuro

L'autore del libro analizzato, a proposito delle politiche e delle speranze per il futuro, utili alla ricostruzione di un ordine che sembrava essere stato perduto da tempo, accenna appena alla questione della utopia. Molti degli ideali che avevano guidato la Resistenza lungo tutto il cammino dell'opposizione al nazifascismo, dai primi albori di una Resistenza debole e mal organizzata fino alla liberazione d'Italia, quando ormai le squadre partigiane creavano ben più che qualche semplice problema alle forze nemiche, avevano un che di utopico. La democrazia e la libertà,la giustizia e la patria avevano sempre rappresentato, nella mente della gente, da una parte l'anticamera della rivoluzione che avrebbe finalmente capovolto un sistema ingiusto, dall'altra la rappresentazione di un Eden, la realizzazione di un'eterea idealità dove potessero essere ricompensate le ingiustizie e le angherie subite per una vita. Questo aspetto caratterizzava la maggior parte degli ideali resistenziali: molti partigiani agivano non tanto per una propria realizzazione personale, per un riscontro da ottenere in tempi brevi o per una ricompensa materiale o politica, quanto per garantire un futuro all'Italia, assicurare uno stato stabile e una nazione solida ai propri figli e ai figli dei propri figli, gettando le basi della democrazia che noi viviamo mezzo secolo dopo quegli avvenimenti. Ma tutto ciò sarebbe stato di certo irrealizzabile senza una forte componente realistica, se tutti gli ideali che erano alla base delle scelte resistenziali fossero state basate sulla utopia: la consapevolezza invece di essere davvero in grado di fare qualcosa, di aiutare in piccola misura a costruire una reale democrazia e una Repubblica la cui sovranità appartenesse realmente al popolo, fu il vero motore della forza e della volontà dei resistenti. E proprio questi elementi mettono in evidenza quanto fosse strettamente connesso alle questioni morali e alle connotazioni etiche del fenomeno resistenziale anche il rapporto generazionale: così come per i secoli, lo storico Marc Bloch osservò giustamente che esistono generazioni più brevi e generazioni più lunghe, la cui durata non dipende essenzialmente dallo scarto generazionale in termini di anni, bensì dal collegamento diretto che le diverse generazioni hanno o hanno avuto con i più recenti fatti storici; «quelli che hanno partecipato a eventi psicologicamente decisivi con uomini più vecchi di loro di quindici anni, possono sentirsi più vicini ad essi che a gente soltanto di poco più giovane, ma che non abbia partecipato a quelle grandi esperienze. Possiamo trovarne conferma nelle generazioni delle due guerre mondiali»(51). Le generazioni che furono coinvolte negli avvenimenti di quegli anni guardavano con sospetto ai fatti che accadevano e con ancor più sospetto guardavano verso il futuro: essi speravano realmente di poter costruire qualcosa per le generazioni a venire, la situazione politica così come era in quegli anni non lasciava molte speranze. I partigiani si aggrappavano ad ogni sogno, ad ogni ideale e ad ogni obiettivo per quanto utopico questo fosse. Le speranze e le aspettative per il futuro si mescolano in molti degli uomini e delle donne coinvolte nella Resistenza alla paura, al terrore del futuro: alla paura che un futuro non sia più possibile, al concreto timore di un'autodistruzione della civiltà. Bisogna anche considerare che ciascun protagonista del conflitto considerava la propria situazione, in mancanza di comunicazione, come rappresentativa di una situazione generale (e questo non era troppo lontano della realtà). Così se un uomo trovava solo distruzione e desolazione nei luoghi che un tempo aveva abitato,dopo essere tornato da uno scontro sul fronte o da altre missioni, nel regio esercito o nelle schiere della Resistenza, credeva che tutta l'Italia fosse diventata, alla stregua di quei luoghi, un deserto. Il mondo era crollato e il terrore era che non risorgesse più. «Quale sarà la Parigi, meglio quale sarà il mondo che uscirà dal tormento d'oggi? [...] Ho paura di questo domani che sarà così diverso, così ostile a troppe cose in cui ho creduto. Capisco che così deve essere; sono pronta a dare la vita perché così sia; ma avrò la forza di viverci, in questo "nuovo ordine" di domani?»(52). Tutti i problemi, politici, economici, sociali erano ignorati da tutti, erano rimandati a dopo il conflitto,«ogni guerra è così: si rimanda tutto a poi, a quando sarà finita. E mentre c'è la guerra è come se fossi sospeso a mezz'aria, fuori dal tempo. Il tempo riprenderà a scorrere un'ora dopo, ma è già la somma di tute le ore perdute» (53). Infine, la speranza che per tutti era la più importante, l'obiettivo più imminente da raggiungere e da conseguire era quello del ritorno non solo ad una stabilità politica agognata da tutti, ma anche e soprattutto ad una realtà privata stabile: una realtà familiare che ciascuno dei partigiani aveva, vicino o lontano: una moglie, un marito, una casa, dei figli, dei parenti lasciati a casa, i genitori anziani, i fratelli ancora giovani lasciati soli. L'ora del ritorno era quella che si aspettava sempre ma che non arrivava mai. Anche se spesso la speranza lasciava spazio al pessimismo, alla rassegnazione, alla depressione e all'incertezza, gli ideali che erano alla base della lotta e delle speranze resistenziali non morivano: restavano anzi vivi più che mai nelle menti e nei cuori di tutti i partigiani, ad animare quello spirito di unione, di organizzazione, e di opposizione ad un regime ingiusto che caratterizzò,lungo tutto il periodo resistenziale, le tre forme sotto cui si presentava la lotta partigiana: la guerra civile, la guerra di classe e la guerra patriottica. Molti non si resero neppure conto del termine della guerra, le cose cambiarono così, da un giorno all'altro e in molti altri l'effettivo momento in cui la guerra era finita e per i partigiani non c'era più nulla da fare costituì una piccola tragedia: per molti l'unica realtà rimasta era quella; accanto ad una moltitudine di uomini e donne che volevano tornare alle proprie case e alle proprie famiglie, ve n'era, infatti, un'altra che non sapeva più cosa fare, i cui vincoli con il mondo esterno alle organizzazione partigiane si era reciso nel momento in cui avevano deciso di farne parte, i cui familiari e amici erano stati portati via, e con ogni probabilità ammazzati, dai nazi-fascisti. Per tutti questi si trattava davvero di ricominciare tutto da capo, senza punti di riferimento, senza lavoro, senza casa, senza soldi. Dunque, il ritorno alla normalità fu tanto problematico quanto lo fu il periodo resistenziale. Mischiata a questi sentimenti, a questi problemi c'era però una profonda gioia per la fine della guerra, una contentezza ed un'euforia incomparabili: la guerra era finita, il nemico era stato sconfitto: si trattava di rimboccarsi le maniche, ricostruire un'Italia allo sfascio e gettare le basi di una Repubblica democratica fondata sul lavoro di tutti, nella quale vivere e far crescere i propri figli. La nostra Repubblica è dunque la vera eredità lasciataci dalla Resistenza. «Mi resta ancora il ricordo di una profonda euforia, di una esperienza di felicità, di grande fiducia in se stessi e negli altri»(54). «Ritorniamo a casa con semplicità,dopo venti mesi lotta e di lontananza: ritroveremo il tepore dell'affetto familiare, ritroveremo la mamma invecchiata, la povera santa Mamma. Leggete, studiate sui giornali i problemi della politica che sono i problemi dei nostri interessi, del nostro benessere, della nostra esistenza. Prendete sul serio il pensiero e non la forma, il lavoro e non le chiacchiere ( ..). Diffidate dei politicanti: chi vuoi vivere sulla politica è prima di tutto un fannullone ed è poi sempre un venale. La politica si fa quando termina la giornata di lavoro» (55). III. Conclusione

Il fenomeno resistenziale nell'opera di Claudio Pavone viene per la prima volta analizzato nelle sue componenti morali ed ideologico-politiche; viene così studiato l'atteggiamento partigiano non tanto dal punto di vista storico e "militare, ma soprattutto attuando un'indagine introspettiva delle situazioni psicologiche e delle radicate condizioni emotive che permeavano e fondavano la lotta antifascista. Secondo questa prospettiva anche l'agire militare vero e proprio, quella risposta armata descritta dagli storici per la maggior parte delle volte con freddezza e superficialità, viene esaminato a fondo e scisso in tre componenti individuabili a seconda degli ideali e del sentire che le animavano: si giunge così alla tesi delle tre guerre, interpretazione storica nuova ed originale che vede nella lotta resistenziale la coesistenza appunto di tre componenti: la guerra patriottica, la guerra civile e la guerra di classe. I sentimenti di identità nazionale, l'amore per la patria e la coscienza del bisogno di ricreare l'unità perduta avevano spinto infatti molti uomini e molte donne a combattere contro i nazifascisti per l'ideale della democrazia e della Repubblica. In questo senso il conflitto resistenziale si configura come guerra patriottica. Tuttavia, l'opposizione partigiana ai fascisti, si concretizzava, fra l'altro, in una guerra aperta combattuta sul suolo italiano, fra italiani, tutti invocando la patria, tutti combattendo in nome dell'Italia. Si era così di fronte ad una guerra civile che vedeva combattersi le fasce più povere e lavoratrici, insorte contro una situazione prolungata di sofferenza e di ingiustizie, ed una classe dominante, detentrice di un potere politico ormai decaduto, e convinta di aver ricreato un potere forte e in grado di risollevare le sorti del fascismo nella Repubblica Sociale. La guerra civile, è come visto, una delle più ricche di implicazioni morali e di conflitti etici per i suoi partecipanti. Infine, la guerra di classe, si legava ad un altro particolare aspetto della guerra resistenziale. La grande maggioranza dei resistenti e dei coinvolti in maniera più o meno diretta nel conflitto, era di estrazione proletaria: questi vedevano nell'opposizione al nazifascismo l'occasione ideale per realizzare quell'idea di rivoluzione che il socialismo aveva loro proposto. La guerra partigiana diventava così conflitto di classe, opposizione fra operai e borghesia: tentativo di realizzazione di quel nuovo ordine sociale proposto alle classi lavoratrici. Furono proprio le classi lavoratrici a porsi in prima linea nella lotta antifascista, creando gruppi di azione partigiana (come GAP e SAP nelle città) e organizzandosi militarmente contro il nemico: furono proprio i più oppressi a ribellarsi per primi al regime, spinti come erano da esigenze di libertà e di democrazia che tutelassero i loro diritti di uomini. Così, la partecipazione alla lotta antifascista nasceva come adesione spontanea alla comune ricerca di un presente libero e un futuro democratico, motivazioni ampiamente sostenute dal punto di vista politico dai partiti antifascisti, quali il PCI o il PSI, unitamente alla consapevolezza e in un certo senso anche all'orgoglio di essere italiani e di dover lottare per la propria patria contro un nemico che la stava distruggendo (se già non l'aveva fatto). E' pur certo che l'agire partigiano fu contraddistinto dall'uso della violenza, ma non bisogna fare l'errore di analizzare questo aspetto con gli occhi di oggi: bisogna infatti considerare le condizioni storiche e psicologiche in cui si decise l'uso della forza. Gli italiani si trovavano ad un punto di estrema esasperazione per tutto ciò che avevano dovuto subire dalle istituzioni fasciste e dalla guerra ed erano contemporaneamente ormai assuefatti ad un clima di violenze e di soprusi che durava ormai da troppo tempo; la violenza quindi era, da un lato, la risposta immediata a una situazione insostenibile sopportata per anni e che aveva provocato negli animi un'incredibile rabbia, dall'altro essa costituiva, in quella contingenza contingenza particolare, l'unica modalità di reazione al fascismo che potesse essere attuata. La questione dell'uso della violenza in epoca resistenziale è comunque molto complessa soprattutto per quanto riguarda la necessità di operare distinzioni tra la violenza fascista, legale ma illecita e quella resistenziale, lecita ma illegale; tra violenza ordinaria, contenuta entro i limiti di una risposta armata, e violenza eccessiva, come degenerazione di un atteggiamento comune non giustificabile in alcun modo se non considerandola come scelta del singolo individuo e non come scelta di gruppo, tra violenza come puro sentimento di odio e vendetta e violenza considerata solo come mezzo indispensabile per ottenere una realtà migliore, e quindi sorretta da precisi e forti ideali, ecc. Insomma durante il periodo resistenziale si intrecciarono vari tipi di violenza, moralmente fondati o meno, che comunque vanno presi in considerazione nell'ambito di una seria analisi storica che punti anche a delineare il sottofondo psicologico ed etico del fenomeno. I partigiani, fin da quando optarono per la scelta resistenziale, furono consapevoli del fatto che la loro vita era costantemente in pericolo, non solo durante le azioni militari che li vedevano a contatto diretto con il nemico, ma in ogni istante ed in ogni luogo, poiché i nazifascisti organizzavano e portavano a termine azioni di rappresaglia in ogni momento. Il partigiano era cioè consapevole di tutti i rischi che la scelta di lottare comportava; ma la forte necessità ed il grande desiderio di combattere per una patria libera dalle forze fasciste andava oltre l'attaccamento degli uomini alla loro vita: I resistenti avevano capito che non avrebbe avuto senso continuare a vivere in condizioni ingiuste, in un paese oppresso dagli stranieri e senza quei valori essenziali dei quali erano stati privati per anni. Per questo la spinta resistenziale fu così efficace, grazie cioè alla forte determinazione che ebbero i partigiani nel condurre la loro lotta; questi, attraverso i loro sforzi, potevano solo migliorare le loro condizioni di vita, e la esigenza di un futuro migliore costituiva un valore etico ben più importante della loro stessa esistenza. Di qui nasceva il desiderio del partigiano di sacrificarsi non solo per la sua patria, ma anche per favorire la azione dei propri compagni con cui era legato anche da profondi vincoli di amicizia; come raccontano i diretti testimoni del periodo resistenziale, i gruppi partigiani erano spesso composti da amici, da parenti, da conoscenti, o da uomini che si erano conosciuti solo in occasione di azioni militari, il cui legame di amicizia era comunque rafforzato dalla volontà di concretizzare ideali comuni. E sempre il desiderio di una Italia libera fece sì che i partigiani sopportassero, pur con gravi patimenti, il dolore e la sofferenza che la scelta resistenziale comportava. E stupisce, oltre alla forza interiore e alle motivazioni etiche che diedero ai partigiani la determinazione sufficiente per condurre la loro azione resistenziale, il comportamento di alcuni giovani, come Giancarlo Puecher che, negli ultimi istanti della propria vita, prima che fosse fucilato dai nazifascisti, ebbe il coraggio di perdonare i propri carnefici. La Resistenza, insomma, costituisce una parte fondamentale della storia della Repubblica Italiana ed è dunque indispensabile comprendere tale fenomeno in profondità e considerare che esso fu caratterizzato da enormi sofferenze; la nostra Costituzione dunque nasce da condizioni storiche ben precise, attraversate da ideali e da fondamenti etici irrinunciabili, che in quanto italiani, non possiamo ignorare. Grande è l'insegnamento che resta alla posterità dagli uomini e dalle donne della Resistenza, e le nuove generazioni dovrebbero considerare, in ogni loro agire, quale sia stato il prezzo pagato, in nome di quali valori, per quali ideali, la Repubblica sia stata fondata. 1 C.Pavone, Una guerra Civile. Saggio storico sulla moralità nella resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 7. 2 Ivi, pp. 4-5. 3 G.Mammarella, L'Italia contemporanea. Storia d'Italia dal Risorgimento alla Repubblica, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 11-13. 4 C.Pavone, op. cit., p. 169. 5 Ivi, p. 170. 6 Ivi, p. 172. 7 Ivi, p. 173. 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 179. 10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 180. 13 Ivi, p. 183. 14 Ivi, pp. 201-202. 15 Manifestino ligure del P.d'A. in C.Pavone, op.cit., p. 207. 16 C.Pavone, op.cit., p.209. 17 Ibidem. 18 Ivi, p. 221. 19 Ivi, p. 225. 20 Ivi, p. 227. 21 Ivi, p. 234. 22 Ivi, p. 243. 24 Ivi, p. 255. 25 Ivi, p. 314. 26 Ibidem. 27 Ibidem. 28 Ibidem. 29 Ivi, p. 315. A.Caviglione Russo, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, La Pietra, Milano 1976, p. 17 in C.Pavone, op.cit., p. 27. 31 C.Pavone, op.cit., p.23. 32 Ivi, p. 31. 33 Ivi, p. 32. 34 Ivi, p. 55. 35 Ivi' p.71. 36 Ivi, p. 415. 37 Ivi, p. 416. 38 Ivi, p. 31. 39 Ivi, p. 419. 40 Ivi, p. 423. 41 Ivi, p. 435. 42 Ivi, p. 427. Lettera dell'8 ottobre 1944 al tenente colonnello Pier Alessandro Vanni (INSMLI, CVL, b. 27, fasc. 2, c. 1) in C.Pavone, op cit, pp. 449-450. 44 C.Pavone, op cit., p. 455. 45 Ivi, p. 479. 46 Ibidem. 47 Ivi, p. 491. Ivi, p. 495. 0001.txt***********************************************

PARTIGIANI DELLA ZONA 15 FRAMMENTI DELLA RESISTENZA ITALIANA E MILANESE a cura di Giuseppe Deiana con la collaborazione di Luigi Borgomaneri Rossana Cipolloni, Andrea Marino e Antonia Peruchetti Romagnoli Liceo scientifico "Salvador Allende" Milano 1997


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PARTIGIANI DELLA ZONA 15 FRAMMENTI DELLA RESISTENZA ITALIANA E MILANESE

a cura di Giuseppe Deiana

con la collaborazione di Luigi Borgomaneri Rossana Cipolloni, Andrea Marino e Antonia Peruchetti Romagnoli Biblioteche comunali di Milano

Liceo scientifico "Salvador Allende" Milano 1997


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Copiright 1997 Liceo Scientifico Statale "Salvador Allende" via Ulisse Dini 7 20142 Milano Fotocomposizione e stampa Attilio Negri srl Rozzano (Milano) Finito di stampare nel mese di gennaio 1997 Edizione fuori commercio realizzata con il contributo del Consiglio di Zona 15 e della Provincia di Milano In copertina: monumento ai caduti della zona 15-Milano (via Boifava 17)


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Ricerca storica realizzata negli anni scolastici 1995-96 e '96-97 da un gruppo di studenti e docenti del Liceo Scientifico Statale "S. Allende", coordinati dal prof. Giuseppe Deiana, docente di Storia e Filosofia. Il lavoro è dedicato, per un verso, ai docenti ed agli studenti sensibili ai temi dell' educazione alla ricerca ed al recupero della memoria storica e convinti della funzione etico-civile della scuola, per un altro ai cittadini ed ai partigiani della Zona 15 di Milano, nel comune ricordo dei "ragazzi della Baia", caduti nella lotta di Liberazione.

Docenti: Rossana Cipolloni, Giuseppe Deiana, Andrea Marino e Antonia Peruchetti Romagnoli.

Studenti: Antonio Acocella, Francesca Allaria, Andrea Appiani, Carlotta Arosio, Eva Arosio, Rossella Balassino, Marco Belli, Luna Boschetti, Liviana Bottos, Michele Campanella, Valentina Canevari, Valeria Carteri, Adele Casali, Michela Castelazzi, Francesca Cerminara, Michele Cerminara, Alessandra Costa, Enzo Gabriele, Vincenza Gagliardi, Francesca Galbusera, Daniela Ghidoli, Alex Guida, Angelica La Francesca, Daniel Liber, Lara Luppi, Ivana Pancotti, Elisabetta Patroncini, Chiara Peyrani, Clelia Pennella, Eugenio Perrotta, Simona Raiteri, Elisabetta Randolfi, Daniela Ricciardi, Elena Riganti, Alessia Rognone, Daniela Saia, Simone Salvaneschi, Chiara Sanvito, Giovanni Saverino, Chiara Semenzato, Filippo Sperandeo, Enrico Spinelli, Gianlorenzo Thione, Stefano Torre, Daria Tosato, Sara Vacchini e Marco Verzotti.

Collaboratori esterni: Luigi Borgomaneri e Sergio Manera

Questo volume, fino ad esaurimento delle copie stampate, è disponibile gratuitamente presso il Liceo Scientifico "S. Allende", in particolare per le scuole e gli enti che se ne servano per uso didattico e divulgativo.


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Indice

Presentazione, di Giuseppe Deiana, p. 9

I. Introduzione. La Resistenza e la ricerca didattica, di Giuseppe Deiana, p.15

II. La Resistenza in Europa, in Italia e a Milano, di Michele Cerminara, Andrea Appiani e Antonio Acocella,

     p. 31

III. La Resistenza in zona 15, di Luna Boschetti e Eugenio Perrotta, p. 55

IV. La 1132 e la 1142 Garibaldi nel III settore, di Luigi Borgomaneri, p. 63

V. Autobiografie partigiane: i "ragazzi della Baia" e gli altri, a cura di Giuseppe Deiana, p. 67

VI. I caduti dello Stadera e gli altri. I nomi del monumento, di Francesca Allaria, Marco Belli, Valeria

     Carteri, Giuseppe Deiana, Angelica La Francesca, Daniel Liber, Lara Luppi, Clelia Pennella, Chiara 
     Semenzato, Simone Salvaneschi, Filippo Sperandeo, Stefano Torre, p. 85

VII. Inserto fotografico: le immagini e le lapidi dei caduti, a cura di Sergio Manera, p. 97

VIII. La figura di Giancarlo Puecher, di Vincenza Gagliardi e Elena Riganti, p.109

IX. Un museo della Resistenza nella zona 15. Progetto di riuso del complesso della Cascina Chiesa Rossa,

     di Rossana Cipolloni, p. 121

X. Appendice 1. I monumenti della Resistenza a Milano. Con l' intento di documentare le immagini della

     memoria, di Antonia Peruchetti Romagnoli, p. 125

XI. Appendice 2. Elaborazioni grafiche sul tema della Resistenza, di Carlotta Arosio, Rossella Balossino, Adele Casali, MichelaCastellazzi, Francesca Cerminara, Alessandra Costa, Daniela Ghidoli, Ivana Pancotti, Alessia Rognone, Daniela Saia, Sara Vacchini, p. 133

XII. Appendice 3. Letteratura e Resistenza, di Francesca Galbusera, Chiara Peyrani, Elisabetta Randolfi e

     Chiara Sanvito, p. 143

XIII. Appendice 4. La morale nella Resistenza, di Michele Campanella, Angelica La Francesca e Gianlorenzo

     Thione, p. 157


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Prefazione

Questa pubblicazione, nata dal lavoro di ricerca degli studenti con l' accurata guida di alcuni docenti, prosegue la tradizione, ormai consolidata per il Liceo Scientifico "S. Allende", di prestare particolare attenzione alla zona 15 nelle proposte di percorsi didattici, che sono stati sviluppati ed editi, nel corso degli ultimi anni scolastici. Leggendo queste pagine si avvertono le presenze, le voci, gli ideali dei giovani che abitarono il quartiere e la città, in un periodo molto infelice per la democrazia del Paese, giovani che non esitarono a sacrificare le proprie vite. Le loro età sono spesso confrontabili con quelle degli studenti che questo lavoro hanno impostato e condotto con estrema serietà, sentendosi depositari e custodi degli stessi ideali che hanno riscoperto, percorrendo vie e piazze, riportandoli alla memoria e che sapranno, a loro volta, ci si augura, conservare e tramandare. Se ancora vi fossero dei dubbi, il lavoro svolto dagli studenti del Liceo vuoi significare che, anche nelle scuole, si può fare storia attraverso la ricerca sul campo; vuoi significare che generazioni appartenenti a periodi storici diversi possono incontrasi e lavorare insieme con reciproca stima. Un particolare ringraziamento rivolgo a Luigi Borgomaneri, apprezzatissimo consulente della storia della Resistenza milanese, ai professori Deiana, Marino, Peruchetti e Cipolloni per il supporto didattico e la guida preziosa degli studenti e agli studenti stessi, che tanto impegno hanno profuso. Un ulteriore ringraziamento mi sento di esprimere nei confronti del Consiglio di zona 15, del Comune e della Provincia, per il contributo finanziario generosamente offerto al Liceo, consentendo la pubblicazione di questo volume, che sono molto tentata di dedicare ali' on. Luigi Berlinguer, Ministro della Pubblica Istruzione, mentre si appresta a riformare i programmi di Storia, quali dovranno essere svolti nella Scuola Secondaria di 2° grado.

Olga Cafiero

preside del Liceo "S. Allende"


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Delibera del Consiglio di zona 15-Milano

(...) Quella che si intende dare alla stampa è una ricerca storica, una esperienza scolastica sulla memoria della Resistenza, curata ed elaborata da una équipe di studenti ed insegnanti del Liceo Scientifico "S. Allende" di Milano. Trattasi di un percorso didattico che contribuisce a far conoscere alcuni aspetti della Resistenza italiana ed in particolare di quella milanese attraverso testimonianze e materiali (lapidi, monumenti) che rappresenta in modo concreto "la trattazione di uno dei nodi fondamentali della storia del Novecento: la Resistenza come tema storico-storiografico, etico-civile e didattico-formativo". Una parte di questo lavoro che riveste una particolare importanza per la Zona è quella che contiene "le tesimonianze sulla Resistenza in un quartiere operaio, la Baia del Re o Quartiere Stadera"sorto negli anni trenta e che fa parte della Circoscrizione 15 del decentramento amministrativo del Comune di Milano. L' iniziativa del Liceo Allende" è una ricerca sul campo, un contributo alla conoscenza della storia locale secondo una tradizione ormai consolidata per I' Istituto di impegno e di attenzione al territorio del Sud Milano legata al recupero della memoria storica ed alla coscienza ambientale. Questo è il senso per ricordare la Resistenza (...).

II Presidente della Circoscrizione 15 dott. Ing. Arch. Giuseppe Frattini

Milano, 11/09/1996


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Presentazione LA MEMORIA DELLA RESISTENZA Un' esperienza di ricerca storica a scuola di Giuseppe Deiana

1. Questo lavoro è nato come esperienza scolastica rivolta a insegnare la Resistenza, cioè a farla conoscere agli studenti in modo concreto, diretto e vivo, mettendoli nella condizione di scoprirla con la propria intelligenza, attraverso la testimonianza e l' esperienza dei partigiani, nel quadro di un approccio culturale ampio e articolato, secondo le possibilità offerte dalla scuola secondaria superiore. Non si tratta, pertanto, di un saggio di ricerca storica, ma semplicemente di un percorso didattico, che pure ha qualche rilevanza storiografica nella misura in cui contribuisce a far conoscere aspetti "periferici" e "marginali" della Resistenza milanese, attraverso fonti orali (testimonianze dei partigiani ancora vivi) e materiali (lapidi e monumenti). Un percorso didattico tra i tanti proposti in questi ultimi anni, di cui segnalo i due curati da Marina Medi (Quaderno n. 9, supplemento al n. 25 de "I viaggi di Erodoto", 1995) e quelli segnalati da Silvana Sgarioto. (in "Italia contemporanea", n. 198, 1995): essi rappresentano un modo concreto della trattazione curricolare di uno dei nodi fondamentali della storia del Novecento: la Resistenza come tema storico-storiografico, etico-civile e didattico-formativo.

2. II lavoro si divide in quattro parti: la prima discute il rapporto tra ricerca e didattica e fissa le coordinate metodologiche di una "sensata esperienza" di educazione alla ricerca e al recupero della memoria storica nella secondaria superiore; la seconda delinea il contesto generale e globale: la Resistenza italiana e milanese, in un quadro europeo, come tema forte del Novecento; l' ultima espone le elaborazioni letterarie e grafiche nate dal confronto tra arte e Resistenza e dalla collaborazione interdisciplinare tra quattro docenti di Storia, Italiano e Disegno-storia dell' arte. Sotto questo aspetto il lavoro risente del debito nei confronti del libro di Claudio Pavone (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991), che è stato scelto come modello storiografico di riferimento, soprattutto per consentire agli studenti di cogliere lo spessore etico della scelta resistenziale, anche in riferimento ai partigiani della zona 15. La terza parte, infine, contiene le testimonianze sulla Resistenza in un quartiere operaio, la Baia del Re o quartiere Stadera, sorto negli anni trenta e inglobato negli anni settanta nella Circoscrizione 15 del decentramento amministrativo del Comune di Milano. Si tratta del cuore del nostro lavoro: la parte più originale. Essa ricostruisce l' esperienza della lotta antifascista, armata e non, attraverso la viva voce dei protagonisti. Sono testimonianze raccolte dagli studenti in riferimento sia ai partigiani che sono ancora in vita sia a quelli che sono caduti durante gli eventi drammatici del triennio 1943-45. Ricerca storica locale, ricerca sul campo, dunque. Niente più di una piccola storia, comunque: il primo tentativo di ricostruzione dal basso, a partire dalle vicende che hanno coinvolto, oltre cinquant' anni fa, uomini e donne di uno dei quarteri allora più estremi del sud Milano, compreso nel III settore dell' organizzazione militare della guerra partigiana (Su questo tema segnalo il particolare il contributo "esterno" di Luigi Borgomaneri, studioso assiduo


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assiduo della Resistenza milanese e autore del volume fondamentale Due inverni, un' estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia 1943-1945, F. Angeli, Milano 1995). Le finalità di fondo del lavoro di ricerca storica a scuola, inserita nell' attività curricolare, è quella di produrre conoscenze forti e ricche di stimoli per impedire la falsificazione, più o meno consapevole, della storia su cui si esercita oggi il cosiddetto "revisionismo storico". Qui, comunque, ci si limita alla esposizione dei fatti e delle storie di tanti partigiani senza nome, comunisti e non, per rendere un servizio alla verità storica e quindi alla memoria e all' onore civile di donne e uomini sconosciuti della Resistenza, morti allora o ancora vivi oggi. La Resistenza in questo lavoro viene intesa in un' accezione molto ampia: per comprendere gli uomini della zona 15 attivi in città o in montagna, ma anche quelli che sono diventati "patrimonio" materiale e morale della zona 15, come la figura di Giancarlo Puecher (prima medaglia d' oro della Resistenza in Lombardia), a cui è stato intestato il Centro comunitario provinciale di via Ulisse Dini 7; o come quella di Emilio Sarzi Amadè, giornalista prima e uomo politico poi, residente nel quartiere Gratosoglio, il quale ha lasciato il racconto della sua esperienza di lotta partigiana nel volume di Einaudi Polenta e sassi. Una preziosa eredità per le nuove generazioni, garanzia per il presente e, soprattutto, per il futuro.

3. L' iniziativa del Liceo "Allende" si presta ad alcune ulteriori considerazioni. In particolare, come dimostra la pubblicazione di altri lavori (quello sulla cascina Campazzo, quello sulla cartiera Binda,ecc.), essa nasce dal bisogno di continuare a dare un piccolo contributo alla conoscenza della storia locale, tenendo in vita una tradizione, ormai consolidata per l' Istituto, di impegno e di attenzione al territorio del sud Milano, con particolare riferimento alla zona 15, come attuazione del progetto di educazione alla ricerca, al recupero della memoria storica e alla coscientizzazione ambientale, portato avanti dal Laboratorio di didattica della storia. Dal punto di vista più specificamente didattico bisogna aggiungere che esperienze come quella qui presentata possono innanzitutto stimolare tra gli insegnanti un dibattito sull' insegnamento della storia contemporanea e in special modo della storia del Novecento. La Resistenza è certamente uno dei momenti più alti della storia del nostro secolo come "secolo breve"; ma appunto per questo bisogna ripensarla come fenomeno storico ancora in buona parte da interpretare nella sua complessa globalità, oltre che da esplorare nella ricchezza delle testimonianze inedite che può ancora offrire. In questo senso, affrontare con una "ricerca sul campo" il delicato e controverso tema della Resistenza, anche con l' intento di trasmettere agli studenti i suoi valori etico-civili, senza indulgere alle celebrazioni retoriche e acritiche, può risultare una preziosa scelta didattica e formativa. In questo senso per gii insegnanti di storia si pone soprattutto il problema di dare a quei fatti un inquadramento più solido ed una valutazione meno emotiva. Pur con tutti i limiti derivanti dalla stessa natura di ogni ricerca scolastica questo lavoro sulla Resistenza in zona 15 cerca di cogliere positivamente le varie problematiche e tenta di dare loro una risposta per quanto limitata e provvisoria. Ce n' è quanto basta per sconfiggere il pessimismo di chi come Luigi Pintor sostiene: "Sono passati cinquantatre anni, ma è come se queste cose fossero accadute ieri, per chi c' era. Certo non si studiano e non si studieranno mai nelle nostre scuole pubbliche e private, neanche se ministro della istruzione fosse Federico Engels, e i più giovani non ne sanno nulla. Ma è tristissimo che ne giunga per di più alle loro orecchie un' eco distorta e bugiarda" ("Il manifesto", 8 giugno 1996, p. 2).



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Questo, quindi, uno dei compiti imprescindibili della scuola: garantire la trasmissione della memoria, essere custode della memoria contro le tentazioni dell' oblio e del revisionismo.

4. Abbiamo cercato di ascoltare alcune voci dalla Resistenza, di raccogliere alcune testimonianze per non dimenticare. Abbiamo messo insieme una certa quantità di testimonianze, le quali, in mancanza di iniziative che raccolgano sistematicamente e le sappiano organizzare in un quadro descrittivo ed interpretativo organico, rischiano di andare perdute per sempre. Cinquant' anni dopo, nelle voci e nelle immagini dei protagonisti abbiamo recuperato la memoria di un quartiere animato dallo spirito della Resistenza. Questa forse la scoperta più bella che vogliamo evidenziare e consegnare all' oggi. Negli ultimi anni il quartiere Stadera-Baia del Re è stato presentato dalla stampa come un quartiere malfamato, per spaccio di droga e violenza, ponendo agli amministratori non pochi problemi di ordine pubblico. Niente più del recupero della sua splendida tradizione resistenziale, forse, può restituire dignità e vivibilità a questo frammento della città. Si può sconfiggere il malessere, forse, anche con la cultura: ciò chiama in causa la responsabilità degli insegnanti e delle scuole di ogni ordine e grado, dalle elementari alle superiori. In questo senso la scuola va vista e valorizzata come luogo pubblico di incontro tra generazioni in cui scambiare beni immateriali come il piacere di imparare (insegnare e apprendere) gli elementi fondamentali della convivenza civile: per trasformare la relazione educativa nella possibilità di un' avventura creativa e coscientizzante, socializzante e propositiva. Agli insegnanti spetta oggi il delicato compito di saper recuperare l' interezza e il senso della relazione educativa. Oltre che guardare indietro è necessario essere capaci di osservare il presente e accogliere le domande reali dei ragazzi e dei giovani che esprimono una ricerca di orientamento e il bisogno di comprendere se stessi e il mondo insieme all' esperienza del passato. Lavorare con loro sulla Resistenza significa anche esplorare e scoprire relazioni tra soggetti appartenenti a generazioni storiche diverse (partigiani di ieri e giovani di oggi, giovani di ieri e nuove generazioni rivolte al domani, ecc.).

5. Lo abbiamo potuto verificare studiando la storia locale di Milano, intesa nel suo costante intreccio con la storia nazionale. Dal punto di vista didattico la storia locale presenta innegabili opportunità: lo scambio tra la storia e gli altri saperi (nel nostro caso Italiano e Disegno-storia dell' arte) che consente in qualche modo un approccio globale e la possibilità di creare un legame affettivo tra gli studenti e la loro memoria storica e dunque un' integrazione degli obiettivi cognitivi con quelli socio-affettivo-relazionali. Abbiamo potuto constatare l' attraversamento delle strade del quartiere Stadera-Baia del Re con un altro spirito da parte degli studenti, attenti alle lapidi e ai nomi impressi, di cui hanno tentato di riconsegnare la memoria. Abbiamo potuto verificare il dialogo in classe tra gli studenti e i partigiani sui temi delle radici storiche della Repubblica, del cinquantenario della Liberazione, della difficile transizione in atto nella società italiano di fine secolo, ecc., a partire dalla traumatica svolta - individuale e collettiva, sociale e politica, morale e militare - dal fascismo alla democrazia. Nel piccolo della storia locale abbiamo potuto verificare la validità della tesi di Claudio Pavone della Resistenza come guerra civile (fascisti contro antifascisti del quartiere), come guerra patriottica (partigiani della Baia contro contingenti militari tedeschi nel III settore) e come guerra di classe (operai contro padroni, come la vicenda di Grazioli, ucciso nella sua fabbrica nei giorni successivi al 25 aprile, secondo caso in tutta Milano).


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6. E' la conferma del circolo virtuoso che può essere attivato tra ricerca e didattica, che significa guardare contemporaneamente alla ricerca a alla didattica e tentare di mediare tra le due, per realizzare uno scambio fecondo tra i due ambiti. La ricerca a scuola, che possiamo definire "simulata", è un buon punto di partenza per insegnare alcune operazioni storiografiche e risvegliare la consapevolezza metodologica: L' opzione tematica, la scelta dei contenuti, la selezione delle fonti, l' intervista ai testimoni, la periodizzazione, l' apparato concettuale, ecc. Si tratta di dimensioni del lavoro didattico che sono realmente più idonee a suscitare negli studenti interesse e curiosità, impegno e creatività. La storia come ricerca nella scuola come laboratorio può offrire agli studenti e agli insegnanti ambiti di lavoro e di formazione straordinari. E' la prospettiva del lavoro comune tra docenti e studenti, per maturare la convinzione che "noi siamo la scuola", "noi facciamo la storia". Una prospettiva che appartiene al versante dell' autoriforma della scuola superiore, che sa affrontare anche i problemi legati all' uso pubblico della storia, per sconfiggere la perdita della memoria e l' amnesia storica. Tra la memoria e l'oblio va scelta la memoria. Questo il senso forte del ricordare la Resistenza. Questa la responsabilità culturale ed etico-civile degli insegnanti in una scuola pubblica qualificata e pluralista, innovativa e formativa, laica e democratica.


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Introduzione

LA RESISTENZA E LA RICERCA DIDATTICA

Problemi metodologici e indicazioni operative di un progetto didattico di Giuseppe Deiana

I. Premessa. Pratica didattica e Resistenza: la scuola e il dovere di ricordare.

Con questo lavoro di ricerca didattica sulla Resistenza italiana e milanese - con particolare riferimento alla figura di Giancarlo Puecher - trova attuazione la quarta esperienza del progetto di educazione alla ricerca storica: si è partiti con la storia di una cascina milanese vista nel quadro del territorio lombardo; si è proseguito con la storia del Cile di Salvador Allende nel ventesimo anniversario del colpo di stato sanguinario; per arrivare alla storia della cartiera Binda di Milano, considerata come un segmento del processo di industrializzazione in Italia e a Milano, dall'Unità ad oggi. La quarta fatica intende concentrarsi sulla Resistenza come fondamento dello Stato repubblicano (1), per un bilancio dopo mezzo secolo. Due finora i filoni di ricerca, dunque: quello di storia ecologico-ambientale e quella di storia politica: in entrambi i casi il punto di partenza è dato dalla realtà locale, aperta però ad una dimensione mondiale e globale. Quali le motivazioni forti del progetto di ricerca destinato, forse, dopo le prime quattro tappe realizzate, a trasformarsi in un lungo percorso, parte integrante di un curricolo di scuola secondaria superiore? Quali, in particolare, le motivazioni per una lettura non celebrativa o retorica della Resistenza, capace di coglierne il valore culturale, politico e formativo per l'oggi e per il futuro? E' difficile oggi recuperare l'eredità della lotta partigiana, soprattutto in un mondo in cui ogni cosa pare debba essere valutata solamente per il suo valore di mercato, mentre ben altri erano i valori materiali e ideali che muovevano le donne e gli uomini protagonisti della Resistenza: donne e uomini comuni che fecero una scelta di vita per poter finalmente garantire una rinascita democratica a tutti gli italiani e vivere liberi, mettendo in conto anche la possibilità di perdere la propria vita. Qui vogliamo riscoprire le ragioni e i problemi di quella scelta, orientata alla realizzazione degli ideali di giustizia e libertà, nella convinzione che la scuola ha il dovere di ricordare, di comunicare, di attualizzare e di proiettare nel futuro la ricchezza culturale e morale della Resistenza, fatta oggetto di un'attenzione nutrita da sempre maggiori esigenze critiche.

II. Finalità. Una scuola aperta alla società e al mondo per sensate esperienze di educazione alla ricerca

   storica e ad una nuova cittadinanza.

1) Le nuove dimensioni dell'educazione storica e l'uso pubblico della storia.

a) La centralità della storia del Novecento. Il mondo della scuola è in perenne


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ritardo per quanto riguarda la contemporaneità, con particolare riferimento al Novecento e ai problemi attuali. Questo non può che pregiudicare, almeno in parte, le potenzialità formative e didattiche della storia: non che il passato non abbia valenza formativa, ma il presente ha una valenza sia formativa che orientativa. Dunque, una buona formazione storica deve poggiare su corrette relazioni tra passato e presente, rapportati entrambi al futuro. Due sono in questo senso i pericoli, come Scilla e Cariddi, che vanno evitati per gli esiti mortali impliciti: sia il "passatismo retrospettivo" che il "presentismo selvaggio". Il primo rappresenta il peggio della tradizione didattica, che ha raggiunto ormai livelli di vera e propria emergenza; il secondo non va oltre i limiti dell'improvvisazione e del cronachismo ed è connotato da orizzonti temporali appiattiti sul presente immediato. Il rapporto corretto è quello che può essere riassunto nella formula presentepassato-presente: nel senso che, le domande forti sui massimi problemi del mondo d'oggi rimandano alle loro diverse e complesse radici storiche, da cui trarre la spiegazione dei fatti e processi in atto. Questo è il modo culturalmente più valido per dare pieno diritto di cittadinanza alla storia recente anche nella scuola, sulla base di una chiarezza epistemologica preliminare che stigmatizzi, in modo problematico, il nesso e la distinzione tra storia contemporanea, storia del Novecento, contemporaneità, presente storico, presente immediato, presente come storia e storia del presente. Quella della centralità curricolare della storia del Novecento (che fra qualche anno, nel 2001 sarà storia del "secolo scorso") è una vera e propria battaglia civile da combattere, come prima fase di una guerra sull'insegnabilità del presente come storia (2). Una delle modalità più idonee a lavorare in questa direzione, per uscire dalla didattica dell'emergenza, è quella dell'approccio per temi, problemi e filoni, nel quadro di una progettazione curricolare e programmazione per unità didattiche. La Resistenza è uno di questi temi-problemi-filoni della storia politica del Novecento europeo, che si intreccia a rete con altri ad essa collegati come la guerra mondiale, il nazi-fascismo, la democrazia, ecc. La Resistenza in Europa e le lotte di liberazione nel mondo rientrano tra le esperienze più significative del`900, che non possono essere sottratte alla funzione etica, politica, civile e pubblica della storia.

b) La ricerca storica a scuola. Il secondo caposaldo di un nuovo paradigma culturale e didattico dello insegnamento-apprendimento della storia è costituito dall'educazione alla ricerca storica, che è uno dei modi più forti per rendere oparativa l'idea di laboratorio di didattica della storia e l'esigenza del recupero della memoria storica. Fare ricerca storica a scuola non solo è possibile ma è anzi necessario perchè consente di superare i limiti di una conoscenza strutturata secondo schemi manualistici e arricchire le esperienze di apprendimento attraverso l'acquisizione delle procedure di ricostruzione dei fatti/problemi/processi storici. Ciò significa riflettere sulle operazioni mentali che accompagnano la spiegazione storica e metterle in atto nel quadro degli obiettivi specifici e operativi posti alla base della ricerca storica, la quale nella scuola non può che essere ricerca "simulata", per distinguerla dalla ricerca professionale degli storici di mestiere: una ricerca, cioè, per piccoli storici (3). Per realizzare processi di apprendimento più maturi attraverso le sequenze di un modello didattico della ricerca, applicato preferibilmente alla microstoria, sono possibili molteplici percorsi di sperimentazione: dalla storia scolastica alla storia biografica, dalla storia sociale alla storia politica, dalla storia economica alla storia ambientale, ecc. Il lavoro sulla figura di Giancarlo Puecher e sulla Resistenza


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nella zona 15 di Milano è la concretizzazione di una delle tante ipotesi possibili di sperimentazione per imparare a fare ricerca storica anche a scuola.

2. Giovani e Resistenza: la consapevolezza democratica degli studenti contro l'eclissi della memoria.

Quello che stiamo vivendo è un momento che tende a rinnegare la storia, a dimenticare, a cancellare la memoria. In questo clima socio-culturale, le ricadute sociali sono evidenti dai dati secondo cui i giovani sarebbero stati determinanti nello spostamento a destra degli equilibri politici nel passaggio dall' XI alla XII legislatura. Se i ragazzi hanno scelto la destra vuoi dire che qualcosa si è rotto nella loro formazione: il filo della memoria, forse. II problema principale allora, anche per gli operatori della formazione quali sono gli insegnanti, è quello di operare un profondo rinnovamento culturale. Da lì bisogna cominciare: dalla propria storia, dalle proprie radici. Anche dalla Resistenza, dunque. Cinquant'anni: un lungo periodo ci separa, ormai, dalla fine della Resistenza e dal compimento della liberazione. Che cosa sappiamo oggi della lotta partigiana? Quale filo rosso lega l'Italia della Resistenza con l'Italia della crisi attuale? Ha ancora senso per i ragazzi sotto i vent'anni il recupero della memoria storica e i valori dell'antifascismo, alla fine del secondo millennio? Credo proprio che un senso ce l'abbia, soprattutto in tempi di crisi della politica e di smarrimento della morale pubblica come quelli che stiamo vivendo, a cui è necessario contrapporre un' altra Italia, l'Italia della Resistenza, dell'intransigenza antifascista, della difesa della Costituzione e della legalità repubblicana, dell'impegno democratico e libertario: un patrimonio etico-politico che non può essere perduto e che, anzi, va trasmesso alle nuove generazioni attraverso un approccio articolato sul piano analitico e problematico su quello concettuale. Due atteggiamenti sono possibili nell'attività educativa di fronte alla Resistenza: quello legato ad un giudizio superficiale e quello rapportato ad uno studio critico. Per parlare della vicenda resistenziale senza superficialità è necessario studiare la storia contemporanea nel suo insieme che dà senso alla storia straordinaria degli anni '43-45 e, più in generale, alla storia dal '45 ad oggi, che è la storia della Repubblica, la quale ha un'origine resistenziale e nella Resistenza continua a trovare un riferimento etico-politico essenziale. Concentrarsi sulla Resistenza anche a scuola significa quindi capire criticamente i problemi, ancora aperti, di quei venti mesi che sono all'origine della nostra democrazia repubblicana: una materia ancora incandescente e sulla quale gli italiani continuano ad essere divisi. Nell'attuale clima di revisione del fascismo un giudizio oggettivo e sereno sulla Resistenza sembra davvero difficile: dopo quasi mezzo secolo la sua vitalità intrinseca contrasta con i tentativi di strumentalizzazione, di riduzione,di superamento, di annullamento, di "pacificazione", ecc., di un ambiguo revisionismo storico, insomma. « La Repubblica `nata dalla Resistenza' cercò negli anni della guerra fredda di dimenticarla; poi la recuperò come gloria nazionale asettica, buona per tutte le celebranti. I movimenti nati dal Sessantotto la rilanciarono distorcendola come rivoluzione di classe tradita dai partiti, a cominciare da quello comunista. Oggi le forze politiche che se ne proclamano eredi sembrano quasi provare impaccio a difenderla dalle provocazioni e insulti del centro-destra più becero» (4). In questo contesto non è facile rendere comprensibile a un diciottenne/ventenne di oggi la vicenda antifascista e resistenziale: per questo è necessario un approccio scolastico che giunga a una conoscenza e valutazione articolata e critica dei fatti e dei problemi sorti nei venti mesi degli anni dal 1943 al '45. Si tratta di


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ricomporre il filo spezzato: recuperare il valore della memoria per conoscere il passato, svelare il presente e progettare il futuro. Anche se «forse una cultura ottimisticamente aperta al futuro, come quella dell'antifascismo resistenziale, apparirà obsoleta, nella sua programmatica `positività', a un'epoca che, perduti entrambi, futuro e passato, coltiva nel suo terreno presente flessibili pensieri e nessuna speranza. Ma resta il fatto che essa riuscì a produrre uno dei pochi periodi storici in cui la politica potè realizzarsi...in forma di `felicità pubblica'» (5).

III. Obiettivi cognitivi e sociorelazionali: passato e presente della Resistenza.

1) Gli obiettivi cognitivi sono finalizzati a vedere la Resistenza in prospettiva pluridisciplinare, particolarmente sotto l'aspetto storico e letterario, ma anche sotto quello grafico-artistico. Questi i principali: a) Lo storico e la Resistenza: conoscenza dei risultati della ricerca storica seguendo l'evoluzione della storiografia italiana nelle sue diverse fasi dal dopoguerra ad oggi. Questo obiettivo generale può essere articolato nei seguenti sotto-obiettivi: conoscenza dei fatti storici della Resistenza in Italia a partire dal quadro cronologico essenziale degli avvenimenti intercorsi tra il 25 luglio '43 e il 25 aprile '45; distinzione tra le diverse fasi della Resistenza; individuazione delle affinità e delle differenze tra la Resistenza italiana e quella europea; ricostruzione dello specifico della Resistenza a Milano con particolare riguardo alla zona 15/Chiesa Rossa-Gratosoglio; articolazione della Resistenza alla luce delle diverse componenti politico-ideologiche per cogliere affinità e differenze soprattutto tra comunisti, azionisti e cattolici; ricostruzione della figura di Giancarlo Puecher a cui è intestato il centro scolastico milanese comprendente il Liceo scientifico "S. Allende"; distinzione nella storia della Resistenza tra una storiografia tradizionale e una storiografia innovativa; individuazione del significato culturale e politico della revisone della Resistenza, mettendola in connessione con i fatti politici più recenti che hanno visto l'andata al governo delle destre, compreso il MSI. b) Il letterato e la Resistenza: valorizzazione del romanzo come testo narrartivo e come fonte storica (6), con particolare riferimento ai testi narrativi che raccontano la Resistenza italiana: romanzi in cui gli eventi bellici degli anni 1943-45 costituiscono il nucleo centrale della narrazione. In particolare, individuazione e delineazione del rapporto tra Resistenza e impegno letterario 'negli scrittori italiani del secondo dopoguerra. c) L'artista e la Resistenza: trasferimento del tema della Resistenza sul piano della ricerca grafica; si tratta cioè di saper progettare e produrre elaborati che esprimano in forme diverse il tema della lotta per la libertà d) Giovani e Resistenza: maturazione di un giudizio critico personale e documentato sulla Resistenza attraverso un approccio letterario, storico ed etico-politico, che spieghi il fenomeno in termini di globalità e di complessità e ne riproponga in forma problematica il valore culturale e politico sia per l'oggi che per il futuro: «attraverso il realismo delle speranze - quel realismo che guarda il futuro e dà una risposta del tutto diversa anche per il presente...Può capitare, nella vita, di venirci a trovare in mezzo alle più aspre avversità. Ebbene: rimane un luogo del nostro essere in cui, nonostante tutto, dipende da noi esservi sovrani. E' la nostra coscienza. Lì possiamo creare delle zone di resistenza e di libertà. Ciascuno può farlo. E più ognuno si determina in questo modo, più contribuisce alla liberazione di sè, e di tutti» (7). Come dire che la Resistenza è un fatto innanzitutto interiore. Ma non solo.

2) II tema della Resistenza chiama in gioco anche obiettivi sociorelazionali, di natura individuale e collettiva. Ad esempio: a) la partecipazione e la testimonianza,


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testimonianza, nel senso dell'incitamento all'azione per salvaguardare e potenziare le esigenze collettive di democrazia e di libertà nate dalla Resistenza; b) l'intransigenza morale e civile, alimentata dalla cultura dell'antifascismo e della lotta resistenziale, come forza di rinnovamento attraverso l'impegno personale e pubblico nella direzione di una società egualitaria e giusta, pluralista e aperta, in dimensione planetaria; c) speranza e responsabilità, còme capacità di mettere in discussione un sistema di valori omologanti, radicati sulla disumanità, la violenza e la sopraffazione discriminante, a favore della valorizzazione dell'uomo e della salvaguardia della natura, attraverso il coinvolgimento attivo in movimenti di massa rivolti alla costruzione di una società nuova fondata sull'azione unitaria dell'antifascismo e dell'antirazzismo, dell'antimafia, della legalità e della trasparenza, dell'interculturalità e dell'interdipendenza, dell'ecologismo e del solidarismo tra i popoli. Si tratta insomma di riscoprire l'impegno civile e la militanza nelle tradizionali organizzazioni politico-sindacali o in nuovi movimenti espressi dalla società civile, come assunzione di responsabilità e promozione della partecipazione collettiva. Questo perchè «per migliaia di uomini e donne l'esperienza partigiana non fu solo un'avventura in cui giocarsi la vita, costituì anche un'eccezionale occasione di `socializzazione' che permise di abbandonare la vita e il lavoro quotidiani e sollecitò una forte assunzione di responsabilità individuale e al tempo stesso una solidarietà di gruppo altrettanto forte. Nella banda partigiana l'azione scaturiva dalla capacità di organizzazione collettiva in nome di ideali condivisi e l'altezza della posta in gioco creava un coinvolgimento totale, in cui ciascuno era chiamato a verificare scelte di vita, valori e aspettative riguardo al futuro» (8).

IV. I contenuti. Memoria e testimonianze di una "guerra civile": le basi morali dell'Italia resistenziale.

Il punto focale della nostra ricerca è costituito dalla ricostruzione della figura di Giancarlo Puecher e delle vicende della Resistenza nella zona 15 di Milano: i due segmenti, però, sono inseriti nel contesto italiano ed europeo e sono segnati dalle distinzioni ideologiche che attraversano la storia partigiana. Da qui la necessità di un'articolazione del discorso in direzioni diverse ma complementari, a partire dal significato lessicale e concettuale della parola "Resistenza".

1) Il termine "Resistenza": aspetto ideologico. Inteso in senso stretto il termine "Resistenza", nel linguaggio storico-politico, comprende i movimenti di opposizione attiva e passiva nati in Europa, durante la seconda guerra mondiale, contro l'occupazione tedesca e, in misura minore, italiana. In questo senso, la Resistenza europea, pur nelle differenze dei diversi paesi, presenta alcuni caratteri comuni che sono riconducibili a due: la guerra patriottica di liberazione nazionale contro l'invasore e la lotta contro il totalitarismo nazifascista nel nome della democrazia liberale o socialista (9). In Italia il periodo della Resistenza ha costituito una delle esperienze più forti di questo secolo, vissute dai cittadini attraverso vicende drammatiche e grandiose insieme, che hanno segnato la fine del fascismo e della monarchia e la nascita della Repubblica. «La Resistenza costituì un momento di svolta nelle vicende del nostro paese, perchè essa diede un contributo essenziale alla maturazione civile e politica degli italiani e fu il punto d'avvio della nuova Italia democratica» (10). Questo giudizio dello storico Franco Della Peruta esprime in sintesi il risultato dell'analisi critica, che come tale non è la difesa d'ufficio della Resistenza, ammantata di retorica altisonante. La sua valutazione complessivamente positiva


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dei fatti drammatici che sono un momento essenziale della nostra storia, da cui ha avuto origine la nostra democrazia, contrasta con il giudizio di altri che oggi, in un momento di grave crisi politica, istituzionale e sociale, puntano a liquidare frettolosamente la lotta partigiana in un clima di revisionismo superficiale. Così, la formula «la Repubblica nata dalla Resistenza" si è rovesciata in quella opposta di "Resistenza come vizio d'origine della Repubblica". Sono i due poli opposti dal punto di vista ideologico di una interpretazione dell' esperienza resistenziale che è diverse volte mutata nei cinquant'anni di storia repubblicana. C'è quindi una storia ideologica anche della Resistenza. Infatti, "ci fu una prima fase di unitarismo, patrocinata da tutti. Poi sulla Resistenza fu issata la bandiera del PCI e del PSI che avevano necessità di rivendicare il proprio essere partiti nazionali, e da parte cattolica non ci si è opposti. In una terza fase la Resistenza è stata assorbita nell'ufficialità. Un successo, ma anche un affogare nella retorica. Penso a quelle manifestazioni in cui i generali celebravano la Resistenza. Un'altra svolta fu il '68, anche se oggi pochi lo ricordano. In un primissimo momento ci fu un rifiuto della Resistenza. Poi ci fu un recupero della Resistenza rossa in chiave anti Pci. Fu quella la prima volta che la Resistenza non apparve più come una e il quadro fu scomposto. Adesso assistiamo a un mezzo cambiamento di segno, e con quello che è avvenuto nel `triangolo rosso' si vuole spiegare l'intera Resistenza» (11). E' la fortuna e sfortuna storiografica della Resistenza nel nostro Paese, come sostiene anche Nicola Tranfaglia: «Ad essere schematici... si può dire che, nei primi quindici anni della Repubblica, la Resistenza fu ignorata dai governi centristi e invocata dalla forze di sinistra come il fondamento della democrazia repubblicana. Successivamente anche l'Italia ufficiale ne parlò ma spesso senza entrare nel merito, come pura e superficiale retorica. Con il risultato di far diventare odiosa e incomprensibile quella vicenda ai giovani. Soltanto negli ultimi due decenni si è giunti a una considerazione più articolata di quei fatti e sono cresciute in tutta Italia ricerche approfondite su personaggi, episodi, momenti e problemi di quei venti mesi» (12). Da qui la necessità di un chiarimento semantico e concettuale: un approccio critico alla Resistenza deve essere governato più dalla ragione che dalla passione e sottoposto alle esigenze analitiche della ricerca teorica e storica, anche nella scuola.

2) La ricerca storica: lo sviluppo e gli esiti della storiogrfia sulla guerra partigiana.

a) Trent'anni di storiografia italiana: dai `padri fondatori" a Claudio Pavone. Il quadro storico di riferimento è costituito dall'Italia degli anni 1943-45, un quadro che può essere sintetizzato nella formula: "tre governi e due occupazioni". Le due occupazioni sono state quella tedesca e quella angloamericana; i tre governi: il Regno del Sud, la Repubblica sociale italiana e il governo partigiano nelle parti liberate della Italia nazifascista, composto dai Comitati di liberazione nazionale formati dai partiti antifascisti. Anche sulla Resistenza la letteratura - dal saggio storico alla memorialistica - è vastissima. E qualunque percorso di lettura non può sfuggire, anzitutto, alla discussione storiografica. Sotto l'aspetto storiografico la storia della Resistenza può essere distinta in tre fasi: la prima, centrata sul volume di Roberto Battaglia, è storia politica, storia delle istituzioni pubbliche, una storiografia che si occupa prevalentemente degli aspetti politici e militari della lotta partigiana, almeno fino alla prima metà degli anni sessanta (13). La seconda fase è storia delle istituzioni e della società: una storiografia tendenzialmente scientifica, che ha avuto il suo centro soprattutto negli Istituti per la storia della Resistenza (14), rivolti a ricostruzioni storiografiche più


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attendibili sotto l'aspetto documentario, che non fossero soltanto una memoria di parte o una storia strettamente politica (15). In questa direzione si sono mossi studiosi come Guido Quazza, Enzo Collotti e altri in anni più recenti, ad esempio Giovanni De Luna, Massimo Legnani, Gloria Chianese, Nicola Gallerano, Claudio Dellavalle, Luigi Ganapini, Raimondo Luraghi, Giorgio Vaccarino, ecc. La fase più recente e forse più matura è costituita soprattutto dalla ricerca di Claudio Pavone, condensata nel volume Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza (16): la Resistenza viene osservata sotto l'aspetto morale, come storia degli uomini e delle loro passioni, colta anche attraverso l'analisi del 'privato' e della soggettività, oltre che della dimensione pubblica degli eventi.

b) La Resistenza come guerra civile. Questo di Claudio Pavone è un grande libro (di oltre 800 pagine), per la ricchezza incredibile della documentazione, per il rigore scientifico che controlla una materia incandescente: è destinato ad essere considerato per lungo tempo una storia definitiva della Resistenza italiana, non tanto sul piano della ricostruzione e dell'accertamento dei fatti (non è un libro di storia dei fatti), quanto in relazione alla sua capacità di rendere con incisività le passioni, le emozioni e, soprattutto, le scelte che coinvolsero la collettività italiana nei durissimi venti mesi tra il '43 e il '45. Si tratta, quindi, di un'opera di grande importanza: un bilancio compiuto di una lunga stagione di ricerche, orientato non tanto alla ricostruzione cronologica degli avvenimenti, quanto ai problemi aperti di quel biennio che è all'origine della nostra democrazia repubblicana. Un libro per certi aspetti detiIiitívo in quanto si colloca al termine di un ideale percorso storiografico il cui inizio è segnato dal libro di Roberto Battaglia del 1964. Tra questi due libri fondamentali ci stanno trent'anni di storia dell'Italia repubblicana e un lavoro storiografico di grande ampiezza, «ricomposto secondo un nuovo ordine, non più cronologico, o politico-ideologico, ma per concetti, per problemi, secondo una linea di argomentazione che taglia il piano degli avvenimenti inventando, per certi versi, un genere nuovo: non storia 'solo' politica o militare, nè sociale, nè tanto meno 'storia delle istituzioni'... Neppure'storia della mentalità'. Potremmo chiamarla, forse, storia 'morale': considerare il libro un grande 'trattato sui sentimenti morali', nel senso più ampio del termine, in quanto sistematico repertorio degli atteggiamenti, delle convinzioni e delle 'strutture culturali presenti in esse', soprattutto dei criteri di scelta e delle forme della responsabilità, individuale e collettiva, operanti in un periodo storico 'd'eccezione', in una fase di rottura del 'monopolio statale della forza' e delle forme `normali' della legittimazione» (17). II tema centrale del libro è costituito dalla tesi secondo cui 'a Resistenza è stata soprattutto una guerra civile: un momento di grande tensione etico-politica che l'ha resa una guerra giusta, perchè è stata una lotta di liberazione, in cui certi uomini e certe donne scelsero di combattere per la propria e l'altrui libertà. Alla base della scelta di prendere le armi contro i fascisti e i nazisti c'erano soprattutto ragioni etiche. Ma vediamo i punti principali che ripercorrono i capitoli del libro secondo le particolari categorie analitiche che smontano il quadro unitario della Resistenza per ricomporlo come in un mosaico. Innanzitutto le tre guerre, nel senso che l' Italia dal luglio '43 all'aprile '45 fu teatro di tre guerre distinte ma legate tra loro: la guerra patriottica contro i tedeschi, la guerra civile combattuta tra gli italiani e la guerra di classe, il cui scopo ultimo era la rivoluzione sociale. Nella guerra civile però si intrecciano le altre due. In secondo luogo la scelta resistenziale, nel senso che dopo il 25 luglio e 1'8 settembre milioni di giovani si trovarono a scegliere a favore dell'antifascismo o del fascismo, o magari a scegliere di non scegliere,


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mentre lo Stato italiano si dissolveva: ciascuno con la propria coscienza solo davanti alla guerra. Per i partigiani la scelta fu una scelta di libertà, di disobbedienza al potere costituito. Al tema della scelta è strettamente collegato quello del tradimento e della violenza. Una volta assunta come idea ispiratrice la idea della moralità della Resistenza, il tema centrale non poteva non essere quello della violenza: Pavone si pone il problema della validità o meno di un dilemma come quello tra violenza giusta e violenza ingiusta, sottolineando la fondamentale giustezza della scelta compiuta da chi allora prese il fucile e salì in montagna per combattere contro i tedeschi e contro l'ultima incarnazione del fascismo. Quello di Claudio Pavone «non è un libro morale e tanto meno un'opera edificante. Rappresenta però per ognuno di noi una fortissima sollecitazione a riflettere sulle `questioni morali' che gli italiani dovettero affrontare in un momento della loro storia che, a giudicare dalle passioni che scatenò, oggi non del tutto sopite, non è ancora chiuso» (18). Dalla Resistenza sono scaturite speranze e progetti per il futuro: con il 25 aprile si aprì un periodo nuovo e non meno difficile della guerra civile, contrassegnato, da una parte, dalla continuità tra l'Italia fascista e quella repubblicana e, dall'altra, dall'attesa di un mondo radicalmente nuovo. Nel senso che nei partigiani il loro impegno si caricò di speranze e di progetti per il futuro dando corpo alla dimensione utopica della Resistenza. In conclusione, «Pavone ha scritto uno di queli lavori definitivi che danno durevole forma storica a una memoria altrimenti vicina a smarrirsi, perchè sono morti o hanno cambiato idea molti di quelli che ne erano portatori...: lavori che maturano solo in tempi di bilancio e, se non di congedo, di ripensamento e di svolta» (19).

c) La Resistenza a Milano. Nel condurre questa ricerca didattica finalizzata a capire che cosa è stata e che cosa ha significato la Resistenza europea e italiana, non potevamo evitare di porre al centro del lavoro la città di Milano. Questa città, infatti, fu la capitale della Resistenza e solo a Milano sono morti circa diecimila persone per la liberazione dell'intero Paese. II 18 marzo 1948 il Presidente della Repubblica ha conferito alla città di Milano la medaglia d'oro al valore militare con la seguente motivazione: «Nelle epiche `Cinque Giornate', insorgendo e scacciando dalle sue mura un esercito potentemente armato, dimostrò quanto valga ' contro la tirannide l'impeto popolare sorretto da sete inestinguibile di giustizia, di libertà, di indipendenza. Presente con i suoi martiri ed i suoi eroi nelle congiure mazziniane e nelle battaglie del primo Risorgimento, negli anni dal 1943 al 1945, pur mutilata ed insanguinata dalle offese belliche, oppose allo spietato nemico di ogni tempo, la fierezza e lo slancio di una implacabile lotta partigiana, nella quale fu prodiga del sangue dei suoi figli migliori e lo travolse infine nell'insurrezione vittoriosa nel 25 aprile 1945. Mirabile esempio di virtù civiche e guerriere che la Repubblica onora». In particolare ci vogliamo concentrare su una delle circoscrizioni del decentramento amministrativo: Chiesa Rossa-Gratosoglio/zona 15.

d) Un segmento della Resistenza milanese: la lotta partigiana in zona 15. Esiste in questa zona della città un comitato unitario antifascista che è composto da ex partigiani, legati all'A.N.P.I. e ai partiti democratici, il cui impegno pubblico principale è costituito dall'organizzazione delle celebrazioni del 25 aprile, dalla salva-guardia della memoria storica e dalla diffusione degli ideali della Resistenza, come risulta - a titolo di esempio - dal testo del seguente volantino del 1991: "II 25 aprile ricorre il 48° anniversario della Resistenza. L'avevano cominciata gli uomini più rappresentativi della legalità democratica. Fra questi: Giacomo Matteotti, Giovanni


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Giovanni Amandola, Piero Gobetti, don Giovanni Minzoni; significativa è la raccomandazione della pubblica accusa nel processo contro Antonio Gramsci (che morirà in carcere): `dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare per vent'anni'. Ci sembra indispensabile riflettere sui valori umani faticosamente conquistati nel 1945, se non altro per non rischiare di perderli ancora (considerando l'attuale situazione dell'Italia). Siamo assolutamente convinti del fatto che non si possa considerare la Resistenza come un fenomeno concluso: infatti i valori di pace, giustizia, libertà e uguaglianza su cui si è basata devono essere il costante riferimento della nostra repubblica; una società veramente democratica che mira alla piena affermazione della legalità non può che affermarli costantemente in contrapposizione al terrorismo razzista, mafioso o politico. La memoria storica dei drammatici sacrifici che gli uomini e le donne della Resistenza, con la popolazione intera, furono costretti ad affrontare deve essere patrimonio culturale ed umano di tutti". Data l'ubicazione del Liceo "Allende" abbiamo voluto ricostruire alcuni aspetti della Resistenza in zona 15 attraverso la testimonianza degli ex partigiani più attivi e di poche fonti scritte, partendo dalla constatazione che non esiste a tutt'oggi una ricostruzione storica organica della lotta partigiana in questa parte della città (e forse neppure nelle altre circoscrizioni di Milano). Intanto si può dire anche per gli uomini della zona 15, partecipi a suo tempo delle formazioni partigiane, che «la scelta è (stata) una scelta di libertà, di disobbedienza al potere costituito. Fu per molti il periodo della propria vita in cui si diventa adulti, l'età più bella della vita, vissuta in uno stato di entusiasmo morale» (20): sogni di ventenni che regalarono alla montagna e alla clandestinità i migliori anni della loro vita. Dalle interviste agli ex partigiani si è cercato di capire in che modo avvenne, con quali sentimenti e punti di vista fu presa la decisione di entrare nelle bande partigiane da parte di giovani divenuti combattenti irregolari, esposti a un rischio maggiore rispetto ai militari veri e propri, ma animati dal desiderio di voltare pagina nella loro vita e in quella della nazione sottoposta all'occupazione tedesca ed alla oppressione fascista. Le loro testimonianze ci hanno dato ragione dell'autonomia e della vitalità delle formazioni partigiane radicate nel territorio, con una spiccata identità di corpo finalizzata al pieno controllo della propria zona o valle, attraverso modalità organizzative che oscillavano tra uno spontaneismo tanto generoso quanto precario (spesso pagato con la vita) e una istituzionalizzazione / militarizzazione rigida e dura. Comunque, per gli ex partigiani la Resistenza è ancora e sempre il loro ricordo più bello, il loro sogno più luminoso e, forse, la loro sola ricchezza di poveri operai e sconosciuti cittadini, che spiega la decisione e l'intransigenza nella lotta contro il fascismo antico e nuovo, contro l'Italia degli scandali e dei misteri, delle tangenti e della mafia.

e) La composizione politica dei resistenti: comunisti, azionisti e cattolici. Nel movimento partigiano vanno distinte le organizzazioni politiche maggiori,composte da comunisti, azionisti e cattolici, dalle formazioni minori come i Gap, i cattolici comunisti, le formazioni "azzurre" (monarchici), i gruppi a sinistra del PCI, ad esempio trotzkisti e anarchici (21). Qui, per motivi di forza maggiore, vogliamo considerare solo le formazioni maggiori per cogliere le convergenze e le divergenze a partire dal rapporto con i partiti. Le Brigate Garibaldi erano organizzate dal Partito comunista, quelle di Giustizia e Libertà invece erano collegate al Partito d'azione, mentre quelle "autonome" ai democristiani ed ai liberali. Nell'insieme, esse non erano formazioni di partito in senso stretto, tanto che la grande maggioranza dei partigiani non aveva tessere. Dai partiti ebbero aiuti in mezzi, capi, volontari, contatti, direttive, coordinamento e


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orientamento politico; ma i partiti si muovevano nell'ottica unitaria dei CLN locali e quindi miravano a comporre le differenze nell'azione antifascista e antinazista, più che ad esasperare le divergenze. Le divergenze all'interno dello schieramento erano prevalentemente di tipo ideologico: tra comunisti e azionisti, tra azionisti e autonomi, da un lato, e cattolici dall'altro (erano contrasti che in parte prefiguravano gli schieramenti politici del dopoguerra). Gli antifascisti moderati guardavano con diffidenza, senza riuscire a contrastarla, l'egemonia comunista orientata verso la lotta di classe, l'insurrezione popolare. Sul tema della Resistenza come scuola rivoluzionaria il contrasto tra comunisti e cattolici era netto; ma oltre che nella sfera politica il divario tra partigiani rossi e partigiani bianchi era nella sfera morale e riguardava i plotoni di esecuzione e l'uso delle armi. AI suo interno, infatti, il movimento cattolico era «diviso e spesso lacerato, tra pacifismo tradizionale e adesione a una guerra giusta o necessaria, tra obbligo di obbedienza all'autorità costituita e diritto di resistenza al tiranno, tra il dovere di non sottrarsi alla lotta contro un nemico comune e obbedienza alla Chiesa che non può rinunciare a deplorare la violenza, da entrambe le parti, pur rifiutando l'insistente richiesta del governo fascista di schierarsi dalla parte della Repubblica sociale in nome dei Patti Lateranensi» (22). Il contrasto invece tra comunisti e azionisti era dovuto al fatto che i secondi concepivano la Resistenza come un secondo Risorgimento, come rivoluzione democratica, da cui doveva nascere una repubblica democratica.

f) Morire a vent'anni: giovane, ricco e cattolico. La figura di Giancarlo Puecher, prima medaglia d'oro in Lombardia. Il fulcro della nostra ricerca storico-didattica è costituito dalla figura di Giancarlo Puecher Passavalli: la prima medaglia d'oro della Resistenza lombarda, di cui vogliamo recuperare la memoria a partire dai tre connotati dominanti (era giovane, ricco e cattolico) che lo rendono - forse - molto vicino alla sensibilità degli studenti di oggi (23). Il nome di Giancarlo Puecher compare nelle famosissime Lettere della Resistenza europea (24). Dopo una stringata biografia ("Studente in legge, nato e vissuto a Milano. Pochi giorni dopo l' 8 settembre 1943, al momento in cui si formano le primissime `bande' partigiane, Giancarlo riunisce una ventina di giovani nella zona di Erba-Pontelambro, in provincia di Como. Con essi compie azioni per il recupero di materiali appartenuti all'esercito e necessari per iniziare la guerriglia. Dopo solo due mesi di attività Giancarlo viene catturato da militi fascisti che lo fucilano al cimitero di Erba. Aveva 20 anni") è riportata la lettera-testamento (seguita da una nota: "Poco dopo, il padre di Giancarlo, l'avvocato Giorgio Puecher Passavalli, è stato arrestato e deportato al campo di concentramento di Mauthausen, dove è morto di fame e di stenti"):

"Muoio per la mia Patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato. Spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto ...Accetto con rassegnazione il suo volere. Non piangetemi, ma ricordatemi a coloro che mi vollero bene e mi stimarono. Viva l'Italia. Raggiungo con cristiana rassegnazione la mia Mamma che santamente mi educò e mi protesse per i vent'anni della mia vita. L'amavo troppo la mia Patria; non la tradite, e voi tutti giovani d'Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale.


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Perdono a coloro che mi giustiziano perchè non sanno quello che fanno e non sanno che l'uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia. A te Papà l'imperituro grazie per ciò che sempre mi permettesti di fare e mi concedesti. Gino e Gianni siano degni continuatori delle gesta eroiche della nostra famiglia e non si sgomentino di fronte alla mia perdita. I martiri convalidano la fede in una Idea. Ho sempre creduto in Dio e perciò accetto la Sua volontà. Baci a tutti. Giancarlo"

Si tratta di una prosa semplice, che esprime tuttavia «il grido più forte di uomini che proclamano, morendo, le loro convinzioni, i loro principi, la loro fede sicchè, vincendo il tempo, arrivano fino a noi» (25). Per questo Claudio Pavone pone Puecher nella grande storia della Resistenza italiana, che è stata la storia di una guerra violenta e fratricida: «La guerra civile viene in genere qualificata come 'fratricida' da entrambe le parti per accrescerne l'orrore e far gravare sul nemico, additatone come l'unico responsabile, una più infamante condanna. Vi furono famiglie attraversate proprio al loro interno da scelte contrapposte. Ma è dalla categoria della fraternità estesa all'intera nazione che nasce con particolare forza la metafora del fratricidio. Giancarlo Puecher, fucilato dai fascisti, li perdona perchè 'non sanno quello che fanno e non sanno che l'uccidersi fra fratelli non produrrà mai la concordia'» (26). Le tre righe della lettera di Puecher in punto di morte stigmatizzano il problema della violenza, esaltata sia dai fascisti che dai partigiani in nome di ideali politici contrastanti, che legittimano anche il diritto di uccidere. La Resistenza ha alimentato una continua riflessione sull'uso della violenza in tutte le sue contraddizioni e sfumature: dal giovane Giancarlo Puecher essa è rimessa in discussione come strumento e come valore, in nome dell'ideale cristiano della fratellanza e del perdono. Vogliamo riproporre oggi la figura di Giancarlo Puecher per riscoprire la Resistenza in un'ottica giovanile e studentesca, senza i cedimenti agiografici della retorica celebrativa. II pretesto ci viene anche dall'intestazione del centro scolastico provinciale in cui è inserito il Liceo "Allende".

g) Il centro scolastico "Giancarlo Puecher" di Milano. Compie poco più di vent'anni l'intitolazione a Giancarlo Puecher da parte del Consiglio provinciale di Milano del centro scolastico di via Ulisse Dini, inaugurato nel 1973. Cercheremo di capire le ragioni di questa scelta e di offrire agli studenti gli elementi informativi per comprendere la scritta "Centro Provinciale Comunitario Giancarlo Puecher".

3. Resistenza e impegno letterario: la narrativa italiana sulla Resistenza.

Oltre che dal punto di vista dell'analisi storica vogliamo guardare alla Resistenza anche dal punto di vista della produzione letteraria, che costituisce il secondo pilastro della nostra ricerca didattica orientata in una prospettiva pluridisciplinare. In questo senso ci sono libri dai quali non si può prescindere: dalle lettere della Resistenza e dei condannati a morte ai romanzi di Vittorini, di Calvino, di Pavese, di Fenoglio, ecc. (27). Si tratta di testi essenziali per la memoria di un'epoca e di un'esperienza, che hanno segnato il clima politico-culturale del dopoguerra e influenzato la formazione di più d'una generazione. Abbiamo operato una selezione di romanzi le cui vicende si sviluppano a partire dall' 8 settembre e nei quali la guerra del 1943-45 costituisce il nucleo portante della narrazione. La scelta è caduta su Elio Vittorini (Uomini e no, scritto nel 1945: il primo romanzo sulla Resistenza italiana, ambientato nella Milano del 1944, tra azioni partigiane


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partigiane e rappresaglie nazi-fasciste), Cesare Pavese (La casa in collina, del 1949, considerato dalla maggior parte della critica il capolavoro e ambientato nella campagna piemontese durante la Resistenza), Beppe Fenoglio (Il partigiano Johnny, un'opera giovanile pubblicata postuma nel 1968, da alcuni critici considerata l'opera più matura sulla lotta partigiana) e Italo Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno, del 1947, che narra vicende di vita e lotta popolare contro il dominio nazista a Sanremo e nell'immediato entroterra). Altri autori, per quanto "minori" meriterebbero una considerazione particolare: ad esempio, Carlo Levi (Cristo si è fermato a Eboli), Primo Levi (La tregua), Davide Laiolo (Il voltagabbana), Guglielmo Petroni (La morte nel fiume), Arrigo Benedetti (Rosso al vento), Elsa Morante (La Storia), ecc.,insieme a quelle tante memorie della Resistenza che spesso sono state scritte nei primi anni del dopo-guerra ma pubblicate più di recente. Abbiamo privilegiato Renata Viganò autrice del più fortunato dei romanzi partigiani, L'Agnese va a morire, del 1947, che racconta la vicenda di una povera contadina che uccide un tedesco e si fa partigiana perchè le hanno assassinato il marito, spinta da un senso di vendetta e di giustizia. Non intendiamo però trascurare le lettere di resistenti e condannati a morte come testimonianza immediata delle tensioni morali e civili di chi ha voluto pagare di persona nella lotta contro il nazi-fascismo (28). In riferimento alle opere prescelte si cercherà di cogliere affinità e differenze tra scrittori che appartengono a una generazione che ha vissuto direttamente l'esperienza traumatica dei venti mesi dal luglio '43 all'aprile '45. Attraverso la lettura trasversale dei romanzi si verificherà l'esistenza di temi e forme di rappresentazione comuni, cercando di rimarcare il contributo del romanzo a una storia delle mentalità e dei modelli culturali degli italiani in guerra. In particolare si cercherà un retroterra culturale comune e gli stereotipi culturali presenti nei romanzi (ad esempio, il tema del rapporto tra l'uomo e la storia, gli ideali che hanno animato la Resistenza, l'immagine della Resistenza stessa,ecc.), il significato della guerra partigiana (guerra di liberazione o guerra civile?), la rappresentazione di una generazione di italiani (non solo la rappresentazione realistica e metaforica delle vicende del '43-45, ma anche, seppure in maniera indiretta, le vicende dell'immediato dopoguerra con i suoi conflitti, i suoi traumi, le sue rimozioni, ecc.), la costruzione narrativa (l'intreccio del racconto, le tecniche argomentative, ecc.). Insomma, sarà interessante confrontare le rappresentazioni della Resistenza in diversi testi narrativi, per capire «attraverso quali forme di rappresentazione la narrativa italiana ha raccontato la guerra del 1943-45 ed entro quali limiti - pur conservando la sua specificità e la sua autonomia - essa può essere considerata una fonte storica... per risalire dalle stereotipie della fabula di diversi romanzi ai modelli di formazione e all'universo di valori di una generazione di combattenti per ripercorrere - attraverso la varietà di intrecci narrativi - le modificazioni di significato che la Resistenza assume con il tempo, da `guerra di liberazione' a `guerra civile'» (29).

V. Metodi e strumenti: un lavoro collettivo per gruppi coordinati.

L'organizzazione della ricerca è basata sul lavoro di gruppo, articolato in gruppi di classe e di interclasse, per compiti differenziati ma complementari. Alcune indicazioni operative: a) lettura di libri e riviste di storia, sulla base di precise indicazioni del docente coordinatore; b) ricerche d'archivio per reperire fonti e documenti particolari; c) ricerche "sul campo" attraverso interviste a testimoni privilegiati per raccogliere le


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testimonianze degli ex partigiani della zona 15: questo per valorizzare le fonti orali, data l'importanza della storia orale nella ricostruzione di un universo in cui la soggettività ha avuto un ruolo di primo piano; d) letture delle opere letterarie secondo una griglia tematica fornita dal docente, capace di comparere i testi e di costruire un universo culturale di riferimento, di comparare la narrazione letteraria con la spiegazione storica, di ricostruire la rappresentazione della guerra, di definire il senso complessivo della storia che emerge dai testi, ecc.; e) preparazione e realizzazione di una mostra comprendente i disegni prodotti dagli studenti sul tema della lotta per la libertà e le fotografie relative ad aspetti di valore materiale e simbolici, come quelle delle lapidi ai caduti della zona 15; f) produzione di un libro che raccolga tutti i contributi di lavoro, scritti e grafici; g) organizzazione e partecipazione ad una o più manifestazioni pubbliche, sulla Resistenza e in particolare sulla figura di Giancarlo Puecher, preparata/e in collaborazione con gli amministratori della provincia e del Consiglio di zona e con i rappresentanti delle organizzazioni partigiane: manifestazioni capaci di coinvolgere insieme studenti, genitori, insegnanti e cittadini. Queste le principali modalità di lavoro attuabili entro le possibilità, spesso limita-te, del tempo scuola di un triennio del liceo scientifico nel corso di un anno scolastico. Quello che è importante osservare, in conclusione, è che l'esperienza di ricerca storico-didattica è parte integrante del curricolo scolastico: è la sperimentazione di un percorso didattico-culturale progettato secondo le esigenze della programmazione per obiettivi teorici ed operativi. Un piccolo passo verso una nuova scuola secondaria superiore (se mai ci sarà data, entro la fine del XX secolo!).

VI. Conclusione. Una nuova Resistenza e una memoria per il futuro: tempo di nuove scelte.

«Grazie alla Resistenza, il popolo italiano, a poco più di un anno dalla fine della guerra, potè scegliere il proprio destino in libere votazioni, per il referendum istituzionale prima, per le elezioni alla Costituente poi, onde nacque la Costituzione repubblicana discussa e approvata da uomini la cui stragrande maggioranza rappresentava i partiti antifascisti» (30). Una nuova Resistenza, dunque, in una società dello spettacolo che ha spogliato di libertà e di senso la sfera pubblica, trasformandola in "pubblicità"; in una cultura dell'omologazione che ha dichiarato guerra ai valori di fondo della Repubblica nata dall'antifascismo: valori che non possono essere persi neanche dai giovani degli anni '90 (31). Si tratta di un mondo giovanile diversificato, in stato di profondo smarrimento valoriale, di forte disaffezione rispetto a tutto ciò che è politico e istituzionale. E' la connotazione di un mondo giovanile rilevata dalle analisi sociologiche che convergono sul tema della disaffezione, ereditata dagli anni '80, verso l'agire collettivo. C'è dunque un problema di cultura e di memoria, oggi: è il valore della cultura della giustizia, della uguaglianza, della trasparenza e della solidarietà; è il valore della memoria per capire il presente cercandone le radici nel passato per progettare il futuro. Un futuro che, a partire dai valori della Resistenza e delle lotte di liberazione dei popoli, ricostruisca anche nei giovani la consapevolezza democratica attraverso strategie dì educazione allo sviluppo, all'interculturalità, alla pace, alla cittadinanza e alla sostenibilità ecologica, in prospettiva multietnica e planetaria.

(1) Esistono altre esperienze di ricerca scolastica in gran parte sconosciute perchè non pubblicate e non divulgate. Voglio, segnalare, in particolare, quella effettuata da un gruppo di studenti dell'ITC "Sesta" di Milano, rispetto alla quale questo lavoro si pone in continuità ideale. Si tratta di una raccolta


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di interviste a protagonisti della seconda guerra mondiale e della Resistenza milanese: una ricca testimonianza del vissuto quotidiano e della storia vista dal basso, raccolta per mettere a confronto tra gli studenti la cultura della guerra con la cultura della pace (Cfr. Alla ricerca della nostra storia, a cura di Vittorio Bellavite. Milano 1991). (2) Cfr. M. Gusso, Chi ha paura del Novecento? A proposito dei programmi di storia della secondaria superiore, "I viaggi di Erodoto", 1992, n. 17, pp.22-25. (3) Cfr. I. Mattozzi, Che il piccolo storico sia!, "I viaggi di Erodoto", n.16, 1992, pp. 170-177. (4) G. Rochat, Alternative etiche e scelte politiche. Un bilancio della Resistenza, in "Gioventù evangelica ", n. 132 1991, p. 22. (5) M. Revelli, La scelta e la violenza, "L'indice", n. 9, 1991, p.39. (6) Cfr. M. Gusso, L'uso dei testi narrativi come fonti nella ricerca e nella didattica della storia. in AA.VV., Ricerca e didattica, B. Mondadori, Milano 1985; AA.VV., Testi letterari e conoscenza storica. La letteratura come fonte storica, a cura di F. Cataluccio, B. Mondadori, Milano 1986; F. Tronci, Letteratura e storia: aspetti e problemi di un rapporto difficile, Bulzoni, Roma 1983. (7) M. Capanna, Speranze. Giovani, etica, politica, Rizzoli, Milano 1994. (8) S. Neri Serneri, L'un contro l'altro armati, "Storia e Dossier", n. 76, ottobre 1993, p. 10. (9) Cfr. N. Matteucci, Resistenza, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci e G. Pasquino, Tea, Milano 1990, pp.966-969. (10) F. Della Peruta, Storia del Novecento. Dalla "grande guerra" ai giorni nostri, Le Monnier, Firenze 1991, p.247. (11) C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, (12) N. Tranfaglia, Vincitori e vinti. La Resistenza fu una guerra giusta?, "La Repubblica", 12 ottobre 1991. (13) Cfr. ad esempio, R. Carli Ballola, Storia della Resistenza, Ed. Avanti!, Milano 1957; L. Longo, Un popolo alla macchia, Ed. Riuniti, Roma 1965; R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964. (14) Cfr., ad esempio, Istituto Milanese per la Storia della Resistenza e del Movimento operaio, Annali. Studi e strumenti di storia metropolitana milanese. Guida agli archivi dell' istituto, F Angeli, Milano 1992. (15) Cfr. G. Quazza, La Resistenza italiana. Appunti e documenti, Giappichelli, Torino 1966; E: Collotti, L'amministrazione tedesca nell'Italia occupata, Lerici, Milano 1963. (16) Cit. (17) M. Revelli, op. cit., p. 37. (18) N. Bobbio, Resistenza: le guerre erano tre, "La Stampa", 15 febbraio 1991. (19) M. Isnenghi,Le tre guerre, "L'indice", n. 9, 1991, p. 36. Per una prima discussione sul libro di Claudio Pavone: P. Battista, Resistenza: guerra civile?, "La Stampa", 13 ottobre 1991; N. Bobbio, cit.; M. Boccianini, Intervista a Renzo De Felice. Resistenza, le "amnesie" di Pavone, "Avanti!", 8 ottobre 1991; L. Canfora, Perche tre guerre?, "Il Manifesto", 25 novembre 1991; B. Del Colle, Perchè la Resistenza fu guerra civile, "Famiglia cristiana", n. 43, 1991; Controversie storiche: Resistenza, cioè guerra civile, colloquio con Claudio Pavone di Elisabetta Rasy, "L'Espresso", 20 ottobre 1991; G. De Luna, Ciascuno con la propria coscienza, solo davanti alla guerra, "Il Manifesto", 25 ottobre 1991; G. Favre, Eppur dovete andar, "Panorama", 20 ottobre 1991; N. Gallerano, Italiani contro italiani: il gesto e l'eroismo, "Il Manifesto", 25 ottobre 1991; A. Gnoli, Fucilavamo i fascisti e non me ne pento, "La Repubblica", 16 ottobre 1991; M. Isnenghi, cit.; P. Lavatelli, Una morale per la politica , "L'Unità", 16 ottobre 1991; G. Pasquino, E la moralità fu guerra civile, "L'Unità", 18 novembre 1991; M. Revelli, cit.; G. Rochat, cit.; G. Seniga, La Resistenza non fu "una guerra civile", "Avanti!", 13 novembre 1991; E. Tassini, 1943-1945: perchè fu una guerra civile, "L'Europeo", n. 43, 1991; N. Tranfaglia, cit. (20) Cfr. N. Bobbio, op. cit. (21) Sul rapporto tra anarchia e Resistenza cfr. M. Rossi, Avanti siam ribelli. Appunti per una storia del movimento anarchico nella Resistenza, BFS, Pisa,


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(22) N. Bobbio, op. cit. (23) La bibliografia su Giancarlo Puecher è costituita dai seguenti volumi monografici: G. Bianchi, Giancarlo Puecher, A. Mondadori, Milano 1965; C. Grampa-A. Sironi, Giancarlo Puecher: la fede nella ragione, Edizioni Duomo, Milano 1982; G. De Antonellis, IL caso Puecher, Rizzoli,Milano 1984. Riferimenti a G. Puecher si trovano anche in F. Fucci, Galantuomini dietro le sbarre, Tarantola, Milano 1945; A. Saitta, Dal fascismo alla Resistenza. La Nuova Italia, Firenze 1961; A. Ghetti, La nostra Resistenza, in "L'Italia", 25 aprile 1963; Comune di Milano, La nostra Resistenza, Quaderni della città di Milano, n.18, 1964; V. Volpini, I cattolici e la Resistenza, in "Civiltà cattolica", maggio 1964; Provincia di Milano, Dalla Resistenza, Milano 1975; G. Bianchi, Antifascismo e Resistenza nel Comasco (rievocazione, testimonianze, documenti), Como 1975; G. De Antonellis, Puecher: prima medaglia d'oro della Lombardia, in "Storia illustrata", dicembre 1983; Id., Giancarlo Puecher, un tipico martire dell'ideale, in AA.VV., La guerra partigiana in Italia. Edizioni Civitas, Roma 1984. (24) Einaudi, Torino 1969, p. 219. Compare anche nelle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (a cura di P. Malvezzi e G. Pirelli, Einaudi, Torino 1952), con la seguente nota biografica: "Di 20 anni - dottore (errato,in verità semplice studente) - nato a Milano il 23 agosto 1923 -. Subito dopo I' 8 settembre diventa l'organizzatore ed il capo dei gruppi partigiani che si vanno formando nella zona di Erba-Pontelambro (Como) - svolge numerose azioni, fra cui rilevante quella al Crotto Rosa di Erba, per il recupero di materiale militare e di quadrupedi-. Catturato il 12 novembre 1943 a Erba, da militi delle locali Brigate Nere - tradotto nelle carceri San Donnino in Como - più volte torturato -. Processato il 21 dicembre 1943 dal Tribunale Speciale Militare di Erba -. Fucilato lo stesso 21 dicembre 1943, al cimitero nuovo di Erba, da militi delle Brigate Nere -. Medaglia d' Oro al Valor Militare -. E' figlio di Giorgio Puecher Passavalli, deportato al campo di Mauthausen ed ivi deceduto" (p. 267). (25) D. Maestri, Resistenza e impegno letterario, Paravia, Torino 1975. (26) C. Pavone, op. cit., p. 267. (27) Cfr. D. Maestri, op. cit.; D. De Grandis - A. Greco, 1943-45: una generazione si racconta, "I viaggi di Erodoto", n. 18, 1992, pp. 166-185. (28) Cfr. Lettere della Resistenza europea cit. e Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, cit. (29) D. DE Grandis - A. Greco, op. cit., p. 167. (30) N. Bobbio, op. cit. (31) Cfr. A. Cavalli-A. De Lillo (a cura di), Giovani anni 90, II Mulino, Bologna 1993.


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-II-

LA RESISTENZA IN EUROPA, IN ITALIA E A MILANO di Michele Cerminara, Andrea Appiani e Antonio Acocella

I. La Resistenza in Europa

1. Caratteri generali della Resistenza in Europa.

La seconda guerra mondiale fu combattuta, sia dal punto di vista militare che da quello politico, su due piani diversi: oltre alle forme classiche di conduzione delle ostilità, come lo scontro tra eserciti regolari e i tentativi di soluzione diplomatica del conflitto, si ebbe un altro tipo di guerra, portata avanti dai popoli insorti contro i regimi dittatoriali che si erano instaurati in molti stati d'Europa. L'insieme delle esperienze che costituirono questo "secondo fronte" va sotto il nome di Resistenza, la quale nacque spontaneamente nelle nazioni sottomesse alla dittatura nazista o occupate dal blocco nazifascista, con lo scopo di liberare il proprio Paese dall'oppressione a cui erano soggetti, per restaurare le forme istituzionali spazzate via dalla furia nazista, nei paesi dove queste godevano ancora dell'appoggio del popolo, o per instaurarne delle nuove, in quei paesi dove il regi-me precedente, solitamente totalitario, incontrava un'opposizione consistente(1). La Resistenza non nacque subito come fenomeno a carattere militare, ma sorse lentamente nei singoli individui, dapprima come ribellione morale contro le forze occupanti, per subire in seguito, soprattutto grazie all'opera svolta dai movimenti politici che agivano nella clandestinità, un' aggregazione che la fece maturare fino a farle acquistare la connotazione di lotta armata vera e propria . I movimenti partigiani portarono avanti la loro lotta svolgendo soprattutto azioni di guerriglia, effettuate da bande che raccoglievano ex militari, giovani volontari, renitenti alla leva o prigionieri evasi, che, evitando Io scontro frontale, logoravano lentamente l'avversario(2). Oltre alle azioni di carattere militare, un ruolo fondamentale fu svolto dalla propaganda., condotta principalmente per mezzo della stampa clandestina, che garantiva un largo coinvolgimento popolare, il quale si evidenziava negli scio-peri di solidarietà (molto importanti furono quelli del 1943 nelle principali aziende del nord Italia) e nelle rivolte che caratterizzarono le vicende di molti ghetti ebraici (particolare clamore suscitò la rivolta del ghetto di Varsavia , del 19 aprile 1943 )(3). La Resistenza ebbe un'importanza tutt'altro che trascurabile per lo svolgersi del conflitto: dal punto di vista miiitare provocò lo scardinamento di molti settori delle retrovie delle linee tedesche, impegnando le forze dell'Asse in quello che può essere considerato come un secondo fronte; inoltre ebbe un' enorme importanza dal punto di vista psicologico, grazie al carattere ossessivo, quasi da incubo, che la lotta partigiana assunse per le forze armate nazifasciste.(4) II punto di forza della Resistenza non fu solo il suo potenziale di carattere militare e psicologico da utilizzare contro l'esercito avversario, ma fu anche rappresentato dal vuoto di consensi che riuscì a creare intorno alle autorità occupanti, le quali


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perdettero in questo modo il basilare appoggio datogli dai "collaborazionisti". Il fenomeno del collaborazionismo, radicalmente opposto a quello della Resistenza, caratterizzò l'occupazione di molti paesi, nei quali la lotta per la liberazione era fortemente ostacolata dal governo stesso, che dopo l'occupazione si era "alleato" con i nazisti (uno dei casi più lampanti di collaborazionismo fu quello del governo filonazista di Vichy, nella parte meridionale della Francia). Gli ostacoli che i vari movimenti di Resistenza dovettero superare furono principalmente due: la reazione delle truppe italo-tedesche e le rotture intestine, che laceravano lo schieramento dall'interno. La repressione dei movimenti partigiani si basò sull'instaurazione di un regime di Terrore, realizzato mediante esecuzioni sommarie, torture, rastrellamenti, distruzioni, con il solo scopo di far venir meno quell'entusiasmo che alimentava la Resistenza. I conflitti all'interno dei singoli movimenti clandestini erano soprattutto causati dal dibattito che insorgeva a proposito del futuro istituzionale del paese dopo la liberazione. Questi conflitti impegnarono duramente le forze partigiane, causando spesso guerre civili (come accadde in Jugoslavia e in Grecia) e in alcuni casi decretando il fallimento del tentativo di liberazione autonomo (come accadde in Polonia). La Resistenza nei vari stati europei ebbe un indubbio peso per le sorti del conflitto, fu sicuramente un validissimo punto d'appoggio per gli alleati, ma, di contro, fu in parte ostacolata proprio dagli alleati, proprio a causa di quelle implicazioni politiche che si accompagnavano alla lotta di liberazione. Lo scontro ideologico impregnò la guerra come mai era successo prima, portando alla divisione del continente in sfere d'influenza, che segnò la storia europea fino alla caduta del blocco sovietico. Il ruolo principale nell'appoggio esterno ai vari gruppi partigiani fu svolto soprattutto dall'Inghilterra, che divenne sede di numerosi governi in esilio, dove fu realizzato il primo organo di coordinazione dei movimenti clandestini, il "S.O.E" (Special Operations Executive). Anche l'U.R.S.S. ebbe un peso notevole nell'appoggio alla Resistenza, grazie ai contatti delle alte gerarchie sovietiche con i principali esponenti dei partiti comunisti dei singoli stati e alla presenza in Russia di un folto gruppo di esuli, soprattutto polacchi e tedeschi, che svolgevano da qui attività politiche e alimentavano la propaganda antinazista. Gli Stati Uniti entrarono in contatto coi gruppi partigiani fornendo loro una gran-de quantità di mezzi e condizionandone gli orientamenti politici in senso antisovietico col ricatto del piano Marshall. Gli alleati tendevano a favorire i gruppi più moderati, per poter tenere sotto controllo lo sviluppo politico del conflitto, ma non sempre riuscirono in questo loro intento, così in Italia cadde la monarchia, in Jugoslavia andò al potere il maresciallo Tito e in Grecia infuriò la guerra civile per impedire la restaurazione della monarchia, imposta dagli inglesi.

2. La Resistenza nell' Europa occidentale

La Resistenza, che andava diffondendosi parallelamente all'espansione dei territori soggetti ai paesi dell'Asse, fu dapprima solo astensione delle popolazioni occupate da ogni segno di solidarietà nei confronti degli occupanti, e solo gradualmente si trasformò in aperta ostilità verso questi ultimi. Un ruolo fondamentale nella maturazione dei movimenti di Resistenza fu svolto dai partiti comunisti, i quali agevolarono l'espansione ed il consolidamento dei movimenti clandestini. La svolta fu segnata dall'invasione dell'U.R.S.S. e dalla resa di Stalingrado, avvenimenti


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avvenimenti che fecero raggiungere anche in Europa occidentale il massimo di intensità della Resistenza, in attesa dello sbarco americano che avrebbe aperto il secondo fronte sul continente(5).

a) I primi paesi in Occidente ad essere invasi, il 9 aprile 1940, furono Danimarca e Norvegia: nel primo il carattere prevalente della lotta per la liberazione fu quello di Resistenza passiva, di propaganda antinazista, svolta parallelamente all'opera dei sabotatori e guastatori, attività svolte senza la coordinazione di un organismo operante su base nazionale che si formò solo dopo le dimissioni del governo danese, nell'estate del 1943(6). La lotta in Norvegia fu invece più aspra: dopo la fuga di re Haakon in Inghilterra, i tedeschi insediarono un governo fantoccio, guidato dal filonazista Quisling; si venne così a creare, immediatamente, un movimento d'opinione avverso al nuovo esecutivo collaborazionista, e sorsero i primi gruppi armati, formati prevalentemente da militari rifugiatisi nelle campagne, che diedero vita ad una fitta e larga-mente diffusa rete di sabotatori, che procurarono ai tedeschi una mole di perdite molto superiore a quella che era stata messa in preventivo per l'operazione. Questa attività fu appoggiata direttamente dal Regno Unito, che fornì uomini e mezzi in aiuto al movimento clandestino già organizzatosi(7).

b) Dopo Danimarca e Norvegia l'esercito tedesco invase, il 10 maggio 1940, l'Olanda e il Belgio: le forze armate olandesi furono costrette alla resa dopo soli quattro giorni e sia il governo che la regina furono costretti a rifugiarsi in Inghilterra, da dove alimentarono la Resistenza contro l'invasore. Sorsero subito movimenti clan-destini spontanei, formati sia da civili che da militari, con lo scopo di liberare il paese degli invasori. La lotta partigiana ebbe come strumento principale la propaganda, efficace soprattutto per mezzo della stampa clandestina, accompagnata da grandi manifestazioni di solidarietà nei confronti delle vittime del terrorismo nazifascista, che furono tra le più imponenti tra tutte le manifestazioni svoltesi in Europa sotto l'occupazione nazista(8). In Belgio la Resistenza assunse immediatamente le caratteristiche di ribellione sia morale che politica, soprattutto a causa del ricordo che la popolazione aveva dell'invasione del 1914, e ciò determinò il totale isolamento a cui furono soggette le forza naziste. L'atteggiamento del re Leopoldo fu, però, un elemento di notevole confusione, poiché si rifiutò di seguire il governo in esilio a Londra, rimanendo in una sorta di attesa, non collaborando coi nazisti, né guidando la Resistenza, ponendo in questo modo i presupposti per un aspro dibattito riguardo la forma istituzionale da adottarsi dopo la fine del conflitto. La Resistenza belga si limitò, in generale, ad assumere posizione contro l'occupante, senza sfociare in un movimento armato organizzato su larga scala; la sua attività principale consistette nell' organizzazione delle manifestazioni di dissenso, limitando le azioni militari a sporadici casi di sabotaggio(9).

c) In Francia si costituì uno dei maggiori movimenti di Resistenza di tutta l'Europa occidentale, particolarmente funzionale sia per la sua efficienza militare che per il suo spessore politico, secondo soltanto all'esperienza italiana. Nel giugno 1940 il governo francese fu costretto a firmare un armistizio che la umiliava profondamente: la parte settentrionale della nazione passò sotto il controllo diretto della Wehrmacht (l'insieme delle forze armate tedesche), mentre la parte meridionale si sottometteva alla potenza della Germania, diventando una sorta di stato satellite, guidato dal maresciallo Pétain, il quale diede in questo


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modo il colpo di grazia alla terza repubblica tornando alle tradizioni tipiche dell'ancien régime. In opposizione al collaborazionismo che caratterizzava la Francia di Vichy, il generale De Gaulle cercò di realizzare la Resistenza utilizzando gli appelli lanciati da Radio Londra: al primo di questi appelli, trasmesso il 18 giugno 1940, risposero positivamente gran parte delle unità militari francesi di stanza all'estero, dalle quali nacquero le "Forces Francaises Libres", che garantirono alla Francia la permanenza nel gruppo degli alleati, evitandole di essere degradata al rango di paese occupato, cosa che le avrebbe dato un peso ben diverso durante la stipula dei trattati alla fine della guerra. Sul suolo francese si andavano costituendo, nel frattempo, i primi gruppi partigiani che, almeno all'inizio, si dedicarono quasi esclusivamente alla propaganda; questi piccoli gruppi si daranno successivamente un'organizzazione unitaria, confluendo nelle "Forces Francaises de I'Interieur". Lo spirito della Resistenza pervase tutti i ceti della popolazione, ma l'eccessivo frazionamento e la mancanza di collaborazione tra i vari gruppi furono motivi di forte debolezza per il movimento partigiano. Si impose così il problema del coordinamento e dell'accentramento delle iniziative, che acquistò particolare rilevanza per il valore politico che implicava. Fu riconosciuta l'autorità di De Gaulle che, per mezzo dell'ex prefetto Moulin, portò a termine l'unificazione del movimento di Resistenza, che sfociò nella creazione del "Conseil National da la Resistance", composto da rappresentanti di tutte le correnti politiche, sotto la presidenza dello stesso Moulin. Il Consiglio provvide a stendere un programma unitario, sottoscritto il 15 marzo 1943 da tutti i movimenti aderenti, che era inevitabilmente un programma di compromesso, in grado di incontrare il consenso di tutti gli orientamenti politici, scongiurare il pericolo di provocare spaccature all'interno del fronte antitedesco: i moderati rinunciarono alla polemica anti-comunista, mentre i filosovietici limitarono le loro istanze di rinnovamento a quelle comunemente accettabili. Il programma fissava le direttive per l'azione immediata e un minimo di principi comuni per la ricostruzione che avrebbe seguito la liberazione. Questa ricostruzione non era intesa come semplice ritorno alla situazione precedente, ma era considerata come un momento di lotta per un rinnovamento profondo della società francese, senza mettere in discussione la forma repubblicana dello stato. Dal punto di vista militare, oltre a sottrarre uomini ai reclutamenti attuati sia dall'esercito tedesco che dal governo di Vichy, la Resistenza fu molto importante per il ruolo svolto dai gruppi clandestini datisi alla macchia. Lo sbarco alleato galvanizzò le formazioni della Resistenza, che contribuirono a sconvolgere le retrovie tedesche, agevolando notevolmente la vittoria degli alleati(10).

3. La Resistenza nell'Europa orientale e sudorientale

In Europa orientale la lotta di Resistenza nacque sia come risposta alla guerra di annientamento e sterminio condotta dai gerarchi nazisti, sia in seguito all'esplosione di quelle situazioni di oppressione politica e sociale, determinate dai regimi assolutistici che avevano caratterizzato la storia di questi paesi prima del conflitto.

a) Il primo paese dell'Europa orientale in cui si sviluppò un movimento partigiano fu la Cecoslovacchia, che era stata smembrata nel marzo 1939: immediatamente sorse una intensa attività di propaganda, guidata dagli esponenti politici costretti ad emigrare all'estero, tendente a mantenere vivo l'ideale di indipendenza del territorio nazionale. I gruppi partigiani erano prevalentemente formati da attivisti


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attivisti del partito comunista, che operarono in stretto contatto con l'Armata Rossa. Le operazioni militari erano costituite prevalentemente da atti di sabotaggio, spesso realizzati grazie all'ausilio degli specialisti inviati dall'Inghilterra. Il più importante di questi atti fu indubbiamente l'assassinio di Reinhard Heydrich, uno dei più temuti capi della polizia nazista e amministratore del protettorato di Boemia e Moravia. In risposta a questo omicidio i tedeschi attuarono una violenta rappresaglia, culminata nella distruzione di un piccolo centro nei pressi di Praga, una delle tante stragi che caratterizzarono l'occupazione tedesca dell'Europa orientale. In concomitanza con l'avanzata dell'Armata Rossa ai confini cecoslovacchi le forme della Resistenza mutarono radicalmente: dalle manifestazioni di dissenso che spesso accompagnarono l'occupazione tedesca si passò a veri e propri atti di aperta ostilità, che moltiplicarono il numero di sabotaggi e delle operazioni di carattere militare. Oltre all'omicidio di Heydrich, i due episodi più importanti della Resistenza cecoslovacca furono l'insurrezione slovacca del 29 agosto 1944 e l'insurrezione di Praga del 5 maggio 1945, che impegnarono duramente e a lungo le truppe dell'Asse. Dopo la liberazione, avvenuta ad opera delle forze armate sovietiche, venne instaurato un governo rappresentante tutti gli orientamenti politici, che attuò una politica di amicizia sia con le potenze del fronte occidentale che con I'U.R.S.S.(11).

b) La storia della Resistenza in Polonia fu molto travagliata, soprattutto a causa delle insanabi!:'ratture interne al movimento di liberazione: la posizione geografica del paese tra l'Unione Sovietica e la Germania determinò una profonda frattura tra comunisti e coloro che temevano allo stesso modo i nazisti e i sovietici. La Polonia era poi sede dei grandi lager nazisti, tra cui il tristemente famoso campo di Auschwitz, e nelle principali città vi erano popolosi ghetti ebraici, le cui insurrezioni caratterizzarono la Resistenza ebraica (particolare rilievo ebbe la rivolta del ghetto di Varsavia, del 19 aprile 1943). La frattura interna allo schieramento antinazista fu il principale motivo della debolezza del movimento partigiano polacco: da un lato, l'Armata dell'Interno", fedele al governo in esilio a Londra, attuava una serie di sabotaggi, per sconvolgere i trasporti interni tedeschi, ma non collaborando in alcun modo con l'Armata Rossa, almeno fino all'invasione tedesca dell'U.R.S.S., che spinse il governo in esilio a riallacciare i rapporti diplomatici con Mosca. Tra i due schieramenti partigiani non ci fu mai alcun tentativo di collaborazione organica, ma entrambi cercavano di battere sul tempo la fazione opposta, per impedire che potesse assumersi il merito di aver liberato il Paese. Proprio in questo clima va inquadrata l'insurrezione di Varsavia del 1944: il generale Borkomorowskj, comandante dell'Armata dell'Interno, diede l'ordine di insorgere contro i tedeschi per liberare la città prima dell'arrivo dell'Armata Rossa, ma il tentativo fu soffocato dalla schiacciante superiorità dopo due mesi di lotta. La rottura tra filosovietici e filooccidentali proponeva in anteprima la lotta tra le due sfere d'influenza che segnerà in seguito mezzo secolo di storia del continente europeo(12).

c) Il paese dove la Resistenza conseguì i risultati militari più rilevanti fu la Jugoslavia, che fu teatro di una lotta non basata esclusivamente su atti di sabotaggio o su insurrezioni popolari, ma di una lotta finemente organizzata, costituita di offensive e controffensive, che portò il paese alla liberazione con una tattica di largo raggio, tenendo in scacco un numero ingente di divisioni italo-tedesche. Questo carattere unitario della Resistenza jugoslava, che riuscì a mettere da parte le rivalità tra le diverse nazionalità che costituivano lo stato, conferì alla Jugoslavia


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Jugoslavia un'enorme forza d'urto alla lotta partigiana, anche grazie allo strettissimo legame tra i gruppi armati ed il potere politico: in particolare il partito comunista jugoslavo si impegnò nella lotta di liberazione, guidando le forze della Resistenza, con a capo Tito, il segretario del partito. I primi gruppi clandestini sorsero fin dal giugno 1941, mettendo in grandi difficoltà le truppe nemiche sin dalle prime azioni di guerriglia, come l'insurrezione del Montenegro del luglio successivo. Già dalle prime fasi della lotta iniziava a manifestarsi l'opposizione tra le forze guidate da Tito, che avevano come scopo principale la cacciata dei nazifascisti, senza porre limitazioni di tipo nazionalistico alla loro opera, e quelle capeggiate dal generale serbo Mihailovic, appoggiato dal governo in esilio e dal re, che mira-va a perpetuare l'egemonia serba sulla Jugoslavia liberata, e per questo motivo tendeva a risparmiare le forze a sua disposizione per la fase di trapasso, e quindi non disdegnava di stringere tregue con gli avversari. Lo scontro diretto divenne ben presto inevitabile, la guerra civile tra le due fazioni opposta non poté essere evitata, e terminò con la vittoria del movimento partigiano guidato da Tito, che offriva al paese l'opportunità di attuare un vero rinnovamento politico e sociale. Alla fine del novembre 1942 nacque a Bihac il "Consiglio Antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia", che si proponeva come organo politico della lotta di liberazione, a fianco del comando dell'esercito partigiano, e che rappresentava il nuovo governo della Jugoslavia. Il Consiglio Antifascista contestò ogni competenza al governo in esilio e proclamò la struttura federalista che la Jugolavia avrebbe acquisito dopo la liberazione, struttura che le avrebbe permesso di superare le difficoltà derivanti dall'odio tra le varie nazionalità garantendo ad ognuna di esse una larga autonomia. Un avvenimento molto importante per la guerra di Resistenza jugoslava fu l'armistizio italiano dell'8 settembre 1943, che fornì alle fila dei partigiani armi e reparti italiani, che velocizzarono la liberazione del paese. Il movimento guidato da Tito, grazie ai successi militari ottenuti, fu riconosciuto dalle potenze alleatesi contro i nazisti: innanzitutto il riconoscimento da parte dell'Inghilterra, che prima aveva appoggiato Mihailovic, convogliò sui partigiani di Tito un' ingente quantità di aiuti, che risultò determinante per le sorti del conflitto; nel febbraio 1944 anche l'U.R.S.S. riconobbe il movimento partigiano capeggiato da Tito, e inviò una missione militare presso il comando supremo di quest'ultimo; infine anche il governo in esilio di re Pietro fu costretto a riconoscere alle forze di Resistenza i loro meriti, stipulando un accordo che prevedeva un governo che comprendesse tutte le forze di liberazione. Questo governo fu formato l'8 marzo 1945 sotto la presidenza di Tito, e guidò la fase di transizione verso l'assemblea costituente, la quale proclamò, nel novembre successivo,la Repubblica(13).

d) In Grecia la lotta di Resistenza assunse un rigore estremo, come conseguenza della lunga sottomissione alla dittatura del generale Metaxas. I primi gruppi partigiani sorsero subito dopo l'armistizio del 1941, quando fu instaurato un governo collaborazionista, e furono alimentati da gruppi di militari di ogni orientamento politico, oltre che da truppe e mezzi italiani, unitisi ai resistenti dopo l'armistizio, analogamente a quanto era successo in Jugoslavia. La Resistenza assunse in tutti i principali gruppi clandestini un carattere di aperta avversione nei confronti della monarchia e del governo, fuggiti in esilio al Cairo, che furono, però, supportati dal governo inglese di W.Churchill. Inoltre la Resistenza greca era fortemente politicizzata, non solo come lotta contro l'invasore, ma soprattutto come lotta per abbattere la dittatura, per essere poi sacrificata dall'intervento esterno alla spartizione dell'Europa in sfere di influenza. Ci furono per questi motivi aspri scontri tra


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i gruppi partigiani filomonarchici e quelli che osteggiavano il ritorno del re. Nel febbraio 1944 i principali movimenti partigiani stipularono un accordo per concentrare i loro sforzi contro i tedeschi, rimandando ogni decisione di carattere istituzionale a liberazione avvenuta. Nell' agosto 1944 fu formato un governo di coalizione con la partecipazione di tutti i partiti politici, ma era evidente la volontà degli inglesi, nella cui sfera d'influenza rientrava la Grecia, di restaurare la monarchia di Giorgio II: Churchill era spinto da un forte spirito anticomunista e dalla sua politica conservatrice, e l'Unione Sovietica non poteva intervenire in appoggio ai partigiani comunisti. Scoppiò così, in seguito al rifiuto dei resistenti filosovietici di deporre le armi, la guerra civile: la Resistenza greca, che molto aveva potuto contro le truppe naziste, fu così sconfitta dagli inglesi, che restaurarono la monarchia(14).

e) II movimento più imponente dell'Europa orientale fu senza dubbio quello che si sviluppò nei territori dell'U.R.S.S. invasi dalle forze armate dell'Asse. La liberazione, in questo caso, non fu però opera di un movimento spontaneo, ma fu portata avanti dall'Armata Rossa, l'esercito sovietico, sotto la guida del comando supremo; inoltre lo spirito di liberazione non aveva in sé quelle istanza di cambio profondo proprie della maggior parte dei movimenti partigiani, ma era uno spirito patriottico di liberazione del suolo patrio. Il successo dell'Armata Rossa fu garantito dall'efficienza dell'industria bellica sovietica e dalle condizioni geografiche del paese, che permettevano di tenere occupate intere regioni nelle retrovie del fronte tedesco, il quale non riuscì mai a sconvolgere le strutture statali dell'Unione. Il movimento partigiano sovietico fu caratterizzato da una prima fase, dedicata all'elaborazione della tattica e alla formazione dell'organizzazione partigiana, e da una seconda fase, dall'autunno 1942 alla primavera 1944, in cui l'esercito partigiano passò all'offensiva generale dietro alle spalle del nemico, in stretta sincronia con l'avanzare dell'Armata Rossa, in cui furono incorporate le truppe partigiane dopo la cacciata dei nazisti(15).

4. La Resistenza nei paesi dell'Asse

a) In Germania l'opposizione interna nacque parallelamente all'ascesa politica di Hitler e del partito nazionalsocialista, ad opera dei partiti politici che avevano ostacolato maggiormente l'avvento del nazismo, in modo particolare ad opera di quei partiti che avevano come base popolare il movimento operaio. Appena salito al potere, Hitler attuò una dura politica di repressione nei confronti dei partiti di opposizione, obbligando le più eminenti personalità politiche alla fuga dalla Germania, in alternativa all'internamento nelle carceri o nei campi di sterminio (furono uccisi 57 parlamentari comunisti e 62 socialdemocratici, oltre a numero-si esponenti dei vari partiti, come Thàlmann e Hilferding). I dirigenti politici rifugiatisi all'estero mantennero i contatti con i gruppi di agitatori, generalmente legati agli ex partiti politici, che diffondevano materiale clandestino stampato in Cecoslovacchia. In Germania mancò quel coinvolgimento popolare che era stato il punto di forza dei movimenti partigiani del resto d'Europa, in primo luogo perché il regime terroristico del Terzo Reich incuteva timore in tutti gli strati della popolazione, inoltre perché le promesse di vendicare i vincoli imposti dal trattato di Versailles e di eliminare la disoccupazione raccolsero un enorme consenso intorno alla figura di Hitler. Mancava inoltre quello spirito di liberazione come patriottismo che era stata


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una caratteristica comune di tutti i moti di Resistenza. A causa di queste mancanze la Resistenza non assunse mai i caratteri di vera e propria opposizione armata, cime avvenne in Italia dopo l'Armistizio, ma rimase sempre opera prevalentemente morale, condotta da gruppi ristretti motivati da ragioni ideologiche molto forti. La Resistenza tedesca, oltre a basarsi sull'attività dei politici detenuti o fuggiti all'estero, si concretizzò nell'appoggio dato da una folta schiera di fuoriusciti tedeschi alla guerra civile in Spagna contro il generale Franco, nell'attività svolta nelle fabbriche, nella protesta morale di molti religiosi, nell'azione propagandistica di piccoli gruppi, come la "Rote Kapelle", annientata dalla Gestapo nel 1942, o come quello della "Weisse Rose", distrutto nell'inverno 1943. Tra i partiti politici decimati dopo l'avvento di Hitler, quello che svolse una più intensa attività di Resistenza fu l'ex partito comunista, operante sia in patria che dall'estero, soprattutto dalla Russia, dove fu costituito nel luglio 1943 un "Comitato Nazionale Germania Libera", che cercò di sfruttare i primi cedimenti che la macchina da guerra di Hitler manifestò dopo la sconfitta di Stalingrado. L'azione più importante della Resistenza in Germania, importante non tanto per le conseguenze che ebbe, quanto per il clamore che suscitò, fu l'attentato a Hitler del 20 luglio 1944, al quale parteciparono, oltre a diversi gruppi clandestini, anche alti esponenti del regime, spinti non da una convinzione politica avversa al nazismo, ma dalla volontà di salvare il salvabile, sacrificando alla causa del regime quegli esponenti che si erano più compromessi agli occhi dell'opinione pubblica, per scongiurare il pericolo di dover subire le dure condizioni imposte dai vincitori del conflitto, come accadde con i trattati di Versailles. Hitler, però, sopravvisse alla bomba che avrebbe dovuto ucciderlo, e annientò facilmente quei gerarchi che, credendolo morto, si erano scoperti. L'episodio del 20 luglio fu però un fatto isolato, non inserito in un piano generale della Resistenza, ma fu un'azione nata da un tentativo delle strutture di potere del Terzo Reich di sopravvivere(16).

b) Le vicende della Resistenza austriaca furono abbastanza simili a quelle viste per il caso della Germania: anche in Austria la Resistenza non nacque in seguito allo scoppio della guerra, ma fu un fenomeno parallelo all'instaurazione della dittatura del cancelliere Dullfuss. L'opposizione conobbe poi una sensibile espansione nel 1938, quando il terrore nazista si allargò anche ai territori austriaci, spingendo alla opposizione anche alcuni elementi della società che prima aveva-no appoggiato Dullfus. L'Austria era infatti divenuta una sorta di marca orientale del Reich, e la risposta all'oppressione sempre crescente si concretizzò nell'emigrazione degli intellettuali, nell'intensificazione della propaganda antigovernativa, nelle manifestazioni di solidarietà verso i perseguitati e nelle diserzioni di numerosi austriaci arruolati nella Wehrmacht: l'importanza di queste dissezioni fu notevole, soprattutto se si tiene conto che nello stesso periodo si costituirono i primi gruppi partigiani nelle valli della fascia alpina. La crescita dei gruppi clandestini fu molto importante per la storia dell'Austria, perché la Resistenza generò un nuovo senso di solidarietà nazionale e una sempre crescente volontà di indipendenza del paese, in aperta ostilità con il progetto hitleriano di una grande nazione tedesca. di cui l'Austria sarebbe stata solo una parte(17).

5. Conclusioni

Il fenomeno della Resistenza è stato, per estensione, intensità e risvolti politici, uno dei fenomeni più importanti di tutto il XX secolo, capace di segnare la storia


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di un intero continente, con importanti conseguenze per tutto il mondo. La Resistenza ha svolto un' importante azione di maturazione sia civile che politica, sia in quei paesi che l'hanno vissuta direttamente, anche se con intensità diverse da zona a zona, sia in quei paesi, come l'Inghilterra, che hanno appoggiato i movimenti partigiani dall'esterno. Gli ideali ispiratori della Resistenza sono stati le basi per la costruzione dell'Europa moderna, e per questo motivo è necessario mantenerli vivi nella nostra società, per impedire alle future generazioni di ricadere in quegli errori che sono costati la vita a migliaia di vittime innocenti.

Il. La Resistenza in Italia

1. Premessa

E' necessario ora ricostruire le fasi e le componenti fondamentali della storia della Resistenza italiana, che "costituì un momento di svolta nelle vicende del nostro paese, perché essa diede un contributo essenziale alla maturazione civile e politica degli italiani e fu il punto d'avvio della nuova Italia democratica" (18).

2. Inquadramento storico della Resistenza italiana all'interno della guerra

La Resistenza in Italia è inserita in un preciso periodo storico che va dal settembre del 1943 all'aprile del 1945. Prima di giungere al settembre 1943, però, va ricordato come l'andamento sfavorevole della guerra, lo sbarco alleato in Sicilia e la congiura" di alcuni gerarchi fascisti abbiano provocato la caduta del fascismo in Italia, che si concretizzò il 25 luglio 1943, quando Mussolini fu costretto a dimettersi da capo del governo e fu arrestato. Il re Vittorio Emanuele III nominò, quindi, capo del governo il generale Pietro Badoglio, il quale dichiarò che la guerra continuava e proclamò lo stato d'assedio. Spinto dai gruppi antifascisti, Badoglio chiese agli alleati anglo-americani l'armistizio, che fu firmato il 3 settembre 1943 a Cassibile (Siracusa), e reso pubblico I'8 settembre. In seguito all'annuncio dell'armistizio il re, Badoglio, alcuni ministri ed ufficiali, fuggirono da Roma, rifugiandosi nell'Italia meridionale sotto la protezione degli anglo-americani. L'esercito italiano rimase, così, senza ordini e abbandonato alla propria sorte; non fu, quindi, difficile per i tedeschi occupare militarmente l'Italia centro-settentrionale. Intanto Mussolini, liberato dai tedeschi, fondò alla fine del settembre '43 nell'Italia settentrionale la "Repubblica Sociale Italiana" o Repubblica di Salò, che si pose al fianco dei nazisti tedeschi. Fu nel settembre '43 che nacque ufficialmente il movimento di liberazione dai tedeschi e dal fascismo, denominato "Resistenza", quando il 9 settembre di quellanno si formò a Roma il primo Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.). La dura lotta fu condotta da vari gruppi di partigiani riuniti in brigate, G.A.P. e S.A.P. (gruppi e squadre d'azione patriottica); l'azione tenace di questo movimento, superando tantissime e diverse difficoltà (in particolare il terribile inverno 1944-45), lentamente liberò molte zone dell'Italia centro-settentrionale procedendo verso nord. Durante la lunga ritirata le truppe tedesche eseguirono durissime rappresa-glie; fra queste è doveroso e necessario ricordare i massacri compiuti alle Fosse Ardeatine e nel comune di Marzabotto (Bologna). Ma l'azione partigiana fu inesorabile; si arrivò così alla liberazione, tra l'agosto 1944 e l'aprile 1945, delle principali città del centro-nord (Firenze, Bologna, Torino, Genova, Milano, Venezia, Padova


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Padova e Vicenza), in cui assunsero il potere i C.L.N. locali. Mussolini cercò di fuggire, ma fu catturato e giustiziato il 28 aprile 1945. II fascismo ed i tedeschi furono così eliminati, ma si poneva, ora, il grosso problema di ricostruire un'Italia distrutta ed economicamente in ginocchio. Questa è la ricostruzione per sommi capi dei più rilevanti fatti storici che fecero da sfondo al movimento di resistenza (19).

3. Dati sulla Resistenza in Italia

Essendo stata la Resistenza italiana un movimento molto ampio e diffuso in modi diversi nelle varie zone dell'Italia, non è sicuramente facile ricostruire precisi ed affidabili dati numerici che possano far chiaramente capire come il bisogno di libertà fosse veramente sentito in quel periodo. Intanto, a dimostrazione del fatto che il movimento di Resistenza, iniziato per opera di gruppi non numerosissimi di partigiani, coinvolse con il passare del tempo sempre più persone disposte a sacrificare anche la propria vita per raggiungere la tanto sospirata libertà, bisogna riportare il dato secondo cui il numero di partigiani combattenti era di circa 10.000 nell'autunno '43 e di circa 100.000 nell'estate del '44 (concentrati, in particolare, in Piemonte, Veneto, Emilia, Toscana e Lombardia) (20). Inoltre , secondo valutazioni ufficiali fatte alla fine della guerra, fu riconosciuta la qualifica di partigiano combattente a 232.841 persone; furono invece riconosciuti "patrioti", ossia collaboratori costanti, 125.714 persone (21). Purtroppo bisogna registrare anche la morte di moltissime persone, e senza dubbio queste vittime sono da ricordare negli anni, perché è proprio grazie alla loro morte che alla fine della guerra si è potuta raggiungere quella libertà che era lo scopo principale di tutta la resistenza italiana; sono pertanto stati registrati 72.500 caduti (compresi i civili) e 39.167 feriti gravi (mutilati e invalidi) (22). Altre importanti cifre riguardano il numero di civili uccisi per rappresaglia (10.000), i militari deportati nei lager nazisti (635.000), i dispersi (19.200); senza dimenticare inoltre gli 11.687 partigiani uccisi dai fascisti della Repubblica Sociale Italiana. Senza dubbio «dal punto di vista della sofferenza umana il costo era stato enorme» (23). Numerosi anche i riconoscimenti ufficiali per i più valorosi e meritevoli partecipanti alla Resistenza italiana: 279 medaglie d'oro, 750 medaglie d'argento, 500 medaglie di bronzo e 500 croci al valore miìitare (24). Tutte queste cifre e questi dati confermano l'importanza estrema e il grande valore di un movimento che coinvolse molti civili, tra cui anche donne e anziani, che presero veramente a cuore la lotta per la conquista della libertà.

4. Caratteristiche, mezzi e strumenti della Resistenza italiana

a) Il "C.L.N.". Sebbene molte bande e gruppi di partigiani fossero già attivi da alcuni mesi, la Resistenza italiana nacque ufficialmente il 9 settembre 1943 a Roma, quando alle 14.30 con un breve comunicato, gli italiani furono informati che i partiti antifascisti si erano costituiti in Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.) per guidare gli italiani nella lotta. I partiti riuniti nel comitato, il cui presidente era Ivanoe Bonomi, erano il Partito Socialista, il Partito d'Azione, la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista, la Democrazia del Lavoro ed il Partito Liberale. Durante il periodo della resistenza armata il C.L.N. si pose come organo che aveva il compito di coordinare ed organizzare le attività partigiane; in seguito,


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quando la liberazione fu completata assunse la forma di organo politico e amministrativo locale. Nei mesi immediatamente seguenti al settembre '43 si formarono spontanea-mente diversi comitati di liberazione nazionali in tantissimi centri, soprattutto nel nord Italia, dove la resistenza sarà più intensa e dura. Da questa diversa distribuzione geografica dei vari C.L.N. sorti dopo quello del 9 settembre '43, risulta evidente che «mentre nell'Italia del nord e in Toscana la storia dei C.L.N. si intreccia con quella della lotta partigiana, quella dei C.L.N. di Roma, Napoli, Bari, è soprattutto storia della lotta dei partiti tra di loro, con la monarchia ed il suo governo» (25). Comunque, al di là di queste differenze esistenti da zona a zona nell'Italia, il C.L.N. e i vari comitati regionali, locali e periferici (molti formatisi anche nelle fabbriche e in altri luoghi di lavoro per difendersi dai tedeschi e dai fascisti dell'R.S.I.) sorgevano tutti in seguito alla constatazione della debolezza della monarchia e dell'incapacità del governo di opporre una valida resistenza all'avanzata tedesca nel territorio della penisola. Inoltre si può affermare che «il Comitato di Liberazione Nazionale rappresenta-va una brusca rottura nei confronti della classe dirigente italiana che aveva confuso le sue sorti con quelle del fascismo» (26). Infatti il C.L.N. rivestì nella storia dell'Italia un ruolo fondamentale, in quanto in esso «trovò espressione una classe dirigente nuova (...), non più ristretta allo strato sottile della elite al potere» (27), ma di estrazione sociale popolare.

b)_Gruppi e brigate partigiane. Senza dubbio il contributo più consistente alla Resistenza lo diedero le varie formazioni partigiane: si formarono infatti divisioni e brigate, guidate da comandi centrali, fiancheggiate dai G.A.P. (Gruppi di Azione Patriottica) nelle città e dalle S.A.P. (Squadre di Azione Patriottica) nelle campagne, speciali formazioni con compiti particolari e specifici. Ma dei G.A.P. e delle S.A.P. si parlerà un po' più diffusamente più avanti. Sicuramente all'inizio la guerra partigiana era difficilissima e veramente molto ardua in quanto "si svolge nella clandestinità, nell'isolamento, con collegamenti faticosi, sotto la minaccia continua di rastrellamenti, di retate..." (28); molto spesso le varie formazioni partigiane agivano solo sull'iniziativa dei propri comandanti, senza piani ben progettati e coordinati. Più tardi, a mano a mano che la lotta diventava sempre più dura, la resistenza armata si organizzò meglio; infatti una fitta rete di comunicazioni e i collegamenti sicuri con gli alleati permisero il compimento di operazioni a più vasto respiro, come per esempio l'occupazione di importanti centri; così, i partigiani non si limitarono più soltanto a compiere colpi di mano e atti di sabotaggio. Anche se le azioni di guerriglia costituirono l'aspetto più rilevante del movimento di resistenza armata, non bisogna sottovalutare tutte le altre forme con le quali si sviluppò questo grande movimento e cioè "il semplice rifiuto, l'aiuto ai prigionieri di guerra alleati e agli ebrei perseguitati dalle misure razziste, le attività di propaganda politica antifascista e d'informazione militare a favore degli alleati" (29). Dal punto di vista politico, a poco a poco, le formazioni partigiane si differenziarono: i comunisti costituirono le brigate e divisioni "Garibaldi", il Partito d'Azione diede vita a reparti di "Giustizia e Libertà", i socialisti costituirono le brigate "Matteotti". In seguito anche i democristiani ebbero le loro unità, così come gli "autonomi" e i "monarchici". Le brigate meglio organizzate e che da sole comprendevano il 45%-50% di tutta la forza partigiana erano sicuramente le brigate "Garibaldi"; subito dopo di queste, come armamento e importanza numerica, venivano le brigate "Giustizia e Libertà",


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Libertà", che comprendevano circa il 20% delle forze partigiane (30).

c) G.A.P. e S.A P. Per condurre meglio la resistenza armata e per raggiungere gli obiettivi che il movimento si era preposto, furono formati, a fianco delle divisioni delle brigate partigiane due organismi speciali: i G.A.P. e le S.A.P.. Entrambe queste formazioni erano "composte di elementi scelti per la loro preparazione e il loro coraggio" (31). I Gruppi di Azione Patriottica si formarono nel novembre 1943, per iniziativa dei comunisti, e agivano soprattutto nelle città dove compivano atti di terrorismo e sabotaggio. Le Squadre di Azione Patriottica, invece, sorsero durante l'estate del 1944 nelle campagne emiliane, anch'esse per iniziativa comunista; queste avevano la funzione di organizzare scioperi, sabotaggi alla produzione di guerra e di diffondere materiali di propaganda antifascista; in generale le S.A.P. avevano uno scopo soprattutto difensivo, in quanto provvedevano alla difesa della popolazione contro le requisizioni o alla chiamata degli uomini al servizio di lavoro.

d) Composizione sociale della Resistenza. Una delle caratteristiche fondamentali di tutto il movimento di resistenza armata, che senza dubbio contribuì al raggiungimento della libertà, fu che ogni strato sociale, ognuno in misura diversa, fu attivamente coinvolto nella lotta; la Resistenza, quindi, «non fu monopolio esclusivo di una classe» (32). I combattenti pertanto provenivano da tutte le classi sociali, anche se «su un piano morale, alcune categorie di cittadini parteciparono più attivamente alla Resistenza, altre furono indifferenti, altre ancora, quelle più direttamente compromesse con il fascismo, apertamente ostili e, specie dopo la guerra, aspramente critiche» (33). Alcune statistiche parziali proposte da Roberto Battaglia (34) e che riguardano i partigiani del Piemonte, dicono che gli operai costituivano il 30.51% delle forze ribelli, le classi medie il 29.83%, i contadini il 20.39%, gli artigiani il 13.63% e le classi agiate il 5.64%; queste cifre confermano che la Resistenza fu «veramente una lotta di popolo, senza distinzioni sociali» (35). Anche dall'analisi di altri dati emerge come la classe operaia ebbe una parte di primo piano nella guerra di liberazione, e quindi come nella Resistenza italiana fosse presente un forte contenuto di classe. Celebri sono gli scioperi avvenuti nelle città italiane del nord durante il novembre-dicembre '43 e nel marzo '44; dati che confermano il grande peso acquistato dalle masse operaie nella Resistenza e in generale nella società italiana, grazie anche alla politica svolta dai partiti operai italiani. E' quindi giusto affermare che «in questo intreccio di scioperi e guerriglia, di azione militare e rivendicazioni sociali risiede il tratto peculiare e distintivo della Resistenza italiana» (36).

5. La Resistenza al nord, al centro, al sud dell'Italia: differenti caratteristiche per diverse realtà.

Nella nostra penisola il fenomeno della Resistenza non si manifestò nello stesso modo in tutte le zone; infatti si può affermare che l'esperienza più diretta del fenomeno l'abbia avuta sicuramente il nord-Italia; nel centro e in particolare nei sud-Italia invece, questo movimento per la libertà assunse forme meno dure e meno violente, ma soprattutto non fu di così vaste dimensioni come lo fu nel settentrione. A dimostrazione di ciò, pertanto, bisogno dire che molti storici e studiosi non


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ritengono giusto e corretto parlare di vera e propria Resistenza nel meridione italiano. Ma analizziamo ora un po più approfonditamente la situazione presente al nord, al centro e al sud.

a) l/ nord. Come già accennato nell'iniziale quadro storico che fa da sfondo alla Resistenza in Italia, subito dopo l'8 settembre '43, il nord viene praticamente invaso tutto dai tedeschi nazisti; inoltre a Salò aveva sede la Repubblica Sociale Italiana formatasi dopo che Mussolini fu liberato dai tedeschi. Fu al nord, quindi, che la resistenza armata si sviluppò in pieno e durò diciannove lunghissimi mesi, fino all'aprile 1945. La lotta acquistò una gravità e un carattere di asprezza del tutto particolari, che nessuna altra zona d'Italia conobbe. Fu in particolare al nord che il movimento armato giunse ad avere un'organizzazione buona e razionale, fondata sulle direttive emanate dai vari C.L.N. locali e sul coraggio e l'amore per la libertà dei numerosissimi partigiani, i quali avevano formato divisioni e brigate, oltre a corpi speciali come i G.A.P. e le S.A.P., di cui si è già parlato in precedenza. La Resistenza al nord ha inoltre assunto un valore moralmente ancora più alto se si pensa alle centinaia di partigiani e civili morti durante la durissima lotta che rappresentò ed «espresse la volontà della massa popolare» (37).

b) Il centro. Anche nella zona centrale dell'Italia si assistette a una resistenza armata abbastanza dura e intensa, ma questa non raggiunse mai la dimensione di vera e propria lotta di popolo che ebbe nel settentrione. Comunque anche a Roma, per esempio, subito dopo l'annuncio dell'armistizio si costituirono centri di resistenza e diverse formazioni militari dipendenti dal C.L.N. centrale, di cui si è già parlato. Ma mentre nel nord le formazioni partigiane erano guidate solo dai vari C.L.N., a Roma e in altre zone del centro (per esempio in Abruzzo), oltre all'attività dei C.L.N., rimase l'organizzazione militare dipendente dal governo Badoglio. Un ruolo molto importante nella Resistenza del centro fu giocato dal Vaticano e dal clero romano, che aiutò negli approvvigionamenti, soccorse la popolazione, salvò e aiutò molti uomini politici perseguitati dai tedeschi. Quindi a Roma, venuta meno l'autorità della monarchia e del governo, "la forza che più impressionò l'opinione pubblica era il Vaticano, il Papa" (38). A Firenze, ma anche in altre zone della Toscana e dell'Umbria, la situazione fu diversa da quella della capitale; nel capoluogo toscano, infatti, la lotta fu aperta e si svolse in piena città, e la liberazione (agosto '44), non fu opera soltanto delle truppe alleate, in quanto "si verificò l'insurrezione' popolare, che era mancata a Roma" (39). Si può quindi affermare che la situazione di Firenze fu la più simile a quella delle zone del nord-italia.

c) I/ sud. Per quanto riguarda l'Italia meridionale, come si è già accennato in precedenza, non sembra neanche esatto parlare di Resistenza, in quanto gli alleati sbarcarono a Saierno il 9 settembre '43 e poi si diressero verso Napoli, che fu liberata anche grazie all'insurrezione popolare; la liberazione avvenne perciò subito, e un vero e proprio movimento di resistenza non ebbe nemmeno modo di formarsi. Nel sud perciò la situazione politica era diversa da quella del centro-nord; infatti a Brindisi risiedeva il governo del re e l'amministrazione di fatto era esercitata dagli alleati. Quindi in generale nel meridione "si vide funzionare il vecchio stato" (40). Non essendosi pertanto verificata nel sud una vera Resistenza, è interessante analizzare l'aspetto sociale ed economico della complessa realtà del meridione


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durante gli anni 1943-45. Innanzitutto l'isolamento geografico e la scarsezza di collegamenti contribuivano al degrado civile ed economico del sud; al decadimento economico contribuì in modo determinante anche la nuova amministrazione alleata; la miseria e la repressione erano i segni distintivi di una società in cui "la vita delle masse sembrava frantumarsi e disperdersi in infiniti rivoli separati" (41). Frequenti furono gli scioperi degli operai in segno di protesta e le lotte dei contadini nelle campagne, attraverso l'occupazione delle terre dei latifondi, per opporsi alle ingiustizie e agli abusi perpetrati dai proprietari terrieri, ma «le forze tradizionali del sud combatterono questa rinascita dell'attività politica con tutti i mezzi a loro disposizione» (42). Possiamo dire, in conclusione, che la divisione in tre parti del territorio italiano durante il periodo 1943-45 contribuì notevolmente ad accentuare alcune profonde differenze politiche, economiche e sociali tra il nord e il sud dell'Italia; questo accadde soprattutto perché nel sud non ci fu una vera Resistenza, cioè quel movimento popolare che al nord favorì la maturazione civile della società.

6. Riflessioni conclusive sull'importanza e sul valore storico del fenomeno della Resistenza

La Resistenza nella storia italiana occupa senz'altro un posto di grandissimo rilievo, in quanto era destinata ad avviare un movimento di rinnovamento volto in particolar modo ad un superamento dei valori politici e morali antidemocratici portati avanti dal fascismo. Bisogna dire anche che le masse popolari, che furono parte attiva della Resistenza (operai e contadini primi fra tutti), conducevano questa durissima lotta non solo con la speranza di libertà ma anche con il desiderio di un cambiamento concreta della società italiana. Purtroppo però, nonostante le condizioni per avviare importanti riforme sociali ed economiche esistessero realmente (il vecchio ordine della società italiana era stato scosso dalla sconfitta e dalla invasione), "quest'enorme desiderio di riforme e queste potenzialità oggettive rimasero quasi completamente irrealizzate"(43). Non si riuscì, infatti a creare in quel periodo una vera e propria rottura con il passato. Ma al di là di queste considerazioni, è assolutamente necessario porre in evidenza la caratteristica più importante della Resistenza italiana intera, cioè la cosciente e attiva partecipazione delle masse popolari lavoratrici e questo è indubbiamente «un fatto che resterà nella storia d'Italia» (44). Questa è un'affermazione più che lecita in quanto, in seguito a questa lotta di popolo, le masse iniziarono concretamente e attivamente a prendere parte alla vita politica del paese che così «ha cessato definitivamente di essere patrimonio esclusivo di gruppi ristretti e privilegiati» (45). E' su questa base che possiamo identificare nella Resistenza "il punto d'avvio dell'Italia nella quale viviamo" (46): una democrazia ispirata ai valori della Resistenza.

III. La Resistenza a Milano 1. Premessa

Lo studio della lotta armata partigiana milanese, e in particolare della nascita, dell'organizzazione e dell'attività delle formazioni garibaldine che di quella lotta furono il principale protagonista, «colma una lacuna per certi versi paradossale»


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(47) data l'importanza sociale ed economica del capoluogo lombardo, e al contempo mettendo in luce le pesanti difficoltà di avvio e di sviluppo del movimento partigiano urbano contribuisce a far giustizia di tutta una serie di luoghi comuni derivati dalla retorica celebrativa. Già negli anni Cinquanta Francesco Scotti, uno dei principali organizzatori dei primi gruppi partigiani e membro del Comando generale delle brigate d'assalto Garibaldi, così ricordava gli inizi della lotta antinazifascista: «la maggior sicurezza che offre la montagna, l'isolamento in città, la tensione continua, il sospetto, la paura, l'iniziale senso d'inferiorità davanti al nemico `invincibile', il rifiuto psicologico e morale per l'esercizio della violenza a freddo spiegano le difficoltà che dovettero essere superate» (48).

2. I momenti fondamentali

L'occupazione nazista della città avvenne in modo praticamente incontrastato. Qualche sparatoria attorno alla Stazione centrale, ma niente di più. I tedeschi dal canto loro, dopo i primi giorni di razzie compiute dalle SS, puntando anche sulla collaborazione del neofascismo repubblicano e del padronato, cercarono di instaurare un clima di pace sociale che consentisse loro lo sfruttamento delle risorse agricole e zootecniche della campagna milanese e soprattutto del potenziale industriale ai fini della continuazione dello sforzo bellico, ma si scontrarono ben presto con la ferma opposizione della classe operaia che, di fronte all'ulteriore aggravarsi delle già drammatiche condizioni di vita e di lavoro, cui si aggiungevano ora la minaccia del licenziamento e della deportazione in Germania, scese massicciamente in lotta sfidando le pesanti misure repressive adottate dai nazifascisti. " «Dal 13 al 18 dicembre [1943] l'attività industriale è pressoché paralizzata, soprattutto nei primi quattro giorni di sciopero, durante i quali il movimento si estende a macchia d'olio coinvolgendo oltre 60 fabbriche per un totale di 150-160 mila operai» (49). L'imponenza e la determinazione della mobilitazione operaia smascherarono l' opportunismo del collaborazionismo padronale e l'asservimento dei fascisti ai piani di sfruttamento germanici, costringendo al contempo i nazisti a svelarsi come il nemico principale ma la grande combattività del proletariato industriale, pur assumendo una insostituibile importanza politica, rimaneva tuttavia, per motivi storici e culturali, limitata a un terreno di lotta rivendicativo, delegando l'intervento militare alle nascenti bande partigiane di montagna e in città ai primi Gruppi di azione patriottica (Gap). Le prime azioni di guerriglia urbana vennero messe in atto da una ristretta organizzazione formata da alcuni quadri e militanti comunisti, alcuni dei quali avevano già combattuto il nazifascismo in Spagna e tra i partigiani francesi; Francesco Scotti, Vittorio Bardini, Egisto Rubini, Cesare Roda e Angelo Spada (tutti ex combattenti della repubblica spagnola) coadiuvati da Giordano Cipriani, dai fratelli Licinio e Eliseo Picardi e da altri ancora riuscirono nel volgere di poche settimane a organizzare i primi Gap impiegandoli immediatamente contro il nemico. Lesordio, racconta il gappista "Barbisùn" (Carlo Camesasca), avvenne il 4 ottobre 1943 a Sesto San Giovanni: «non ci pare vero di vederci comparire il sergente maggiore squadrista ed attualmente in veste di repubblicano molto armato, Visentin individuo molto losco ed odiato. [...]ci mettiamo d'accordo e decidiamo d'attaccarlo al suo ritorno sul viale Umberto [...]. Giunti all'altezza del ponte dell'autostrada partiamo senz'altro all'attacco; per primo spara Ninetto che è il capo e ci deve dare l'esempio, subito dopo sparo anch'io, e mentre lui cade per terra colpito alla testa


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e al collo noi ne approfittiamo per squagliarcela e metterci così al sicuro» (50). Il ghiaccio era stato rotto ma al ripetersi delle prime azioni i tedeschi, preoccupati di mantenere la pace sociale, cercarono in un primo tempo di rispondere con una sorta di "strategia della normalità" concedendo autorizzazioni alla riapertura di cinema e teatri e locali di svago nell'evidente intento di nascondere il progressivo aggravarsi della situazione. «E' anche contro questa falsa normalità che i gappisti devono battersi per impedire che dilaghi e invischi le coscienze nell'accettazione passiva dell'occupazione straniera e del rigurgito squadrista» (51), bisognava cioè sconfiggere a tutti i costi il pericolo del diffondersi nel corpo sociale di un atteggia-mento di passività e di neutralità di fronte allo scontro in atto. Le azioni di guerriglia contro militari e ufficiali nazifascisti si fecero sempre più frequenti e sempre più cruente e gli attentati si indirizzarono, con il passare del tempo, contro le più alte cariche fasciste: alle 8 del mattino del 18 dicembre 1943 veniva abbattuto in piena città il federale fascista Aldo Resega e il 3 febbraio 1944 toccava al neoquestore Camillo Santamaria Nicolini che riuscì tuttavia a salvarsi grazie a una serie di cause accidentali. L'ultima azione memorabile del gappismo milanese fu l'attacco alla sede del fascio di Sesto San Giovanni che portò però all'arresto di Felice Lacerra, un giovane collaboratore dei Gap. Torturato fece il nome di alcuni compagni, dando il via ad una catena di arresti che unitamente all'azione di un traditore causò lo smantellamento dell'organizzazione gappista, ma in realtà, come appurò un'inchiesta condotta successivamente dai comandi superiori, lo sfascio di questi primi gruppi fu la conseguenza anche di un allentamento delle misure di vigilanza cospirativa da parte dei dirigenti politici e militari i quali, nello sforzo di intensificare l'impari lotta, avevano finito per trascurare l'indispensabile controllo della vita privata e dell'educazione politica dei combattenti consentendo così l'infiltrazione di alcuni elementi ambigui. Alla fine dell'aprile del 1944, mentre da più di un mese un nuovo comando si andava faticosamente impegnando nella ricostruzione della trama gappista ristabilendo i contatti con i pochi scampati all'arresto e reclutando nuove forze, il cedimento di alcuni giovani catturati e sottoposti a tortura e, ancora una volta, l'aperto tradimento di un gappista provocarono la dissoluzione totale dell'organizzazione. Nel frattempo, ai primi del marzo 1944, venne organizzato lo sciopero generale passato alla storia come «la più grande e riuscita mobilitazione di massa mai avvenuta nell'Europa occupata» (52), ma che a Milano, nonostante la soddisfacente riuscita, ebbe per le masse operaie una conclusione deludente: equivocato lo sciopero come insurrezionale e private dell'appoggio armato dei Gap colpiti dieci giorni prima dalla repressione poliziesca, il proletariato industriale si trovò esposto alla rabbiosa reazione nazifascista senza inoltre riuscire questa volta a strappare nemmeno la promessa di miglioramenti economici. Risultava pertanto evidente come l'azione militare non potesse più basarsi unicamente sulle formazioni di montagna e sui Gap, ma fosse necessaria una partecipazione sempre più massiccia della classe operaia per la costituzione di nuove squadre di difesa di fabbrica i cui compiti avrebbero dovuto principalmente consistere nel sabotaggio della produzione bellica e nella protezione delle agitazioni operaie. Le squadre di difesa rischiavano però di diventare un organismo esclusivamente difensivo e quindi inadatto a preparare e a sviluppare un clima insurrezionale, bisognava invece trasformarle, come avvenne nel volgere di pochi mesi,in squadre d'attacco attive e protagoniste dello scontro armato: le Squadre d'azione patriottica (Sap). Con il passare dei mesi intanto la situazione dei fascisti divenne sempre più


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difficile ed ingovernabile. Nella primavera del 1944, per far fronte all'espandersi della lotta partigiana e acquistare credito agli occhi dell'alleato nazista, la Repubblica Sociale chiamò alle armi le classi 1923, 1924 e 1925, ma nonostante la pena di morte per i renitenti, ben pochi risposero alla chiamata, mentre dal canto loro anche i carabinieri, di fronte a un ventilato progetto di utilizzarli in Germania come bassa forza, disertarono in massa. Mentre la pressione partigiana aumentava di giorno in giorno le milizie fasciste erano quasi totalmente allo sbando, come dimostrano gli esiti dei 132 attacchi partigiani condotti dal 30 maggio al 28 giugno 1944 contro presidi e posti di blocco della Guardia nazionale repubblicana: a fronte di 37 repubblichini caduti in combattimento si registrarono 360 catturati e 481 disarmati. Un'ulteriore spinta ad agire, con un conseguente aumento dell'afflusso di giovani alle formazioni di montagna e a quelle che stavano sorgendo in pianura e in città, venne dalla ripresa dell'offensiva alleata al Sud e, ai primi di giugno dallo sbarco in Normandia e dalla liberazione di Roma. Ma l'estate del 1944 è tristemente nota anche per la spietata repressione dei tedeschi intenzionati a "ripulire" le retrovie per garantirsi una ritirata sicura e libera da qualsiasi impedimento. Anche nel milanese si intensificarono i r astrellamenti, le deportazioni e le pubbliche fucilazioni in pieno giorno; elevate furono le perdite tra i partigiani e tra i civili ma le misure repressive contribuirono ad aumentare l'avversione per l'occupante e il disprezzo per i suoi servi in camicia nera. Dopo un'estate di grandi sforzi e di grandi speranze, in ottobre l'ormai chiaro affievolirsi dell'avanzata alleata cominciò a ripercuotersi sul morale di molte formazioni partigiane impegnando i comandi a fronteggiare l'affiorare di atteggiamenti "attesisti". La situazione precipitò drammaticamente il 13 novembre 1944 quando in seguito all'annuncio della sospensione delle operazioni militari nella penisola e alla cessazione di ogni aiuto alle formazioni partigiane, il generale britannico Alexander fornì praticamente ai tedeschi l'occasione per trasferire dal fronte intere divisioni impiegandole in feroci rastrellamenti che si accompagnarono ad una intensificazione della repressione poliziesca anche in tutto il milanese. «Svanite le speranze di una rapida avanzata alleata, ci si va angosciosamente rassegnando ad un altro inverno di guerra» (53). Gli effetti di un vertiginoso au-mento del costo della vita si accompagnarono al drammatico aggravarsi della già precaria situazione alimentare e al terrore per le rappresaglie e gli arresti. «La città pullula di nazifascisti: tra tedeschi e appartenenti alle varie formazioni repubblichine sono circa diciassettemila e quasi tutti sono sguinzagliati nella caccia al partigiano e per essere sospettati ci vuole poco, basta un commento o una delazione anonima» (54). L'inverno 1944-1945 trascorse tra la fame, le fucilazioni e le deportazioni, ma a partire dal gennaio 1945 le azioni partigiane ripresero vigore e si susseguirono nella crescente convinzione della necessità di preparare l'ormai non lontana insurrezione. II 6 febbraio vennero contemporaneamente attaccati venti caserme e comandi nazifascisti ubicati nelle diverse zone della città, dimostrando ai milanesi e allo stesso nemico il livello di combattività e la maturità organizzativa raggiunta dalle Squadre d'azione patriottica. L'avvicinarsi della primavera spinse alla costituzione di nuove Sap e alla ripresa dell'attività gappista, ora sotto la guida del leggendario "Visone" (l'ex garibaldino di Spagna Giovanni Pesce, già comandante dei primi Gap torinesi), al fine di alimentare un crescente clima insurrezionale che coinvolgesse vasti strati di popolazione. Dal canto loro gli alleati, preoccupati dalla consistenza delle formazioni partigiane organizzate dai partiti di sinistra, primo fra tutti il Pci, cercarono di impedire


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impedire quell'insurrezione che ai loro occhi minacciava di configurarsi come una vittoria politica dei comunisti e inviarono ripetuti appelli a non insorgere prima del loro arrivo, ma «il Comitato insurrezionale unitaria lancia la parola d'ordine dello sciopero insurrezionale fissandone l'inizio per le ore 14 del 25 aprile 1945» (55). Ogni brigata, ogni distaccamento intervenne con tutte le forze disponibili a difesa delle fabbriche, occupando gli obiettivi strategici della città e cercando di impedire la ritirata delle autocolonne nazifasciste. Salvo eccezioni non ci furono aspri combattimenti, si trattò per lo più di scontri delimitati, di sparatorie che costarono tuttavia la vita a decine di partigiani. Alla sera di giovedì 26 aprile la città era praticamente sotto il controllo delle forze sappiste, tutti gli obiettivi erano stati raggiunti, «unico punto di resistenza del nemico rimane la caserma di corso Italia, dove la I brigata nera mobile continua a combattere contro la brigata GL Max Masia guidata dal comandante Mario Mosca» (56). Resistevano inoltre i tedeschi asserragliati nel collegio dei Martinitt, nel palazzo dell'aeronautica in piazza Novelli e nell'hòtel Regina, sede della Gestapo e delle SS ma, circondati, non costituivano più una pericolosa minaccia. Nelle giornate immediatamente successive, il ripetersi di fucilazioni e di sentenze di morte emanate da tribunali straordinari indussero il prefetto della Liberazione Riccardo Lombardi a ordinare la cessazione delle esecuzioni arbitrarie o eseguite in seguito a procedimenti giudiziari dibattuti da tribunali di guerra, tribunali popolari e tribunali di fabbrica, e a demandare unicamente alla Commissione di giustizia il compito di giudicare collaborazionisti e criminali di guerra. Le istituzioni giudiziarie svolsero invece il loro compito con lentezza e eccessiva indulgenza spingendo così i partigiani ad applicare, per reazione, una spietata giustizia personale, «Quasi ogni giorno, all'alba, nelle località chiamate Baia del Re e Porto di Mare, a San Siro e nei prati di Segrate e dell'Ortica vengono ritrovati cadaveri di sconosciuti, privi di documenti e tutti deceduti per colpi d'arma da fuoco. Sono giorni di caos [...] forse qualche morto è da imputare anche alla malavita, ma la maggior parte sono fascisti liquidati sbrigativamente» (57). Con l'arrivo degli alleati iniziò il prestabilito smantellamento delle formazioni partigiane e così in tutta la Lombardia «vengono consegnati tra maggio e giugno 102.625 fucili e moschetti, 1.847 fucili automatici, 2.310 mitragliatori, 1.388 mitragliatrici, 184 mitragliere, 1.635 pistole, 354 cannoni e mortai, 31.261 bombe a mano» (58). Con la smobilitazione e la consegna delle armi, a coloro che poterono dimostrare di aver appartenuto a gruppi partigiani venne concesso un premio di mille lire (equivalente a circa un terzo di un salario medio operaio). Si concludeva così l'esperienza di molti combattenti che, dopo aver lottato per la rinascita del Paese, si ritrovavano senza lavoro e con molte promesse che le nuove istituzioni puntualmente non mantennero.

3. La struttura militare dei Gap e delle Sap

Le prime formazioni militari che si costituirono nel milanese furono i Gruppi di azione patriottica (Gap). La funzione principale di tale organizzazione era quella di seminare il terrore tra le truppe nemiche, sia per arrecare danni materiali, sia per impedire ogni possibilità di convivenza pacifica con i nazifascisti. Bisognava infatti creare un clima di tensione e suscitare la repressione nemica in modo da rendere consapevole l'intera popolazione della necessità di farsi parte attiva nella lotta in corso. Per la natura stessa delle azioni da compiere era impossibile per i gappisti continuare a


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vivere nella normale quotidianità: era quindi necessario eliminare ogni legame di qualsivoglia natura per dedicarsi totalmente all'attività guerrigliera. I Gap «sono nuclei ristrettissimi composti da militanti comunisti prevalentemente operai, che devono vivere nella clandestinità assoluta, osservare il massimo di quella che si chiama la vigilanza cospirativa, vivere quindi nell'isolamento più totale e svolgere una attività armata di tipo terroristico» (59). Giorgio Bocca nel 1964 definirà il terrorismo gappista come un atto di moralità rivoluzionaria: una volta presa coscienza della doverosa necessità di reagire all'occupazione nazista e all'oppressione fascista, mancando ogni possibilità di contestazione democratica e stante la disparità delle forze, nei grandi centri urbani non restava che la scelta di un vero e proprio terrorismo partigiano. Strutturati in squadre, i Gap erano solitamente formati da quattro combattenti: due volontari semplici, un vicecaposquadra e un caposquadra; tre squadre formavano un distaccamento guidato da un comandante e da un commissario politico. Il comandante era il diretto responsabile della riuscita di ogni azione, doveva quindi controllare la preparazione dei piani e la loro esecuzione tenendosi a stretto contatto con i caposquadra con i quali discuteva la modalità degli attentati, l'ora, i materiali e l'armamento da impiegare, la divisione dei compiti e, punto fonda-mentale, le modalità della ritirata ad azione conclusa. II commissario, pari grado al comandante, era responsabile della sicurezza della vita dell'organizzazione e della preparazione ideologico-politica dei gappisti, egli aveva il compito di «galvanizzare il morale degli uomini curandone l'educazione politica e chiarendo loro, di volta in volta, le motivazioni politico-militari delle operazioni da compiersi» (60). I collegamenti tra le varie squadre, brevi incontri per la trasmissione delle direttive e per mantenersi aggiornati sulla situazione, avvenivano tramite incontri "volanti" per la strada. Non bisogna tuttavia pensare alle formazioni gappiste come ad organismi perfetti e rigidamente rigorosi nel rispetto delle norme cospirative: la caduta generale del febbraio 1944 testimonia come, pressati da mille incombenze e dovendo comunque non dar tregua al nemico, i responsabili dei distaccamenti finirono per non riuscire ad assolvere tutti i loro compiti, in particolare quelli relativi alla vigilanza. In un secondo momento, a partiFe dalla primavera del 1944, cominciarono a nascere anche le Squadre d'azione patriottica, le Sap. Lo sviluppo della lotta partigiana, e la necessità di preparare giorno dopo giorno l'insurrezione, necessitavano infatti di un potenziamento della lotta armata che avrebbe potuto avvenire soltanto attraverso la diretta partecipazione della classe operaia, svincolandola così dalla lotta rivendicativa entro i cui limiti si era fino ad allora mossa. Già nell'inverno 1943-1944 il Pci aveva cercato di dare vita a Squadre di difesa di fabbrica e di villaggio, ma la stessa concezione difensiva che stava alla loro origine ne limitò le potenzialità rendendole inadatte alla preparazione delle condizioni insurrezionali. Nel marzo 1944 un trentenne comunista di nome Italo Busetto colse i limiti operativi e le contraddizioni delle Squadre di difesa e propose al Comitato federale e al Comando generale delle brigate Garibaldi la loro trasformazione in Squadre d'azione poste alle dipendenze di un unico comando centralizzato. Tre mesi dopo nascevano le prime brigate Sap, la cui struttura variava in base al terreno operativo: le squadre di città erano formate da quattro elementi più il caposquadra per evitare che un gruppo troppo numeroso potesse essere facilmente individuato, mentre quelle operanti nelle campagne erano formate da tre nuclei di cinque uomini ciascuno ed erano comandate dal più esperto dei tre capisquadra. AI di là di questa differenziazione circa 40-50 combattenti costituivano un distaccamento agii ordini di un comandante e di un commissario politico e


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4-5 distaccamenti formavano una brigata. Gap e Sap presentavano profonde differenze organizzative e strategiche: i sappisti, diversamente dai gappisti - che almeno in teoria avrebbero dovuto vivere nella più assoluta clandestinità -, restavano nella legalità continuando, finché individuati, a vivere una vita familiare e lavorativa apparentemente normale. La loro attività partigiana consisteva, almeno nella fase iniziale, in azioni meno temerarie di quelle gappiste, più di disturbo e di propaganda che veri e propri attentati: disarmi, scritte murali, lancio di manifestini in luoghi affollati e comizi volanti nei cinema e nelle fabbriche. Organizzazione militare aperta a tutti coloro che, indipendente-mente dalla fede ideologica, politica o religiosa, intendevano battersi contro il comune nemico, le Sap avevano come obiettivo principale non tanto l'infliggere gravi danni materiali alla macchina bellica avversaria quanto suscitare e sviluppare un crescente clima di mobilitazione e di partecipazione popolare alla lotta contro nazifascisti.

4. Rapporto tra politica e azione militare

II rapporto che legò le organizzazioni politiche e quelle militari fu sempre molto stretto ma non privo di contrasti e di punte polemiche che scaturivano da un diverso modo di intendere l'impegno a sostegno della lotta armata. In tutta una prima fase molti Comitati federali del Pci - in particolare quello milanese - dedicarono la maggior parte dei loro sforzi all'organizzazione delle lotte rivendicative operaie prestando scarsa attenzione e sottovalutando le esigenze e la necessità di un maggior sviluppo della lotta armata, sia di tipo gappista sia, in un secondo tempo, sappista. AI costante e capillare impegno organizzativo in direzione del proletariato industriale non ne corrispose uno altrettanto convinto ed efficace a sostegno dell'apparato militare i cui dirigenti, si può dire per tutta la durata della guerra partigiana, mossero ripetuti e talvolta pesanti rilievi critici ai responsabili dell'apparato politico. Le motivazioni di questo "scollamento" affondano le radici nella storia della stessa Federazione comunista milanese, nel rifiuto di ogni forma di lotta armata bollata per anni come avventurismo di sinistra, e nel conseguente processo di formazione di diversi suoi dirigenti. «I dissensi tra militari e politici non vedono schierati eroi della azione contro opportunisti della propaganda, ma due anime di uno stesso organismo. Da un lato coloro che avevano sostenuto la necessità di anticipare a volte i tempi e dispongono ora di un bagaglio ideologico e politico adeguato ai compiti e alle necessità della nuova situazione; dall'altro coloro che, ancorati a vecchi schemi, concepiscono ancora la lotta al fascismo principalmente come organizzazione, agitazione e propaganda e non riescono quindi ad impegnarsi a fondo per sostenere e favorire lo sviluppo della lotta armata» (61). Tutto ciò ebbe come conseguenza atteggiamenti di superficialità da parte dei responsabili di partito nell'assolvere il compito di reclutamento e soprattutto di preparazione ideologica e politica dei futuri gappisti, consentendo così, in alcuni casi, l'infiltrazione di elementi dalla dubbia moralità o pericolosi per la vita dell'organizzazione, come dimostra la crisi che si abbatté sui Gap nel febbraio 1944. Il cordone ombelicale tra partiti e rispettive organizzazioni militari si accentuò nelle fasi conclusive del conflitto quando, con l'approssimarsi della Liberazione, divenne sempre più manifesta la diversità di classe delle scelte strategiche dei partiti che componevano il pur unitaro fronte antifascista. Le sinistre miravano ad una imponente insurrezione popolare che, anticipando anche di poche ore l'arrivo degli angloamericani, sancisse un'irreversibile rottura


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ra con il passato liberale e monarchico dell'Italia prefascista e aprisse la strada ad una democrazia di tipo nuovo e progressivo in cui, nei disegni del Pci, avessero un ruolo dirigente la classe operaia e lo stesso partito che l'aveva guidata nelle lotta antifascista. Dall'altro lato le forze moderate, timorose che lo sviluppo della lotta di massa pregiudicasse il ritorno ai vecchi equilibri politici e istituzionali, temevano che l'insurrezione voluta dalle sinistre si trasformasse in una rivoluzione proletaria, una posizione emblematicamente riassunta nelle direttive approvate il 10 novembre 1944 dalla Democrazia cristiana sulla situazione generale, all'interno delle quali «ricordando la situazione del 1919-20, si indica[va] il nemico da combattere non tanto nel fascismo quanto nei partiti di estrema sinistra» (62). Le divergenze di natura politica si ripercossero sullo sviluppo della lotta armata. Mentre Gap e Sap si impegnarono a fondo nelle azioni, le formazioni dei partiti moderati manifestarono un impegno più debole e saltuario, fornendo così uno scarso contributo alla preparazione dell'insurrezione, del resto osteggiata dai partiti che facevano loro capo. Altrettanto avversi a una ipotesi insurrezionale erano i comandi alleati che, in sintonia con i rispettivi governi e preoccupati dall'egemonia delle sinistre e dei comunisti in particolare su un movimento partigiano fattosi sempre più consistente e agguerrito, cercarono con ogni mezzo di contenerne l'espansione come ben dimostrano le direttive inglesi in materia di aiuti aviolanciati: (1) Scoraggiare una indiscriminata espansione dei reparti armati; 2) incoraggiare atti organici di sabotaggio, complementari a operazioni previste e attività di controspionaggio; 3) incremento dei rifornimenti di materiale non bellico per sostenere il morale dei partigiani» (63).

5. Rapporti tra le componenti politiche

Nonostante le forze politiche antifasciste fossero accomunate dal comune obiettivo della liberazione nazionale, le divergenze politiche derivanti dalla diversità degli interessi di classe in gioco ostacolarono il raggiungimento di una più proficua unità antifascista. Per superare il rischio di pericolose divisioni interne e in applicazione della politica di unità nazionale il 18 agosto 1944 nacque il Comando piazza di Milano del Corpo volontari della libertà composto su basi paritetiche da «un Generale comandante, da un Commissario politico, da un Capo di stato maggiore e da 4 vicecomandanti e vicecommissari, ognuno dei quali regge una sezione dei Comando (Sezione operazioni, Sezione mobilitazione e collegamenti, Sezione informazioni, Sezione sabotaggi e Sezione servizi). Nel Comando sono così rappresentati tutti i partiti aderenti al CLN» (64). Costituito - almeno sulla carta - per coordinare l'attività delle diverse formazioni, il Comando piazza, ai cui lavori parteciparono rappresentanti comunisti, socialisti, azionisti e repubblicani (quasi sempre assenti i liberali e i democristiani), esercitò un ruolo secondario nello sviluppo degli avvenimenti militari ed ebbe più una funzione politica nel contribuire al mantenimento dell'unità antifascista. Di fatto la lotta armata continuò ad essere diretta dai Comandi delle formazioni di diverso colore e, per tutta la durata della guerra, non si registrò mai un reale coordinamento operativo delle forze, fatta una parziale eccezione per le giornate insurrezionali. Il ruolo predominante nella lotta resistenziale milanese, come dimostra la seguente tabella, fu svolto dalle formazioni Garibaldi organizzate dal Pci le quali primeggiarono per numero dei combattenti e dei caduti oltre che per la stragrande maggioranza delle azioni compiute da tutte le forze partigiane.


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FERITI PARTIGIANI PATRIOTI BENEMERITI NON RICONOSCIUTI

Brigate Garibaldi 242 3468 2222 2956 1464 Brigate Matteotti 66 1239 992 1376 1813 Brigate G.L. 6 446 152 152 153 Brigate del Popolo 69 668 504 554 1088 Brigate Mazzini 13 119 142 352 207 Brigate Risorgimento e 21 555 279 340 986 Autonome Altre formazioni 823 186 62 100 215 Comando generale Cvl 2 140 36 28 25 Comando piazza Milano — 15 — 7 7

Totali 1242 6626 4389 5865 5958

6. Conclusione

Milano era stata la "culla del fascismo" ma questo marchio infamante per lo spirito democratico della città venne riscattato e cancellato da diciotto mesi di guerra partigiana che la trasformarono, a pieno titolo, nella capitale della Resistenza. E non solo perché nel capoluogo lombardo fissarono le loro sedi clandestine e agirono il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, il Comando generale del Corpo volontari della libertà, le direzioni politiche dei partiti antifascisti e i comandi generali delle formazioni di diverso orientamento, ma soprattutto per la irriducibile combattività di quella classe operaia che per prima, con le sue lotte, sfidò i nazifascisti additando all'intera città quale doveva essere il cammino da percorrere. Fu la spinta delle lotte di fabbrica a sostenere nell'autunno 1943, e ancora in seguito, il difficoltoso decollo e poi l'affermazione del movimento partigiano e fu dalla classe operaia che uscirono i primi gappisti che, in parallelo ai grandi scioperi del dicembre 1943 e del marzo 1944, impedirono con le loro audaci azioni che lo smarrimento e l'angoscia della città si trasformassero nella passiva accettazione dell'occupazione nazista e della risorta violenza squadrista. E fu ancora la classe operaia il vivaio da cui sorsero i dirigenti e i combattenti sappisti i quali giorno dopo giorno prepararono l'insurrezione vittoriosa alimentando sempre più nei milanesi l'avversione al nazifascismo e la connivente solidarietà con le forze partigiane. La lotta armata milanese fu, come del resto in tutta l'Italia occupata, un fenomeno minoritario anche se assunse proporzioni di massa. Ma questa constatazione, lungi dallo sminuirne il valore e la portata storica, se mai li esalta così come esalta il coraggio e la dignità morale e civile prima ancora che politica, di quelle migliaia di volontari senza l'abnegazione e il sacrificio dei quali non ci sarebbe stata insurrezione vittoriosa. Grazie a loro venne segnato un punto di non ritorno al passato e una conquista storica da cui non si sarebbe comunque più potuto prescindere nella travagliata costruzione della nuova Italia democratica. AI loro arrivo, nel tardo pomeriggio del 28 aprile 1945, le avanguardie americane trovarono la città già liberata dai suoi partigiani praticamente da quarantotto ore e a Palazzo Marino e in prefettura trovarono anche già insediati e al lavoro gli organi di un nuovo governo democratico. Era una città affamata che ad ogni angolo


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angolo mostrava le ferite della guerra ma i negozi erano aperti, energia elettrica e gas avevano ripreso ad essere erogati e i tram a circolare. L'ordine pubblico era garantito dai partigiani. Nessun caso di saccheggio si era verificato. «Siamo andati a spasso per Milano. Abbiamo trovato ordine, disciplina. Esprimiamo la nostra soddisfazione a: Clnai e ai partigiani per il magnifico lavoro fatto» (65). Così si espresse il 29 aprile 1945 il colonnello Charles Poletti, commissario per la Lombardia del Governo militare alleato. II 18 marzo 1948 il Presidente della Repubblica Enrico De Nicola conferiva alla città di Milano, capitale della Resistenza, la medaglia d'oro al valore militare. (1) F.Della Peruta, Storia del Novecento, Le Monnier, Firenze 1991, pag. 240 (2) ivi, pagg. 240-241 (3) B.Bongiovanni. G.C.Jocteau, N.Tranfaglia (a cura di), Storia d'Europa 2, in Il mondo contemporaneo,vol

   II,tomo 2,La Nuova Italia,Firenze 1980,pagg. 885-888

(4) E.Collotti, La Resistenza in Europa e in Italia, in Nuove questioni di storia contemporanea, Marzorati,

   Milano 1969, pag. 1303

(5) ivi, pag. 1312 (6) ibidem (7) ivi, pag. 1313 (8) ibidem (9) ivi, pag. 1314 (10) ivi, pagg. 1316-1319 (11) ivi, pag. 1321 (12) ivi, pag. 1323 (13) ivi, pag. 1325 (14) ivi, pag. 1327 (15) ivi, pagg. 1328-1330 (16) ivi, pagg. 1331-1334 (17) ivi, pag. 1335 (18) F.Della Peruta, Storia del Novecento. Dalla "grande guerra" ai giorni nostri, Le Monnier, Firenze 1991,

    p.247

(19) Per questa ricostruzione storica sono stati utilizzati i testi di G.Carocci, Corso di storia-L'età

    contemporanea Vo1.3, Zanichelli, Bologna 1985, pp.1337-1339 e di Zaira Meneghin Maina, 1918-1945-
    Frammenti di storia dell'antifascismo e della Resisteza in zona 5, Circoscrizione zona 5-Comune di 
    Milano (s.d.)

(20) G.Mammarella, L'Italia contemporanea (1943-1989), II Mulino, Bologna 1992, p.36. (21) F.Chabod, L'Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi, Torino 1961, p.127 (22) Ibidem (23) P.Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi-Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino 1989,

    p.91

(24) Z.Meneghin Maina, co.cit., p.79 (25) G.Mammarella, op.cit, p.13 (26) E.Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d'Italia. Dall'unità ad oggi, vol.4, Einaudi,

    Torino 1976, p.2363

(27) Ibidem (28) Z.Meneghin Maina, op.cit., p.42 (29) G.Mammarella, op.cit., p.36 (30) Ivi, p.37 (31) Ibidem (32) F.Chabod, op.cit., p.128


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(33) G.Mammarella, op.cit., p.38 (34) FChabot, op.cit., p.130 (35) R.Battaglia, Storia della resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964 (36) E. Ragionieri, op.cit., p.2379 (37) F.Chabod, op.cit., p. 128 (38) Ivi, p.125 (39) Ivi, p.126 (40) Ivi, p.123 (41) E.Ragionieri, op.cit., p.2364 (42) P.Ginsborg, op.cit., p.80 (43) lvi, p.65 (44) FChabot, op.cit., p.143 (45) E.Ragionieri, op.cit., p.2391 (46) Ibidem (47) L. Ganapini, Prefazione, in L. Borgomaneri, Due inverni, un'estate e la rossa primavera, E Angeli,

    Milano 1985, p. 9.

(48) L. Borgomaneri, op. cit., p.21 (49) Ivi, p.19 (50) C. Camesasca, Diario del gapista Barbisùn, in L. Borgomaneri,op. cit., p.24. (51) L. Borgomaneri, op. cit., p.31 (52) lvi, p.86 (53) lvi, p.225 (54) lvi, p.225 (55) lvi, p.254 (56) Ivi, p.264 (57) Ivi, p.298 (58) L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, Bologna, il Mulino,1983, p.256 in L. Borgomaneri, op.cit.,

    p.312.

(59) L. Borgomaneri, La Resistenza armata in Milano, in AA.VV., Conoscere la Resistenza, Unicopli, Milano

    1994 p.23.

(60) Carte ANPI Milano, in L. Borgomaneri, op. cit., p.39 (61) L. Borgomaneri, op. cit., p.208 (62) E. Catalano, Storia del Comitato di liberazione nazionale alta Italia, Milano, Bompiani, 1975, p.290,

    in L. Borgomaneri, op. cit. pp.215-216.

(63) Il contributo della Resistenza italiana in un documento alleato, in "MLI", gennaio 1950 in L.

    Borgomaneri op. cit., p.251

(64) Organizzazione Comando della Piazza di Milano, 5 settembre 1944, in A. INSML in L. Borgomaneri op. cit.,

    p.216

(65) Il col. Poletti esalta l'eroismo dei partigiani, in "l'Unità", 30 aprile 1945 in L. Borgomaneri, op.

    cit., p.308.


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- III - LA RESISTENZA IN ZONA 15

di Luna Boschetti e Eugenio Perrotta


i. Premessa

Il nostro gruppo di lavoro intende sezionare la Resistenza milanese mettendo in evidenza i fatti e le figure che hanno interessato la zona 15 (Chiesa Rossa-Gratosoglio) che, in genere, sono poco noti ai giovani e in generale ai cittadini che vi abitano. Si tratta, quindi, di ricomporre in un quadro unitario i frammenti di storia dell'antifascismo e della Resistenza riguardanti la zona 15, arricchendo ed integrando altri contributi di storia locale con riferimento alle circoscrizioni cittadine (1). Mancando documenti scritti la fonte principale è costituita dalla testimonianza diretta degli ex-partigiani della sezione A.N.P.I. in zona 15, con particolare riferimenti a quelli del quartiere Baia del Re, o Stadera, un quartiere operaio che alla Resistenza ha dato un contributo di grande valore, che non è conosciuto quanto merita.

II.La Resistenza nella periferia milanese 1.

La zona 15

L'attuale zona 15 costituisce una parte dell'estremo territorio meridionale di Milano. Parte, a Nord, da viale Tibaldi ed è delimitata a Ovest dal Naviglio Pavese e ad Est dalle vie Bazzi, Antonini, Ferrari, Selvanesco e Manduria; arriva ai confini della citta` con il comune di Rozzano. La divisione zonale di Milano è avvenuta di recente; durante la guerra la citta` era divisa in sei settori e la zona 15, definita allora nei quartieri Spaventa e Stadera e negli insediamenti del Borgo dei Tre Ronchetti e di Gratosoglio (2), faceva parte del IV settore, secondo la divisione fascista, del III settore, secondo quella comunista; questo comprendeva la parte Sud-occidentale della citta` delimitata, a Nord, dalle vie Lorenteggio, Bellini, Giambellino, Solari, Olona, De Amicis, Molino delle Armi; ad Est da corso Italia e dalle vie Teulie', Castelbarco, Verro, Ferrari, Selvanesco, Manduria; a Sud e ad Ovest era delimitata dai confini della città; inoltre, fino al settembre 1944, facevano parte del settore anche i quartieri Giambellino e Baggio (3). Secondo la testimonianza di un militante comunista «il Partito comunista - per motivi organizzativi, politici e militari - aveva suddiviso il territorio di Milano e del suo hinterland in settori. La nostra zona, come tutta l' estrema periferia del sud cittadino, era compresa nel III settore. Nell' aprile del '44 il compagno Carlo Cassotta (Francesco) fu incaricato dal Partito di organizzare e dirigere le prime Squadre di Azione Patriottica (S.A.P.), di officina e di strada, del III Settore. Nacque così la 113 Brigata Garibaldi che al suo sorgere comprendeva fra gli altri i distaccamenti di via Meda (8 squadre, 40 uomini), di Gratosoglio (6 squadre, 30 uomini) e di Ronchetto (5 squadre, 25


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uomini). Alla 1132 si affiancò ben presto la 1142 Brigata Garibaldi S.A.P., che più di ogni altra raccolse e organizzò i compagni della Baia... Sia la 1132 che la 1142 si distinsero in numerosissime azioni di sabotaggio, di disarmo e recupero armi, di propaganda armata, e in conflitti a fuoco con i nazifascisti» (4).

2. Cronistoria della Resistenza in zona 15

Anche la zona 15, quindi, ha contribuito al movimento di Resistenza che ha portato alla liberazione di Milano dalle forze nazifasciste. Il lavoro svolto non era di tipo militare, si trattava soprattutto di azioni di tipo "ordinario" : queste consisteva-no in staffette (collegamenti tra due gruppi partigiani), volantinaggio e recupero di armi; inoltre in zona 15 c'era una delle piu' importanti vie di uscita dalla città: la Milano-Pavia (SS 35); questa veniva utilizzata dalle colonne tedesche per abbandonare la città e qui si riunivano i gruppi partigiani per cercare di fermarle. Per di piu' bisogna dire che l'antifascismo era un fenomeno quasi di massa: i partigiani venivano aiutati e nascosti dagli abitanti della zona; questo aiuto veniva dispensato anche ai soldati alleati. Dopo 1'8 settembre 1943 la città era devastata a causa delle incursioni aeree alleate e i più colpiti erano stati i quartieri operai. Da questo momento il lavoro di resistenza andò avanti senza fatti eclatanti fino al 28 agosto 1944 quando i "mutini" catturarono quattro partigiani fucilandoli sul posto la sera stessa. I quattro erano: Albino Abico, Giovanni Alippi, Bruno Clapiz e Maurizio Del Sale; dopo aver operato per un breve periodo in montagna, tornarono a Milano e il 7 agosto,con una macchina, attraversarono la città lanciando volantini inneggianti alla liberazione di Firenze; ma, alla fine, invece di sbarazzarsi della macchina, la vendettero a elementi della malavita che, fermati dalla Muti, parlarono, rendendo così` possibile la cattura dei quattro (5). Nel frattempo, tra la fine di agosto e i primi di settembre, cominciarono a nasce-re le brigate che raccolsero le varie squadre già formate; il settore venne affidato alla 1132 brigata Garibaldi che prese il nome di "Martiri di via Tibaldi" in memoria dei quattro partigiani fucilati. Al comando della brigata fu posto prima Carlo Cassotta, poi Guido Benomio. La 1132 fu una buona brigata: compì numerosi disarmi, volantinaggi e soppressione di spie (6). Di grosse azioni non ve ne furono più fino all'aprile del 1945 quando verso la meta' del mese cominciarono le manifestazioni di protesta: il 25 aprile in mattinata venne diramato l'ordine insurrezionale, in serata vennero occupate la centrale elettrica e l'acquedotto comunale e bloccate tutte le strade di accesso e di uscita dalla città per poter catturare i nazifascisti in fuga. Durante le giornate insurrezionali tutte le brigate accrebbero il numero dei loro componenti fino a dividersi in nuove brigate a ognuna delle quali fu assegnato un compito specifico: la Max Masia (G.L.) coadiuvata dalla 422 Matteotti doveva controllare tutta la zona da viale Tibaldi fino a via Barrili; tutte le altre brigate del settore (Sergio Casman (G.L.), 1132 Garibaldi, 1132 uno bis, 1132 due bis, 1132 terza bis, 1132 quarta bis, 1222 Garibaldi e 1222 bis) operarono fuori zona. Nei giorni tra il 25 aprile e il 10 maggio svolsero il loro compito la 422 Matteotti che, dopo aver occupato le scuole di via Palmieri controllava la pubblica sicurezza di questo quartiere e la 1132 terza bis Garibaldi che occupò la Grazioli, catturo' elementi fascisti che sparavano sulla folla, uccise alcuni fascisti nascosti sui tetti in via Ascanio Sforza e fermò la colonna tedesca sulla Milano-Pavia (7). Come per il resto di Milano e della provincia anche in zona 15 la Resistenza si concluse il 19 maggio 1945 con la consegna delle armi da parte di tutti i partigiani.


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3. La vicenda Grazioli

Una trattazione a parte è da dedicare alla vicenda Grazioli, una delle piu' importanti fabbriche della zona. Nonostante la vittoria di Mussolini nel 1922 il fascismo non attecchì mai nelle fabbriche dove rimase sempre una consistente componente antifascista che tornò in evidenza con l'entrata in guerra dell'Italia. Anche alla Grazioli si verifico' lo stesso fenomeno. In questa fabbrica vi era una forte presenza comunista che diffuse gli ideali della Resistenza. Anche qui gli operai avevano aderito agli scioperi del 1943 che aprivano la strada al futuro impegno politico. Nello stabilimento si produceva un'arma molto efficace per fermare le colonne tedesche: i chiodi a quattro punte (foto 24). Questi venivano disposti lungo le strade, generalmente molto trafficate, come la Milano-Pavia e la loro produzione comportava seri rischi dal momento che, se i fascisti avessero scoperto tale produzione, gli operai e il proprietario sarebbero stati fucilati. Il consenso all'interno della fabbrica era generale: un'esempio è dato da un fatto avvenuto durante gli scioperi del marzo 1943, quando si presentarono quattro fascisti per arrestare il capo del reparto torneria accusato di essere l'animatore degli scioperi. Mentre stavano per portarlo via, gli si accodarono tutti gli operai (eccetto due) e questo gesto di solidarietà rese possibile la liberazione dell'uomo. Nel 1944, in seguito ad una segnalazione di Giacomo Grazioli (il padrone dello stabilimento), vennero catturati sedici operai ritenuti attivisti partigiani che furono deportati in Germania: di questi, quindici tornarono dopo la guerra. Questo episodio costò la vita al Grazioli che il 23 aprile 1945 fu prelevato in fabbrica da tre gappisti che, dopo aver letto la sentenza di condanna a morte, gli spararono e lo uccisero (8). Si tratta del secondo caso di un padrone di fabbrica, compromesso con il fascismo, fatto fuori dai partigiani. Questo fatto dà il segno della rilevanza assunta dalla Grazioli nella lotta antifascista milanese, a partire dagli scioperi del '43. Secondo una testimonianza, «il Comitato clandestino del Partito Comunista alla Grazioli ha il diritto di sentirsi soddisfatto del lavoro svolto. Oggi tutti i lavoratori, salvo pochi scagnozzi fascisti, hanno scioperato compatti, con decine di altre fabbriche a Milano, dietro le parole d' ordine lanciate: "Aumento dei salari", "Aumento della razione di pane", "Basta con la guerra fascista!". Sian io nel marzo del 1943 e la vita del Partito è estremamente difficile, ma è assolutamente necessario, dopo vent'anni di fascismo, far riprendere alla classe operaia il suo ruolo di avanguardia nella lotta contro la dittatura e la guerra. Le spie fasciste ali' interno della fabbrica sembrano impazzite dalla rabbia. Nella notte vengono arrestati 5 compagni. La risposta deve essere immediata, lo è. La fabbrica è completamente bloccata e gli operai gridano ad alta voce la loro protesta davanti al mitra della milizia fascista: "Libertà per i compagni arrestati! Basta con la guerra!". I fascisti cedono. I compagni vengono liberati e rientrano orgogliosi in fabbrica, abbraccia-ti da noi tutti» (9).

4.Elenco delle azioni in zona 15

a) Operazioni della 4A divisione Garibaldi "Martiri": - 17 agosto 1944: in Piazza Abbiategrasso il V distaccamento disarma un milite della Muti recuperando un

 moschetto;

- 14 settembre 1944: quattro sappisti della 1134 bis disarmano, in via Montegani, un paracadutista

 recuperando una Baratta;

- 7 gennaio 1945: in via Meda, una squadra di sappisti della 1134, tenta il disarmo


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 di un milite delle Brigate Nere che però reagisce e per questo viene ucciso;

- 15 gennaio 1945: in via Chiesa Rossa, cinque sappisti della 113 e della 1132 bis, disarmano due

 sotto-ufficiali dell'esercito repubblichino recuperando due pi-stole automatiche Beretta;

- 10 marzo 1945: sei sappisti della 1132 e della 1132 bis, di pattuglia nei pressi di via Tibaldi,

 incontrano un maresciallo dell'esercito repubblichino; il garibaldino Paie Renzo avvicinatosi per 
 disarmarlo viene colpito dal maresciallo al torace. I sappisti di copertura entrano in azione e colpiscono
 inesorabilmente il militare;

- 24 aprile 1945: quasi tutte le squadre di punta della divisione sono mobilitate per la distruzione dei

 giornali fascisti nelle edicole. Una di queste squadre della 113^ in via Meda incontra un maresciallo 
 della Muti. I gappisti colpiscono il maresciallo ma, da un gruppo di persone che sono in attesa del tram, 
 partono due colpi di pistola che feriscono un garibaldino alla coscia. Questo, aiutato dai compagni, 
 riesce a mettersi in salvo.

b) Azioni di sabotaggio: - 1 marzo 1943: una squadra della 1132 - bis tenta di collocare una carica di esplosivo nella centrale

 elettrica di via Cermenate ma, essendo la centrale vigilata, i sappisti, ali' apertura del fuoco da parte 
 dei vigilanti tedeschi, si ritirano; - 15 ottobre 1944: distaccamenti della 1132-bis verniciano tutti i 
 cartelli indicatori in via Ascanio Sforza così da rendere, ai tedeschi, difficoltosi gli spostamenti in 
 città.

c) Lancio di manifestini e comizi: - 20 marzo 1945: squadre della 1132 sono alla VE.DE.ME. di via De Sanctis di protezione per un comizio; - 6 aprile 1945: una squadra della 1132 è di protezione ad un comizio alla cartiera di Verona (odierna

 cartiera Saffa) nel quartiere Gratosoglio (8).

III. La lotta antifascista nel quartiere Baia del Re-Stadera

Un risalto particolare va dato a questo quartiere che può essere considerato il cuore della Resistenza nella zona 15. «Il regime fascista l' aveva voluto chiamare "Quartiere XXVIII Ottobre" per ricordare la "marcia su Roma", ma la gente, i lavoratori che erano stati confinati in questo ghetto popolare ali' estrema periferia della città, lo ribattezzarono subito "Baia del Re", cioè col nome della gelida e desolata base di partenza della tragica spedizione Nobile al Polo Nord. In questo rione prevalentemente operaio, che fu ultimato al principio degli anni '30, crebbe rigogliosa la pianta dell' antifascismo. Avvenne così che negli anni della guerra, della lotta partigiana e dell' insurrezione liberatrice, un quartiere intero con i suoi operai - dentro e fuori dalle officine - con le sue donne e i suoi ragazzi, oppose alla barbarie nazifascista una dura ed eroica resistenza» (10). Al di là della connotazione retorica di questa testimonianza, va riconosciuto l'impegno antifascista di un quartiere nel quale vissero e operarono numerosi partigiani, alcuni dei quali caduti in combattimento, fucilati o deportati nei campi di sterminio nazisti. Il quartiere Baia del Re, chiamato anche Stadera per la presenza in passato di una pesa pubblica), comprendeva (e comprende tutt' ora) le vie Neera, Barrili, Palmieri e, per estensione, le vicine De Sanctis, Montegani e Chiesa Rossa. Negli anni della guerra il sud Milano finiva praticamente con questo nuovo quartiere operaio (oltre c' erano solamente gli aggregati semicontadini del Gratosoglio e del Ronchetto). «Già dalla fondazione lo Stadera ospitava fasce di popolazione emarginata, ma i suoi abitanti erano in maggioranza operai. La Baia del Re nei suoi primi anni di vita sviluppa quindi un ambiente sociale compatto e


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solidale. Il quartiere nasce, infatti, ali' estrema periferia di Milano, quasi come una fortezza contro la città lontana. Il senso di appartenenza a una comunità diversa viene dalla comune condizione sociale, ma è anche favorito dalla forma stessa del quartiere: un quadrilatero chiuso alle spalle dal Naviglio. La natura di quest' antica comunità sopravvive ancora allo Stadera, malgrado il progressivo degrado socio-edilizio che ha colpito il quartiere nell' ultimo ventennio. L esempio più significativo dello spirito della Baia è senz' altro la Resistenza contro i fascisti, che ha coinvolto gran parte degli abitanti» (11). Data la sua consistenza operaia, numerosi erano i militanti comunisti e socialisti impegnati nella lotta antifascista. «Persino il parroco della Chiesa Rossa, in quegli anni, nascondeva gli sbandati e aiutava i partigiani» (12). Va segnalata, in particolare, l' assistenza ai prigionieri di guerra alleati. E' noto «un lungo elenco di nomi-nativi di prigionieri di guerra alleati che - dall' ottobre '43 ai primi del '44 - sono stati nascosti e assistiti da famiglie della Baia e aiutati poi a fuggire nella vicina e neutrale Confederazione Elvetica. Le famiglie che hanno corso rischi mortali per aiutare questi ragazzi inglesi, neozelandesi, sudafricani, ecc., a ritornare a casa per riprendere la lotta contro le armate hitleriane sono: le famiglie Cassotta, Serrati e Santini di via De Sanctis e la famiglia Parmigiani di via Barrili 20. Ma altri cittadini della Baia hanno contribuito a questo oscuro lavoro: infatti, nel documento fornito alla "Allied Screening Commission", accanto al nome di John Purvis si trova I' annotazione: "ha dormito da Mila" e accanto al nome di Alfred Preecy si legge: "ha dormito da Pazzaia", eccetera. Anche queste notizie, apparentemente così aride e scarne, ci forniscono la prova che la Resistenza al quartiere Stadera fu un grande fatto corale, profondamente umano e coraggioso, che vide coinvolto gran parte del popolo della Baia» (13). Determinante è stato l' apporto dei giovani: molti «hanno deciso di partire per non lasciarsi intrappolare; hanno sentito che su, in montagna, gruppi di soldati sbandati e di civili si stavano organizzando in bande per combattere contro i tedeschi e i fascisti. E' il 18 settembre 1943. Un piccolo gruppo di giovani della Baia ha deciso di partire. Sono: Emilio Ventura, Francesco Di Bisceglie, i due fratelli Colamonico, Carmelo e Biagio, e Gian Franco Rozza. Raggiungono prima Varese e poi San Martino di Valcuvia. Qui si aggregano con nuclei di militari sbandati e di ex prigionieri di guerra alleati, dando vita a una delle prime formazioni partigiane della Lombardia. in seguito, molti giovani e non più giovani della Baia, decideranno di seguire il loro esempio, andando ad ingrossare le file delle "brigate ribelli" che si batteranno sui nostri monti per liberare l' Italia dal giogo nazifascista» (14). Enormi le difficoltà di ogni genere. Secondo la testimonianza di Virginio Gallazzi, «nel '43, con i fascisti che imperavano in giro come volevano, anche solo partire da Milano per arrivare in val d' Ossola era una tragedia. A quei tempi già partire dalla Baia del Re e andare alla stazione Centrale non era tanto facile». Semplici e complesse insieme le motivazioni generali che spingevano alcuni a darsi alla vita partigiana; non sempre eroiche. Questa la testimonianza di Biagio Colamonico: «Vivevamo in pieno fascismo: andavamo a fare i balilla quando ci obbligavano a fare i balilla... Noi eravamo dei giovani che venivano travolti dalla realtà. Le adunate obbligatorie cominciavano a infastidire il giovane, perchè al sabato pomeriggio le "premilitari" mettevano nella condizione di non accettare un' imposizione. Poi c' era l' altro aspetto: quello dei libri, acquistati di seconda mano nelle bancarelle. Da autodidatti, cercavamo quelli censurati , soprattutto stranieri (Jack London, ad esempio, era letto da molti di noi). Essi mettevano la pulce nell' orecchio, ci inculcavano il dubbio sul fascismo (che ci aveva


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immerso in un' esperienza fallimentare), senza trasformarci necessariamente in eroi...Le idee critiche che maturavamo in noi ci permettevano di fare delle scelte: in quel momento la scelta più forte era la montagna. Chi di noi andava in montagna non aveva una vera e propria cultura politica. La cultura nasceva a poco a poco, mano a mano che si sviluppavano le discussioni e i contrasti. Noi, ad esempio, in montagna eravamo in contrasto con dei comunisti, che in quel momento non è che li vedevamo molto bene. Il fascismo ci aveva educato contro il comunismo, di conseguenza nascevano anche questi contrasti, spesso molto forti». Rilevante, comunque, è stato anche il contributo delle donne alla lotta partigiana. Una per tutte: Elsa Parmigiani, «una bella ragazza della Baia, impiegata alla Solvay di via Benaco, a 21 anni era già una valorosa staffetta e una temeraria partigiana combattente. Cresciuta in una famiglia operaia profondamente antifascista si era buttata subito e con entusiasmo nella milizia politica. Dapprima si era limitata a battere a macchina, di notte, le copie dell' Unità clandestina che il compagno Fontanella Odoardo (Olona) le portava a casa, ma in seguito fu trascinata nel vortice della lotta armata. Le azioni di guerriglia urbana da lei compiute hanno quasi dell' incredibile. Si stenta a credere, infatti, che lei e la Mila Fineschi - un' altra valorosa compagna di via Barrili - siano riuscite a liberare due garibaldini arrestati a Monza, a tirarli fuori dal comando fascista portandosi dietro, per di più, anche dei preziosissimi timbri e dei lasciapassare della G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana). Ha del miracolo il modo in cui riuscì ad evitare la retata in cui era incappata nelle vicinanze del Parco Ravizza dove doveva consegnare al compagno Ricaldone (Edo) i volantini del Partito di cui aveva imbottito le calze e un ordigno esplosivo nascosto in borsetta. Questi sono soltanto alcuni episodi, e forse neppure i più significativi, dell' attività partigiana di Elsa Parmigiani che per le numerose e coraggiosissime azioni è stata decorata con la Medaglia d'argento al valor militare» (15).

V. Conclusione

Abbiamo voluto dare un quadro generale - ancora frammetario e lacunoso - delle esperienze di lotta partigiana nella zona 15 per capire meglio la consistenza e le forme della partecipazione popolare alla Resistenza nel capoluogo lombardo e nel nord Italia. Questo lavoro ci ha fatto scoprire che anche in una città come Milano, che è riconosciuta come la capitale della Resistenza italiana, la memoria popolare delle lotte contro il nazi-fascismo, attivate nelle periferie e nei quartieri operai, rischia di perdersi con la scomparsa dei protagonisti. Da qui la necessità e l' urgenza del lavoro di recupero della memoria storica, che veda attive le scuole in particolare: sarebbe oggi il modo culturalmente più efficace di scoprire il valore della Resistenza che è a fondamento della nostra democrazia repubblicana. Per questo non possiamo ignorare le esperienze resistenziali di chi oggi ancora vive e dimenticare il sacrificio dei caduti. In questo senso, vogliamo concludere il nostro lavoro con l' elenco delle lapidi che si trovano nelle vie dalla zona 15: da esse bisognerebbe partire per dare un' identità ai caduti e scrivere il libro della memoria.

1. La più importante si trova in via Palmieri 20 (foto 1 e 2) e ricorda i "martiri ed eroi del quartiere Stadera": A. Adorni, E. Begnino, T. Berni, D. Bernori, G. Bertini, A. Bertolotti, B. Biraghi, L. Boffi, A. Bonalumi, O. Bucella, M. Cavallotti, F. Chiesa, C. Ciocca, N. Cirielli, D. Colombo, G. Confalonieri, G. Croce, A. De Vincenzi, L. Di Manzo, L. Fiore, L. Frazza, A. Gagliano, P. Gagliena, O. Gianetto.


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2. Importante, dal punto di vista simbolico, è anche il monumento di via Boifava, di fronte alla sede del Consiglio di zona 15. Questa la dedica (foto 16):

"Ai suoi caduti, la zona 15, a perenne memoria. 25-4-1992. 1943-1945 Dal loro martirio la nostra libertà il Consiglio di zona nel quarantennio della Resistenza 25 aprile 1985"

Sono riportati i seguenti nomi: A. Adorni, R. Agliati, T. Berni, D. Bernori, G. Bertini, A. Bertolotti, B. Biraghi, L. Boffi, A. Bonalumi, O. Bucella, M. Cavallotti, F. Chiesa, C. Ciocca, N. Cirielli, D. Colombo, G. Gonfalonieri, G. Croce, A. De Vincenzi, L. Fiore, L. Frazza, A. Giannelli, U. Gilardi, G. Ghioni, U. Ginosa, V. Maganza, S. Martinini, L. Marini, C. Merli, E. Moretti, G. Musatti, L. Negri, L. Negroli, G. Paghini, A. Passerini, M. Peluzzi, G. Prada, M. Provasi, L. Robbiati, F. Salvatici, L. Sottocorna, A. Ventura, P. Volpi.

3. Altre lapidi sono nelle seguenti vie: via Palmieri 5 (Dino Colombo), 6 (Silvano Martinoni), 11 (Angelo Ventura); 18 (Carlo Ciocca), 22 (Luigi Frazza, Luigi Negroni, Mario Provasi e Paolo Volpi); via Barrili 9 (Bruno Biraghi), 12 (Luigi Fiore); via Neera (Domenico Bernori); via Bonghi 12 (Martino Cavallotti); via Spaventa (Mario Peluzzi); via Chiesa Rossa 113 (Giovanni Paghini); via Tibaldi 26 (Albino Abico, Giovanni Alippi, Bruno Clapiz, Maurizio Del Sale).

4. Ma la lapide più importante - primus inter pares - almeno dal punto di vista simbolico, è quella posta in via Ulisse Dini 7 (foto 17, 18, 19 e 20), alla memoria di Giancarlo Puecher, prima medaglia d' oro della Resistenza in Lombardia. Questa ricerca scolastica sulla Resistenza è nata per dare agli studenti la possibilità di scoprire la figura di un giovane cattolico, che ha offerto la vita per l' ideale della democrazia. Lasciamo ad altri studenti l' impegno scolastico rivolto a ricostruire l' identità umana e politica di quegli uomini che sono morti nella lotta contro il nazi-fascismo e la cui memoria non si può limitare alle semplici lapidi-ricordo lungo le strade di Milano, capitale della Resistenza.

1. Cfr, ad esempio, Z. Meneghin Maina, 1918-1945: Frammenti di storia dell'antifascismo e della Resistenza in zona 5, Comune di Milano- ANPI, Milano 1992. 2. Cfr, Allodi-M. Franceschi, La', dove la citta' va spaesandosi verso la campagna, Ed. Mondo Nuovo, Abbiategrasso (MI) 1989 3. Per il settore cfr. L. Borgomaneri, Due inverni, un'estate e la rossa primavera, F. Angeli, Milano 1985 (e anche il Fondo Fontanella, Carte L. Meradini, in IMSRMO). 4. Un quartiere operaio nella Resistenza: la "Baia del Re", a cura del Circolo Culturale "A. Gramsci", Milano 1981, p. 2 (dattiloscritto). 5. Ivi, pp 155-157 6. Ivi, pp 167-168, 170-171 7. Cfr Relazioni sull'attivita' svolta dal Comando settore Ticinese dal 25 aprile a tutt'oggi, 17 agosto 1945, in A. INSML, F. Cvl, b 129, f 5. 8. Intervista ai partigiani Guffanti e Gallazzi, operai della Grazioli durante la Resistenza. (9) Un quartiere operaio, cit., p. 3.


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(10) Ivi, p. 1. In realtà il nuovo quartiere nacque nel 1926, quando il regime fascista «fece costruire dall' Istituto autonomo case popolari (IACP) 1886 alloggi per accogliere le famiglie povere e gli sfrattati che abitavano nelle baracche del Comune in zona Ticinese» (L. Lanza, Breve storia dello Stadera, in "La Conca. Periodico della zona 15", n. 1, settembre 1996, p. 7). (11) L. Lanza, op. cit., p. 7. (12) Un quartiere operaio, cit., p. 3. (13) lvi, p.2. (14) Ivi, p. 3. (15). Ibidem. Cfr. anche "L Unità", 19 aprile 1986, p. 6.


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- IV -


LA 113a E LA 114a GARIBALDI NEL III SETTORE

di Luigi Borgomaneri

Basta una qualunque mappa di Milano degli anni Quaranta per rendersi immediatamente conto di cosa fosse la attuale zona 15 a quel tempo: una propaggine della città alla periferia meridionale caratterizzata dai rettangoli giallognoli delle case del quartiere Stadera e protesa a sud fino all' altezza di via Neera e delimitato a est e a ovest dal Naviglio Pavese e da via Lusitania poi, tutto attorno, la campagna con qua e là qualche cascina. Una zona popolare "agganciata" all' altrettanto popolare Porta Ticinese, la "Porta Cicca" dei Navigli, quella delle case di ringhiera con cortili e cantine comunicanti che da corso Ticinese portavano a sbucare in via Arena, quella in cui almeno fino agli anni Trenta aveva dettato legge il codice d' onore della vecchia mala milanese e l'Osteria dell'Operetta si chiamava bar Italia ed era frequentato da onesti operai ma ancor più da smaliziati borseggiatori e dal fiore di quella ligera che, narrava l'aneddotica popolare, negli anni Venti, a uno spavaldo e solitario delegato di polizia entrato nel bar a mò di sfida, restituì una spilla con una perla dopo avergliela sfilata dalla cravatta. Il fascio si impose anche qui con la violenza ma faticò a domare la gente del Ticinese. Ancora una ventina di anni fa si poteva trovare qualche anziano abitante che alla generazione dei sessantottini raccontava con orgoglio e con rabbia delle sparatorie e della reazione popolare nell'agosto del '22 quando, durante le giornate del fallito sciopero generale, gli squadristi ebbero alla fine la meglio solo grazie all'intervento delle autoblindate della Guardia regia. Ma la storia del Ticinese e della sua periferia in quegli anni non si esaurisce nelle vicende rievocate dalle canzoni di una vecchia mala autorappresentatasi romanticamente, ce n' è un' altra, una storia popolare la cui memoria, per troppo tempo affidata a troppe celebrazioni retoriche di una Resistenza lottizzata, si è andata sempre più riducendo ai ricordi di qualche vecchio partigiano o di qualche anziano abitante e alle tante lapidi ormai abituate, tra l' ignoranza dei passanti e l' indifferente assuefazione degli inquilini, ad essere tutt' al più annualmente "onorate" in un fugace giorno di ogni aprile. La storia resistenziale della Zona 15 si spartisce tra quella del 3° settore clandestino (Ticinese) e del 4° (Romana), i due settori a cui, per ragioni organizzative, la zona era stata assegnata, ed è - come del resto quella dell' intera città e della provincia - in massima parte legata alle vicende delle brigate Garibaldi, le formazioni clandestine armate che, organizzate dal Pci, svolsero un ruolo trainante e predominante sia per il numero dei combattenti messi in campo sia per l' attività svolta e per le perdite subite. Se nel corso degli anni è stato possibile ricostruire, almeno nelle linee essenziali, lo sviluppo organizzativo e le azioni delle formazioni garibaldine operanti nei due settori, poco o nulla, ad eccezione di alcune notizie sulle forze matteottine, si sa ancora delle vicende delle formazioni di altro colore politico, pure esistenti nei due settori benché con una presenza sporadica e una inferiore incisività. Ogni tentativo di ricostruire quella storia deve quindi basarsi prevalentemente su documenti


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documenti di fonte garibaldina e comunista relativi ai due settori citati, documentazione peraltro tutt' altro che ampia e che, già contenuta ab origine per le esigenze della clandestinità e poi ridottasi per le dispersioni del dopoguerra, non sembra concedere molte possibilità di ricostruzione degli eventi resistenziali nella Zona 15. Un "buco nero" quindi che può tuttavia essere in parte colmato ricorrendo alle testimonianze dei protagonisti ancora viventi e, ancor prima, muovendo da ciò che di più visibile rimane in zona di quell' epoca: le lapidi che ricordano i caduti partigiani, perché proprio quelle lapidi disseminate tra le case popolari del quartiere Stadera, con una concentrazione, particolarmente in via Palmieri, che forse nessuna altra strada di Milano può vantare, possono offrire, a chi voglia e sappia farne uso, importanti elementi di riflessione su cosa sia stata la Resistenza nella zona, su chi l' abbia fatta e con quali aspettative. I quarantadue nomi dei caduti citati sul monumento di via Boifava e i ventiquattro dei martiri ed eroi del quartiere Stadera confermano - mai ve ne fosse bisogno - la partecipazione e il ruolo svolto dagli abitanti dei caseggiati popolari i quali, fossero quelli di viale Lombardia piuttosto che di viale Monza o di via Forze Armate, per fare solo degli esempi, hanno rappresentato per l' intreccio di comuni condizioni esistenziali, di interessi vitali, di relazioni interpersonali e di solidarietà, i centri di aggregazione e di iniziativa politica che hanno in parte compensato la centralità antifascista della fabbrica quando questa era assente sul territorio o lo era con una presenza limitata. Non sembra dunque una forzatura ipotizzare una partecipazione in cui le motivazioni di classe furono, se non più forti, di certo non inferiori a quelle riassunte nella formula della liberazione nazionale. Un antifascismo esistenziale, nella maggior parte dei casi certamente prepolitico, in cui condizione operaia e emarginazione sociale erano accomunate dall' avversione per un sistema vissuto sulla propria pelle come socialmente ingiusto e fortemente repressivo e, maturate le condizioni storiche, pronte a liberare una grande carica combattiva la cui spinta e le cui aspettative andavano ben al di là delle motivazioni e degli obiettivi politici e sociali assegnati dalla politica ciellenistica di unità nazionale ponendo pertanto non pochi problemi - e non poche contraddizioni - al Pci, che di quella politica fu il più convinto sostenitore così come fu il più impegnato organizzatore dell' estensione della lotta alle masse popolari. Non a caso nel marzo 1944 la federazione comunista milanese, adottando le categorie interpretative e il linguaggio riservati allora a ogni forma di dissenso da sinistra, scriveva a proposito del 3° settore: «ci troviamo di fronte ad un' organizzazione di simpatizzanti con forti elementi a tendenze anarcoidi e di sinistrismo e questo si nota pure in elementi che sono ritenuti i migliori e che hanno posti di direzione. [...] nella nostra organizzazione si sono infiltrati elementi che si ritengono comunisti ma che di fatto sono degli anarcoidi più che dei sinistri» (1). Critiche e preoccupazioni che sarebbe riduttivo esaurire nella possibile - e probabile - presenza di qualche simpatizzante dalla dubbia moralità proveniente o legato al sottobosco malavitoso del Ticinese, ma devono piuttosto ricollegarsi alla generale e diffusa difficoltà di penetrazione della linea politica unitaria nata dalla svolta di Salerno, come in particolare testimoniano, a partire dall' estate fino al dicembre 1944, le relazioni inviate alla Federazione sull' organizzazione nelle fabbriche del 3° settore - Grazioli compresa - e del 4°, laddove si denunciano le fortissime resistenze alla costituzione dei Comitati di liberazione nazionale - pochi e dalla attività deludente - e il fatto che i Comitati d' agitazione clandestini siano quasi ovunque composti soltanto da comunisti sia per la neghittosità dei rappresentanti gli altri partiti antifascisti sia, si scrive, «perché i nostri compagni sono spesso settari» (2).


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E' noto che la Resistenza fu sì un fenomeno unitario che coinvolse vaste masse per la prima volta protagoniste della propria storia in misura così ampia, ma si trattò di una unità attraversata da contrasti e divisioni, talvolta anche aspri, in cui si riflettevano le contraddizioni di classe esistenti e tra le diverse forze politiche che la diressero e all' interno di ciascuna di esse, alimentandosi di diffidenze e tensioni esasperati inoltre dalle stesse drammatiche condizioni di lotta. L inadeguatezza dell'attuale documentazione non consente ancora di cogliere con quale ampiezza e profondità queste contraddizioni - documentate almeno tra i militanti comunisti della Grazioli - si manifestarono anche nella Zona 15, ma è certo che contrassegnarono, almeno per tutta una fase e non senza ricadute sullo sviluppo della lotta armata e della stessa insurrezione, i rapporti tra larga parte del proletariato industriale del 3° e del 4° settore e la dirigenza federale comunista, così come è certo che proprio nel Comando unificato del 3° settore si aprirono per almeno due volte crisi interpartitiche così profonde da ripercuotersi anche all' interno del Comando piazza di Milano. Eppure, nonostante le ormai provate resistenze della base operaia e di vasti strati degli stessi militanti comunisti nei confronti della politica di unità nazionale propugnata dal Pci, e nonostante le tensioni all' interno del fronte antifascista, altissimo, disciplinato - e duramente pagato in termini di sangue - fu il contributo alla lotta fornito dalla 113a brigata Garibaldi, indubbiamente una tra le più impegnate e alla cui attività la zona 15 partecipò con il distaccamento facente capo alla Grazioli, mentre l'altra formazione operante nella zona, la 110, ripetutamente e duramente colpita dalla reazione, attraversò drammatici momenti che a lungo influirono sul suo rendimento. Entrambe le brigate, con uno stillicidio di azioni minori intercalate da altre più cruente, contribuirono a infliggere duri colpi a un nemico agguerrito e feroce, a sollevare il morale della popolazione nei momenti più tragici e, dall' estate del 1944 all' aprile 1945, a creare, a diffondere e ad alimentare un crescente clima insurrezionale, contenendo le trame dell' attesismo moderato e stimolando con il loro esempio il sorgere e l' attività, quand' anche più modesta e discontinua delle formazioni di altro colore politico operanti in zona. Questi molto schematicamente le problematiche interne alla forza maggioritaria dell'antifascismo locale e il contributo di lotta in cui inquadrare la partecipazione della Zona 15 e degna di attenzione e di incoraggiamento, dunque, ogni iniziativa tesa ad ampliarne e ad approfondirne la conoscenza, tanto più se offre ai giovani l' occasione e lo stimolo alla ricerca sul campo educandoli così a districarsi in un quadro composito per ricomporre pezzo dopo pezzo in ìoco, dal basso e dal di dentro, una realtà storica svincolata dalle interessate interpretazioni di una Resistenza imbalsamata nell'unica accezione di guerra di liberazione nazionale e appiattita nella retorica celebrativa. E se la storia è sempre in primo luogo storia delle masse e non solo dei suoi dirigenti o dei partiti che ne rappresentano gli interessi di una parte, ecco che proprio la storia locale consente inoltre di poter scavare più a fondo, di entrare in quei dettagli che la Storia con la maiuscola non sempre può accogliere, offrendo la possibilità quindi di cimentarsi in una ricostruzione dove la coralità emerga dall' intreccio di molteplici percorsi di vita, ciascuno dei quali portatore di una propria individualità e dei propri bisogni. Non dunque una storia di anonime e dimenticate comparse orchestrate da pochi "grandi" o esecutrici di decisioni politiche verticistiche bensì una storia fatta da una molteplicità anche di atti e di personaggi minori ma rappresentata da attori coscienti le cui figure possono forse oggi riprendere rilievo e di cui meglio si possono comprendere le scelte e le aspirazioni nella


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misura in cui ritornano ad avere oltre ad un nome su una lapide, un volto, un passato e una loro storia che si è snodata giorno dopo giorno proprio lì, fra quelle stesse vie e quelle stesse case con cui, chi voglia laicamente capire quella storia di allora, deve fare i conti per ricomporre quel clima di comuni condizioni esistenziali che di quella storia rappresentò l'humus. Ricostruire pertanto la partecipazione della Zona 15 alle vicende resistenziale non può non spingere a interrogarsi sul perché, ad esempio, proprio un quartiere come lo Stadera abbia fornito un così alto contributo alla lotta partigiana, e non può di conseguenza non riportare la riflessione non soltanto sulla incidenza della sua composizione sociale ma ancor più sulle motivazioni e sulle aspettative in primo luogo sociali e di classe di quelle masse popolari che maggiormente si fecero carico della lotta antifascista. In un momento, quale quello attuale, di delicata e travagliata transizione politica, quando più il Paese necessiterebbe un recupero non ambiguo della conoscenza e della memoria del proprio passato, sollecitazioni a singolari riscritture della storia di quegli anni si accompagnano a fatti dai risvolti inquietanti: sottosegretari della Repubblica che presenziano all' inaugurazione di busti dedicati a Italo Balbo; quotidiani di sinistra che, sull' onda della comprensione delle motivazioni di una gioventù che scelse di stare "dall' altra parte", pubblicano sorprendenti articoli che sembrano aprire la strada a improponibili rivalutazioni della famigerata X Mas del principe nero Valerio Borghese; una corte militare che, in dispregio delle prove addotte, scarica vergognosamente il criminale di guerra Erich Priebke dal reato più grave contestatogli; un'alta carica dello Stato che finisce per alimentare le strumentalizzazioni della destra riproponendo il tragico tema delle foibe, mutilo però del necessario richiamo al contesto storico e della denuncia dei ventennali misfatti compiuti prima dal fascismo e poi dalla criminale repressione antipartigiana condotta non solo dalle truppe tedesche ma anche dalle camicie nere e da reparti italiani. In nome della riconciliazione nazionale - e, sorge il dubbio, dell' allargamento del consenso - la memoria della Resistenza sembra in procinto di essere ancora una volta rivisitata in funzione di una nuova stagione politica. Ben vengano dunque e siano incoraggiate e si moltiplichino ricerche come quella condotta con pazienza e fatica dagli insegnanti e dagli studenti del liceo "Allende": rappresentano non soltanto un tangibile e esemplare contributo allo svecchiamento della didattica e alla sperimentazione di un nuovo e più proficuo modo di insegnare e di "fare storia", ma, inducendo i giovani a farsi "storici" in prima persona, favoriscono da un lato il recupero di una conoscenza e di una memoria storica locale altrimenti perduta e, dall'altro, offrono loro una concreta occasione di riscoperta di vicende, temi e valori che, lungi dall'aver esaurito la loro carica educativa morale e civile, attendono ancora di essere scoperti dalle nuove generazioni liberati da ogni orpello retorico e, ancor più, dai legacci di ogni interessata interpretazione riduttiva, di partito o istituzionale che sia. (1) Rapporto organizzativo del 20 aprile 1944, in A. Scalpelli, Scioperi e guerriglia in Val Padana (1943-45), Urbino, Argalia, 1972, p. 115. (2) Cfr. Mese di giugno 1944-Situazione del III', in Rapporto, 152 luglio 1944, firmato Ant., in Archivio Istituto milanese perla storia della Resistenza e del movimento operaio, sezione Il, Fondo Federazione milanese Pci. Ufficio quadri. Commissione di controllo, b.1100 (in ordinamento).

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AUTOBIOGRAFIE PARTIGIANE

I "ragazzi della Baia" e gli altri

a cura di

Giuseppe Deiana

Le testimonianze qui di seguito esposte sono state scritte direttamente dai protagonisti: vengono riprodotte integralmente, senza alcun intervento se non di tipo redazionale. Si tratta di alcune esperienze di partecipazione alla lotta partigiana da parte di cittadini della zona 15: I' inizio di una ricerca, in attesa di un lavoro più capillare e organico.

1. Paolo Guffanti.

«Sono nato nel 1929 da una famiglia operaia, tutta fieramente antifascista. Tutti i miei parenti, ora defunti, erano comunisti, socialisti o anarchici. E' ovvio che la mia educazione politica, iniziata molto precocemente, fosse antifascista e pacifista. Mi risultò quindi molto facile, nel 1943, quando entrai quale apprendista nella fabbrica Grazioli di via De Sanctis a Milano, produttrice di macchine utensili e quindi ritenuta fabbrica strategicamente improtante per la guerra e presidiata perciò da fascisti e tedeschi, orientarmi e capire quale fosse l' aria che tirava fra la maggioranza dei lavoratori, ormai stanchi del ventennio di dittatura fascista, ma soprattutto dai quasi tre anni di guerra sopportati. In casa mia l' antifascismo era palpabile. Mio fratello nato nel 1920 si chiama Umanilio, nome voluto da mio padre, socialista-libertario, in nome dell' umanità oppressa. Mia sorella, nata nel 1926 doveva essere battezzata Giacoma Matteotta in nome del deputato socialista assassinato dai fascisti nel 1924. Al rifiuto del prete si piegò su Giacoma Mattea. Tea per tutti. Per la norma del destino, appena assunto in fabbrica, venni affidato ad un operaio per l' addestramento e, naturalmente, mi capitò un operaio comunista dichiarato e componente della organizzata cellula clandestina comunista di fabbrica. Non passò molto tempo prima che mi ritrovassi impiegato nel lavoro clandestino in fabbrica che consisteva nel distribuire materiale di propaganda, nel raccogliere sottoscrizioni antifasciste, ma soprattutto nella costruzione dei chiodi a quattro punte (foto 24) che servivano per azioni di disturbo alle colonne motorizzate dei nazifascisti, fatte in città da formazioni S.A.P. e dai partigiani di montagna per fermarle e attaccarle quindi con più facilità ad automezzi bloccati. La costruzione dei chiodi oltre ad aver bisogno di una organizzazione clandestina e meticolosa, era molto pericolosa perchè doveva avvenire sotto il naso dei nazifascisti armati presenti, ma anche, purtroppo, di nascosto a qualche operaio fascista. Un compagno magazziniere ci procurava gli scarti adatti delle barre di acciaio. Qualche volta riusciva persino a procurarci qualche barra intera lunga tre metri ed era festa grande. Si tagliavano i pezzi della lunghezza richiesta e poi in torneria si creava la punta (Questo era compito mio). La parte più difficile era la saldatura, anche perchè in quel reparto avevamo solo un compagno sicuro e qualche simpatizzante.


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simpatizzante. Si dovevano sistemare le tre punte di base su un attrezzo particolare costruito da noi e si procedeva poi alla saldatura della quarta punta. Un lavoro abbastanza lungo, come si vede. Mi piace ricordare che l' attrezzo originale usato e una punta si trovano ora nell' Archivio storico della F.I.O.M.-C.G.I.L. di Sesto San Giovanni. Anche il portare fuori i chiodi dalla fabbrica ci obbligò a studiare un sistema inedito, visto che gli operai venivano sistematicamente perquisiti all' uscita. II mio reparto era situato al primo piano, rivolto verso via Lampedusa, una via per nostra fortuna poco trafficata. Togliemmo lo stucco di un piccolo vetro del reparto e a degli orari ben concordati si toglieva il vetro e si gettavano dei pacchetti con poche decine di chiodi alla volta alla staffetta che attendeva sottostante. La maggior parte delle volte la staffetta era mia sorella Tea. I chiodi venivano quindi distribuiti ai vari gruppi S.A.P. operanti in città o inviati alle formazioni partigiane in montagna. E' evidente che la suggestione di poter usare questi chiodi per qualche azione è stata troppo forte, data anche la giovane età che mi portava facilmente all'incoscienza, visto che mi era stato espressamente proibito, per questioni di sicurezza, di farne uso proprio. In quei tempi mi era stato dato, con mia estrema soddisfazione, un nome di battaglia: Leunin (piccolo leone, in dialetto). lo ero convinto che mi fosse stato dato per il coraggio dimostrato (o incoscienza?), ma purtroppo qualche anno dopo in fabbrica, con molta ironia da parte loro e qualche delusione da parte mia, i compagni mi dissero che il soprannome derivava soprattutto per la mia allora foltissima capigliatura. Sta di fatto che con un gruppetto di amici coetanei iniziammo ad operare in proprio. Abitavamo allora tutti nel villaggio Baravalle, un quartiere dello I.A.C.P. fatto tutto di villette che si affacciavano sulla via, ora viale Tibaldi. Quella via, allora, visto che non esistevano autostrade, era l' unica praticabile che portava alla statale per Genova e, quindi, per il fronte ed il traffico militare era molto intenso, particolarmente verso l' imbrunire o la notte. Noi lo intendevamo quasi come un gioco. Piazzavamo decine di chiodi sulla via Tibaldi e, nascosti dietro un muretto alto meno di un metro di una delle villette del Baravalle ci godevamo lo spettacolo dei camion fascisti o tedeschi che finivano sui nostri chiodi. Le urla, le bestemmie e gli spari fatti per rabbia erano per noi oggetti di gloria. L unico pensiero che oggi mi fa rabbrividire è il ricordare che del gruppo il più armato ero io, con una pistola a tamburo con tre colpi. Non ho mai provato a sparare con quella pistola e quindi sono ancora oggi nel dubbio che i proiettili funzionassero. Era un recupero di armi dal Naviglio, di cui racconterò dopo. L unico caso tragicomico che mi capitò e che mi lasciò un certo imbarazzo fu quando su uno di quei chiodi capitò un ignaro operaio in bicicletta che probabilmente usciva stanco da una fabbrica dei dintorni. Le sue imprecazioni mi lasciarono, quella volta, con l' amaro in bocca. Fra le altre iniziative prese dalla cellula clandestina mi ricordo che escogitavamo il sistema per procurare qualche arma efficiente ai nostri combattenti. In fabbrica c'era una guardia armata di un corpo non militare. Dopo esserci assicurati del suo antifascismo ci organizzammo per il suo disarmo concordato. In un giorno stabilito, nei locali della mensa, che era fuori dalla fabbrica, facemmo intervenire un gruppo di partigiani delle S.A.P. che, disarmato il guardiano, tennero anche un breve comizio inneggiante alla pace, contro il nazifascismo. A questa azione ha partecipato il partigiano Virginio Gallazzi, già operaio della Grazioli e poi partigiano in montagna, ferito. La pistola recuperata era a tamburo e il guardiano ci procurò poi anche i proiettili. In fabbrica, sotto il naso dei fascisti, organizzammo una colletta per acquistare


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una nuova pistola alla guardia, questa volta una bella automaica. Naturalmente questo acquisto era finalizzato ad operare un altro disarmo che avvenne puntualmente qualche tempo dopo. Dovemmo smettere il gioco anche perchè i fascisti, insospettiti, misero guardie armate loro nel locale mensa. In compenso operammo un disarmo di un ufficiale fascista che abitava proprio davanti alla Grazioli. Trovammo in casa solo la moglie, ma in quella occasione le armi recuperate furono più di una. Mi piace ricordare che per dimostrare il nostro coraggio (o incoscienza) il giorno dopo il disarmo ci sedevamo tranquillamente, dopo l'ora di mensa, sul marciapiede davanti alla Grazioli, ridendo soddisfatti all' arrivo in automobile scortata del fascista. Altri recuperi di armi, con i miei amici coetanei, li facevamo dalle acque del Naviglio Pavese. Infatti, dopo l' 8 settembre del '43, la maggior parte dei militari, oramai sbandati e senza ordini precisi, cercavano di mettersi in borghese e di tornare a casa loro. Tanti si disfacevano delle armi buttandole appunto nel Naviglio. Con i mieli amici, fra gli altri Paolo Imperato, facevamo un bagno nel Naviglio (allora si poteva) e individuate le armi, fucili, moschetti, pistole e bombe a mano, si accumulavano in un punto ben preciso e alla sera, poco prima del coprifuoco, si provvedeva a raccoglierle, nascondendole in sacchi di juta e a trasportarle in casa dell' Imperato o a casa mia. La zona del Naviglio battuta era quella fra Porta Ticinese e la prima chiusa all' altezza di via Darwin, verso via Lagrange e via Pavia. Le armi andavano ripulite dalla ruggine, ingrassate e poi venivano nascoste in parte da Imperato o a casa mia, in parte portate a qualche formazione in montagna. Durante un' operazione di pulitura di una pistola particolarmente arrugginita mi è accaduto di spararmi il colpo che era in canna, che mi ha trapassato il palmo della mano sinistra, per mia fortuna senza conseguenze. Questo fatto mi accadde in casa Imperato. Naturalmente anche il trasporto delle armi in montagna era molto pericoloso e necessitava ovviamente di una organizzazione molto accurata. Io vi ho partecipato, avventurosamente, una sola volta e mi è bastata. Ma questa è un' altra storia».

2. Virginio Gallazzi

«Sono nato a Vasco nel 1925: provengo da una famiglia di antifascisti militanti. Mio padre, Enrico, prese parte attivamente all' occupazione delle fabbriche durante la settimana rossa nel 1920; in seguito a ciò non vi fu più lavoro nelle fabbriche per lui. Mio zio Gino Saccenti, di Prato, dirigente comunista conobbe il carcere fascista fin dal 1927, in seguito fece parte delle Brigate Internazionali durante la guerra di Spagna; catturato subì la prigione a Ponza fino al 25 luglio '43. Per sua moglie Gina cambiò solo il luogo, il confino di Ventotene. Queste le mie radici. Operaio alla Grazioli dal 1939, entrai in contato con alcuni operai antifascisti, presi parte attiva agli scioperi del marzo 1943; per questo e per altri motivi dopo i 45 giorni di Badoglio, ricevetti la lettera di licenziamento. Non essendo risultato abile al servizio militare non correvo il pericolo di chiamata alle armi; questo mi lasciava una certa libertà di movimento. L 8 settembre 1943 non mi colse di sorpresa: con altri compagni provvidi al recupero delle armi abbandonate dopo sfacelo dell'esercito. In zona esisteva una batteria di artiglieria contraerea, quattro cannoni, alcune mitragliere, più di circa duemila proiettili per cannoni. I pezzi di artiglieria furono distrutti e i proiettili furono fatti sparire perchè non cadessero nelle mani dei tedeschi.


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Quando la situazione si fece pesante fui inviato in Valle d' Ossola, dove si stavano organizzando le prime bande partigiane. La mia base era ubicata in alcune baite in località Crot Sora (Premusello) che servivano come deposito per le armi fatte arrivare da Milano; solo che il posto, abbastanza sicuro, era collocato a circa duemila metri ed a otto-dieci ore di marcia in montagna. Ai primi di novembre '43 il gruppo si trasferì in Val d' Ossola, dove, insieme a partigiani del posto, il giorno 8 novembre '43 si occupò la cittadina, compiendo uno degli errori che l' inesperienza dei primi tempi portava a fare: rimanendo sul posto e subendo il contrattacco nemico, nel corso del quale cadde morto Dante Semerari di Milano e io rimasi ferito. Aiutato dalla gente del posto, dopo diversi spostamenti fui trasportato ali' ospedale San Biagio di Domadossola dove, con l' aiuto di tutto il personale, fui salvato dalle ricerche dei tedeschi. Vi rimasi per circa dieci giorni, dopo i quali mio padre, avvisato tramite i canali clandestini, mi riportò a casa, ferito, ma ancora vivo. Curato dal dottor Corazza, che aiutava la resistenza, mi ristabilii abbastanza bebe. Quando mi fui ripreso completamente venni inviato in Val Sassina presso la 55a Brigata Garibaldi in qualità di Commissario Politico di Distaccamento. Il compito era di organizzare i giovani che salivano in montagna per sfuggire alla chiamata alle armi da parte della R.S.I.; altro compito era quello di punzecchiare continuamente le forze nazifasciste. Sopravvenne il rastrellamento di fine primavera 1944, durante il quale fummo costretti a dividerci in diversi gruppi, per poter tentare di sfuggire alla cattura: non dico quante traversie superammo, non ultima per me due giorni di cammino senza scarpe, nei boschi di castagni! Scesi a Milano, assieme a Domenico Bocchiola, per ricevere nuove disposizioni sul da farsi. lo fui fermato a Milano, Domenico inviato di nuovo in montagna venne fucilato a Introbio il 15 ottobre del '44. Io ero ancora vivo. In città mi fu affidata una zona dell' organizzazione giovanile, fra gli altri compiti dovevo provvedere alla consegna dei pacchi di stampa clandestina a diversi recapiti, da dove poi veniva capillarmente distribuita. Fu tentato un comizio al Politecnico di Milano, andato buco per un disguido. Andò bene il comizio, seguito dal disarmo di una guardia, alla mensa della Grazioli. Anche il recupero di alcune pistole presso lo stabilimento Kardex di San Cristoforo andò bene. In quel periodo Giovanni Busi, responsabile del settore (attuali zone 15, 16 e 17) dovette allontanarsi da Milano e mi venne affidato il suo incarico, per breve periodo, perchè il 29 dicembre '44 vennero per arrestarmi. Sfugii alla cattura insieme a mio fratello Giuseppe. Dopo alterne vicende raggiunsi l' 85° Brigata Garibaldi, operante sulla parte piemontese del Lago Maggiore. Prima di allontanarmi a Milano venni a sapere che Giovanni Busi era stato fucilato a Camerlata di Como. Ancora una volta io ero anora vivo. Come capo-squadra partecipai con altri partigiani alle seguenti azioni: sottrazione delle divise della 10° M.A.S; recupero di viveri imboscati da un capitano della G.N.R. in una villetta a suna. Venuto a conoscenza che nel carcere di Intra erano trattenuti alcuni prigionieri, con altri partigiani scesi in città, di notte, passando il torrente a guado, non conoscendo bene la strada per il carcere, disturbammo una coppia che se ne stava appartata, li portammo con noi sino al carcere dove con uno stratagemma riuscimmo ad entrare. Ci allontanammo con i prigionieri lasciando però nel carcere la coppia. Per ultimo l' attacco a Intra nella notte del 21 aprile '45 dove, purtroppo, al ritiro


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delle nostre forze, rimanemmo entro la cerchia dei posti di blocco fascisti. Sfuggiti alla cattura raggiungemmo le nostre posizioni, da dove il 23 aprile '45 partimmo per la liberazione finale di Intra. All' ospedale trovammo, ancora vivo ma senza gambe, il partigiano Mario Rossi, ferito in uno scontro tempo prima. Attraversato il lago, da Laveno partimmo per Milano. Ma la nostra fama non ci presentava bene agli occhi di qualcuno, perciò fummo fermati a Tradate e rinviati a Intra. Per rendere comprensibile l' atmosfera e lo spirito che esistevano nella formazione basta ricordare l' episodio di Sergio Serafini che, ferito gravemente, veniva portato a spalle da un altro partigiano verso il confine svizzero. Tagliati fuori ed essendo impossibile salvarsi ambedue, chiese di non essere abbandonato vivo nelle mani dei fascisti. Ho conosciuto anche il partigiano 43, chiamato così perchè insieme ad altri 42 partigiani venne fucilato a Fondo Toce, ma riuscì a salvarsi perchè rimase sepolto sotto i corpi dei compagni morti. La situazione del vestiario e delle scarpe aggiunta alla fame pesante era generalizzata: qualcuno ci indicò come esercito senza scarpe. Un episodio riguardo alla fame: mi trovavo con una squadra di partigiani presso il Passo della Piota, circa 2000 metri, da cui sorvegliare ed eventualmente rintuzzare un attacco fascista in quanto doveva avvenire un lancio di rifornimenti aerei, che poi non avvenne. Dovendo bollire del riso, che faceva da colazione, pranzo e cena, sciogliemmo la neve in un pentolone, ma sul fondo trovammo delle palline nere. Gettammo il tutto e ripetemmo l' operazione un paio di volte con il medesimo risultato. Alla terza volta togliemmo le palline e mettemmo il riso. Le palline erano le tracce delle capre selvatiche, ma la fame era troppo forte e non si poteva dare troppo peso ai particolari. Quanto avvenne in quei periodi fu possibile solo per l' aiuto attivo delle popolazioni sia in città che in montagna. Ad esempio, quando venni trasportato a Milano ferito, tutto il caseggiato sapeva della mia presenza in casa, ma nessuno, dico nessuno delle sessantaquattro famiglie fece la spia; anzi, sorvegliavano ogni movimento sospetto avvisando i miei. A me a ad altri partigiani non piacque lo sconcio di Piazzale Loreto: lo giudicammo incivile e macabro, però ci fu sconsigliato di intervenire. Arrivai a Milano alla fine di aprile. Nonostante le voci e le insinuazioni dei benpensanti, da quanto sopra io ho ricavato una coperta, militare, un pezzo di formaggio e 1000 lire, che divisi con mio padre. Questo conteneva il mio zaino, oltre alle cartucce, al mitra ed alle bombe a mano. Io sono ancora vivo, ma - parafrasando una canzone - era meglio morire giovani che vedere lo schifo di oggi. Almeno avevamo dei sogni».

3. Biagio Colamonico, Francesco Di Bisceglie, Emilio Ventura.

«8 settembre 1943: I' Italia ha firmato i' armistizio con gli alleati. La guerra è finita! Con questa illusione la gente si riversa nelle strade del quartiere; il giubilo è grande. Noi ragazzi abbiamo dato l' assalto alla batteria contraerea (posta dove oggi si trova il quartiere Torretta, allora distesa di prati) estraendo dai proiettili dei cannoni antiaerei listelle di "balistite" altamente infiammabili che ammucchiate nelle strade e accese, alzavano incredibili lingue di fuoco che arrivavano quasi al terzo piano delle case e mandavano in visibilio grandi e piccini. La gioia fu ancora più grande quando dal Vigentino e dalla Barona si videro altrettanti falò che diedero la certezza della partecipazione di tutta Milano all' avvenimento liberatorio dagli incubi, ancora presenti, dei bombardamenti alleati. L illusione durò lo spazio di pochi


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pochi giorni! Milano fu consegnata ai tedeschi che nel frattempo occuparono tutta la penisola, complici le alte gerarchie dell' esercito e del re che ci abbandonarono in balia di noi stessi, senza darci ordini e direttive. Lo sfascio dell' esercito fu totale. Per le strade incontravi strani individui con giacche borghesi e pantaloni militari, o viceversa, che tentavano di ritornare al priprio Paese, evitando i tedeschi che già pattugliavano le strade e quindi il pericolo di andare in Germania. Era un periodo molto strano e non ci si raccapezzava tra un susseguirsi di notizie, diverse le une dalle altre, che aumentavano la confusione e lo sgomento; si andava al lavoro ma non si lavorava; si andava in giro senza sapere dove e perchè; ci si trovava alla sera tra amici e ci si interrogava su quanto stava accadendo o era appena accaduto, per cercare di avere idee più chiare possibili. In giro cominciavano a circolare certi figuri con camicia nera e con atteggiamenti provocatori prefiguranti il peggio che non tardò ad arrivare quando una sera il giornale-radio comunicò la "liberazione" di Mussolini e dopo qualche altro giorno la nascita della Repubblica sociale italiana. D' istinto, tra noi amici, si respinse la possibilità di collaborare con i "repubblichini", per cui quando proclami tedeschi e fascisti chiamarono alle armi tutti i giovani delle classi dal 1920 al 1924, configurando per i renitenti alla leva la pena di morte, non ci fu molta esitazione nello scegliere la clandestinità e cioè la montagna. Parlare d' istinto non è poi tanto esatto, in quanto da tempo i fascisti erano identificati come diretti responsabili delle nostre sofferenze, miserie e lutti. Ancor prima della caduta di Mussolini, fatti minuti e sporadici erano indicativi di uno stato d' animo generale che affiorava palesemente tra la popolazione. In questo clima il nostro gruppetto di amici, pur non avendo legami con organizzazioni politiche, aveva chiara la determinazione di passare alla clandestinità. Scartata la località dei Piani dei Resinelli, in quanto dal notiziario del giornale-radio, risultava oggetto di rastrellamento da parte dei tedeschi, scegliemmo "al buio" di partire per il Varesotto, su voci raccolte in treno dal fratello di Gino. Lunedì 19 ottobre 1943 il gruppo formato da sei giovani (cioè, Biagio (Gino) Colamonico, il fratello Carmelo, Francesco Di Biscieglie, Franco Rangoni, Franco Rozza ed Emilio Ventura - tutti abitanti in via Palmieri 11, 14 e 18) partì in treno fino a Cuvio ed a piedi proseguì verso un paesino (Duno) ai piedi del Monte S. Martino di Valcuvia. All' uscita di questo paesino fugammo ogni dubbio sulla scelta ed incontrammo veramente un gruppo di partigiani che "armeggiava" attorno ad un camion militare in panne. Risaliti con questi verso la "casermetta", situata in un leggero avvalla-mento prima della vetta, prendemmo alloggio e contatto con la formazione partigiana. Le "voci" parlavano di migliaia di uomini ed invece tutta la "forza" era lì! Tra ufficiali, sott' ufficiali e truppa eravamo poco più di una trentina! Comandava il colonnello Croce in presenza del quale (torcendo un pochino il naso) giurammo fedeltà al Re. L' organizzazione era strettamente militare e si chiamava Esercito Italiano-Gruppo 5 Giornate-San Martino; col seguente motto "Non si è posto fango sul nostro volto". Il colonnello Carlo Croce (Giustizia) tenne fede a questo motto e morì a seguito di ferite riportate in un agguato tesogli nel 1944, mentre tentava di rientrare in Italia dalla Svizzera. Fu decorato di medaglia d' oro. Fummo divisi in squadre e cominciammo a strutturarci per ricevere altre forze rendendo agibile, prima di tutto, la "galleria fortificata", posta poco più sotto la casermetta (opera risalente alla prima guerra mondiale) ed il relativo camminamento che la collegava alla valle sottostante. Lavori di sterro e taglio di alberi si dimostrarono comunque quanto mai opportuni


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opportuni perchè entro la fine dello stesso mese di ottobre la forza della nostra formazione saliva a 180 presenze, composta per lo più da renitenti alla leva, da antifascisti, nonchè da ex prigionieri di guerra (inglesi, francesi, greci, ecc.). Nel frattempo al nostro gruppo si aggiunsero altri due: Angelo Ventura (fratello di Emilio) e Felice Cremascoli, mentre ritornava a casa Franco Rangoni perchè malato. La guerra partigiana era agli inizi ed alle prime esperienze e non stupisce il fatto che ci si doveva impegnare in azioni e missioni preparatorie ed indispensabili quali il recupero di armi (spesso interrate e non funzionanti); la ricerca di mezzi di trasporto, lubrificanti, ecc. e - non ultimo per importanza - il vettovagliamento. Alcuni di noi furono impegnati in "missioni" diverse anche importanti e cominciava a profilarsi l' assestamento organizzativo della formazione, con azioni significative, quali gli assalti alla caserma di Porto Valtravaglia, a quella della finanza di Luino, quella dei pompieri di Milano (recupero automezzi) ecc. Specializzati in recupero vettovaglie vi era il gruppo di sei carabinieri che, avvalendosi della loro divisa, riuscivano a farsi aprire diversi magazzini alimentari. Tre muli (Adolfo, Benito e Claretta) affidati alle cure del cuciniere Milano migliorarono nel frattempo la qualità del rancio! La presenza della nostra formazione indubbiamente cominciava ad impensierire i tedeschi che, oltre alle azioni sopra citate, dovevano registrare la perdita di due ufficiali uccisi in uno scontro avvenuto sulla strada Cittiglio-Luino e la perdita di quattro "SS" caduti in nostre mani come prigionieri. Infatti, la reazione non si fece attendere molto: il pomeriggio del 14 novembre forze tedesche salgono dal lato della "galleria" ma vengono fermati dal nostro fuoco. Tergiversano, chiedono di parlamentare e si ritirano. La notte stessa il nostro comando decide l' invio di un plotone composto da undici uomini (tra questi Angelo Ventura) a presidiare la chiesetta posta sulla vetta del monte S. Martino. Il mattino seguente (15 novembre), verso le ore nove, i teschi lanciano un nuovo attacco e questa volta dalla parte di Duno verso la "casermetta" difesa, da quel lato, da una trincea ed una postazione di mitragliatrice. Gli assalitori vengono accolti da un fitto lancio di bombe a mano ed infilati da precise raffiche di mitragliatrice che li obbligano a desistere - almeno per il momento - dall' avanzare (Fanno parte della squadra in trincea G. Colamonico, E Di Bisceglie, F. Rozza ed E. Ventura). Resisi conto che non era così semplice snidarci, i tedeschi ora si avvalgono della loro superiorità militare e ci sottopongono ad un tremendo ed allucinante bombardamento aereo (con tre Junker 88) che, per nostra fortuna, demolisce la "casermetta" ma non colpisce la trincea; uno di questi aerei viene colpito ed abbattuto. Segue al bombardamento un nutrito e ben calibrato tiro di mortaio che ci obbliga ad abbandonare la postazione e ripiegare entro una voragine provocata da una bomba d' aereo; contemporaneamente i tedeschi sferrano un attacco e sfondano dall' alto della chiesetta, prendendoci d' infilata sul fianco. La posizione diventa insostenibile perchè, presi di mira dai mortai e soprattutto dalle raffiche di mitra dei tedeschi che urlando scendevano dalla vetta, non ci rimase altra alternativa che ritirarci nella "galleria". In trappola! Questa era la nostra drammatica situazione; la "galleria" a forma di ferro di cavallo dava entrambi gli ingressi sul pianoro antistante preso di mira da tedeschi nascosti nella boscaglia che lo fronteggiava; dalla parte esterna, ampie feritoie simili a grandi vetrate, erano meta di pericolose incursioni nemiche che soltanto il tiro di sbarramento con fucili, che veniva praticato dall' interno, allontanava provvisoriamente. La situazione precipitò quando si ebbe notizia del


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dissolvimento della II° compagnia posta a difesa del fianco della galleria e la disperazione colpì ognuno di noi quando il cappellano don Mario - inginocchiato - impartì l' estrema benedizione. Magrado ciò si continuava a combattere, sparando su ogni cosa in movimento nella boscaglia e prendendo d' infilata i tedeschi avanzanti, con una mitragliatrice, da una postazione interna - ricavata da un cunicolo scavato nella roccia e nascosto dall' esterno - che seminava quanto meno feriti tra quanti, con teutonica fermezza, imperterriti continuvano ad avanzare. Il sole era ormai tramontato ed i tedeschi, probabilmente accampati nei dintorni, permisero a noi di tentare una rischiosa, ma fortunata, sortita: gli ufficiali aprirono un intenso fuoco di fucileria dalla parte dell' ingresso di sinistra, onde sviare l'attenzione e noi tutti a scaglioni uscimmo dall' altro ingresso, attraversando un tratto scoperto ed infilando il camminamento che conduceva a valle. Seguirono per ultimi gli ufficiali e spettò al colonnello dar fuoco alle micce che poco dopo fecero brillare circa due quintali di tritolo che provocarono una terribile esplosione e di-strussero tutto quanto era rimasto nella galleria. Iniziò una lunga e tortuosa marcia notturna attraverso valli e montagne che si protrasse per oltre dieci ore, evitando la seconda cintura offensiva formata dai "repubblichini" impegnati soltanto in compiti di pattugliamento (e di boia, come venimmo a sapere più tardi, con compiti infami, quali gli interrogatori e le fucilazioni). Verso le tre di notte arrivammo a Ponte Tresa ed isolati i finanzieri di guardia al ponte, inquadrati, lo attraversammo e ci consegnammo alle guardie svizzere. Di quella notte non dimenticheremo mai l' angoscia e la pena che ci procuravano le lingue di fuoco che si alzavano dal San Martino, visibili in tutto il territorio e si pensava a coloro che lassù eramo rimasti: 44 caduti fu il contributo di sangue! Partiti in sette dalla "Baia", quattro di questi erano riparati in Svizzera (Emilio, Francesco, Franco e Gino) e degli altri Carmelo, rimasto isolato con la sua squadra dopo il primo attacco, tagliato fuori dalla formazione, vagò per le montagne della zona e si riunì a noi, dopo diversi giorni, in Svizzera; Felice faceva parte della compagnia dislocata lungo il camminamento che si dissolse durante la battaglia e riuscì ad allontanarsi e tornare a Milano. Infine, Angelo destava maggiori preoccupazioni perchè fummo testimoni dell' assalto subito lassù sul San Martino ed avemmo certezza della sua morte (avvenuta il giorno dopo, mediante fucilazione) dal cappellano don Mario, rimasto sul posto a raccogliere e seppellire le salme dei caduti. La battaglia del San Martino fu il primo ed importante episodio di lotta partigiana avvenuta in Lombardia e servì d' esempio e di stimolo per tutto il movimento. Anche radio Londra diede molto risalto al combattimento, per la verità con non poca fantasia ed esagerazione (parlò di due mila morti), fortunatamente contro bilanciata da una fonte tedesca che parlava di "pesante fuoco d' artiglieria" da parte nostra. L esperienza partigiana attiva si ferma con il nostro internamento in Svizzera che terminerà soltanto dopo la fine della guerra, nel luglio 1945; ma ha segnato ognuno di noi nel profondo del proprio carattere, perchè se è vero che il nostro coinvolgimento è retorico definirlo "ideale", lo è stato certamente come scelta "morale", come ribellione alle sofferenze e soprusi per tanti anni subiti. Un senso di giustizia ci ha guidati anche dopo, nei primi anni del dopoguerra, quando la miseria, le umiliazioni ed i soprusi continuarono e non fu certamente un caso che - pur con percorsi personali differenti - ci siamo ritrovati, nei primi anni cinquanta, a percorrere la stessa strada (questa sì ideale) aderendo al Partito Comunista Italiano, del quale ognuno di noi divenne convinto attivista.


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Se una morale dobbiamo trarre, questa non può essere che l' estrenua difesa della pace, perchè le guerre il popolo le subisce ben tre volte: prima, durante e dopo» (a cura di Emilio Ventura).

4. Paolo Imperato

«Avevamo 12 anni Paolo Guffanti, Giancarlo Garanzini, mio fratello Ugo, io ed altri quando il 10 giugno 1940 ebbe inizio la guerra, che segnò il calvario dei successivi 5 anni. Giovani e stupiti non pensavamo che, con tanta coscienza, di lì a tre anni, per altro passati nel terrore, avremmo intrapreso la via della Resistenza già iniziata da mio fratello maggiore Mario e da carissimi amici più adulti di noi. Ancora ragazzi con coraggio affrontammo i compiti che ci eravamo prefissi: recupero di armi da inviare ai partigiani in montagna, distribuzione clandestina di volantini e giornaletti antifascisti, piazzare sulle strade i chiodi a tre punte per ostacolare il passaggio di mezzi militari tedeschi. Tutto ciò serviva a creare una catena di antifascismo che si allungava sempre più coadiuvata dalla coscienza dei cittadini terrorizzati dagli orrori della guerra. Nella nostra via Baravalle, in una retata di notte furono prelevate quattro anziane persone colpevoli di essere contrarie al fascismo e alla guerra, portate in Germania nei campi di sterminio: solo due tornarono, i più giovani. Il padre della nostra cara amica Anna, Paolo Garanzini, operaio alla Tecnomasio, antifascista e coordinatore della stampa clandestina a Milano, in una serata di agosto fu catturato, torturato e fucilato per non aver rivelato nomi di compagni, dalla famigerata brigata nera Muti, sulla strada statale per Pavia. In via Tibaldi, a testimonianza del loro martirio, ci sta la lapide di quattro giovani gappisti trucidati da raffiche di mitra: ero presente al massacro, con altri compagni in quel tardo pomeriggio. L 8 settembre 1943 mi trovavo momentaneamente sfollato a Monza ed ho assistito ali' uccisione di militari italiani, da parte dei tedeschi, che cercavano di scavalcare le mura di cinta della caserma per darsi alla macchia. Il terrore e lo sgomento non mi impedì di continuare la mia attività di partigiano e mano a mano sentivo sempre più impellente il bisogno di portare aiuto alla causa della Resistenza come pegno di partecipazione attiva. Nel frattempo aumentava per noi il rischio e con l' incoscienza della nostra giovane età ci buttavamo in azioni sempre più pericolose: tutto ciò fino al 25 aprile 1945. Aggiungo ora un mio modesto pensiero: i nostri figli, i nostri nipoti, anche se spiegassimo loro quanto è successo, non potranno mai immaginare cosa abbiamo sofferto, quanto abbia inciso sulla nostra vita la mancanza di tutto: dalla fame al freddo, dalla paura alla privazione della libertà. E spero tanto che possano capire che per conquistare quest' ultima ce l' abbiamo messa tutta, sacrificando i migliori anni della nostra vita. La sappiano difendere e ne conservino i valori».

5. Carla Priori

«Fui assunta alla Face Standar il 21 novembre 1942. Era uno stabilimento di telecomunicazioni, centrali telefoniche, ponti radio e, in fase sperimentale, di televisione. Il mio lavoro mi portò a contatto con gli operai: dovevano passare da me per farsi vidimare i buoni di prelievo delle materie prime, anche se già firmate dal capo reparto. Così incominciai ad interessarmi dei loro problemi. Ed a poco a poco entrai nella loro confidenza. Un giorno un' operaia mi avvicinò e mi dette un


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foglio: "Gruppi di difesa della donna". Così seppi che molte donne lottavano contro i fascisti e la guerra, ed anch'io incominciai a partecipare alle dimostrazioni in fabbrica, per l'aumento del pane, degli stipendi. Ma era molto difficile trascinare gli altri impiegati: avevano paura di perdere l'esonero e di essere mandati in prima linea. Arrivò I' 8 settembre e la direzione aziendale fu presa dai tedeschi. Allora gli operai di notte scavarono buche e nascosero tutte le radio riceventi e trasmittenti e i centralini telefonici; così i tedeschi trovarono i magazzini vuoti. Incominciò l'esodo dei maschi richiamati ed io iniziai la raccolta di fondi per comperare a borsa nera le tessere annonarie per i ragazzi che andavano in montagna. Un giorno mi arrivò l'ordine di accusare un malore: mi portarono in infermeria, mi misero sotto una tenda; una ragazza mi portò una centralina da campo completamente smontata; mi nascosi tutto addosso, meno la cassetta. L'infermiera chiese il permesso della macchina per portarmi a casa. Dopo poco arrivò un tecnico a ritirare il tutto: nella notte la centralina telefonica era in montagna dai partigiani. Questo dovetti, a distanza di tempo, farlo diverse volte. Ebbi un contatto con un giovane operaio, piccolo, dimesso insignificante. Il primo appuntamento fu nel tardo pomeriggio al parco dove passa la ferrovia: mi fece molte domande sulla fabbrica, la produzione, gli stipendi e i nomi dei fascisti. Mi incaricò di recarmi tutte le mattine al bar della piazza di S. Maria Beltrade. La piazza è molto vicina a piazza S. Sepolcro ed il bar al mattino, dalle 7 alle 8, era pieno di fascisti, specialmente graduati; così pure all' ora dell' aperitivo. Riferii tutto ad una ragazza: più tardi seppi che era la fidanzata di Pesce (medaglia d'oro della Resistenza), poi divenuta sua moglie. Ed era lo stesso contatto che ebbi al parco (all' Arco della pace) un'altra volta; poi non lo vidi più, fu mandato in Valle Olona. Rimase il contatto con la sua ragazza. Per parecchi giorni mi mandarono in corso Vittorio Emanuele a sorvegliare il cinema Excelsior. Questo locale apriva alle 19 per le truppe tedesche e trasmetteva film in lingua tedesca. Dopo pochi giorni dovetti sospendere tutte le attività, perchè la ragazza era stata arrestata: causa del suo arresto un' infiltrato fascista. Seppi dopo un pò che la ragazza non aveva parlato. Iniziai, allora, il lavoro di propaganda fra gli studenti del liceo e dell' università. In piccoli gruppi ci trovavamo al parco o ai giardini. In questo modo conobbi una ragazza universitaria ebrea: mi confidò che dall' inizio della guerra tutta la sua vita era una fuga da un convento all' altro, perchè suo padre era ebreo. Divenne poi corrispondente de "L Unità" da Bologna. Mentre svolgevo questo lavoro continuavo a raccogliere i fondi per le tessere annonarie, che ogni fine mese consegnavo a Lia. Venne l' 8 marzo 1945: dovevo andare al cimitero di Musocco a commemorare i 15 fucilati di piazzale Loreto. Ci recammo in piccoli gruppi. Era molto pericoloso trovarsi in gruppi anche di tre persone. Noi eravamo una cinquantina. I fascisti e i tedeschi sapevano di essere agli sgoccioli, la resa dei conti era vicina. Feci una breve commemorazione e verso la fine sentii un fischio. Erano i partigiani che avvisavano che i fascisti stavano per arrivare. Dissi a tutti di disperdersi per i campi e di uscire alla spicciolata. Feci in tempo a salire sul tram, mentre i fascisti ci rincorrevano a piedi. Il manovratore mise in moto il tram, saltando le fermate, così quelli li vidi imprecare in mezzo alla strada. Il 24 aprile avevo il contatto con la Lia: ci incontrammo in viale Zara, salimmo su una piccola collinetta, in basso a una strada con una sola grande casa. Mentre consegnavo il denaro raccolto mi disse "domani, o forse dopo, vi sarà l' insurrezione.


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l'insurrezione. Ho paura che i tedeschi prima di fuggire ammazzino i prigionieri politici di San Vittore. Ti prego, vai in via Dante - mi fece un nome - e riferisci quanto ti ho detto". In quel momento sentimmo uno sparo e dalla casa uscì una grande quantità di fascisti (era una caserma). Scendemmo in fretta dalla collina, ci dividemmo. Lei aveva un contatto a Niguarda, io fermai un ciclista e mi feci portare in piazza Castello. In via Dante non trovai nessuno. Il mattino dopo - 25 aprile - mi recai in via Dante e seppi che Lia Bianchi, mentre era sulla strada di Niguarda, i tedeschi che scappavano l' avevano uccisa sparando sulla folla. Era in stato interessante di cinque mesi. Suo marito era uscito da San Vittore la mattina».

6. Arnaldo Agliati: un giovanissimo

«Sono nato a Milano il 27 novembre 1932, in via Palmieri 18. Nel 1943 mi trovavo a Fano nel collegio dei Martinitt. La nostra colonia era situata proprio sulla statale Ancona-Pesaro, a ridosso dell' importante arteria ferroviaria in riva al mare. lo e alcuni amici formavamo un gruppo di scorribande (intese in senso buono), ma naturalmente eravamo all' oscuro di tutto ciò che succedeva nel mondo esterno: la guerra, la fame, le distruzioni e l' oppressione nazifascista. Quando ci recavamo in spiaggia, che era a ridosso della ferrovia, salutavamo i soldati (italiani e tedeschi), sia quelli che viaggiavano in direzione sud, verso la prima linea, armati, allegri e ordinati, sia quelli che seguivano la direzione verso nord, in ritirata, feriti, laceri e disperati. Verso la fine del 1943, percorrendo tutti i giorni circa 6 km a piedi per andare a scuola nella cittadina di Fano, notammo certi cambiamenti. Un giorno vedemmo un gruppo di fascisti che malmenavano due ragazzi. Incuranti del pericolo siamo accorsi gridando a tutto fiato. ma inutile, loro continuavano a picchiarli, caricandoli su un camion. Qualche giorno dopo dei pescatori che abitavano a ridosso di noi, con i quali eravamo in amicizia, ci hanno fatto capire che i due ragazzi erano stati fucilati a Fano. Così decidemmo di fare qualche azione di disturbo contro il comando tedesco, che era a vicino alla nostra colonia. Piccole cose: furtarelli, piccoli incendi e altri dispetti. Nel 1944 dalla postazione della nostra colonia, che era lievemente sopraelevata rispetto alla strada statale, tiravamo dei sassi contro le colonie tedesche. Un giorno qualcuno di noi, facendo buona mira, colpì un ufficiale tedesco; dopo di che un gruppo di soldati entrò nella colonia, ci prese e ci mise contro un muro, puntandoci addosso le armi. lo sinceramente, assieme al mio amico Galbiati (ancora vivente), me la sono fatta sotto. Poi per l' intervento da parte di un gruppo di pescatori e dell' ufficiale del comando tedesco, ci lasciarono andare. Dopo, non ricordo il momento esatto, passammo ad azioni più serie. Una notte due pescatori che conoscevamo, passando dalla nostra entrata/uscita segreta, vennero a svegliarci consegnandoci delle strane cassette, con la raccomandazione di custodirle segretamente. Dopo qualche notte uno di loro, che poi era un partigiano, ci venne a svegliare pregandoci di aiutarlo a trasportare il materiale che custodivamo sotto un ponte vicino. A cosa fatta, dopo circa un' ora, sentimmo un boato: era il ponte ferroviario che era saltato. Dopo circa un mese partecipammo a piccole azioni: distribuzione di volantini, scritte contro il fascismo e informazioni sul comando tedesco. Quando gli americani conquistarono Ancona fummo messi su un treno e spediti a Milano (la notte seguente la nostra colonia fu bombardata). Ci trasferirono a Piano Rancio (Erba) e qui, organizzandoci con qualche famiglia del luogo e con il


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nostro direttore, nascondemmo alcuni partigiani. Ai primi del 1945 ci trasferirono ancora a Milano presso il Pio Albergo Trivulzio. Qui il 26 aprile giunse un camion di partigiani (padri e fratelli di alcuni di noi; mio fratello Renato era stato ucciso nel '44 dai fascisti), ci misero in mano delle armi e ci caricarono sul camion. Ci portarono in via Pitteri nella sede del nostro collegio. Ci appostammo dietro i rifugi dell' Innocenti e incominciammo a sparare. Io avevo uno Sten (mitraglietta inglese in dotazione ai paracadutisti), il mio amico una pi-stola. Mentre qualcuno gridava di stare al riparo, sentii un lamento, mi voltai: era lì, gli occhi al cielo, un buco sulla fronte, un' imprecazione contro tutti e Giuseppe Pecchio smise di vivere. Poi partecipai a diverse azioni. In una di queste passai vicino a casa. Fermatosi il carro armato Tigre in via Meda, di fronte alla Fonit, saltai giù ed andai a casa, via Spaventa angolo via A. Sforza. Mio padre non c' era. Bussai nel retro del negozio sotto casa mia, gridando il suo nome; al che qualcuno aprì la porta e al vedermi vestito da partigiano e armato, alzando le braccia, gridò "Mi arrendo! Viva Tito!" Era mio padre che, logicamente, intabarrato com' ero, non mi aveva riconosciuto». (La frase del padre si spiega col fatto che egli aveva collaborato con il fascismo ed in quel momento aveva paura di qualche vendetta - N.d.r.).

7. La Resistenza vista con gli occhi di una bambina: Rosa Elsa Valenti

«All' entrata in guerra dell' Italia, il 10 giugno 1940, avevo poco più di cinque anni ed ovviamente il ricordo di quel giorno (e dei tanti seguenti) mi è molto vago e di difficile collocazione cronologica; pur tuttavia le impressioni, le paure e le ansie mi sono ben presenti anche oggi. Ricordo le lacrime di mia madre, appoggiata al lavello dei piatti, all' annuncio - via radio - della nostra partecipazione al conflitto mondiale, già in corso; in quelle ore il cortiletto del mio stabile, in via Volvinio 33, era gremito di gente che commentava piena di sgomento, per un futuro molto incerto e con molte incognite. Da un giorno all' altro i generi alimentari sparirono dai banchi di vendita con possibilità di averli soltanto attraverso la "borsa nera"; la tessere del pane e di altri generi di prima necessità non bastavano minimamente al sostentamento della mia famiglia che con la nascita di mio fratello Mamo (Gianmario) era composta da cinque persone e cioè, oltre ai genitori, eravamo tre fratelli, rispettivamente di dieci, cinque anni ed uno di pochi mesi. Ricordo con affetto il racconto di favole e le canzoni che ci cantava mia madre nel tentativo di farci addormentare pur con piagnucolose richeste di pane; il pane bianco era una lecornia che raramente si poteva gustare! Le donne (e quindi anche mia madre) si avventuravano in disagevoli viaggi verso le campagne, alla disperata ricerca di qualsiasi genere alimentare (farina bianca, polenta, riso, ecc.) da portare in famiglia usando trucchi di ogni tipo onde evitare sequestri da parte di meschini controllori. Mia madre arrivava a casa stanca ed affaticata, dove scioglieva sacchetti e pacchetti di ogni specie, nascosti in uno strano marsupio coperto dalle sue vesti ed erano momenti di festa per noi bambini. Mio padre - unico sostegno della famiglia - si prodigava per garantire a noi quel minimo indispensabile e tra le mura domestiche imprecava contro il fascio, Mussolini e la guerra. La miseria lo giustificava dal non procurarci divise che già da piccoli dovevamo indossare, almeno in particolari giornate commemorative. Non comprendevo il perchè non potevo vestirmi da "piccola italiana" e quasi portavo rancore ai miei; in questo senso però mio padre fu irremovibile e pertanto


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non vestimmo mai divise. L atmosfera di quegli anni era lubre e spaventosa, soprattutto per noi bambini; già al calar del sole un' angos a mi prendeva per quel buio totale dove non esistevano un fanale, un' insegna, una finestra illuminata. Le ombre disegnavano strani fantasmi ed un vero e proprio terrore mi prendeva quando dovevo attraversare il mio cortiletto: dalle botti vuote situate in un angolo, quale retro dell' osteria prospiciente la mia casa, vedevo apparire truci soldati armati, pronti ad aggredir-mi. Era tanta la paura che mio padre decise di accompagnarmi sempre ogni qual volta dovevo compiere di sera quel breve tragitto. Il silenzio, nel bel mezzo della notte, veniva frequentemente interrotto da un agghiacciante "urlo", ripetuto, delle sirene d' allarme che facevano sobbalzare ed atterrire anche le persone grandi e che, per fortuna, non sempre preludevano a bombardamenti. E quando questi avvenivano, si aggiungeva terrore a terrore, chiusi come eravamo in una cantina malamente puntellata da travicelli che avrebbero dovuto sostenere le macerie di una casa di oltre tre piani. Ricordo un pomeriggio di sabato, attorno alle ore 18, quando improvvisamente comparvero nel cielo molti aerei e contemporaneamente si incominciavano a sentire tremendi boati, prima ancora che gli addetti alla contraerea - presi alla sprovvista - dessero l' allarme. Tale fu lo spavento di quel tremendo pomeriggio che i miei genitori decisero di mandarmi presso una zia "sfollata" in un paesino del Varesotto, già il giorno dopo, con mio incosciente piacere in quanto non terminavo l' anno scolastico (che dovetti però riprendere l'autunno successivo). La situazione generale, nonchè farii!iare, diventava sempre più difficile; la razione giornaliera di pane era scesa a 150 grammi e non bastavano i piccoli accorgimenti per ottenere qualche genere alimentare in più, come quello di darsi per ammalati (era facile da come eravamo denutriti!), ma che comunque escludeva supplementi di carne, latte e pane, cioè quei generi che più servivano ad un ammalato. Mio padre in quel periodo era molto irascibile e taciturno; si capiva che qualcosa lo preoccupava. Una sera tardi rincasò con il viso insanguinato, dovuto ad una "pestata" presa in un' imboscata tesagli da alcuni fascisti. Il giorno dopo partì per qualche settimana in una località della Val d' Intelvi e ciò mi addolorò profondamente e mi stupì pure la sparizione di una cassetta di legno, chiusa con un lucchetto, che mi serviva da trampolino per calarmi dalla finestra nella strada, dal momento che abitavo al piano terreno. Ricordo gli strani andirivieni che mi faceva compiere mia mamma, almeno un paio di volte alla settimana, mandandomi in via Isimbardi da una certa signora Maria a prendere due biscotti (uno per me ed uno per mio fratello), sempre però con la mia cartella scolastica. Dopo essermi accomodata in cucina, la signora Maria passava la mia cartella ad una persona seduta in salotto, che supponevo fosse suo marito. Al ritorno, con esagerata premura, mia madre si riprendeva la mia cartella per metterla al suo posto (così almeno io pensavo). Anni dopo mi confessò che forse fui una delle più giovani staffette partigiane! Ricordo in particolare un episodio: proveniente dal!' alto muro che divideva il mio cortiletto dalla fabbrica Grazioli, un giovane in tuta blu fuggiva dalle scale e si dileguava nella via laterale; seguiva poco dopo un tramestio di persone tutte in divisa ed armate, che perlustravano tutte le abitazioni tra l'agitazione e la confusione degli inquilini: cercavano l'esecutore materiale dell'uccisione del padrone della fabbrica, noto fascista. Vivevo, in quel periodo, in uno strano stato di agitazione; sentivo che qualcosa di grande e definitivo stava accadendo: le persone si scambiavano notizie,


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contradditorie le una rispetto alle altre, sempre però in tono esagitato; per la via vi era un gran movimento di persone armate irf, bito borghese. Ed infine una mattina vidi passare soldati in una strana divisa (quélla americana, seppi dopo) e tra di loro - con mia grande meraviglia - vidi per la prima volta un soldato nero (non avevo mai visto un uomo dalla pelle nera). Erano i giorni della Liberazione. Era finita! Qualche giorno dopo (forse il primo maggio), accompagnata da mia madre, verso le nove di sera, potei assistere in piazza Duomo alla grandiosa cerimonia dell' accensione delle luci stradali, che vidi con commozione, tra lacrime e battimani delle migliaia di persone presenti (non eravamo più abituati, a causa dell'oscuramento imposto dalla guerra)».

Per quanto molto breve, mi sembra utile riportare la testimonianza di un'altra bambina, Maria Luisa Larelli, che ricorda in particolare lo sciopero della "casa dei tranvieri". «Nel marzo del 1944 ero una ragazzina di tredici anni. Abitavo in una via adiacente a via Brioschi dove, al numero civico 93, c' era (e c'è ancora) un grande fabbricato quadrato, con un' unica entrata, un grande cortile con 12 scale e 240 famiglie, composte tutte da lavoratori addetti ai tram. Ecco perchè la casa era chiamata "la casa dei tranvieri". Io ricordo questo episodio. Un giorno di marzo, non so per quale motivo, i tranvieri fecero sciopero. Mio padre, pure lui tranviere, non si presentò al lavoro, ma non rimase nemmeno in casa: andò al paese per trovare suo padre. In mattinata, un gruppo di militari (non ricordo però se italiani o tedeschi) si presentò alla casa dei tranvieri per obbligare tutti loro a presentarsi al lavoro. Entrarono dall' unico portone, ma i tranvieri, avvertiti in tempo, scapparono saltando dalle finestre del piano terra nel retro della casa. Poco dopo arrivarono parecchi militari, circondarono il caseggiato, misero una mitragliatrice ad ogni angolo interno ed esterno del palazzo ed antrarono in tutti gli appartamenti, ma trovarono solo un tranviere "controllore" che aveva fatto il turno di notte. Non so se lo lasciarono a casa o se Io portarono via».

8. L' esperienza di Emilio Sarzi Amadé.

Risulta molto interessante anche la storia di Emilio Sarzi Amadè, uno dei pochi partigiani che ha lasciato una memoria scritta in un libro-racconto. Egli - a dire il vero - non ha operato nella Resistenza milanese. Ha vissuto, però, per molti anni in zona 15, facendo prima il giornalista (sono note le sue corrispondenze dalla guerra del Vietnam su "L' Unità") e poi il rappresentante del PCI nel Consiglio di zona. E' morto qualche anno fa. Polenta e sassi ( Einaudi, Torino 1977) è un' opera autobiografica di Emilio Sarzi Amade' che racconta "a botta calda", come lui stesso dice, la sua esperienza di partigiano nella divisione d'assalto Garibaldi Belluno, nella zona tra Longarone e il Cordevole, in una provincia che unitamente a Bolzano e Trento era racchiusa nel Terzo Reich. L'autore nasce a Montanara di Curtatone, in provincia di Mantova, nel 1925. In gioventu' frequenta le scuole pubbliche a Mantova e allo scoppio della guerra viene arruolato a Verona nelle truppe della Repubblica Sociale Italiana; essendo pero' antifascista convinto, decide di disertare e di seguire l'esempio dello zio materno, l'unico che nella famiglia si impegnato attivamente nella lotta al fascismo. Avvenuta la liberazione di Milano comincia ad occuparsi di giornalismo militando


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militando nel partito comunista come collaboratore de "L'Unita". Conosciuta la moglie a Mantova si reca con lei a Milano dove lavora prima alla sezione interni e poi esteri. La Cina ha sempre avuto per lui un grande fascino e una significativa importanza, tanto che lui diceva di sé: «io sono maoista». Per questo sebbene durante gli anni '50 la Cina non fosse facilmente raggiungibile, poiché era un paese non riconosciuto, riuscì ad andarvi, come inviato speciale per l'Unità, per ben quattro anni. Successivamente, negli anni '70, fece l'inviato in Vietnam per parecchi mesi; da questa esperienza nacque un libro L'Indocina rimeditata. Per quanto riguarda la sua esperienza di partigiano molte notizie le desumiamo dalla sua stessa opera e sappiamo, dai familiari, che i rapporti con i suo compagni di brigata rirnasero molto intensi fino alla sua morte. La decisione di prendere la strada della diserzione non è semplice nè sicura; Emilio, seppure giovane e per molti versi inesperto, avverte con spavento la necessità di imboccare quella che ritiene la strada più giusta, cosicchè una sera si risolve a scappare: «Mi sento tutto bianco nel viso, nelle mani, nel corpo, tutto bianco mentre gli altri sono di un altro colore. Tutti gli altri non sanno ancora cosa voglia dire sentirsi ed essere diversi» (p. 5). Nonostante questo mostra grande umiltà, l'umiltà di chi si accinge a imparare un mestiere e vuole farlo bene anche se di fatto é molto diverso da come se lo aspettava. Quella sarà per lui la notte più lunga in assoluto e una volta arrivati a destinazione avrà la consapevolezza della pericolosità della scelta fatta. Apprende infatti che «non si può andare in montagna, che il comando ha dato l' ordine di non accettare nessuno parchè l'altro giorno c'è stato rastrellamento ed e' morto Battista». A causa di questo nuovo ordine e' costretto a riprendere il cammino questa volta verso Bolzano paese, "Boldan taliano" (p. 10), dove sara' assegnato al reparto piu' bisognoso. Durante questa lunga notte ha un primo approccio con la difficolta' negli approvigionamenti e poi «la notte bisogna risolvere il problema di una coperta e di quattro persone che non l'hanno, e non strusciarsi troppo sulle foglie secche che entrano nel collo e scendono per la schiena, prurito infernale, ed evitare i sassi che rompono le costole>, (p. 13). La vita di partigiano e' dura, ma l'udita' di una squadra non si misura in base a mirabolanti azioni di cui, per altro, si sente parlare solo nei racconti riportati dalle staffette delle altre brigate, diventa quindi fondamentale saper fare le "corvées" e i turni di guardia e conoscere la montagna come le proprie tasche per battere i tedeschi sul tempo o per aver salva la vita: «questa è la vita che si fa al comando» (p. 19) e tutti sono stanchi e un po' delusi parchè sognano "azioni strepitose, sparatorie e combattimenti" (p. 51). Dopo l'ennesima protesta una decina di uomini è destinata alla pianura come distaccamento a parte: di questo distaccamento fa parte anche Emilio. La prima azione di un certo rilievo è fissata per l'indomani, tutti vogliono partecipare ma solo sette ragazzi armati di mitra e fucili potranno andare a Bolago: qui l'azione si concluderà in un minuto ma ognuno di loro vorrebbe che fossero così tutti i giorni della loro vita di partigiani. In realta la situazione che si trovano a vivere è molto meno muovimentata e importanti sono i turni di guardia alla notte, i discorsi fatti durante il giorno, la rabbia di stare dei giorni senza fare niente, le conversazioni serali «nell'ora politica che tutte le sere bisogna fare» (p. 32). Un giorno viene dato l'ordine di recarsi alla Todt, «un insieme di duecento operai e sei o sette tedeschi» per recuperare una marmitta e una cassetta di medicazioni; «andiamo la in cinque, una pattuglia alla buona perchè sono cose che si fanno senza chiasso» (p. 49). I sorveglianti tedeschi vengono portati tutti fuori in


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uno spiazzo e si può leggere nei loro volti il terrore anche se, di fatto, «non succede niente. Sanno già che non succederà niente, che porteremo via solo un pò di roba e non le loro vite» (p. 51). L'operazione si conclude, come previsto, tranquillamente ma il comportamento degli operai nei confronti di «noi cinque [...] con la barba di otto giorni [...], i fazzoletti rossi annodati dietro, le bombe balilla appese alla cintura, le giberne appese ai portagiberne [...]» (p. 51) dà l'occasione a Franco (nome di battaglia di Emilio) di riflettere e ricredersi: «dicevo che era impossibile farsi capire dalla gente schiava del suo piccolo egoismo mentre noi moriamo per tutti» ora sa di lottare per una causa comunemente approvata e sostenuta, ora sa che non sono soli. Durante tutta la sua esperienza avrà occasione di incontrare molta gente e di ognuno osserverà attentamente i modi e i comportamenti che descriverà poi minuziosamente. Il 4 ottobre 1944 arriva la notizia, come un fulmine a ciel sereno, «domani rastrellamento, [...] si vede l'ansia nel bianco degli occhi" (p. 52). Così con un termine che ha inventato uno dei ragazzi, Turiddu, si decide che bisogna mettere in atto la dispersione. "Quelli dei paesi andranno a casa e nasconderanno le armi; chi non può [...] si disperde per la pianura, a gruppi di due o tre, e stiamo in contatto con le organizzazioni dei paesi...le armi automatiche vanno a chi fa la dispersione...appena si potra' si tornerà in montagna...[...] ; io sono con Falce. Io e lui andremo in giro per la pianura che conosciamo appena» (p. 69). I loro pensieri sono gli stessi, gli stessi sono i timori; camminano per quasi trenta ore prima di fermarsi tanta e' la paura che li attanaglia e che li fa vivere nell'angoscia, Durante questi giorni, vissuti nella incertezza, hanno modo di assaporare l'ospitalità e la solidarietà di alcune famiglie. Arriva tuttavia il momento che, anche loro, si devono salutare «perché Falce ha deciso che casa sua, lontana venti chilometri di là dal Cordevole e di moltissimi posti di blocco dei tedeschi, non e' poi tanto lontana» (p. 70). Vivere da soli, con la paura di un attacco tedesco, non e' facile e fortunatamente Franco incontra, in un roccolo, altri cinque dei loro che vivono grazie alla famiglia proprietaria del roccolo che tutte le sere si preoccupa di far avere loro qualcosa di caldo da mangiare. Qualche giorno dopo arriva la notizia che «la dispersione e' finita» (p. 78), così si dirigono verso il Terne dove trovano dei capanni abbandonati e dove, dopo qualche giorno li raggiungono alcuni ragazzi del battaglione Belluno che era stato sciolto: le condizioni di vita sono proibitive e peggiorano ulteriormente quando si trasferiscono in una casera davanti al Terne. Comincia infatti a nevicare e i loro equipaggiamenti sono assolutamente insufficienti. Decidono quindi di trasferirsi all'interno di una caverna dove il clima e' più accettabile e dove si sentono più al sicuro dai tedeschi. Qui però e' sempre buio e l'unica acqua di cui dispongono è quella che gocciola dal soffitto «e fortuna che con il buio non vediamo di che colore e' nella grande pozza che c'è in mezzo alla caverna» (p. 95). Successivamente, quando il primo sole scioglie la neve accumulatasi su sentieri e montagne, il gruppo di Franco si trasferisce a casa di Fontana «un uomo alto e secco dalle gambe lunghissime e magre, che nella sua vita di trentotto anni e' stato dappertutto e ha fatto tutto» (p. 101). La vita qui scorre tranquilla in mezzo ai dieci figli di Fontana...«adesso siamo qui senza far niente, ma solo ad aspettare mezzogiorno e sera per poter mangiare» (p. 103). Quando arriva la missione inglese la guerra volge alla fine e i ragazzi cominciano a pensare a quello che accadrà dopo pieni di buoni propositi e ingenuamente convinti di aver davanti solo un roseo futuro. Agli inizi della primavera «il cielo e' più fitto di aereoplani che vanno a scaricare


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le loro bombe sempre nella stessa direzione ed a noi arriva un'eco lontana come se le montagne su verso la Germania rotolassero una sull'altra» (p. 113). Ad aprile ci sono gli ultimi grandi scontri, i tedeschi presi dal panico intensificano i rastrellamenti e i controlli; «25, 26, 27, 28 aprile, i giorni passano lenti e ogni giorno sembra che il tramonto non arrivi mai» (p. 155). Ma finalmente quando le armi automatiche cominciano a sparare a caso e i prigionieri a camminare fiacchi, arriva la notizia da uno dei nostri: «Si sono ritirati dalla citta' - dice - e si sono fermati alla periferia, non vanno piu' ne' avanti ne' indietro, sono finiti» (p. 164).

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-VI- I CADUTI DELLA BAIA E GLI ALTRI I nomi del monumento di Francesca Allaria, Marco Belli, Valeria Carteri, Giuseppe Deiana, Angelica La Francesca, Daniel Liber, Lara Luppi, Clelia Pennella, Chiara Semenzato, Simone Salvaneschi, Filippo Sperandeo e Stefano Torre

In questo capitolo intendiamo tentare di dare un' identità ai nomi dei partigiani elencati nel piccolo monumento posto dal Consiglio di zona 15 di fronte al centro civico di via Boifava 17, all' inizio degli anni '90. L'elenco è stato ricostruito nel 1991 da tre persone che, nell'ambito delle attività politiche del Consiglio di zona, vi ci si sono dedicate con interesse particolare: Arnaldo Agliati (Amò, esponente socialista). Carlo Gasparini (esponente democristiano) e Francesco Di Bisceglie (rappresentante dell' ANPI). Secondo la testimonianza del primo, «Gasperini ha voluto mettere nella lista anche qualche partigiano cristiano, perchè c'erano anche le formazioni di partigiani cristiani». Sono stati inseriti, inoltre, sia i caduti nei campi di concentramento tedeschi sia i caduti in guerra. «Poiché, si è voluto unificare quello che si sapeva dei caduti della zona, senza alcuna distinzione». Questo è il criterio del raggruppamento dei nomi dei caduti. Secondo la testimonianza di Francesco Di Bisceglie, esso risale al 1945/46. «Allora c'erano i familiari, c' erano i parenti, c' erano anche quelli che si sono rifiutati di dare il nominativo da mettere sul quadro che ricorda tutti i caduti. Il monumento contiene l'elenco originale, corrispondente esattamente a quello del quadro che avevamo in cooperativa e che adesso è al centro sociale di via Palmieri al 20» (foto 1 e 2). Aggiunge Di Bisceglie per spiegare il perchè di questi nominativi: «era tutta gente che abitava nel quartiere Stadera. Diversi sono morti come partigiani, diversi sono morti perchè chiamati alle armi (quindi, sono morti in Russia, in Africa, ecc.). i compagni di allora, del 1945, hanno ritenuto opportuno fare il quadro di tutti i caduti che si trovava nella cooperativa di via Barrili e che è stato usato per fare il monumento di via Boifava, davanti al centro civico e alla sede del Consiglio di zona 15. Quindi, sono tutti caduti che abitavano il quartiere Stadera. Quelli che hanno fatto questa raccolta di nomi, cinquant'anni fa, lo hanno fatto per evidenziare il contributo del quartiere, cercando di mettere dentro un pò tutti. Bisogna ripetere che ci sono stati dei familiari che non hanno voluto dare i nomi dei propri caduti e non hanno voluto nemmeno alcuna lapide. De Vincenzi, per esempio, nel '46-47, quando c'era la famosa "guerra Gredda ", cioè l'opposizione tra la sinistra e la Democrazia Cristiana, non ha voluto assolutamente che si mettesse una lapide sul muro della sua casa, in via Barriti, per segnalare il contributo del figlio alla guerra di liberazione. Quindi, noi purtroppo abbiamo una situazione di mancanza di conoscenza su queste persone. Purtroppo diversi familiari e parenti non ci sono più oggi. L' unica signora ancora vivente è la vedova di Luigi Frazza». Va ribadito, quindi, che non tutti sono stati partigiani in senso stretto: alcuni, ad esempio, sono stati semplicemente vittime involontarie della violenza nazista e


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fascista. Va detto, inoltre, che mancano i nomi di quei caduti i cui familiari si sono opposti o non hanno condiviso 1' iniziativa di fissarli nel monumento per conservarne la memoria. Questo è solamente un primo tentativo di indagine scolastica, che attinge prevalentemente alla testimonianza orale di Arnaldo Agliati, Biagio Colamonico, Francesco Di Bisceglie, Virginio Gallazzi, Paolo Guffanti, Paolo Imperato, Emilio Ventura e Riccardo Fusetti. Essi sono stati compagni di vita nel quartiere Baia del Re-Stadera e, in molti casi, compagni di lotta in città o in montagna. Le loro testimonianze si fondano sulla conoscenza diretta e/o indiretta delle persone e dei fatti. Le loro conoscenze sono integrate da quelle di parenti dei caduti. Per carenza di documentazione ci si limita ai "ragazzi della Baia". Come si legge nell'unica raccolta di testimonianze sulla Resistenza nel quartiere operaio della Baia del Re, «erano tutti giovani i compagni del quartiere che si impegnarono generosamente nella lotta partigiana qui in città nelle S.A.P. o nei G.A.P., oppure nelle formazioni garibaldine della montagna» (cit., p. 4). Una parte di essi sono morti. La loro memoria va onorata e tramandata alle nuove generazioni, per non dimenticare.

1. Luigi Frazza, Luigi Negroni, Mario Provasi e Paolo Volpi.

Si tratta di quattro partigiani, deportati nel campo di sterminio nazista di Mauthausen, negli anni 1944-'45. Questa è l'indicazione della lapide di via Palmieri 22, in cui è scritto: « Ricordi questa lapide l'eroica memoria dei partigiani Frazza Luigi, Negroni Luigi, Provasi Mario, Volpi Paolo, che nei campi di sterminio della Germania nazi-fascista sacrificarono la loro esistenza per la giustizia, la libertà, l'indipendenza d'Italia. Mauthausen 1944-45» (foto 15). Su questi caduti le conoscenze dei nostri testimoni sono piuttosto limitate e vaghe. Per fortuna esiste ancora la vedova di Luigi Frazza, Emma Grandini, una donna di 84 anni, ancora lucida, che a sua volta è stata perseguitata quando le hanno arrestato il marito (nato a Lonigo il 26 settembre 1899, morto a Mauthausen il 24 giugno 1944). Questi è stato deportato perchè militante antifascista. Già durante il fascismo aveva fatto opposizione e militato nel Partito comunista; nella resistenza faceva parte della 113° brigata Garibaldi. E' stato prelevato a casa dai fascisti e portato prima a San Vittore e poi deportato a Mauthausen. Ma perchè è stato catturato e arrestato? Dice la signora Emma: «Non lo so, lui era segreto con me. Era un uomo che non andava mai fuori di casa; quando è iniziata la resistenza, però, ha cominciato ad uscire la sera fino a mezzanotte e l'una, raccomandandomi di non preoccuparmi e di non pensarci. Qualche volta rientrava la mattina. Ha sempre fatto quella vita lì...Negli ultimi tempi in cui faceva il partigiano, ho saputo ad un certo punto che era ricercato, perchè era venuto in casa uno che ne ha parlato. Allora ho capito. Ho ricordato a mio marito la responsabilità per i figli, ma lui mi ha risposto che se tutti la pensavano come me come sarebbe andata a finire l'Italia?». Dopo un mese circa, il primo di marzo '44, i fascisti hanno portato via tutti e due, marito e moglie; anche la signora Grandini, al posto della sorella, che era ricercata per militanza nella resistenza. Lui è stato portato a San Vittore e poi mandato a Mauthausen, il 7 marzo. Dal campo di concentramento la signora non ha mai ricevuto alcuna notizia, non ha saputo più nulla del marito, che lì è morto. La conferma della morte le è venuta da un altro deportato che era riuscito a tornare da Mauthausen. A suo dire, Luigi Frazza nel campo ha cercato a lungo la moglie pensando che fosse stata internata nei reparti femminili, non sapendo invece che dopo due mesi era stata rilasciata in Italia. Non avendola trovata, si sarebbe demoralizzato,


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demoralizzato, cadendo in uno stato di depressione, fino alla morte nel forno crematorio. Il reduce si chiamava Corrado Tarcisio e abitava in viale Umbria 21. Dunque, anche Emma Grandini è stata arrestata dai fascisti e consegnata ai tedeschi - dopo averla portata a Bergamo da San Vittore - che l'hanno liberata dopo un mese, alla fine di aprile, per motivi di famiglia (figli piccoli) e per interessamento della fabbrica dove lavorava. Durante la permanenza nel carcere milanese, per tutto il mese di marzo, è stata interrogata dai fascisti che hanno giustificato il suo arresto a causa della lotta partigiana della sorella, che era stata condannata alla pena di morte: lei doveva pagare per la sorella, di nome Alice, la quale era sfuggita in quanto era stata avvisata da un amico che abitava in via Palmieri al 18. Questo amico era un fascista, ma aveva una moglie partigiana: un uomo buono, che aveva facilitato la fuga di Alice Grandini. Scappata lei, come ostaggio fu prelevata la sorella Emma. Nascosta in montagna, è tornata a Milano il 25 aprile, giorno della liberazione. Dopo qualche giorno i suoi compagni hanno ucciso il fascista che aveva denunciato la sorella e il marito, Luigi Frazza. Questi è stato catturato e internato insieme a Luigi Negroni (nato a Motta Visconti il 20 ottobre 1898, morto il 3 marzo 1945 a Mauthausen), Mario Provasi (nato a Mantova il 24 settembre 1899; morto a Mauthausen il 18 settembre 1944) e Paolo Volpi (nato a Buccinasco il 15 marzo 1886, morto a Mauthausen il 15 ottobre 1944),che abitavano nel quartiere Stadera, nello stesso palazzo, al 22 di via Palmieri. Nessuno dei quattro è tornato dal campo di concentramento. Di Volpi esiste la figlia, degli altri compagni qualche parente, che però non sono più nel quartiere. Dopo l' esperienza resistenziale Alice Grandini non si è interessata di politica attiva: è ritornata alla vita normale di operaia. Alla sorella Emma, invece, del marito non è rimasto nient'altro che un attestato dell'ANPI di partigiano della 113° brigata Garibaldi, morto per deportazione in Germania. Dal sindaco di Milano Aldo Aniasi ha ricevuto la medaglia d'oro alla memoria.

2. Abico, Alippi, Clapiz e Del Sale: i caduti di viale Tibaldi.

«Abico Albino di anni 25, Alippi Giovanni di anni 24, Clapiz Bruno di anni 30, Del Sale Maurizio di anni 47. Erano garibaldini della 85° divisione Martiri Valgrande»: così la lapide di via Tibaldi 26 (foto 6). La loro morte risale all' agosto del '44, all' inizio del periodo più drammatico della resistenza milanese e italiana. «Angloamericani e sovietici avanzano su ogni fronte e...in quall'inizio estate 1944 la macchina bellica nazifascista in Italia sembra approssimarsi rapidamente al crollo finale; la diserzione in massa dei carabinieri e la provata scarsa combattività delle camicie nere alimentano ancor di più le speranze. E poi ci sono i partigiani. Le formazioni di montagna si sono ingrossate, le puntate al piano sono divenute più frequenti e adesso anche le città e le campagne circostanti registrano azioni quasi quotidiane: automezzi attaccati, trebbiatrici che saltano, disarmi a catena di fascisti e tedeschi. In realtà il peggio è ancora da venire. I tedeschi, grazie anche alla discutibile condotta degli alti comandi alleati, riusciranno a resistere sulla linea gotica e, per essere sicuri, cominciano subito ad impegnarsi nella "pulizia" delle retrovie. Per eliminare il fenomeno del ribellismo è necessario procedere in due direzioni: colpire direttamente i partigiani là dove è possibile e creare loro il vuoto attorno con rappresaglie contro la popolazione civile...Da giugno a settembre su tutte le regioni occupate si abbatte un'agghiacciante ondata di fucilazioni, incendi e massacri» (L. Borgomaneri, Due inverni, un'estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia 1943-1945, F. Angeli, Milano 1995, p. 183).


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A questo contesto vanno collegati i caduti di via Tibaldi, la cui vicenda fa parte della "grande" storia della Resistenza milanese. «Milano, lunedì 28 agosto; ore 19,30. I nutini in gran forze bloccano via Tibaldi all' altezza dell' incrocio con via Meda, sbattono quattro partigiani contro un muro adiacente al bar Roma e li rafficano. Sono Albino Abico, venticinque anni, Giovanni Alippi, ventiquattro, Bruno Clapiz, quarantuno (trenta, in verità), Maurizio Del Sale, quarantasette. Li hanno presi a mezzogiorno dentro lo stesso locale. Daniele Richini, il proprietario della bottiglieria, è un sappista della 113° brigata Garibaldi Sap e spesso dà loro da mangiare. Qualche volta li ospita. E' un' imprudenza, ma tant' è. Abico, Alippi e Del Sale facevano parte, insieme a Edoardo Tia, un certo Negroni, "Nando" e "Pino", di un gruppo costituito nella primavera del 1944 a Baggio. Il loro è un antifascismo spontaneo. Non risulta fossero collegati con le forze organizzate della Resistenza. Sono coraggiosi ma anche avventati: il 25 giugno 1944, insieme ad altri ingaggiano uno scontro a fuoco con un gruppo di mutini alla ricerca dei responsabili del disarmo di un loro camerata. I repubblichini si ritirano con un morto mentre i ragazzi continuano la sparatoria contro alcuni fascisti locali...Abico, Alippi e Del Sale, intanto, prendono contatto con i Gap di Ruggero Brambilla (Nello) e trasportano un carico d' armi in Val d' Ossola dove rimangono qualche giorno presso l'85° brigata d' assalto Garibaldi. Quando ridiscendono, con loro c' è anche Bruno Clapiz, un giovane partigiano che ha chiesto e ottenuto dal suo comandante, il "capitano Mario" (Mario Muneghina), di operare in città. In Milano formano quindi il Gap distaccato della 85° brigata, in collegamento e alle dipendenze di Brambilla, con il compito di contribuire ad approvigionare del necessario la brigata di montagna...11 6 di agosto arriva la notizia che i partigiani toscani sono entrati in Firenze liberando i quartieri d' Oltramo. Lunedì 7 agosto, alle tre del pomeriggio una macchina, seguita da un camioncino, parte dalla stazione di porta Genova e attraversa la città percorrendo corso Genova, via Torino, corso Vittorio Emanuele, corso Venezia e corso Buenos Aires. "E' un lancio continuo di copie dell' edizione straordinaria dell' Unità e di manifestini inneggianti alla liberazione di Firenze". Sulla macchina ci sono Abico, Alippi e Negroni, dietro, di copertura, seguono Adriano Righetti (Milan) e "Pino". Verso la fine del percorso sono appostati altri uomini di Brambilla: Radames Zerbini (Giorgio) e Enzo Passariello (Enzo Pas). Due motociclisti repubblichini che si lanciano all' inseguimento vengono abbattuti all' altezza di piazza Piola. Nessuna perdita e grande scalpore in città. Successo completo. Ma le cose non andranno come avrebbero dovuto. L'ordine di Brambilla era, ad azione compiuta, di sbarazzarsi della macchina abbandonandola in un luogo isolato. Viene invece venduta a individui loschi della "mala" che, forse fermati dalla Muti (la Muti sempre a caccia di benzina e automezzi da requisire), forse per una ricompensa, parlano. Alippi e Del Sale, nei giorni successivi, fanno in tempo a disarmare, insieme a "Pino" e Negroni, i militi di un posto di blocco a Porta Vigentina, poi vengono presi con Abico e Clapiz nella bottiglieria di via Tibaldi» (Ivi, pp. 189-191). Aspetti particolari e inediti relativi alla loro cattura, seguita dalla fucilazione, ci vengono dalla testimonianza orale di Paolo Guffanti (66 anni, militante comunista), che ha vissuto "dall' interno" la vicenda dei caduti di viale Tibaldi. «A casa mia, alla fine del 1943, era arrivato un antifascista che, dopo tanti anni di galera, era stato liberato l' 8 settembre. Siccome era amico di mio padre - essendo mio padre come tutta la mia famiglia degli antifascisti - lui è venuto in casa mia, a dirigere tutto il lavoro clandestino del CLN, nel IV settore, che comprendeva tutta la zona sud di Milano, e nelle fabbriche naturalmente, sempre della zona sud della città. Questo compagno era Pietro Ricaldone. lo mi ricordo che una sera in cui eravamo a casa egli ha ricevuto la visita del compagno Luigi Dulevio, che era un


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operaio della Grazioli dove io lavoravo. Era il compagno che era stato indicato per prendere contatto con questi quattro partigiani che venivano dalla montagna per eseguire un' azione militare in città. Di norma le azioni più piccole, ad esempio quella di mettere delle bombe, distribuire volantini, ecc., le facevano le Sap di Milano. Presumibilmente - questo non lo so di certo perchè non me l' hanno detto - i quattro partigiani, chiamati dalla montagna, erano quattro gappisti e, forse, dovevano attuare un' azione di eliminazione di un fascista. Perchè quando si chiamavano i partigiani Gap dalla montagna per eseguire una azione partigiana in città, quest' azione era una delle più decise e importanti». (Va notato che la attribuzione delle azioni più importanti a partigiani di montagna calati in missione in città è da ricollegarsi all' immaginario popolare, avallato anche dalla propaganda fascista, che tendeva ad attribuire proprio al partigianato di montagna le azioni più eclatanti.- N.d.r). Sempre secondo Guffanti, Abico, Alippi, Clapiz e Del Sale dovevano incontrarsi con Luigi Dulevio, inviato da Pietro Ricaldone per spiegare loro l' azione militare da compiere. I quattro partigiani sono andati nella osteria di viale Tibaldi, dove hanno mangiato qualcosa. «lo ho parlato con il fratello di Albino Abico, ma anche lui non è sicuro della voce che circolava, secondo cui era stato il padrone dell'osteria a denunciarli, vedendo quattro giovani quasi tutti in età di leva: essendo lui un fascista, avrebbe chiamato le brigate nere. C' è il sospetto, però, che ci sia stata anche una delazione interna, come sostiene Adriano Abico, fratello del caduto». (La versione appartiene a una della tante circolate in quei giorni: il proprietario non era affatto un fascista e finì deportato in Germania - N.d.r.). I quattro si sono presentati nell' osteria con un certo anticipo, violando le regole della clandestinità che concedevano cinque minuti di tolleranza, prima o dopo dell'orario prestabilito. Essi non hanno rispettato questa regola: sono stati arrestati dai fascisti che li hanno colti di sorpresa. Sembra che siano stati portati in una caserma della Muti per interrogarli e torturarli per un paio d'ore e poi ricondotti sul posto vicino all'osteria, dove c' è ora la lapide, per essere fucilati. Drammatica la testimonianza di Paolo Guffanti: "io ricordo che quando il compagno Dulevio, dopo essere scampato alla cattura, è venuto ad avvisarci, con alcuni altri amici siamo andati lì a vederli: erano ancora in piedi e i fasciti li obbligavano a stare in punta di piedi con le mani appoggiate al muro. Dopo un pò, con le scariche di mitra li hanno massacrati. Ma la cosa orribile che ricordo è che per una decina di minuti i fasciti hanno scaricato colpi di rivoltella sui corpi dei partigiani già stesi per terra, morti». Questi aspetti di ferocia bestiale sui corpi, già cadaveri, sono confermati da altre testimonianze dirette, come quella di Riccardo Fusetti, che è accorso ed ha visto i partigiani stesi per terra, morti, fatti oggetto di continui colpi di arma da fuoco da parte dei componenti della brigata Muti; che addirittura li avrebbero esposti al pubblico per un paio di giorni, come delinquenti e banditi (ma ciò non ha riscontro nei documenti esistenti).

3. Achille De Vincenzi.

Nato a Legnano il primo di marzo del 1926 e fucilato a Roveredo in Piano - Maniago (provincia di Udine), il 22 febbraio 1945. Nella via Barrili, dove ha vissuto, non esiste alcuna lapide, pur essendo stata proposta a suo tempo dall' ANPI del quartiere Stadera. L unico riconoscimento del suo sacrificio è costituito dalla medaglia al valor militare "alla memoria" concessa dallo Stato. Nell' attestato si legge: «Entrato giovanissimo nelle file partigiane si distingueva per ardente entusiasmo, generosità, spirito di sacrificio, ardimento. Catturato in seguito a delazione, sopportava


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sopportava con stoica fermezza oltre due mesi di carcere e pur sottoposto a sevizie e torture non forniva al nemico alcuna notizia. Alla fine, con le carni straziate e il volto sfigurato, affrontava fieramente la fucilazione» (foto 23). Queste scarne informazioni sono integrate dalla testimonianza della sorella Giulia, più giovane di alcuni anni rispetto ad Achille. La sua scelta partigiana, con il nome di battaglia di Franco, è avvenuta a 18 anni, quando è stato chiamato alla leva dalla Repubblica sociale italiana, destinazione la Germania. Il rifiuto di obbedire e la decisione di servire la patria lo hanno portato ad abbracciare la causa della Resistenza. E' partito per la montagna in Friuli, con un amico che aveva i parenti in quella regione, fissando il punto di appoggio ad Aviano. Da lì si Sono uniti ad un gruppo di partigiani. Dopo poco tempo Achille viene nominato intendente di battaglione (Nino Bixio) e diventa responsabile di 40 uomini, con l' incarico di occuparsi dell'approvvigionamento di viveri e del vestiario. Ha combattuto prevalentemente nel territorio di Pian Cavallo, in provincia di Udine. Un giorno, sceso dalla montagna a valle, è stato catturato dai nazifascisti, per delazione di una donna, insieme ad altri due compagni. Era il 23 dicembre 1944. Lo hanno portato in carcere nella scuola di Maniago, dove è stato tenuto per due mesi. E' stato torturato, ma non ha parlato per non tradire i suoi 40 compagni. In quel periodo non ha mai neppure comunicato con la famiglia, per non compromettere nessuno. Infatti, secondo la testimonianza della signora Giulia, allora quindicenne, «i fascisti sono venuti a casa, in via Barrili al 6, con tanto di pistola, a chiedere alla mamma "dov' è suo figlio?". Le hanno fatto anche un tranellino dicendo "signora, qualcuno ha detto che ha visto suo figlio ad un matrimonio, sabato scorso". Ma mia mamma fa "ma guardate che è partito per la Germania, perciò al matrimonio mio figlio non può esserci stato". Tutto questo con tanto di pistola puntata. Noi bambine siamo scappate sul balcone, spaventate". Dopo la tortura Achille De Vincenzi è stato fucilato, secondo la testimonianza di un suo compagno, che ha portato ai familiari il portafoglio in segno di ricordo. Anche le notizie della tortura subita sono arrivate da questo compagno di lotta, scampato alla cattura ed alla fucilazione. La notizia definitiva della morte la famiglia l' ha avuta solo nell' agosto '45 dal parroco, don Luigi Moro della parrochia di Chiesa Rossa, che a sua volta è stato informato dalla curia arcivescovile, retta dal card. Schuster. Tuttavia, in famiglia c' era sempre la speranza che non fosse morto. AI punto che la sorella e la cognata, dopo un pò di anni, sono andate nei posti della montagna friulana per cercare e sentire qualche testimonianza, per sapere insomma come erano andate veramente le cose. La gente aveva ancora timore a parlare e non si riusciva ad avere notizie certe, fino a quando è stato rintracciato un capellano dei partigiani che ha fatto capire che era del tutto inutile cercare. Infatti, i nazifascisti avevano usato questo sistema con i partigiani: li fucilavano, gettavano i corpi nelle grotte, poi prendevano i ragazzi giovani, li ubriacavano e li mandavano a bruciare i cadaveri. Il responsabile di tutto ciò la gente lo chiamava "il fughin", il bruciatore di case e di cadaveri dei partigiani.

4. Luigi Fiore. Era un ragazzo ventenne ( o poco più che ventenne), nato a Milano l' 1 ottobre 1921, morto a Montelegnone- Colico ( Como) il 2 luglio 1944. Questa è l'iscrizione sulla lapide di via Barrili 12: '7l partigiano Fiore Luigi, che alla libertà ed alla pace della patria sacrificava la giovinezza. Abitò in questa casa. Colico, 2/7/1944"


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(foto 7 e 21). Per quanto riguarda questo partigiano siamo molto fortunati perché possiamo conoscere con relativa precisione i fatti che riguardano la sua vita, essendo ancora in vita il suo "fratellastro" (fratello da parte di padre) Riccardo Fusetti, sebbene a quel tempo questi fosse ancora bambino. Proprio Riccardo Fusetti ci racconta che Luigi, a venti o ventuno anni, dopo essere tornato a casa in licenza dal servizio militare, partì con altri ragazzi verso Colico per fare il partigiano: con lui c'erano Dino Colombo e un non meglio identificato Dante. Combatterono sotto il monte Legnone nella zona di Curcio. Ad un certo momento il gruppo dei partigiani si separò e, mentre alcuni tornarono a Milano, altri tra i quali c'era proprio Luigi Fiore, rimasero a Colico. E proprio nella zona del Legnone, mentre erano ancora là Luigi Fiore ed i suoi compagni di lotta, i fascisti ed i tedeschi fecero un grande rastrellamento: andati via i tedeschi, mentre i fascisti continuavano a cercare i partigiani, Luigi Fiore cadde in un burrone: restò là, privo di soccorso per un giorno intero, fino alla morte. La gente del posto, infatti, pur favorendo sempre la lotta partigiana, non poteva aiutarlo, a causa della presenza dei fascisti. Quando la situazione tornò tranquilla, gli abitanti della zona, che, come già detto, sostenevano costantemente, con ospitalità e soccorsi, i ragazzi impegnati nella lotta partigiana, prelevarono Luigi Fiore (foto 21) e gli fecero il funerale separatamente. Un altro testimone, l' ex partigiano Virginio Gallazzi, ci racconta di aver visto l'ultima volta Luigi Fiore nel '44, nei pressi di Sommafiume, frazione di Vestreno, in val Varrone, proprio nella zona del monte Legnone, con altri ragazzi della Baia. Dal momento che aveva una funzione organizzativa e militare, il Gallazzi spinse perché proprio il gruppo di Luigi Fiore fosse unito al suo. Tuttavia disposizioni contrarie fecero in modo che il Gallazzi non incontrasse mai più Luigi Fiore e solo in seguito seppe della sua morte. Egli viene ricordato come un ragazzo di corporatura esile che dimostrava un'età molto più giovane di quella che effettivamente aveva. Virginio Gallazzi lo ricorda così, quando lo salutò a Sommafiume, sotto il Legnone, per l'ultima volta.

5. Bruno Biraghi.

Le notizie riguardanti la vita di questo partigiano sono abbastanza incerte. Riccardo Fusetti ricorda solamente che partì con suo fratello (Luigi Fiore) verso Colico, ma che morì a Gravellona Toce il 12 settembre 1944 (era nato il 27 novembre 1928 a Milano: aveva solo 16 anni). Notizie un pò più precise ci vengono fornite invece da Virginio Gallazzi. Bruno Biraghi partecipò alla famosa "Repubblica dell'Ossola", creata dai partigiani dopo l'occupazione dell'omonima valle e durata quaranta giorni. II compito di Bruno Biraghi era quello di difendere, con alcuni compagni, l'entrata nella valle, in prossimità di Gravellona Toce, dai fascisti e dai tedeschi che arrivavano da Novara e da Milano. Ma i comandi delle divisioni autonome Valtoce e Valdossola, che avevano occupato Domodossola, consentirono ai nazifascisti di abbandonare la città portando con loro tutte le armi di fabbricazione tedesca, di cui essi si servirono per attaccare alle spalle i partigiani di guardia all'entrata della valle stessa. In questo conflitto perse la vita Bruno Biraghi insieme a molti altri suoi compagni. Questa l'iscirizione della lapide di via Barrili 9: "Questa lapide ricorda il garibaldino Biraghi Bruno che immolò la sua giovinezza combattendo contro i nazifascisti. N. 27/11/1928 M. Gravellona Toce 12/9/1944" (foto 8). In una nota scritta si legge: «Era un ragazzo sull' uno e novanta con una forza prodigiosa, ma estremamente


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semplice e buono. Per la sua statura eccezionale e per il suo aspetto maturo richiamò l'attenzione di alcuni scherani della milizia fascista che bivaccavano nelle scuole di via Palmieri e che - con lusinghe e minacce - volevano indurlo ad arruolarsi. Questo ragazzo, questo gigante buono che aveva già in sè la dignità di un uomo, decise allora di fuggire sulle montagne del novarese e di unirsi alle formazioni partigiane che operavano in quella zona» (Un quartiere operaio nella Resistenza, cit., p. 4).

6. Mario Peluzzi.

"Mario Peluzzi, partigiano della 113° Brigata Garibaldi, amò la libertà più di se stesso e per lei sacrificò la sua giovinezza. La sua morte segnò il ritorno alla vita per tutti gli oppressi. Nacque il 29-11-1914, fu ferito in combattimento a Milano il 26-4-1945. Morì addì 1-5-1945': così è ricordato Mario Peluzzi, nella lapide di via Spaventa 11 (foto 10). Alcune fonti lo considerano della 113° brigata Garibaldi, per altre non fece parte di quei gruppi che partecipavano attivamente alla resistenza. Sicuramente Mario fu uno dei tanti ragazzi che partecipò all'insurrezione, come tale la sua figura era conosciuta da tutti i residenti del quartiere Stadera. La sua morte non fu causata da un vero e proprio scontro a fuoco ma da un tragico errore verificatosi in piazza Cantore il 26 aprile del '45. Virgilio Gallazzi, anch'egli a quel tempo partigiano, racconta così quell'evento «Una sera uscì in pattuglia con un amico. Improvvisamente sentirono un "Chi va là?" e Peluzzi, non riuscendo a vedere chi avesse parlato a causa del buio, preso dal panico tentò la fuga. Purtroppo partirono una serie di colpi e un proiettile lo colpì ferendolo gravemente» Era il giorno successivo a quello della proclamazione della liberazione: morì cinque giorni dopo per le ferite riportate.

7. Carlo Ciocca.

Carlo Ciocca, nato a Milano il 18 giugno 1905 e residente in via Palmieri 18, fu, insieme a Luigi Frazza, Luigi Negroni, Mario Provasi e Paolo Volpi, uno dei deportati in Germania nel campo di concentramento di Ebensee (o Mauthausen), dove morì il 30 aprile del '45. La causa della sua deportazione fu una denuncia del custode del palazzo di via Palmieri 22, temuto dagli abitanti del quartiere in quanto aderente al regime fascista. Non potendo denunciare le donne del quartiere che acquistavano il pane al mercato nero, il custode incolpò i mariti accusandoli di fare parte del movimento di liberazione; tra questi Carlo Ciocca. In seguito il portinaio, che nel periodo fascista con il suo operato si era attirato l'odio della gente, venne giustiziato nel piazzale delle scuole a colpi pistola. Nella lapide-ricordo si legge: "All'alba della liberazione decedeva nel campo di sterminio tedesco il partigiano Carlo Ciocca, chiudendo un'intera esistenza consacrata alla giustizia ed alla libertà d'Italia. Ebensee, 30 aprile 1945 (foto 14). Molte lapidi sono state poste nelle varie strade milanesi, ma quella di Ciocca risalta in quanto posta in sua memoria dagli abitanti di via Palmieri proprio a sottolineare il forte legame che si era stabilito tra i partigiani e la popolazione, che non partecipava direttamente alla resistenza, ma che condivideva i suoi ideali. A questo proposito il partigiano Emilio Ventura ci ha raccontato un aneddoto che lo riguarda: ancora diciottenne mentre passeggiava nel proprio quartiere, insultò un giovanissimo soldato fascista che in seguito lo fece arrestare dai suoi superiori. Venne portato nell'asilo di via Palmieri al 5 dove alcuni fascisti avevano rinchiuso anche altre persone. In seguito furono tutti rilasciati tranne Ventura poiché era operaio


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operaio nella fabbrica CGE che, anche in conseguenza dei ripetuti scioperi, era considerata una fabbrica antifascista. Tuttavia grazie alle rimostranze di diverse centinaia di persone che invocavano la liberazione di Ventura, questi venne rilasciato.

8. Angelo Ventura.

Nato il 16 agosto 1904 e morto il 15 novembre 1943. "Nell'avanguardia eroica che sul monte S. Martino affrontò il tedesco invasore. cadeva il partigiano Ventura Angelo, che qui abitava. 1904-1943'. E' questa l'indicazione della lapide di via Palmieri 11 (foto 13) in cui è conservata la memoria di uno dei tanti partigiani della zona 15 di Milano che sacrificò la propria vita a causa della violenza fascista in nome di un ideale di libertà. Per quanto riguarda questo caduto, le nostre conoscenze si basano sulla testimonianza diretta del fratello Emilio e su quella di due compagni di quartiere, Biagio Colamanico e Francesco Di Bisceglie. Siamo nel 1943, Angelo Ventura ha quasi quarant' anni, tassista da una vita è costretto a rinunciare alla sua attività a causa della mancanza di benzina e ad improvvisarsi operaio della vetreria Bordoni. Nello stesso periodo entra a far parte di un gruppo antifascista. Uno dei numerosi attacchi dell'aviazione alleata su Milano tocca anche lo stabilimento che, bombardato e distrutto, diviene la causa della disoccupazione di tutti coloro che vi lavoravano, tra cui il nostro Angelo Ventura. Assunto dalla organizzazione TODT, che reclutava volontari italiani per lavori di sterramento e fortificazioni, decise di raggiungere il fratello Emilio che da circa una settimana si trova in montagna, a San Martino di Valcuvia (Varese). Entrato a far parte della compagnia del fratello Angelo, essendo un ex tassista, diventa l'addetto alla guida di un camion. E' il 15 novembre, già in pieno rastrellamento tedesco, Angelo e 10 suoi compagni vengono mandati sulla cima della montagna. Errore strategico da parte del comandante: Angelo e i suoi compagni rimangono intrappolati in quanto i fascisti bloccano la loro unica via di uscita. Lottano duramente fino all'esaurimento delle munizioni; attaccati anche dall' aviazione tedesca, riescono a colpire un aereo facendolo schiantare contro una montagna dirimpetto. Ma il loro coraggio non è sufficiente, giocano a loro sfavore la superiorità numerica dei nemici e l'improvviso esaurimento delle munizioni. E' il 16 novembre, i nostri partigiani vengono catturati e portati in quella che il testimone chiama "casermetta", l'usuale luogo di ritrovo dei compagni. Qui vengono inter-rogati e il 17 novembre fucilati (foto 22). Angelo ha quasi quarant' anni ed è uno dei più anziani del gruppo: gli altri suoi compagni non superano i vent' anni. Questo è l'epilogo della storia del "vecchio" Ventura, la cui morte, a detta del compagno Di Bisceglie, poteva essere evitata. Non fu solamente la violenza fascista, motivo di morte di tutti i partigiani, a segnare le sorti di questi ragazzi, ma ad essa contribuì, secondo il nostro testimone, un errore tattico dello stesso colonnello che ordinò l'azione senza aver capito che «nella guerra partigiana l'individuo deve essere in grado di sganciarsi, il partigiano non può fare una guerra di posizione». E' facile infatti soccombere se si è in 150 a lottare contro duemila, favoriti dall' appoggio dell'aviazione e da un numero nettamente superiore di armi.

9. Dino Colombo

"27/4/1922 - 26/4/1945. Caduto combattendo contro i nazifascisti per la libertà. I compagni e cittadini del quartiere": così la lapide di via Palmieri 5 (foto 11). A lui e dedicata anche la lapide di via Valleambrosia di Rozzano (foto 5).


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Secondo la testimonianza dell'ex partigiano Virginio Gallazzi, Colombo era un ragazzo cresciuto nel quartiere Baia del Re, via Palmieri al 5; morì il giorno prima del suo ventitreesimo compleanno, a causa di un comportamento un po' troppo spavaldo che lo portò ad abbandonare ogni forma di prudenza. Egli faceva parte della 114° brigata Garibaldi che aveva come punto di ritrovo un' ex sede fascista in via De Sanctis. Il 26 aprile del 1945, un gruppo di partigiani stava assediando un contingente di tedeschi asserragliati all'interno della cascina Valleambrosia, all' angolo dell' omonima via di Rozzano; si era nei giorni della insurrezione e i nazi-fascisti si stavano arrendendo. Dino Colombo, fiducioso in un successo, fece irruzione dal portone della cascina intimando la resa. L'imprudenza lo espose alla morte: un ufficiale tedesco lo uccise con un colpo di pistola, per poi scaricare l'arma contro se stesso. Ciò che ci riferisce Biagio Colamonico su Colombo riguarda l'atteggiamento di spavalderia tipico dei giovani in quel periodo, i quali non si curavano della paura e della cautela (che può esserci oggi "in questi giorni di tranquillità"), per una sorta di assuefazione alla guerra. A stimolare questo genere di comportamento era un clima di continua sfida. Dino Colombo era una tipica figura di quartiere che incarnava queste caratteristiche giovanili. Ha dato la vita in questo modo a 23 anni.

10. Giovanni Paghini e Domenico Bernori.

"In questa casa fiorì la giovinezza del patriota Paghini Giovanni, della 113° Brigata Garibaldi, stroncata dal piombo nazifascista. Milano 20/3/1924 - Milano 25/4/ 1945': questo si legge nella lapide di via Chiesa Rossa 113, che ha la stessa scritta di quella dedicata a Domenico Bernori in via Neera 16 (foto 9 e 3). Virginio Gallazzi dichiara di conoscere le circostanze della morte di Paghini e Bernori solo "per sentito dire". Giovanni Paghini (nato a Opera il 5 maggio 1927, morto a Milano il 25 aprile 1945) lavorava nella fonderia Stabilini in via De Sanctis, Domenico Bernori abitava in via Neera 16. Quest' ultimo era un ragazzo molto attivo politicamente, in quanto apparteneva, come Pagnini, alla 113° brigata Garibaldi. In questa veste gli sarebbe stata affidata la missione di uccidere il proprietario della fabbrica Grazioli, uomo che, grazie al fascismo, dal nulla aveva fatto fortuna. Il 25 aprile, il Naviglio era asciutto e questi tre partigiani vi entrarono con l'intenzione di aggirare i tedeschi presso il ponte di San Cristoforo (per Virginio Gallazzi presso il dazio del Naviglio Grande). Non si accorsero dei nemici alle spalle, che con una raffica li ammazzarono. Sono caduti, quindi, in un' azione di arresto di una colonna nazifascista. Avevano rispettivamente 18 e 21 anni. L ex partigiano Di Bisceglie, conosceva Domenico Bernori (nato il 20 marzo 1923, morto il 25 aprile 1945 a Milano) tramite quella che sarebbe stata sua moglie, la quale abitava in via Neera nell'appartamento attiguo a quello del partigiano in questione. Spesso infatti, quando i giovani antifascisti venivano ricercati, la gente del quartiere offriva loro rifugio, rischiando la vita di tutti i familiari. Gli ufficiali nazisti non si facevano scrupoli ed erano pronti a fucilare donne e bambini colpevoli solo di troppa solidarietà.

11. Domenico Adorni. Dalla testimonianza di Virginio Gallazzi ricaviamo anche qualche notizia riguardante Domenico Adorni, (residente in via Palmieri 11), comandante di distaccamento della 114° Brigata Garibaldi, 4-bis. Ha combattuto negli anni della Resistenza, tuttavia la sua morte risale a qualche anno dopo la fine della guerra. Gallazzi


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così ce lo descrive: «era un ragazzo che, nonostante la sua menomazione fisica poichè era un po' claudicante, riteneva fosse opportuno battersi ugualmente come tutti gli altri. Aveva qualche anno più di noi, sui venticinque, ventisei anni. lo l'ho conosciuto dopo, era un ragazzo simpaticissimo».

12. Renato Agliati.

Il ricordo di questo partigiano ci è tramandato dal fratello Arnaldo, detto Arnò in quanto pittore. Era residente in via Palmieri 18 e le notizie sulla sua fine sono molto vaghe. Sappiamo che nel '43, ritornò a casa un'amico di Renato che abitava in via Spaventa: si chiamava Cesare Ratti ed era in marina. A seguito dell'affondamento del suo sommergibile aveva ottenuto una licenza. Subito dopo l'armistizio dell' 8 settembre Renato, Ratti e un'altro amico, Augusto Robbiani, si misero d'accordo per presentarsi in caserma: Renato avendo diciassette anni avrebbe dovuto compiere il servizio militare e gli altri dovevano ritornare sotto le armi. Tuttavia, più che all' esercito repubblichino hanno preferito darsi "alla macchia" e si sono trasferiti a Missaglia, una località in provincia di Como. Lì il gruppo si unisce con Giancarlo Puecher. Il fratello Arnaldo precisa che non sa come andarono esattamente le cose. Racconta infatti: «Sono stati lì pochissimo e poi si sono trasferiti in un' altra valle. L'unica cosa che so è che hanno fatto un'azione: c'era mio fratello, Augusto Robbiani e Cesare Ratti. Erano su un motocarro a legna di carboncino, mio fratello era sopra e gli altri due erano dentro, quando sono stati bloccati dai tedeschi e dai fascisti. Questi hanno sparato colpendo mio fratello che è così caduto, mentre gli altri sono riusciti a scappare. Ancora oggi non sanno se mio fratello fosse morto o solo ferito. Dopo un po' di tempo si è saputo che era stato fucilato e buttato nella valle del Diavolo. Il corpo non è stato più ritrovato. lo e mio padre abbiamo aspettato per anni che ritornasse a casa, ma invano».

13. Martino Cavallotti e Nello Cirielli.

"Perché viva sempre il ricordo di Cavallotti Martino (29/11/1929 - 16/12/1944) che giovanissimo è salito nella schiera dei martiri della libertà" Così è scritto nella lapide intestata a Martino Cavallotti in via Bonghi 12 (foto 4), dove abitava durante la resistenza, anche se non esistono fonti dirette e certe per quanto riguarda la sua vicenda. Tutte le nostre informazioni si basano sui ricordi di Virginio Gallazzi. Da questi abbiamo appreso che la morte di Cavallotti fu casuale, in quanto rimase ucciso, mentre usciva da un cinema, da alcuni colpi sparati da uomini di una pattuglia fascista durante una retata; colpi destinati ad una altra persona. Cavallotti fu dunque una vittima indiretta; infatti non partecipava alla lotta partigiana, ma si era solamente trovato «nel posto sbagliato al momento sbagliato». Il caso di Cavallotti non fu isolato: infatti capitava frequentemente che venissero coinvolti in sparatorie dei passanti, anche perché molto spesso c' erano dei ragazzini che giravano per le strade con il mitra. Secondo la testimonianza del Gallazzi: «tra quelli che giravano armati di mitra c'erano anche ragazzi di quindici-sedici anni. Portando un mitra, prima o poi un colpo sarebbe potuto sfuggire e a chi capitava, capitava». Questo è confermato anche dal caso di Cirielli (nato il 18 giugno 1927, morto a Milano il primo gennaio 1945) che, come Cavallotti, fu vittima indiretta, in quanto coinvolto in una sparatoria da parte di una delle tante bande fasciste che giravano allora per Milano.


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14. Silvano Martinini.

" 13/5/1923 - 11/9/1944. Silvano Martinini, patriota, fucilato dalle orde nazifasciste a Pratiglione. A perenne ricordo". Questa è la lapide (via Palmieri 6, foto 12) di un altro caduto della zona 15, di cui però non possediamo alcuna notizia. Gallazzi, suo compagno di scuola lo ricorda come «uno dei tanti ragazzi del quartiere». Dal termine della scuola non seppe più nulla di lui, fino a quando gli giunse la notizia che l'avevano ucciso a Pratiglione, l' 11 settembre del '44: aveva ventun anni.

15. Giuseppe Ghioni.

Secondo la testimonianza di Riccardo Fusetti, Giuseppe Ghioni (nato il 12 marzo 1926, morto a Milano il 9 maggio 1945) è partito con Luigi Fiore per Colico e poi è tornato a Milano. Qui, tra le altre cose, ha preso le armi a gioco: ha fatto la roulette russa e si è ucciso per scherzo. Commenta Virginio Gallazzi: «Ghioni è il classico tipo per il quale le armi si possono anche usare per giocare e alle volte possono fare anche molto male. Preso da euforia, davanti al padre e alla fidanzata, si è puntato sulla tempia una rivoltella che non riusciva a far funzionare, nella convinzione che non sarebbe partito neppure un colpo. Invece il colpo è partito ed è morto». A lui non è stata dedicata alcuna lapide nel quartiere della Baia del Re, dove abitava. Non è stato possibile reperire testimonianze particolari sui seguenti caduti: Tito Berni (nato il 4 aprile 1922, morto il 16 febbraio 1943 in Croazia), Giordano Bertini (nato il 18 settembre 1920 a Milano, morto il 10 gennaio 1954 in Germania), Luciano Soffi (nato l' 1 marzo 1918, morto il 13 aprile 1942 a Daharelthell), Antonio Bonalumi (nato il 23 gennaio 1925, morto il 23 aprile 1945, deportato a Muldenstein), O Bucella, F. Chiesa, Giuseppe Confalonieri (nato a Legnano il 10 ottobre 1903, morto a Milano il 26 aprile 1945), G. Croce, Enrico Giannelli (nato il 29 luglio 1920 a Milano, morto il 30 agosto 1942 a Sanremo), Ulderico Gilardi (nato il 14 aprile 1921 a Milano, morto sul fronte russo dal 16 gennaio all' 1 febbraio 1943), Umberto Ginosa (nato il 23 maggio 1920 a Spinazzola, morto il 16 gennaio 1941 in Albania), Valentino Maganza (nato il 10 marzo 1915 a Milano, morto il 22 gennaio 1941), Lidarno Marini (nato il 5 aprile 1907 a S. Stefano Magra, morto il 7 maggio 1945 a Mauthausen), Carletto Merli (nato l' 11 giugno 1921 a Milano, morto il 10 settembre 1944 a Domadossola), Emilio Moretti (nato il 30 agosto 1902, morto il 7 marzo 1945 a Mauthausen), G. Musatti, Luigi Negri (nato il 20 giugno 1910 a Insbruck, morto il 23 gennaio 1943, disperso il Russia), Adriano Passerini (nato il 7 ottobre 1914 a Milano, morto l' 1 febbraio 1945 a Mauthausen), Giovanni Prada (nato il 23 dicembre 1903 a Milano, morto il 7 marzo 1945 in Germania), Luigi Robbiati (nato il 29 novembre 1015 a Settala, morto il 17 maggio 1943), Egisto Salvatici (nato l' 8 marzo 1921 a Venezia, morto il 31 maggio 1944 a El Alamein), Lorenzo Sottocorna (nato a Treviglio il 15 agosto 1922, morto il 21 agosto 1944 a Fenigli) (foto 16) (I dati anagrafici sono tratti dalla documentazione presente negli archivi del Consiglio di zona 15).


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- VII - LE LAPIDI E LE IMMAGINI DEI CADUTI Foto 1 - via Palmieri 20 Foto 2 - via Palmieri 20


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IN QUESTA CASA FIORI' LA GIOVINEZZA DEL PATRIOTA BERNORI DOMENICO DELLA 113° BRIG. GARIBALDI STRONCATA DAL PIOMBO NAZ1FASCITA MILANO,20. 3. 1924 MILANO 25.4.1945 Foto 3 - via Neera 16

PERCHE' VIVA SEMPRE IL RICORDO DI CAVALLOTTI MARTINO 29.11.1929 - 16.12.1944 CHE GIOVANISSIMO E' SALITO NELLA SCHIERA DEI MARTIRRI DELLA LIBERTA' Foto 4 - via Bonghi 12


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FOTO 5 - Via Valleambrosia 1 Foto 6 - via Tibaldi 26


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IL PARTIGIANO FIORE LUIGI CHE ALLA LIBERTÀ ED ALLA PACE DELLA PATRIA SACRIFICAVA LA GIOVINEZZA ABITÒ IN QUESTA CASA COLICO 1944 Foto 7 Via Barrili 12


QUESTA LAPIDE RICORDA IL GARIBALDINO BIRAGHI BRUNO CHE IMMOLO' LA SUA GIOVINEZZA COMBATTENDO CONTRO I NAZI-FASCISTI N. 27.1.1928 GRAVELLONA TOCE 12.9.1944 Foto 8 via Barrili 9


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Foto 9 via Chiesa Rossa 113

MARIO PELUZZI PARTIGIANO DELLA 113 BRIGATA -GARIBAIDI- AMÒ LA LIBERTÀ PIU' DI SE STESSO E PER LEI SACRIFICÒ LA SUA GIOVINEZZA LA SUA MORTE SEGNÒ IL RITORNO ALLA VITA PER TUTTI GLI UOMINI OPPRESSI NATO IL 29-11-1914 FERITO IN COMBATTIMENTO A MILANO IL 26-4-45 DECEDUTO IL 1.5-45 Foto 10 via Spaventa 11


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Foto 11 - via Palmieri 5

13-5-1923 11-9-1944 SILVANO, MARTININI PATRIOTA FUCILATO DALLE ORDE NAZIFASCISTE A PRATIGLIONE A PERENNE RICORDO Foto 12 via Palmieri 6


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Foto 13 via Palmieri 11

ALL'ALBA DELLA LIBERAZIONE DECEDEVA NEL CAMPO DI STERMINO TEDESCO Il PARTIGIANO CARLO CIOCCA CHIUDENDO UNA INTERA ESISTENZA CONSACRATA ALLA GIUSTIZIA ED ALLA LIBERTÀ D'ITAALIA EBENSEE 30 MAPRILE 1945 Foto 14 via Palmieri 18


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RICORDI QUESTA LAPIDE L'EROICA MEMORIA DEI PARTIGIANI FPAZZA LUIGI NEGRONI LUIGI PROVASI MARIO VOLPI PAOLO CHE NEI CAMPI DI STERMINIO DELLA GERMANIA NAZI-FASCISTA SACRIFICAQONO LA LORO ESISTENZA PER LA GIUSTIZIA LA LIBERTA'- L'INDIPENDENZA D'ITALIA MATHAUSEN 1944-45 FOTO 15 via Palmieri 22

Foto 16 via Boifava 17


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Foto 17 Giancarlo Puecher GIANCARLO PUECHER PARTIGIANO CADUTO PER LA LIBERTA' I° MEDAGLIA D'ORO DELLA RESISTENZA LOMBARDA NATO A MILANO IL 22 AROSTO 1923 FUCILATO DAI NAZIFASCISTI AD ERBA Il 21 DICEMIIE 1943 "...L'AMAVO TROPPO LA MIA PATRIA; NON LA TRADITE. E VOI TUTTI, GIOVANI D'ITALIA, SEGUITE LA MIA VIA ED AVRETE IL COMPENSO DELLA VOSTRA LOTTA ARDU..." PROVINCIA 01 MILANO COMITATO UNITARIO ANTIFASCISTA ZONA 15 25 APRILE 1990 Foto 18 via U. Dini 7


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GIANCARLO PUECHER

Foto 19 - via U. Dini 7

Foto 20 - via U. Dini 7


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Foto 21 - Luigi Fiore, Colico (CO) Foto 22 - I fucilati del S. Martino di Valcuvia: gruppo "5 giornate" - 17 novembre 1943


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MINISTERO DELLA DIFESA

Foto 23 - Achille De Vlncenzi

Foto 24 - Chiodi per fermare i camion tedeschi prodotti clandestinamente dagli operai della fabbrica Grazioli



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- VIII - GIANCARLO PUECHER PRIMA MEDAGLIA D' ORO DELLA RESISTENZA IN LOMBARDIA di Elena Riganti e Vincenza Gagliardi

I. Premessa.

Giancarlo Puecher è ormai considerato un vero e proprio "eroe" della Resistenza e un modello non solo per la sua generazione, ma anche per tutte le generazioni successive. I tre aspetti più originali della sua figura sono la giovane età (era infatti poco più che ventenne quando ha affrontato con coraggio la morte), la ricca famiglia di origini nobili, la sua profonda fede cattolica. Ciò che ci interessa capire è cosa abbia spinto questo personaggio facoltoso, credente e così giovane a sacrificare la propria vita per la lotta antifascista, per salvare la propria patria dalla dittatura e dalla occupazione tedesca e per restituire all'Italia la democrazia e la libertà perdute durante il ventennio del regime fascista. Come mai indagare proprio sulla figura di Giancarlo Puecher, prima medaglia d'oro alla Resistenza in Lombardia, e non su qualche altra figura parimenti espressiva della Resistenza? Poichè a Giancarlo Puecher è stato intestato il complesso scolastico della Provincia di Milano che comprende il Liceo Scientifico "S Allende", l'Istituto Tecnico "E. Torricelli" e l'Istituto per Ragionieri "P. Custodi". In vista del cinquantenario della Resistenza anche noi studenti del Liceo ci siamo, quindi, impegnati in un approfondimento del fenomeno della Resistenza, a partire da questa figura esemplare.

II. Biografia.

1. La famiglia. Un punto fermo nell' albero genealogico dei Puecher Passavalli risale al 1558, anno in cui alcuni documenti riferiscono di uno Stefano Puecher figlio di Cristiano residente a Roveda nell' alta Valle del Fersina; nel 1770 un suo discendente, Giovanni, era andato a stabilirsi a Pergine in Valsugana, meritandosi per questa breve trasmigrazione l'appellativo di "Passavalle"; suo figlio Giorgio, avvocato e notaio, continuava a peregrinare di valle in valle e a mettere al mondo figli (1). Da due di questi, Francesco ed Ignazio, si staccarono poi due rami: uno proteso verso la cultura mitteleuropea andò ad attestarsi in Trieste; l'altro ramo si diresse verso la Lombardia, fermandosi a Como, dove nacque il notaio Giorgio, padre di Giancarlo (2). Giorgio Puecher, nato a Como il 14 Maggio 1887, integerrimo e scrupoloso nella sua professione notarile, aveva il suo studio a Milano in Via Gaetano Negri 10. Durante la prima guerra mondiale aveva combattuto come volontario con grande eroismo, subendo intossicazioni ed ustioni per il lancio di gas da parte austriaca (3). Faceva parte di quel ceto medio che per decenni ha costituito il tessuto della vita sociale milanese e lombarda. Politicamente si considerava un liberale, poi


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l'avvento del regime, di cui disprezzava le declamazioni di guerra e morte, l'aveva indotto a dedicarsi esclusivamente al lavoro e alla famiglia. Era infatti un gentiluomo tranquillo, legato alle proprie tradizioni e cercò sempre di assicurare un largo benessere ai suoi cari, tentando di tenerli lontani da ogni preoccupazione. La madre Annamaria Gianelli (Milano 1889) era di temperamento diverso dal marito: donna disinvolta e moderna nei gusti, sapeva trasmettere ai suoi cari la propria giovialità e il proprio credo. Era un donna molto energica, vitale ed attiva. Era lei che si occupava un po' di tutto: dall'educazione dei figli ai lavori di casa e persino dell'automobile su cui portava tutta la famiglia in gita di domenica. Nonostante la sua salute fosse precaria e fosse soggetta ad esaurimenti, cercò sempre di approfondire la sua cultura per poter essere anche una guida intellettuale per i figli. Aveva una salda base morale, originata da profonde convinzioni religiose che la portavano ad opere di assistenza ai bisognosi. In perfetta sintonia con il marito sui problemi religiosi, entrambi nutrivano una profonda fede in Cristo e nella sua istituzione terrena, la Chiesa Cattolica. Alla sera familiari e domestici si riunivano per recitare il rosario, sempre presenti in gruppo pure in Chiesa alla domenica e in tutte le feste comandate (4). I coniugi Puecher avevano altri due figli, oltre Giancarlo, Virginio che aveva 17 anni al momento della morte del fratello maggiore e frequentava ancora la scuola e Gianni nato nel 1930, il più piccolo della famiglia. Ma ancora, una figura insostituibile era la zia Lia Gianelli, soprannominata "Sza", che sempre si adoperò per la famiglia, soprattutto nei momenti più difficili, durante gli arresti di Giorgio e Giancarlo e si prese cura di Virginio, Gianni e della casa di Lambrugo, sul lago di Como. E' dai suoi scritti e ricordi che si è potuta in gran parte ricostruire la personalità di Giancarlo. Infine completavano il quadro la cameriera Vanna, la cuoca Rosa e Alberta Dossi, soprannominata Berta, al fedele servizio dei Puecher dal 1927. Giancarlo era nato quindi sotto auspici favorevoli, appartenendo ad una famiglia ricca di sostanze e nobile per rango, che abitava al secondo piano di un palazzo molto signorile in Via Broletto 39, a poche centinaia di metri dal Duomo.

2. L'infanzia e l' adolescenza. Giancarlo Puecher nacque a Milano il giorno giovedì 23 Agosto 1923 alle ore 11. Il 10 settembre, due settimane dopo la nascita, venne portato al fonte della vita in San Tommaso, dove i genitori si erano sposati il 14 aprile 1920. Al battesimo erano presenti solo i parenti più stretti (6). Giancarlo era un bimbotto robusto con una carnagione bianca e rosa illuminata dagli occhi di color azzurro. La mamma, seguendo la moda degli anni venti, lo vestiva spesso con giubbetti arricciati sulle spalle , dando la preferenza al colore azzurro, come i suoi occhi, mentre lo pettinava facendo ricadere sulla fronte una ciocca di capelli castano chiaro. Tutta la famiglia circondava di affetto e di attenzioni il progredire del ragazzo che delineava precocemente un carattere esuberante, ma soffuso anche di sentimenti delicati (7). Frequentò le scuole elementari di Via Spiga, luogo decretato per accogliere i figli della Milano bene. Per andare a scuola Giancarlo doveva percorrere una lunga strada, che serviva anche a conoscere da vicino la propria città, a indovinarne i problemi passando davanti a negozietti e portinerie, vivendo a contatto con tanti diversi tipi umani. Nei primi anni fu affidato alla mano della Berta, un'altra autentica persona di famiglia, che spesso lo portava a spasso per la città. Appena più grandicello la mamma diventò la programmatrice del tempo libero. Così iniziò a frequentare i


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cinema, i teatri e a fare escursioni in montagna sulla neve. Alpinismo e sci assorbirono ben presto gli interessi del giovanotto che completava le sue passioni sportive con i motori. Aveva molti amici, organizzava diversi momenti di svago, amava terribilmente il calcio. Ricco, intelligente, vivace, ma anche ordinato e preciso era il giovane Giancarlo. La stessa formazione religiosa era agevolata dall'esempio familiare, ma veniva ad innestarsi su una naturale inclinazione: egli soleva prega-re ogni sera in ginocchio nella propria cameretta. Non aveva un confessore fisso, ma frequentava diversi sacerdoti. Terminate le elementari in Via Spiga e le medie al Parini, si era iscritto all'Istituto gestito dai padri gesuiti, il Leone XIII, dove intraprese gli studi classici. Si presentava con il fisico di atleta semplice, simpatico, sicuro di sè, ma non si dava mai alcuna importanza. Appassionato di tutte le attività agonistiche, Giancarlo si esercitava nel ciclismo, nel nuoto, in equitazione, nell'atletica leggera, nella corsa campestre, nel tennis e negli sport della montagna. A quindici anni aveva inoltre sufficienti nozioni di guida e un'incontenibile passione per l'aviazione. A scuola seguiva con attenzione, per puro dovere, le varie materie, ma era chiaramente assorbito dalla fantasia volando verso spazi lontani (8).

3. La giovinezza. Gli anni della giovinezza di Giancarlo sono ben ricordati da alcuni suoi compagni di classe o intimi di famiglia. Urbano Aletti, suo migliore amico, lo descrive come un giovane che studiava con equilibrio, il necessario. Il suo carattere era esuberante, ma tranquillo, ispirava simpatia e fiducia a tutti. Sportivissimo, la sua prestanza fisica era invidiata da tutti i compagni (9). Franco Pavesi ricorda come Giancarlo guidava in casa i fratelli minori come se ne fosse il tutore. E ancora come egli fosse molto riservato e credente (10). Ignazio Lado, che frequentò con Giancarlo elementari, medie, liceo e due anni di università, ricorda che di politica non si discuteva mai, tuttavia le due famiglie avevano affinità in senso democratico e antifascista. A volte avevano partecipato a manifestazioni di piazza senza però la minima convinzione di ciò che facevano, ma solo per fare un po' di chiasso. La cugina Maria Luisa Fontana Fornoni ricorda il suo magnifico temperamento, eternamente allegro, e il suo entusiasmo per ogni cosa (12). Infine Gianluigi de Fernex ricorda la comune passione per lo sci, mentre a riguardo della politica anche lui afferma che non se ne parlava, che era fuori dai loro interessi. Secondo lui " bisognava comprendere il clima dell'epoca e la disaffezione dei giovani verso l'apparato politico, dominato dal regime fascista e quindi l'impreparazione politica. Ci rifugiavamo perciò nello sport" (13). Molto sport e poca - o niente - politica. La propensione alle attività fisiche si conciliava poco, quindi, con l'assiduità nello studio e la riflessione culturale. Leggeva poco, solo per obbligo scolastico. Una volta, però, assecondato dalla madre, aveva composto una poesia confusa e un po' ingenua sulla sua patria, l'Italia, imboccando una strada letteraria, che abbandonò ben presto. Al momento opportuno sapeva, però, intensificare lo studio per arrivare a quei risultati formali a cui teneva pochissimo. Con due compagni Urbano e Ignazio volle poi puntare ad un ambizioso traguardo, il salto della terza liceale, presentandosi come privatista direttamente alla maturità classica. Quell'inverno fu duro sia per gli studenti che per la signora Puecher, che sentiva il tumore avanzare, tentando di coprire le sofferenze. Giancarlo conquistò la maturità classica alla prima sessione, ma la sua felicità fu di breve durata por la precoce morte della madre (14). La signora Annamaria Gianelli Puecher aveva ceduto in pochi giorni al male incurabile da cui era stata aggredita circa un anno prima. Soffrì in silenzio, aggrappandosi alla fede e resistette fino


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alla crisi che in poche ore ne determinò la morte. Era il 31 luglio 1941. Aveva 52 anni appena (15). Per tutti fu un duro colpo, per Giancarlo l'inizio di un periodo nero. Secondo la zia Lia "l'amava più che non se ne fosse reso conto prima" (16). Scrisse all'epoca Giancarlo nel suo quaderno di appunti: "Ricordati della tua santissima e unica mamma. Ricordati di essere buono con il tuo papà e con i tuoi fratelli. Ricordati che dopo tante amare delusioni che hai provato non ti resta che morire combattendo per la tua Patria, forse ciò potrà darti una viva soddisfazione e ti riporterà a godere ancora di colei che tanto amasti in terra, purtroppo non sufficientemente dimostrandolo e così riuniti ripercorrerai il lungo cammino della eternità" (17). Alla depressione più assoluta, per un paio di mesi, seguì una decisa reazione psicologica tesa a sfruttare fino in fondo le occasioni della vita. Si rafforzò anche in lui il senso di responsabilità verso se stesso e verso gli altri familiari, in particolare verso i due fratelli minori. Inoltre si manifestò in lui un desiderio ben definito di riempire il vuoto affettivo aperto con la scomparsa della madre e aveva allora scelto una ragazza, che voleva compagna della sua vita, dallo sguardo celestiale, che aveva per lui una venerazione fresca e gentile. Erano molto giovani e i genitori non volevano sentir parlare di matrimonio, ma gli amici li vedevano sempre uniti e comprendevano il forte legame che ugualmente li univa. La ragazza si chiamava Elisa Daccò, studentessa di carattere dolcissimo (18). Il loro fu un amore breve e drammatico, vissuto meno di due anni e coltivato per l'eternità. La perdita della madre lo aveva influenzato moltissimo: era diventato un educatore nei confronti dei fratelli, sentiva maggiori responsabilità non solo verso la famiglia ma anche verso la società: avvertiva la rapida trasformazione ideologica in ogni ambiente, il dissolversi di ogni sicurezza e il significato diverso da dare a parole come "nazione" e "patria" (19). Per quanto riguarda la scelta universitaria, egli stesso disse: "Sì, mi iscrivo a legge per fare piacere a mio padre e continuare la tradizione di famiglia che mi vuole notaio ma questa professione mi attrae proprio poco [...]. Non mi rassegno a stare rinchiuso tra gli archivi. Ho bisogno di vita, d'amore, d'audacia" (20). II sabato e la domenica frequentava le adunate della milizia universitaria e trascorreva l'estate al campo estivo di Caglio in Valsassina riservato agli aspiranti allievi ufficiali. Il giovane Puecher, intanto, portava avanti i suoi sogni di "defensor patriae" e faceva domanda di volontario quale pilota, che rispondeva alla sua passione per il volo (21). Non riuscendo ad entrare nell'arma azzurra maturò, in modo autonomo e spontaneo, una scelta ideale condivisa da molti: percorrere la strada della clandestinità e della lotta sulle montagne, in bande armate "per il raggiungimento di uno stato di libertà e di giustizia" (22). Ebbe allora le prime discussioni con il padre, che, pur non essendo contrario alle idee del figlio, ne sentiva la responsabilità, conoscendo il suo impeto e il suo impulso generoso.

4. La Resistenza. Giancarlo non aveva avuto dubbi, "sentiva" che la parte giusta si trovava sulle barricate democratiche, comprendeva che il mondo nel quale era cresciuto non aveva per nulla contribuito ad edificare la libertà. E così aveva scelto di getto: la lotta partigiana in proprio, con pochi amici coraggiosi, senza progetti politici e con limitate cognizioni tattiche. Molta volontà, qualche arma, nessuna violenza. Riunì nella sua villa a Lambrugo una ventina di giovanotti (23). Ma avrebbero combinato ben poco se il caso non li avesse fatti incontrare con un bresciano tenente degli alpini, Franco Fucci, dotato di tempra antifascista. Il giorno 13 settembre 1943 diedero vita, assieme, ad una banda armata, il gruppo autonomo partigiano di Ponte Lambro. Comandato dall'Ufficiale Fucci,


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Puecher diventava il suo vice, mentre un prete brianzolo, don Giovanni Strada, assumeva il ruolo di consigliere (24). Erano in pochi, pieni di volontà, giovanissimi dai diciotto ai ventitré anni. Giancarlo faceva da punto di riferimento per l'intera banda, che cominciò ad operare con poche armi e tanto entusiasmo nella zona tra Lambrugo e la montagna che sovrasta Erba (25). Presto sorse il problema dei viveri e dei mezzi di spostamento, quindi cominciarono a requisire materiali dell'esercito che i contadini avevano raccolto. Di qui, forse, l'accusa infondata di banditismo attribuita al Puecher al momento del suo arresto e commentata dalla stampa fascista dopo l'esecuzione capitale. Gli obbiettivi del gruppo erano pochi ma funzionali: offrire assistenza agli sbandati e agli eventuali prigionieri alleati in fuga, arrecare disturbo ai tedeschi, colpire il nemico senza spargimento di sangue, ma con azioni di risonanza, effettuare qualche azione di sabotaggio e di esproprio (26). Giancarlo lavorava abbastanza allo scoperto. Era un autentico animatore; correva da un paese all'altro in bicicletta per organizzare riunioni e distribuire compiti, aiutava finanziariamente le persone bisognose, indicava agli ex prigionieri alleati la strada verso la Svizzera (27). Testimonia la zia Lia: «correva in bicicletta ogni giorno, fino a tarda sera, sempre in movimento, sempre pieno di ardore [...] cominciarono poi le missioni e fu lavoro strenuo che lo dimagrì e tese i suoi lineamenti nello sforzo e nell'audacia, consapevole del rischio, ma inflessibile [...] talvolta, ed era più sovente, erano fortunate le spedizioni, e Giancarlo ritornava stanco ma con un sorriso di soddisfazione che gli illuminava il volto» (28). Si lottava anche contro la borghesia nera, spesso in funzione degli stessi fascisti.A questo scopo una sera il suo gruppo puntava sull'albergo «Crotto Rosa» di Erba dove, si sapeva, i proprietari occultavano diversi quantitativi di benzina ad uso e beneficio dei fascisti locali, con i quali erano in stretta combutta. A prelievo compiuto una donna si sentiva male e nel soccorrerla il Puecher, con estrema ingenuità, si faceva riconoscere. Il meccanismo della denuncia e delle ricerche si mise subito in moto e Giancarlo riuscì a sfuggire all'arresto grazie all'avvertimento di un amico di famiglia, il dottor Umberto Cenerelli (29). Giancarlo aveva l'animo sereno, non aveva mai usato le armi, né per ferire né per uccidere. Odiava la violenza. La sua rivolta era di carattere ideale, nel suo cuore non si insinuavano sentimenti malvagi. Egli non si collegava ad alcun partito politico, bensì ad un'idea, ad una speranza, ad una volontà, ad una questione di coscienza. E anche ad un problema di libertà, perché il vero credente si pone nelle condizioni di vivere senza costrizioni terrene, avendo soltanto finalità spirituali e non legandosi a particolari strutture politiche (30). In questa atmosfera si arrivò al 12 novembre, un venerdì. Nel pomeriggio ad Erba due sconosciuti avevano tentato di sequestrare un cassiere di banca, Ugo Pontiggia, ma alle sue grida era accorso un amico, Angelo Pozzoli. Gli assalitori, disorientati, avevano allora sparato a ripetizione uccidendo i due uomini. Si parlò subito di agguato politico da parte di partigiani, poiché si pensava che Angelo Pozzoli fosse stato scambiato per il fratellastro Lorenzo, questore fascista di Como. Nello stesso pomeriggio. Fucci e Puecher si trovavano nella vicina Canzo a colloquio con un ex consigliere nazionale del PNF, Alessandro Gorini, che aveva trasformato in senso democratico le simpatie politiche ed era disposto ad un finanzemento dell'attività clandestina. Il Puecher e il Fucci sembravano soddisfatti; ignoravano però il fatto gravissimo verificatosi ad Erba nel pomeriggio e che aveva determinato l'improvvisa istituzione del coprifuoco e dei posti di blocco. Con il sopraggiungere dell'oscurità si mettevano in bicicletta per tornare a casa,


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una ventina di chilometri. Attraversando Erba intendevano anche ficcare un tubo di gelatina sotto l'abitazione del podestà Lorenzo Pozzoli, solo per spaventarlo. Dopo lo scoppio la gente, accorrendo sul posto, avrebbe potuto leggere alcuni manifestini contro Salò (31). Nei pressi della cittadina brianzola una pattuglia fascista li bloccava: «Documenti! C'è il coprifuoco ... Non li avete? Allora si va in caserma». Scortati, i due capivano che l'identificazione significava anche l'arresto, non solo perché noti come ex-militari entrati nella clandestinità, ma soprattutto poichè erano in possesso di pistole, del tubo di gelatina e dei manifestini. Nel buio non li avevano perquisiti. Ad un tratto il Fucci riuscì ad infilare la mano sotto il giaccone e a tirar fuori la pistola; premette il grilletto contro il milite più vicino, ma il colpo non esplose. Il soldato sparò a sua volta centrando allo stomaco il Fucci (32). II tentativo di fuga era fallito. Il ferito fu ricoverato in gravissime condizioni all'ospedale di Sant'Anna e questa circostanza servirà ad evitargli il processo e a salvargli la vita (33). Giancarlo venne portato dapprima in municipio nelle mani dei repubblichini, dove venne raggiunto da altre diciasette persone, fra cui il padre Giorgio, caduto nel rastrellamento. Lindomani a scaglioni furono tutti trasferiti a Como, Giancarlo nel carcere di S. Donnino, lurida prigione angusta ed austera. Aveva paura e non provava vergogna ad ammetterlo. Fortunatamente ben presto venne trasferito nella stazione dei carabinieri di Borghi, dove già si trovava custodito il padre e dove migliori erano la sistemazione ambientale e le condizioni alimentari ed igieniche. Offrirono anche al giovane, a quanto sembra, una possibilità di fuga che fu rifiutata per non danneggiare la posizione del padre. Intanto Giancarlo continuava a subire interrogatori, ma non tradiva. I repubblichini picchiavano, ma il giovane resisteva, non mentiva, rispettava la propria coscienza e non nuoceva agli amici. La situazione di per sè precaria, precipitò in seguito ad altri attentati. A Milano il 18 dicembre 1943 tre gappisti tendevano un agguato mortale al federale Aldo Resega. Qualche giorno dopo, in risposta alla affissione di un manifesto che sanzionava dure rappresaglie in caso di ulteriori azioni terroristiche, veniva ucciso il noto squadrista locale Germano Frigerio (34). Il questore Pozzoli ne informò subito il prefetto Scassellati, che ordinò di costituire un tribunale militare straordinario di guerra per giudicare gli omicidi di Pozzoli, Pontiggia e Frigerio. Gli imputati erano Puecher, Gottardi Ermanno, Gottardi Silvio, Testori Giulio, Grossi Luigi, Testori Vittorio e Cereda Giuseppe. Nei confronti dei Puecher il funzionario fascista mostrava una chiara avversione, una antipatia personale più volte espressa a chi si interessava al loro caso. In questura Pozzoli, secondo ordini di Scassellati, disse che almeno cinque de-gli imputati dovevano essere condannati a morte. Lavvocato Gianfranco Beltramini venne nominato difensore d'ufficio. Si rivelarono intanto i capi di imputazione, ma secondo l'avvocato, erano solo fatti generici, non accuse specifiche, non erano stati menzionati titoli di reato e non competeva giudicare ad una corte militare. Pozzoli ordinò che gli imputati fossero prelevati dalle caserme per essere tra-sportati ad Erba. Alle ventuno ebbe inizio il processo, non c'era pubblico e gli imputati vennero fatti entrare uno per volta. Primo fu Puecher che negò i capi di imputazione e ammise solo di conoscere l'attività di Fucci. Le accuse rivolte agli altri imputati erano ancor più generiche. Lavvocato Beltramini ricorda che Giancarlo era calmissimo, ma era consapevole del rischio che stava correndo. Il numero dei condannati a morte intanto si


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riduceva a quattro. Anche il giudice De Vita, che pure apporrà la firma alla sentenza, insisteva col dire che non c'erano elementi per una responsabilità così grave. Il tribunale condannò alla fucilazione solo tre degli imputati, Giancarlo Puecher, Luigi Giudici, e Giulio Testori; i rimanenti furono condannati a pene varie. Allora l'avvocato Beltramini fece l'ultimo tentativo e si recò dal prefetto Scassellati affinché non venisse compiuta alcuna esecuzione capitale ma non sortì il risultato sperato (35). Niente pena capitale per gli imputati, salvo per uno, incriminato per "aver promosso, organizzato e comandato una banda armata di sbandati dell'ex esercito, allo scopo di sovvertire le istituzioni dello Stato" (36): Giancarlo Puecher meritava la morte.

5. La morte. La condanna a morte di Giancarlo era irrevocabile. Al condannato concedono il tempo per una lettera alla famiglia e per una confessione cristiana. Erano quasi le due del 21 dicembre 1943. Padre Fiorentino Bastaroli si avvicinava al morituro e ne riceveva le estreme volontà (37). II giovane aveva appena finito di scrivere una lettera al padre, racchiudendovi una somma di pensieri che l'avevano scosso nelle fasi drammatiche del processo e nei momenti di solitudine di quella interminabile nottata. Tre foglietti, calligrafia lineare, caratteri precisi e larghi, con frasi che si collegavano a distanza tra spunti strettamente privati e atte-stati di respiro pubblico (38).

"21 dicembre 1943 Muoio per la mia Patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato. Spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto, accetto con rassegnazione il suo volere. Tutti i miei averi vadano ai miei fratelli e a Elisa Daccò. Vorrei che sul mio avviso mortuario figurassero i miei meriti sportivi e militari. Non piangetemi ma ricordatemi a coloro che mi vollero bene e mi stimarono. Viva l'Italia. Raggiungo con cristiana rassegnazione la mia mamma che santamente mi educò e mi protesse nei vent'anni della mia vita. L'amavo troppo la mia Patria, non la tradite, e voi tutti giovani d'Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale. Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non Pensano che l'uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia. Vorrei si lasciasse L. 5000 alla mia guida alpina Motele Vidi di Madonna di Compiglio e L. 5000 al mio allenatore di sci Giuseppe Francopoli di Cortina. L. 5000 a Luigi Conti e L. 1000 a Vanna de Gasperi, Berta Dossi, Rosa Barlassina. Il mio guardaroba ai miei fratelli e a Pussy Aletti mio indimenticabile compagno di studi. L. 1000 alla chiesa di Lambrugo. Il mio anello d'oro, ricordo della povera mamma a Papà, il braccialetto a Ginio e l'orologio Universal a Gianni. Alla zia Lia Gianelli una mia spilla d'oro con pietra. Un ricordo delle mie gioie alla mia cugina e a Elisa. Stabilite una somma per messe in mio suffragio e per una definitiva sistemazione pacifica alla Patria nostra. A te Papà vada l'imperituro grazie per ciò che sempre mi permettesti di fare e mi concedesti. Elisa si ricordi del bene che le volli che forse non sufficientemente apprezzò. Ginio e Gianni siano degni continuatori delle gesta eroiche della nostra famiglia e non si sgomentino di fronte alla mia perdita. I martiri convalidano la fede in una vera idea. Ho sempre creduto in Dio e perciò accetto la sua volontà. Baci a tutti. Giancarlo Puecher Passavalli' (39)


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Non mostrava alcuna paura per quella morte tanto temuta da coloro che si aggrappano solamente ai beni terreni. Superate le minuzie terrene, Giancarlo si avvicinava alla morte in piena consapevolezza e con assoluta fierezza. Testimonia il Bostaroli: «Volle fare la sacramentale confessione di tutta la sua vita, poi si comunicò col fervore di un angelo» (40). Arrivando sul luogo scelto per l'esecuzione (lo spazio del nuovo cimitero, vicino alla provinciale Lecco-Como) Giancarlo chiedeva ai brigatisti del plotone il loro nome: «Così potrò pregare anche per Voi». E li abbracciava, perdonandoli. Prendeva in mano il rosario offertogli dal cappellano e chiedeva di non essere legato. Al suo grido «Viva l'Italia» faceva eco la scarica. Molti colpi conficcati sul muro di cinta avevano formato una rosa di buchi nei quali, successivamente, decine e decine di persone infilavano fiori a testimonianza che il sangue di un innocente genera forza e coraggio tra chi resta a combattere (41). Sul capo di Giancarlo tre proiettili erano bastati ad ucciderlo; un'altra ferita alla spalla, un'altra ancora lo aveva trapassato all'altezza del petto. Gli uomini aveva-no sparato mirando in punti vitali per evitargli ogni ulteriore sofferenza. La morte era stata immediata. Il ritorno in caserma fu mestissimmo e terribilmente doloroso fu comunicare alla famiglia l'avvenuta esecuzione (42). In una cassa di legno grezzo depositata all'interno del cimitero, il corpo del giovane fucilato attendeva la tumulazione. Ai fascisti questo morto dava fastidio, dal momento che era chiaro che la fucilazione appariva più che un esempio di forza e giustizia, un vero e proprio atto di sopraffazione. In principio le autorità avevano cercato di evitare ogni contatto con il morto, finché dovettero cedere per non gravare con un' ulteriore crudeltà. Allo zio Cesare Fontana, chiamato per il riconoscimento legale, venne consentito di ricomporre le membra contratte, di lavare il giovane volto sporco di sangue e di terriccio, di incrociargli le braccia sul petto. Dopo lo zio solo il fratello Virginio era stato autorizzato a sostare in raccoglimento presso la salma. Egli vegliò per due notti il fratello, avviando con lui un lungo, appassionato e allucinante discorso. Il 28 dicembre, un'intera settimana dopo la fucilazione, giungeva il nulla osta per il trasferimento a Lambrugo del feretro. Lì giungeva il giorno 30 e lì veniva seppellito in tutta fretta in un loculo posto accanto alla bara della madre (43). La morte di Giancarlo diventava leggenda. Al suo nome si ispiravano diversi raggruppamenti partigiani in Brianza e altrove: persino la 52a Brigata Garibaldi, di formazione comunista, intitolava un suo distaccamento al giovane cattolico. Attivissimo si mostrava il battaglione Puecher, poi brigata, nel quadro delle Divisioni patrioti «Alfredo Di Dio» e un'altra Divisione Puecher, con tre brigate operanti tra il Lambro e il Seveso, agiva agli ordini di Umberto Rivolta, dirigente dei partigiani cristiani lombardi. Decine di caduti, tra cui il padre di Giancarlo, Giorgio Puecher, morto nel lager di Mauthausen, onoravano le bandiere di queste formazioni (44).

III. Riconoscimenti.

La storia riconosceva formalmente Giancarlo, con imprevista sollecitudine, all'indomani della Liberazione. L'avvocato Luigi Meda poteva infatti annunciare alla signorina Giannelli, addirittura il 2 maggio 1945, la concessione della medaglia d'oro e l'attestato ufficiale arrivava il 26 ottobre con decreto del luogotenente generale del Regno, Principe Umberto di Savoia. Questo il testo, con la motivazione di tale riconoscimento, che accompagnava la medaglia: «Patriota di elevatissima idealità, scelse con ferma coscienza dal primo istante la via del rischio e del sacrificio. Subito dopo l'armistizio attrasse, organizzò, guidò


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un gruppo di giovani iniziando nella zona di Lambrugo, Ponte Lambro, il movimento clandestino di liberazione e offrendo la sua casa come luogo di convegno. Con l'esempio personale fortificò nei compagni la fede nella azione che essi dovevano più tardi proseguire in suo nome. Presente e primo in ogni impresa, gettò nella lotta tutto se stesso, prodigandoVi le risorse di una mente evoluta e di un forte fisico, ed associando alla audacia un particolare spirito cavalleresco. Braccato dagli sgherri fascisti, insidiata la sicurezza della sua famiglia, non desistette. Incarcerato con numerosi suoi compagni e poi col padre, d'accordo con questi rifiutò l'evasione per non allontanarsi dai compagni di fede e di sventura. Condannato a morte, dopo sommario processo, volle essere animatore fino all'estremo, lasciando scritti di ardente amor patrio e di incitamento alla continuazione dell'opera intrapresa. Trasportato al luogo del supplizio, chiese di conoscere il nome dei suoi esecutori per ricordarli nelle preghiere in quell'aldilà in cui fermamente credeva, e tutti i presenti abbracciò e baciò, ad ognuno lasciando in memoria un oggetto personale, pronunciando parole nobilissime di perdono e rincuorando coloro che esitavano di fronte al delitto da compiere. Cadde a vent'anni da apostolo e da soldato, sublimando nella morte la multiforme e consapevole spiritualità che aveva contraddistinto la sua azione partigiana. Como-Erba, 9 settembre - 22 dicembre 1943» (45). Fu la prima medaglia d'oro della Resistenza in Lombardia. A indicare il luogo esatto della sua sepoltura, accanto alla madre, al padre e alla zia Lia, dal giugno 1949, è stato eretto un cippo funebre costituito da una colonna quadrata con capitello sormontato dal Cristo in Croce e dalle figurette doloranti della Vergine Maria e di Giovanni diffusore della buona Novella (46). Ancora, una lapide posta il 17 febbraio 1963 dal Centro di cultura Puecher sulla facciata della risorta casa di Via Broletto a Milano, dove il giovane nacque e visse, sintetizza icasticamente: "morto solo perché reo di aver amato intensamente la patria e la libertà» (47). A quella occasione risalgono le parole di Amintore Fanfani, allora Presidente del Consiglio: «Grato per l'invito desidero inviare la mia adesione alle manifestazioni indette per onorare Giancarlo Puecher, meadaglia d'oro al V.M. ed eroe della Resistenza, la cui memoria resta per noi esempio e monito» (48). Infine il 17 novembre 1946, presso l'Università degli studi di Milano all'inaugurazione dell'anno accademico 1946-47, il Magnifico Rettore, prof. Felice Perussia, nel corso della sua relazione, ha proclamato dottori honoris causa gli studenti "qui vitam, fato debitam, legibus, libertati, dignitatique Patriae reddiderunt". Tra essi, nella Facoltà di giurisprudenza, Puecher Passavalli Giancarlo fu Giorgio «medaglia d'oro alla memoria» (49).

IV. Valutazioni

L'insegnamento della morte di Giancarlo Puecher è stato definito grandioso. Egli ha perso la vita inseguendo un ideale: la resistenza al nemico per riscattare la Patria. Commoventi e naturali sono le parole uscite dal cuore. Per esempio quelle del padre Giorgio che rivolgendosi ad un carissimo amico disse: «La sua fine è stata da uomo forte e generoso, testimonianza per tutti voi ...» (50). Oppure quelle della Sza: «Vita breve quella del giovanetto caduto, insegnamento grande della sua morte: amare, battersi per amore, morire per confessare l'amore. Per questo il giovanetto Puecher Passavalli non è morto ma vive la vita immortale degli eroi più significativi della patria» (51). Con estrema semplicità e sicurezza, il fratello Gianni parla di


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un autentico «eroe cristiano» (52). Di Giancarlo interessa non solo l'aspetto spirituale, bensì la personalità umana, consapevole dei sacrifici da affrontare. Giancarlo non è diventato un eroe in nome della forza; al contrario ha dovuto sottomettersi ai fascisti proprio per la sua educazione morale e religiosa che gli impediva di compiere alcun atto di violenza: non a caso le sue azioni partigiane erano sempre improntate allo scontro aperto. Agguati, terrorismo, uccisioni erano parole sconosciute al suo vocabolario. Lealtà contro arroganza, era il suo credo guerrigliero. Ancora un giudizio di Parri: «lo mi domando sempre che cosa avrebbe fatto Puecher, questa grande energia, perché era un uomo molto intelligente, molto capace, cosa avrebbe potuto fare lui, e come lui tanti altri. Che bellissima generazione abbiamo perso ai fini di una autentica ricostruzione della Repubblica italiana» (53). Ricorda Vittorio Testori: «Giancarlo! Noi seguimmo l'esempio tuo. La tua consegna d'amore e di pace è stata da noi pienamente rispettata ed innalzata a bandiera. Ciò perché ogni pianta dà il proprio frutto e logicamente il ns. non poteva essere che quello: il perdono ... Ai ricatti, alle vili imboscate, al terrorismo, ai fraticidi, i patrioti del settore Erba hanno opposto libertà, perdono, pace al solo fine di una sana, pacifica, fraterna ricostruzione nazionale ..» (54). Di pari passo monsignor Aristide Pirovano: «Non l'ho conosciuto personalmente. Ma tutti ne parlavano come una persona superiore, nonostante la giovanissima età. Uno spirito generoso, una coscienza limpida. Certo, secondo me, Giancarlo non pensava al domani con una prospettiva di potere. Egli operava per la pace, si batteva apertamente contro il nemico. Senza odio, in vista di nuova vita, mai di morte» (55). Anche il generale Raffaele Cadorna rimarcava: «La sua vita e la sua morte, da cristiano e da patriota, rimarranno nella ns. memoria come imperituro esempio, rimarranno simbolo del movimento di resistenza quale fu da noi inteso: dovere morale di non restare inerti allorché era in gioco l'indipendenza della Patria e la libertà dei cittadini» (56). Con forte coerenza di carattere, egli si batteva per un mondo migliore, subiva gli avvenimenti più che attizzarli; dimostrava sobrietà e distacco nei confronti dell'avversario; diventava un aiuto inatteso per i suoi nemici con la sua passività. Restava tuttavia consapevole degli eventi di cui era protagonista leggendo la storia in termini di esperienza e sofferenza (57).

Giancarlo ha insegnato a tutti a morire bene, cercando in ogni cosa la pace. Nella vita e nelle sue caducità, egli sapeva disimpegnarsi serenamente: l'aveva dimostrato durante gli studi, poi con lo sport e con l'amore, per darne infine il massimo esempio di coerenza con la morte. Una lunga preparazione avviata in tenera età e proseguita nell'adolescenza; addestrato alla fede, a credere nell'immortalità dell'anima e di conseguenza a non temere l'apparire della morte. Giancarlo ha saputo dunque morire e il suo insegnamento appare rilevatissimo, tanto che il suo sacrifico è rimasto nell'albo della storia (58). «Ma è servito a qualcosa il sacrificio di Giancarlo e servirà a qualcosa questa sua rievocazione?»: questo è ciò che si chiede Maria Maddalena Kestenholz, moglie di Gianni Puecher Passavalli. E continua: «Questa ultima generazione sembra tanto svagata, indifferente ai valori etici e politici, tesa verso un consumismo sfrenato. Sarà allora in grado di comprendere ed accettare il messaggio di un ventenne immolatosi per la Patria?» (59). Sta ora a noi giovani dimostrare che non siamo così disattenti e che sappiamo batterci e impegnarci con maturità nelle prove più difficili.


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(1) G. De Antonellis, Il caso Puecher, Rizzoli, Milano 1984, p.43. (2) ibidem, p. 44 (3) ibidem, p. 45 (4) ibidem, p. 46 (5) ibidem (6) ibidem (7) ibidem, p. 47 (8) ibidem, pp. 47-51 (9) ibidem, p. 52 (10) ibidem (11) ibidem (12) ibidem (13) ibidem, p.43 (14) ibidem, pp. 53-56 (15) ibidem, pp. 56-57 (16) ibidem (17) ibidem (18) ibidem, p. 58 (19) ibidem, p. 64 (20) ibidern, pp. 51-52 (21) ibidem, p. 67 (22) ibidem, p. 76 (23) ibidem, p. 86 (24) G. De Antonellis, Giancarlo Puecher, un tipico martire dell'ideale, in AA.VV., La guerra partigiana in

    Italia, Edizione Civitas, Roma 1984, p. 50.

(25) G. De Antonellis, op, cit, p.91 (26) ibidem (27) G. De Antonellis, Puecher prima medaglia d'oro della Lombardia,"Storia Illustrata", dicembre 1983, p.63 (28) G. De Antonellis, op, cit, p.91 (29) G. De Antonellis, op, cit, p.63 (30) G. De Antonellis, op, cit, p.94 (31) AA. VV., op, cit, p.51 (32) G. De Antonellis, op, cit, p.61 (33) AA.VV., op, cit, p.51-52 (34) G. De Antonellis, op, cit, p.64 (35) G. Bianchi, Giancarlo Puecher, A. Mondadori, 1965, pp.101-118. (36) G. De Antonellis, op, cit, p.64 (37) ibidem (38) G. De Antonellis, op, cit, p.121 (39) G. Bianchi, op, cit, pp.122-123 (40) G. De Antonellis, op, cit, p.123 (41) G. De Antonellis, op, cit, p.64 (42) G. De Antonellis, op, cit, p.125 (43) ibidem, pp. 132-133 (44) G. De Antonellis, op, cit, p.64 (45) G. De Antonellis, op, cit, pp.183-184 (46) ibidem, pp. 184-185 (47) ibidem, p.188 (48) G. Bianchi, op, cit, p.221 (49) ibidem, p.213


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(50) G. De Antonellis, op, cit, p.182 (51) ibidem, p.183 (52) ibidem, p.185 (53) ibidem, p.186 (54) ibidem, (55) ibidem, p.187 (56) ibidem, (57) ibidem, p.189 (58) ibidem, pp.194-195 (59) ibidem.


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-IX- UN MUSEO DELLA RESISTENZA NELLA ZONA 15 Progetto di riuso del complesso della "Cascina Chiesa Rossa" di Rossana Cipolloni

Il progetto di ristrutturazione della "Cascina Chiesa Rossa" è parte di una iniziativa che coinvolge varie discipline e che affronta il tema della Resistenza quale fenomeno storico. La zona 15 non è estranea a questa tematica dato che molti nomi appartenenti ad un capitolo di storia milanese così significativo provengono da quest'area che oggi suscita un rinnovato interesse sul piano urbanistico. Partendo dal progetto dell'arch. Franco Grossi il gruppo di lavoro propone di destinare le costruzioni così ristrutturate a nuove funzioni. La possibilità di adibire gli spazi coperti a "Museo dell'uomo" è stata vagliata dalle autorità competenti con la collaborazione dei responsabili del Museo delle scienze naturali e questa soluzione ci è apparsa un ottimo suggerimento. L'azione progettuale, per attinenza al tema affrontato ha inserito nell'ambito del Museo una sezione da destinare al "Museo della Resistenza". La proposta alternativa a quella dell'arch. Franco Grossi è quella di adibire lo spazio antistante il complesso a spazio urbano che possa evocare la funzione della "piazza cittadina". La "piazza" ha avuto in ogni epoca una funzione sociale importante costituendo il punto nodale della maglia urbana; ma oggi sta scomparendo nel caos delle periferie. Il complesso viene concepito come spazio attrezzato polifunzionale: a) l'inserimento di edicole o canti, ossia elementi di arredo urbano ove sostare e di punti di illuminazione favorirebbero la fruibilità; b) un'area riservata agli ambulanti (prediligendo l'attività artigianale) può suscitare l'atmosfera del borgo quale organismo urbanistico rispondente alle esigenze di una esistenza più umana. Il tema del Museo dell'uomo nel quale è inserito un padiglione destinato ad un capitolo di storia recente (quale la Resistenza), il tema della rivalutazione dell'attività umana (come l'artigianato) e il tema dell'"agorà" quale luogo di importanza sociale si concatenano al fine di sottolineare un unico soggetto: l'uomo. Il gruppo di lavoro ha concepito l'argomento affrontato (la Resistenza) come la testimoniaqnza dell' "agire umano" e non come compianto. La rievocazione del borgo, con le sue botteghe artigiane quale luogo di incontro, è occasione di memorie e quindi nel progetto sarà inserita una pietra miliare, un unico blocco di pietra non lavorata nello specchio d'acqua che attraversa il complesso della Cascina Chiesa Rossa. Un blocco di pietra sul quale saranno graffiti i nomi di coloro che hanno lasciato un segno incisivo nella storia, come i caduti della Resistenza.

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VERDE ATTREZZATO AREA RISERVATA AGLI AMBULANTI PARCHEGGI PIAzzA SPECCHIO D'ACQUA EDICOLE O CANTI MONUMENTI ALLA RESISTENZA EDIFICI DA ADIBIRE A MUSEO DELL'UOMO PADIGLIONE DEDICATO A MUSEO DELLA RESISTENZA


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VERDE ATTREZZATO AREA RISERVATA AGLI AMBULANTI PARCHEGGI PIAzzA SPECCHIO D'ACQUA EDICOLE 0 CANTI MONUMENTI ALLA RESISTENZA EDIFICI DA ADIBIRE A MUSEO DELL'UOMO PADIGLIONE DEDICATO A MUSEO DELLA RESISTENZA

I disegni sono degli studenti Michele Cerminara, Alex Guida, Elena Riganti e Chiara Sanvito.


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-X- Appendice 1 I MONUMENTI DELLA RESISTENZA A MILANO Con l' intento di documentare le immagini della memoria di Antonia Peruchetti Romagnoli

La ricerca svolta da studenti di alcune classi del Liceo dischiude uno spazio, quello visivo, che concretamente alimenta la riflessione; amplia e rafforza la comprensione della dinamica che lega la Resistenza alle vicende belliche e all'antifascismo, alla riaffermazione di identità e diritti che hanno scosso la storia di allora e sono aperti al presente, trovando un collegamento attivo con l'espressione manifesta dell'opposizione democratica e civile dal '45 in poi. Un modo per riflettere sulla storia della democrazia. Un recupero della memoria storica che passa attraverso la comunicativa e la carica di denuncia delle immagini, l'espressività dell'arte e dei suoi registri realistici o evocativi: è un percorso dialettico di grande impatto emotivo, è un valore aggiunto a comporre la trama della storia e del patrimonio culturale. Molti artisti, infatti, in quegli anni hanno vissuto la lotta, la macchia o sono stati deportati, altri sono stati incarcerati e mandati al confino. La prima parte del lavoro grafico è illustrativa e consiste in una documentazione fotografica di immagini di repertorio storico, di manifesti di guerra e di monumenti eretti dal '45 in poi, a Milano o nelle immediate vicinanze, alla Resistenza e all' antifascismo o alla pace; monumenti dei quali si distingue la qualità artistica, ma che comunicano tutti lo stesso impegno civile o ideologico. Può essere interessante riportare che "la distribuzione dei monumenti sul territorio nazionale tende a rispecchiare abbastanza fedelmente la `geografia' della Resistenza" (da Monumenti della libertà, di Luciano Galmozzi, La Pietra, 1986). La documentazione si completa con foto o riproduzioni di disegni del pittore Aldo Carpi tratte dal suo libro Diario di Gusen, scritto in quel lager dal Natale del '44 al luglio del '45 (il suo primo internamento era stato a Mauthausen); con disegni e poesie di bambini e adolescenti internati nel campo di concentramento di Terezin (località cecoslovacca della Boemia) dal '42 al '44. La seconda parte del lavoro è operativamente diversa: le immagini sono riproposte in forme analogiche e associative; sono elaborate dal punto di vista compositivo con modalità espressive adeguate ai linguaggi e al contenuto. Bibliografia - Tempo di vivere, tempo di morire. Manifesti della guerra italiana '40-45, Ed. Giarrapico Roma - Monumenti alla libertà, di Luciano Galmozzi - Terezin 1942-44. Poesie e disegni dei bambini di Terezin, Ed.Lerici


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- Diario di Gusen, di Aldo Carpi - La II guerra mondiale. Parlano i protagonisti, di Enzo Biagi (Raccolta del Corriere della Sera) - La Resistenza italiana. Dall' opposizione al fascismo alla lotta popolare, Ed. Mondadori - Rapporto sulla violenza in Lombardia, Ed. Coop. Scrittori (Archivio di Stato) - Catalogo mostra: Sotto le stelle del '44. Storia, arte e cultura dalla guerra alla Liberazione, Ed. Zefiro.


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Aprile '45. I corpi di Mussolini, della Petacci e di altri gerarchi sono esposti a Milano in piazzale Loreto. Aprile '45. Combattimenti per le strade di Milano nelle giornate di insurrezione. La città cade nelle mani di "Volontari per la libertà" che tengono fino all'arrivo degli alleati.


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1947. Quartiere di Gorla, Piazza dei Piccoli Martiri. Il monumento è una cripta-ossario: contiene le spoglie delle vittime del bombardamento compiuto il 20 ottobre '44 dagli Alleati. Muoiono 250 bambini, 2 maestre della scuola elementare di quartiere. Un tragico errore: gli Alleati dovevano colpire lo scalo ferroviario di Greco. I fascisti della Repubblica di Salò sfruttano la tragedia per la loro propaganda. L'opera di Remo Brioschi ha la tipica struttura cimiteriale e il tono è retorico.


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Milano. Monumento di Giannino Castiglioni eretto sul luogo dell'eccidio. 1960. Stele ai caduti per la libertà,piazza Loreto. Il monumento è dedicato ai 15 antifascisti fucilati per rappresaglia il 10 agosto '44 e lasciati a terra per 24 ore esposti per sgomentare la città così attiva nell'impiegno di lotta. Sulla stele è rappresentato San Sebastiano, simbolo di forza e di resistenza; dietro la stele i nomi dei patrioti e l'epigrafe "Alta: illuminata fronte: caddero nel nome della libertà".


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1963. Sesto S. Giovanni, piazza della Resistenza Monumento alla Resistenza di Anna Praxmayer e di Piero Bottoni L'opera è stata inaugurata nel 20° anniversario della Resistenza. La collocazione ambientale e la tematica evocano sentimenti e valori di autentico contenuto ideologico. Alla città di Sesto S. Giovanni nel 1971 è stata conferita la medaglia d' oro al valore militare per l'alto contributo dato alla Liberazione. E' un murale: un'opera popolare che racconta la lotta antifascista dal 1922 alla Liberazione. Si snoda in sequenza la figurazione, date e scritte ricordano gli eventi storici.


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CARLO RAMOUS - Due monumenti ai caduti di Milano 1985. Quartiere Barona, piazza Miani - Milano L'artista ha eseguito quest'opera nel 1969 intitolandola "Finestra sul cielo". E' stata esposta nel 1973 alla Biennale di Venezia. In seguito è stata acquistata dal Comune di Milano per abbellire i giardini della Galleria d'arte moderna di via Palestro: il 21 aprile 1985 è stata portata in Piazza Miani e dedicata ai caduti per la libertà, libertà evocata da movimenti e tensioni della scultura. 1972. Quartiere Isola, via Sassetti - Milano Il monumento è stato inaugurato il 25 aprile '72. La composizione evoca "...la violenza, il ricordo, la libertà nel vento delle bandiere per affermare un clima di fede nella dignità umana..." (Carlo Ramous). Il quartiere dell' Isola, di vera tradizione proletaria, dedica il monumento ai suoi caduti nella lotta per la liberazione.


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-XI - Appendice 2 ELABORAZIONI GRAFICHE SUL TEMA DELLA RESISTENZA (a cura di Antonia Peruchetti Romagnoli)


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"QUI FUMMO TRUCIDATI VITTIME DI UN 5RCRIFICIO ORRENDO


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25 LUGLIO '43 25 APRILE '45 L'antifascismo ha il suo riferimento etico nella RESISTENZA. ALESSANDRA COSTA CLASSE IV* F


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reclamiamo i nostri diritti VOCE OPERAIA


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LIBERTA' LIBERTA'

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"IL 28 OTTOBRE 1042 E'L'ULTIMO ANNIVERSARIO FASCISTA CHE VEDE MUSSOLINI AL POTERE" XX RAPPRESAGLIE PARTIGIANI VALSESIA RASTRELLAMENTI ECCIDI

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1943 - 1045 PARTITO D'AZIONE

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Noi combattiamo perché tutti, anche i padroni, anche i nemici, capiscano, dové la salvezza„,,, CARLOTTA AROSIO 4* E C PAVESE: LA CASA IN COLLINA

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Oggi il mio sangue pulsa ancora, ma i miei compagni mi muoiono accanto. Piuttosto di vederli morire vorrei io stesso trovare la morte. Ma no, mio Dio, noi vogliamo vivere! Non vogliamo vuoti nelle nostre file. Il mondo è nostro e noi lo vogliamo migliore. Vogliamo fare qualcosa. E' vietato morire CASTELLAZZI MORENA 4* F ROGNONE ALESSIA 4* F

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FUORI I TEDESCHI Avanti! Mussolini fucilato MUSSOLINI LOTTA PER LA RESISTENZAta Invano

Invano giace il derelitto invano si lamenta la sua voce. Forse morirà. E' bello oggi il mondo, vero?

Anonimo


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-XI- Appendice 3 LETTERATURA E RESITENZA di Francesca Galbusera, Chiara Peyrani,Elisabetta Randolfi e Chiara Sanvito (a cura di Andrea Marino)

I. La drammatica testimonianza dei condannati a morte

1. Premessa

La Resistenza nasce come opposizione al fascismo e dopo l'armistizio continua come lotta al tentativo di riaffermazione del regime fascista. Il tema della Resistenza viene solitamente affrontato con un approccio puramente manualistico, concedendo ampi spazi agli aspetti storico-politici e ideologici, e meno alle sofferenze che tanti uomini hanno patito. In questa analisi prendiamo in considerazione l'agire concreto delle persone comuni che sono i protagonisti reali della lotta partigiana con le loro paure e i loro patimenti, ma nonostante tutto animati da una determinazione incrollabile nel perseguimento dei loro ideali. Particolarmente preziosa in questo senso è stata la lettura delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea ed italiana. Le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea sono state reperite nei paesi belligeranti, ma anche in alcuni paesi che non furono tali, in cui comunque nacquero movimenti antifascisti. Questi ultimi soprattutto tra il 1939 e il 1945 si affiancano come gruppi di lotta clandestina alla guerra ufficiale e finiscono a volte per condizionarla. Con questo lavoro ci proponiamo di mettere in evidenza la vasta gamma di sentimenti di quanti, impegnati nella lotta partigiana a difendere i valori di libertà, di liberazione dall'oppressione nazifascista, si sono accostati alla morte, alla quale erano stati condannati dai tribunali del regime. Nelle raccolte di lettere dei condannati a morte sono riuniti gli estremi messaggi che patrioti e partigiani italiani e europei hanno scritto, dopo essere stati catturati, con la consapevolezza di essere giunti alla fine della loro vita. Per quanto riguarda le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (1) le lettere dei 112 condannati sono state scelte per documentare nel miglior modo possibile le esperienze di individui appartenenti a classi sociali diverse, catturati e uccisi nei luoghi e nelle situazioni più varie. Ogni lettera è corredata da una breve nota biografica che riassurne gli elementi essenziali dell'attività svolta all'interno del movimento clandestino, le condizioni di cattura e di uccisione dell'autore della lettera stessa. A volte vengono anche indicate le condizione di ritrovamento di queste testimonianze. Tutte le informazioni utili alla composizione delle biografie sono state ricavate da testi o documenti di archivio oppure da notizie ricevute da famigliari e compagni dei caduti. Dalle note biografiche è possibile constatare quanto diverse siano le estrazioni sociali dei condannati: si incontrano operai, contadini, meccanici, artigiani, impiegati,


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impiegati, ma anche ufficiali (tenenti dell'Arma dei Carabinieri come Luigi Bonc), studenti e docenti universitari. Tra i 112 caduti solo quattro sono donne, mentre i giovani sotto i venti anni sono molto numerosi. Come varie sono le professioni così sono anche le città natali: infatti i partigiani accorrevano per fornire il proprio contributo alle zone direttamente coinvolte nella Resistenza anche da centri come Roma, Ragusa, Agrigento, Cagliari, Sassari, Napoli e addirittura dalla Svizzera. La maggior parte dei condannati a morte svolgeva la propria attività clandestina all'interno dei GAP, dei SAP e dei CLN delle proprie regioni. Infatti molti furono catturati mentre partecipavano a riunioni di queste associazioni che generalmente si svolgevano a casa di conoscenti o spesso nelle sagrestie delle chiese; altri, invece, durante combattimenti o nel corso di missioni a loro affidate o addirittura sul posto di lavoro. Queste catture erano possibili grazie alla denuncia di delatori oppure attraverso rastrellamento effettuati da reparti tedeschi o fascisti; talvolta anche questi ultimi vivevano con una tale tensione da rendere vittime delle loro retate anche persone che erano estranee al movimento partigiano. E' il caso di Giuseppe Bianchetti che, dopo aver aiutato un militare tedesco prigioniero e ferito, fu in seguito riconosciuto da questi e tratto in arresto. Una volta catturati, i partigiani o erano fucilati immediatamente oppure venivano condotti in carcere dove molto frequentemente subivano crudeli torture. Antonio Fossati descrive in questo modo gli strumenti utilizzati dai suoi carcerieri per estorcergli i nomi dei suoi compagni ed informazioni sulla loro attività: "Il giorno 31 mi fu fatto la prima tortura ed è questo mi hanno strappato le ciglia e le sopraciglia. Il giorno 1 la mia seconda tortura 'mi hanno strappato le unghie,le unghie delle mani e dei piedi e mi hanno messo al sole che non puoi immaginare, ma portavo pazienza e dalla mia bocca non usciva parola di lamento'. Il giorno 2 la terza tortura 'mi hanno messi ai piedi delle candele accese ed io mi trovai legato su una sedia mi son venuti i capelli grigi ma non ho parlato ed è passato'. Il giorno 4 fui portato in una sala dove c'era un tavolo sul quale mi hanno teso in un laccio al collo per dieci minuti la corrente.."(2). In ogni caso le condizioni in cui erano tenuti prigionieri erano per tutti disumane; Sabato Martelli Castaldi testimonia attraverso i biglietti da lui inviati clandestinamente alla moglie la sua terribile situazione: "La mia camera è di m. 1,30 per 2,60. Siamo in due, non vi è altra luce che quella riflessa da una lampadina elettrica del corridoio antistante, accesa tutto il giorno. Il fisico comincia ad andare veramente giù e questa settimana di denutrizioni ha dato il colpo di grazia. Il trattamento fattomi non è stato davvero da `gentleman'. Definito `delinquente' sono stato minacciato di fucilazione e percosso, come del resto è abitudine di questa casa: botte a volontà "(3). Nonostante tutto ciò, solo un numero ristretto cedeva tradendo i compagni. Il passaggio dalla tortura alla morte avveniva quasi sempre rapidamente senza alcun rispetto per i diritti inalienabili dell'uomo e per la sua dignità. Infatti gli individui venivano condannati con processi sommari o addirittura del tutto inesistenti e perciò di frequente non era loro concesso neanche il tempo di scrivere un ultimo messaggio da inviare alla famiglia. A questo fine, non avendo altra possibilità, usavano chiodi, lame o addirittura il sangue per lasciare traccia dei loro ultimi pensieri su muri e porte delle celle. Fu anche ritrovata una pagnotta su cui era scritto "coraggio mamma"(4). Quando, invece, riuscivano a scrivere una lettera spesso la inviavano ai famigliari affidandola a dei latori clandestini; nel caso fossero consegnate ai carcerieri, senza smentire la loro già nota crudeltà, questi le stracciavano sotto gli occhi dei parenti accorsi al carcere alla notizia della morte dei loro cari. A volte questi ultimi messaggi di vita venivano sottoposti a una dura

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censura, come nel caso di Andrea Luigi Paglieri che, da quanto si riesce a scorgere al disotto del rigo nero, afferma di essere costretto a scrivere con le manette. La maggior parte dei testi, però, fu rinvenuta o tra gli effetti personali, quali le pagine di diario e i portafogli, oppure nascosti nelle fessure dei muri e tra i calcinacci delle pareti delle celle. Anche una volta conosciuta la loro condanna i partigiani continuavano a dimostrare il loro coraggio, tant'è vero che nessuno di loro fu debole, svenne o implorò, nonostante i metodi di esecuzione fossero terribili: i più comuni erano la fucilazione e l'impiccagione eseguite nelle piazze, nei cimiteri e nei cortili delle scuole. Generalmente queste dovevano servire da monito per tutta la popolazione che avrebbe dovuto esserne intimorita, ma che invece a volte era stimolata alla azione. Per quanto riguarda le Lettere dei condannai a morte della Resistenza europea (5) le lettere sono state raccolte grazie alla collaborazione di associazioni, deportati politici, organizzazioni politiche ed assistenziali, direttori di archivi, centri di documentazione di Istituti e biblioteche specializzate, cappellani di carceri, esponenti della Resistenza, familiari di caduti ed editori. Sono stati esclusi testi in versi scritti con intenzioni letterarie. La ricerca è stata compiuta prevalentemente tra il 1951 ed il 1952 ed è stata più volte ripresa negli anni 1961-62. Le lettere sono state suddivise per paesi, in base all'area d'azione dei singoli autori e non in base alla loro nazionalità; inoltre sono state disposte in ordine cronologico secondo la data di morte di chi scrisse; sugli autori sono stati ricercati dati biografici. La traduzione dei testi è avvenuta generalmente in Italia. Esse comprendono qualsiasi messaggio scritto di chi sentiva che sarebbe stato ucciso da mano fascista, e di chi fu vittima della persecuzione fascista e non semplicemente della guerra. Rispetto al grande numero di vittime, solo pochi condannati, quanti erano prigionieri dei fascisti, riuscirono a lasciare un messaggio scritto; spesso, infatti, o erano impediti dalla volontà degli aguzzini o non disponevano dei mezzi necessari, anzi, nella grandissima maggioranza, molti partigiani furono uccisi sul luogo della cattura. In ogni caso, anche se alcuni ebbero a disposizione del tempo prima di essere giustiziati, pochi tra questi riuscirono a lasciare un estremo saluto spesso affidato al cappellano del carcere, unico a godere di una certa immunità, o nascosto, nella speranza che qualcuno lo ritrovasse. Questa esigenza di scrivere prima di essere giustiziati, per calutare se non direttamente almeno un'ultima volta i propri cari, era sentita dalla maggior parte dei condannati, anche se interi gruppi non lo fecero (si pensa che ciò non sia da attribuire ad una scelta autonoma, ma ad un'imposizione dettata dal regime che risultò un'esplicita violenza psicologica). I condannati erano uomini e donne di diversa estrazione sociale: contadini, studenti, operai, artigiani, scrittori, parroci, ingegneri e così via. Alcuni rimasero ignoti ed i loro messaggi non furono che iscrizioni ritrovate sui muri delle celle. Diversi partigiani furono catturati in gruppo durante le azioni, altri singolarmente; chi non veniva ucciso sul posto veniva tradotto in carcere; i più fortunati venivano condannati a morte dopo la sentenza di un tribunale che comunque veniva pilotata dal regime. Solo coloro che decidevano di collaborare potevano sperare di ricevere la grazia, ma molti erano disposti a subire innumerevoli torture in nome dei propri ideali e per non tradire la fiducia dei loro compagni. Tra essi non mancavano addirittura giovanissimi come il russo Jasa Gordienko di sedici o diciassette anni che, nonostante la giovane età, sentiva intensamente la causa patriottica e dimostrava già di avere un forte carattere. Egli, infatti, scrive: "[...] Durante gli interrogatori sono rimasto sereno. Negavo tutto. Mi hanno portato per essere picchiato. Tre


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volte mi ci hanno portato e mi hanno picchiato per 4-5 ore. Alle tre e mezzo hanno smesso di picchiarmi. Nel frattempo ho perso la memoria tre volte e una volta ho fatto finta di aver perso conoscenza. Mi hanno picchiato con una gomma avvolta con un sottile filo di ferro ritorto; con un bastone uncinato lungo un metro e mezzo; sui tendini delle mani con una verga di ferro... Dopo queste percosse mi sono rimaste cicatrici sulle gambe e più in alto. Dopo queste percosse ho cominciato a perdere l'udito. Quelli che si trovavano normalmente nel mio gruppo circolano in libertà, nessuna tortura mi ha estorto i loro nomi. [...]" (6). E ancora una dimostrazione di quanto queste torture fossero atroci viene dalla lettera dello jugoslavo Franc Mernik: "Cara moglie, tu non sai come ci torturano. Ci spengono sul petto nudo le sigarette accese, e, di giorno in giorno, quando ci sono gli interrogatori, ci tirano la pelle con tenaglie arroventate, ci mettono le dita sui ferri arroventati o ci estraggono le unghie dalle dita. Sono sofferenze terribili... [...]" (7).

2. I temi

Le lettere dei condannati presentano molti punti comuni proprio dal momento che il loro unico scopo era quello di comunicare alle famiglie un ultimo saluto e le estreme volontà. Nonostante i mittenti provenissero dalle classi sociali più disparate e anche le loro età fossero le più diverse avevano tutti la medesima preoccupazione. Le lettere erano indirizzate ai parenti più stretti e in particolar modo alla madre, alla moglie o alla fidanzata e ai figli a cui si rivolgevano con toni affettuosi e rassicuranti; ma non mancano quelle per gli amici e per i cornpagni che avevano un carattere più propriamente politico. Da tutti i messaggi emerge la consapevolezza della prossima morte. Sono ricorrenti alcuni temi: la tenacia con la quale, anche dopo la condanna, questi uomini credevano ancora nei propri ideali, i rimproveri contro se stessi per il dolore causato ai propri cari, la fierezza del proprio coraggio e della propria forza di carattere, i pensieri sulla morte e su ciò che sarà dopo la morte. Le lettere dei condannati italiani ed europei diventano lo spazio per esprimere ai parenti e agli amici tutta la gratitudine per il bene ricevuto e il rammarico per le sofferenze arrecate. Nella solitaria attesa dell'esecuzione i condannati non pensano solo a se stessi e a come hanno condotto la propria vita: allora si preoccupano di essere causa di dolore per coloro che amano e arrivano a chiedere loro perdono. Così, infatti, Valerio Bavassano si rivolge alla madre: "Mammina cara,il destino continua ad essere crudele con te.[...] Ti sia di conforto il pensiero che io sarò forte fino all'ultimo.[...] L'unica grande spina del mio cuore è il sapere che tu e Milli resterete sole al mondo.[...] Perdonami, mammina, se ti cagiono questo grande dolore. "(8). Ma sono anche frequenti le esortazioni accorate "siate forti", "fatevi coraggio" ed altre rivolte ai parenti, come nella lettera scritta da Louis Defour alla moglie: "[...] Che colpo per te! Su, sii coraggiosa, ti abbraccio con tutto il cuore. [...] Sii coraggiosa, cara, e che il gran dolore non ti abbatta. [...] Mia moglie amata, sto per dirti addio. Coraggio cara! [...] In nome del nostro amore, abbi coraggio. [...] Da parte tua, sii coraggiosa! [...]" (9). Emergono, a un veloce sguardo, molteplici comportamenti, sia dei condannati italiani che di altre nazionalità, nei confronti di parenti destinatari delle lettere, tutti comunque rivelatori di un comune stato d'animo: ciò che turbava maggiormente la loro serenità al momento della morte era un'intensa preoccupazione verso coloro che sarebbero rimasti ad affrontare le difficoltà della lotta e che avrebbero dovuto cercare in se stessi la forza e il coraggio di continuare a vivere. Qualcuno


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rassicura i familiari che pur trovandosi prossimo alla morte non stava soffrendo: così scrive Albino Albico, un operaio fonditore fucilato in via Tibaldi 26 a Milano: "[...] mi trovo senz'altro a breve distanza dalla esecuzione. Mi sento però calmo e muoio sereno e con l'animo tranquillo [...]"(10). Queste frasi servivano come consolazione e incoraggiamento. ma altri partigiani sceglievano di non comunicare la loro situazione come Benedetto Bocchiola che poche ore prima della fucilazione, quando già era a conoscenza della sua sorte, decise di scrivere ai parenti: "[...] vi scrivo queste poche righe per farvi sapere che la mia salute è ottima come spero sia anche la vostra, non pensate per me perché io sto bene. Se non riceverete mie notizie non allarmatevi [...]"(11). Oltre alle comunicazioni di carattere affettivo e patriottico, non mancano brevi stralci conclusivi che svolgono la funzione di testamento. Tutti i condannati, dai più ai meno abbienti, si preoccupavano che i loro averi venissero legalmente ripartiti tra gli eredi. Alfredo Formenti decise di affidare la sua fortuna interamente alla moglie: "Lascio alla mia cara moglie n. 1 anello d'oro con diamanti n. 1 anello bianco con pietra bianca n. 1 catena d'oro con ciondolo (5 dollari) n. 1 orologio d'argento con mie iniziali. La somma di L. 10.370 (L. 5.000 già ritirate)."(12). Quinto Bevilacqua, al contrario. manifestava a questo modo la sua profonda volontà che i suoi possedimenti rimanessero assegnati alla moglie anche se questo avrebbe potuto contrastare la legge: "P.S. Questo serve come testamento. La roba mia che si trova ora in casa di Marcella per nessun motivo le venga mai presa neanche per mezzo della legge. Non scrivo questo per diffidare ma siccome qui in Piemonte le usanze sono che in mancanza di un coniuge i familiari se vogliono possono prenderle tutto."(13). In molte lettere gli estensori si raccomandano che persone fidate si prendessero cura dei loro cari e sovente esortano ad essere orgogliosi delle loro azioni, compiute per una giusta causa. Tutti i condannati erano fermamente convinti di trovarsi dalla parte del giusto morendo innocenti per un'alta causa e certi che la loro vita non fosse sacrificata inutilmente. Infatti il loro comportamento di fronte alla condanna, ingiusta e inferta solo a causa della loro ideologia, li avrebbe portati alla gloria e morendo felici per la patria avrebbero incitato altri a seguire le loro tracce. In una lettera di un ignoto (Renzo) è anche testimoniata una richiesta di vendetta che non è difficile ritrovare ali'interno di altri messaggi: "Muoio da eroe e non da vile, muoio per la mia cara Italia che ho sempre adorato, muoio e nel più estremo dei miei momenti di vita terrena grido vendetta per il mio sangue sparso così innocentemente."(14). Non mancano anche gli ultimi gridi disperati e speranzosi come "W l'Italia martoriata che presto rifiorirà libera e indipendente."(15), rivolti alla patria oppure al partito di appartenenza: "Parenti cari consolatevi, muoio per una grande idea di giustizia... Il Comunismo!!"(16). Si possono prendere ad esempio alcune lettere di condannati in cui emerge quella costanza tipica di chi ha creduto fermamente in ciò che faceva, e nell'attesa dell'esecuzione si aggrappa ai propri ideali per sopportare le ultime e più atroci sofferenze. Scrive ad esempio il bulgaro Dobrev: "[...] Fra lo strepito delle esplosioni e le lacrime di milioni di uomini nasce una nuova vita, più bella e più buona. Ogni giorno, ogni momento io l'ho desiderata e ho dato per essa la maggiore offerta


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offerta che un uomo può dare: la sua vita. Ti ho detto che desidero che tu sia orgoglioso di avere un fratello così. Non c'è posto per le lacrime. Sono orgoglioso di morire come uno che ha combattuto per il suo popolo. Nella mia vita non ho avuto paura della morte; e morirò adesso orgoglioso e senza timore. [...] Questa è l'ultima mia lettera che leggerai. Ti ho detto che muoio fiero, con la piena coscienza di aver agito non per mio vantaggio, ma per il bene comune; mi sono avviato per la via diritta, per la via larga, luminosa, per la quale sono passati con passo risoluto milioni di combattenti. [...] lo desidero, fratello caro,che tu accolga con fierezza la mia morte. So che ti sarà difficile, ma la vita e i giorni uccideranno il dolore. Rimarrà solo il ricordo della mia bella fine. [...]" (17); e ancora scrive Avgust Dimcev:" Cari genitori e fratelli, vi scrivo l'ultima mia lettera prima di morire. Ieri sera abbiamo detto l'ultima parola. Io affronterò la morte tranquillo e fiero, con la coscienza di un dovere compiuto con onore sino alla fine, nel nome di una causa cui ho dato tutta la mia vita cosciente. Questa causa io la vedo realizzata nella grande patria del socialismo. Là io ho trascorso gli anni più felici della mia vita. Là ho potuto convincermi che questa è davvero una causa grande, gloriosa, e un avvenire felice per tutta l'umanità. Per essa un uomo può morire tranquillo; noi piccoli e sconosciuti combattenti, avvicinandoci ad essa, diventiamo nobili e grandi. [...]" (18). La morte in genere non spaventa, ma alcuni non riescono a capacitarsi della crudeltà della condanna, e ciò che fa più soffrire è la consapevolezza di non rivedere i propri cari. Ivan Vladkov nella solitudine della sua cella scrive: "L'unico desiderio che ho è di vivere. Qualcosa ti soffoca, ti porta via, ti toglie lentamente la coscienza; lo spazio della cella diventa stretto, la cella sembra senz'aria. Eppure, avere tanto desiderio di vivere! E il bambino! Caro il mio figliolo, che fin da adesso sente la mancanza del suo papà. [...] Ma questi che ci hanno condannato a morte non hanno forse bambini? Non capiscono gli errori, non hanno compassione? Certo per se stessi trovano sempre una giustificazione, ma quando, se non altro per i nostri figli, dovrebbero mitigare la condanna, essi dicono che la legge non lo permette. Che sciocchezze! Ma forse non sentono un amore altrettanto forte per i propri figli? Perché, se non lo sentissero, agirebbero in altra maniera." (19). Di fronte alla morte è quasi inevitabile riflettere sul suo significato, su ciò che sarà dopo di essa; il tema della fede emerge, allora, da numerose lettere, naturalmente in modo diverso a seconda che lo affronti un cattolico o un laico. Per rincuorare maggiormente i propri cari, molti partigiani esprimono la convinzione che la condanna e la loro morte fossero opera della volontà divina e desiderano rimarcare l'importanza del loro sicuro futuro in cielo assieme ai giusti. Leandro Corona è in grado di fissare con estrema chiarezza questi concetti: "...vi voglio scrivere per confortarvi e assicurarvi che ho accettato ogni cosa dalle mani del Signore. [...]Per me non piangete che sono sicuro che il buon Dio accetterà il mio sacrificio ed ora mi trovo contento di unirmi a Lui. [...] per me non vi angustiate non piangete mi fareste dispiacere perché sono rassegnato alla volontà del Signore."(20). La maggior parte dei condannati richiedeva la presenza di un prete per potersi confessare e comunicare; ritenevano infatti che fosse importante morire spiritualmente puri rimanendo fedeli a quei principi cristiani che li avevano accompagnati nel corso della loro esistenza. Informando la famiglia di questi ultimi gesti ancora una volta li rassicuravano riguardo al destino futuro del proprio congiunto. Mario Lossani esprime questo con una frase sintetica: "E'la fine, c'è il Prete che mi


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confessa e faccio la Comunione. Addio." (21). Molte testimonianze fanno discendere l'impegno nella lotta contro la violenza fascista dalla fede cattolica, altre testimonianze rivelano un rafforzamento della fede nel momento di maggiore sofferenza. Scrive il parroco Joseph Peeters: "Il patriottismo è una virtù cristiana. Ho fatto il mio dovere di patriota come sacerdote, per amore di Dio. [...] Miei cari parrocchiani, vi lascio per questa vita terrena." (22); e il sacerdote Josef Jilek ricorda: "[...] lo sono già a posto con tutto e non temo, poiché sono vicino a Dio. Perciò anche voi siate coraggiosi e tutte le vostre attenzioni dedicatele a Dio il quale si cura paternamente di tutti noi e tutte le strade per le quali Egli ci conduce sono strade dell'amore e della grazia infinita." (23). Ancora più profondi sono i pensieri della gente comune, che esprime la propria religiosità cattolica attraverso i propri sentimenti; alcuni, come Emil Balslev, arrivano a rafforzare la propria fede nei disperati momenti di prigionia; infatti egli dichiara: "[...] Durante la permanenza in prigione sono giunto a credere ciecamente in Dio e nella Sua Sapienza e Misericordia. Oggi ci è forse difficile trovare una risposta alla domanda: 'perché?', ma ti prego di ricordarti: `Tutte le cose collaborano a beneficio di chi ama Iddio' [...] Amata mia, abbi fiducia in Dio e nella Sua Giustizia. [...] Credo che ci incontreremo presso il Signore per non separarci mai più. Ho avuto la gioia di passare gli ultimi 8 giorni con un essere credente che mi ha assai aiutato in questi giorni difficili. Tu devi vivere ricevendo gli eventi futuri dalla mano di Dio. Affidati ' Dio e insegna ai nostri bimbi a cercarLo e a vivere con Lui." (24). Tra i non credenti, invece, è diffusa l'idea di una certa spiritualità dopo la morte, e molti si consolano pensando di essere vicini al ricongiungimento più alto con i loro amati che saranno per sempre accanto a loro, in ogni luogo ed in ogni istante, come se si trasformassero nell'aria che li circonda, come se potessero essere riconosciuti in ogni oggetto che i loro cari guarderanno.

3. Valore storico e letterario

Nell'ambito di un lavoro riguardante la Resistenza europea ed in particolare italiana, le lettere dei condannati a morte svolgono l'importante ruolo di documento prodotto direttamente dai reali protagonisti coinvolti nell'azione antifascista. Ci si trova, perciò, di fronte a fonti storiografiche che fotografano da un'angolazione particolare il complesso movimento di opposizione. Infatti trattandosi di messaggi personali e pertanto soggettivi ogni autore si trova a descrivere la realtà in cui è immerso attraverso le proprie emozioni e gli ultimi pensieri, che benché riflettano tematiche comuni conservano la loro unicità derivante dall'esperienza di ciascun individuo. La modalità di stesura delle lettere rispecchia l'eterogeneità degli autori. E'possibile infatti notare che coloro che possedevano un'ampia cultura (come studenti, universitari, docenti e ufficiali militari) spesso incontravano notevoli difficoltà nel comunicare i propri stati d'animo con parole adeguate. Eusebio Giambone si rivolge alla moglie in questo modo: "[...] le cose che vorrei dirti sono tante che non so dove cominciare, nella mia testa vi è una ridda di pensieri che potrei esprimerti bene solo a voce, pur essendo calmo, cercherò di coordinare per esprimerti esattamente tutto ciò che penso e il mio vero stato d'animo in questo momento."(25). Queste persone, in genere, scrivono lettere lunghe e con un lessico complesso: ne offre un esempio la lettera di Franco Balbis: "La Divina Provvidenza non ha concesso che io offrissi all'Italia sui campi d'Africa quella vita che ho dedicato alla


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Patria il giorno in cui vestii per la prima volta il grigioverde. Iddio mi permette oggi di dare l'olocausto supremo di tutto me stesso all'Italia ed io ne sono lieto, orgoglioso e felice!"(26). Talvolta i partigiani decidevano di lasciare messaggi poetici sui muri delle celle; il componimento di Sabato Martelli Castaldi è particolarmente significativo: "Quando il tuo corpo non sarà più, il tuo spirito sarà ancora più vivo nel ricordo di chi resta - Fa che possa essere sempre di esempio."(27). La maggior parte dei condannati, però, possedeva un istruzione elementare; da ciò consegue che le lettere fossero brevi ed essenziali e talvolta non corrette dal punto di vista grammaticale: questo risulta particolarmente evidente nella breve lettera di Domenico Caporossi: "Cara Mamma; vado a morire, ma da partigiano, col sorriso sulle labre ed una fede nel cuore. Non star malinconica io muoio contento. Saluti amici e parenti, ed un forte abraccio e bacioni alla piccolo Imperio e Ileno e il Caro Papa, e nonna e nonno e di ricordarsene e sempre. Ciau Vostro figlio Domenico."(28). Ci sono casi isolati di biglietti scritti in lingue straniere, come nel caso di Alessandro Loggia che stende il suo messaggio per i genitori in francese. Ancora più particolare è lo stratagemma utilizzato da Simon Simonia che invia notizie di sè alla famiglia attraverso un testo cifrato: "Simon Simonia - cella - dodici - Giuseppe - Ferrai - due. - Sono - malmenato - soffro - con - orgoglio - il - mio - pensiero - alla - patria - e - alla - famiglia." (29).

4. Conclusioni

Thomas Mann, nella sua prefazione, propone una riflessione estremamente puntuale sull'importanza, per questi condannati di credere nel futuro, o meglio in un futuro migliore; essi sperano, anzi molti sono convinti, che il loro sacrificio non finisca nel nulla, ma serva a costruire almeno le premesse per quel futuro che ormai non è più per se stessi, ma per i loro figli e più in generale per l'umanità intera. Scrive, infatti, Rudolf Seiffert: "[...] si affacciano tempi grandiosi. Una nuova èra della storia sta per irrompere sull'Europa. La conseguenza della guerra, che porta a una nuova ripartizione del mondo, è il socialismo. La Germania vuole difendersi da una necessità storica. [...] Da un sistema brutale che si oppone al progresso con tutte le sue forze. Da un sistema che non stimava la vita umana ma solo le leggi del profitto. Quando i nostri figli saranno più grandi e in grado di pensare da soli, capiranno che il mio sacrificio non sarà stato vano. Quando le bandiere del proletariato vittorioso sventoleranno sulla Germania, allora il passo verso il socialismo sarà una realtà, e il passo non è più lontano. I nostri figli potranno poi costruire un mondo quale il loro padre aveva immaginato nella lotta. E anche questa sarà una dura lotta, dalla dittatura del proletariato all'ordinamento socialista della società. E' il più grande compito che mai si sia posto alla umanità. Che cos'è la vita di un uomo di fronte al raggiungimento di un fine così grandioso?" (30). Indipendentemente dalle idee politiche di ognuno Thomas Mann riflette sul tempo


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tempo presente, lo descrive come "un mondo di perfida regressione, in cui un odio superstizioso e avido di persecuzione si accoppia la terror panico; un mondo alla cui insufficienza intellettuale e morale il destino ha affidato armi distruttive di raccapricciante violenza" (31), e si pone la domanda se la lotta della Resistenza europea sia stata vana. Noi pensiamo fermamente che non lo sia stata, anche se corriamo il rischio di dimenticarne la lezione o, cosa molto più grave, di tradirne negli atteggiamenti individuali e/o collettivi, il grande insegnamento. Confidiamo, comunque, che soprattutto in noi, nuove generazioni, la memoria di quella esperienza in nome della libertà, della giustizia, della solidarietà rimanga sempre viva ed attuale e ci orienti verso comportamenti, soprattutto sociali, improntati ai grandi valori di rispetto del-la dignità dell'uomo, di pacifica convivenza nazionale ed internazionale, insomma alla volontà di rendere la nostra realtà sempre migliore. Questo hanno fatto i combattenti della Resistenza, che non è stata una lotta individuale, ma di massa, i cui partecipanti, adulti peraltro, erano consapevoli che avrebbero potuto non godere dei risultati del loro impegno. Per questo non solo è da guardare con ammirazione al loro sacrificio, ma bisogna, al di là di ogni cultura e di ogni fede, sapere conservare gelosamente il loro messaggio di condanna di ogni fenomeno, sociale e politico, che si fonda sulla violenza e sulla prevaricazione, e di avversione di ogni estremismo che direttamente o indirettamente calpesti i diritti dell'uomo, la sua dignità, e che soffochi ogni tentativo di costruzione di un mondo migliore, libero e giusto.

II. La Resistenza nella letteratura: due esempi

1 Introduzione

Per qunto riguarda l'esperienza resistenziale si registra una duplice produzione letteraria, duplice non tanto per la diversa forma, quanto per le diverse finalità. Si può parlare così di letteratura di Resistenza e letteratura della Resistenza, anche se - ormai è un dato acquisito fra gli studiosi e dei più recenti manuali di letteratura - le opere letterarie che hanno adottato la Resistenza o situazioni esistenziali e sociali ad essa riferibili a loro oggetto di rappresentazione non definiscono più un capitolo apposito di storia letteraria, ma si inseriscono nel più articolato sistema dei generi in base a valutazioni di natura formale e strutturale, oltre che tematica. Il primo tipo di produzione, composto durante la lotta armata e costituito da opuscoli politici clandestini, diari, cronache, canti di protesta, lettere di condannati o di deportati, offre testimonianze dirette e spesso drammatiche, che assumono un alto valore storico documentario, ma non sempre una vera dignità letteraria (32). Accanto a questa attività, che si potrebbe definire militante, é presente la vera e propria letteratura della Resistenza, sviluppatasi dopo il 1945 in Italia, e caratterizzata da una produzione più ampia, non collocabile, pertanto, in un periodo ben definito, come per la letteratura di Resistenza, e che tende, come è specifico di ogni fatto letterario, a ricondurre anche la vicenda della Resistenza ali'interno di una più complessa modellizzazione simbolica. Si può comunque legittimamente ritenere che questo tipo di letteratura nasce dalla "immediatezza di comunicazione che si stabilisce fra lo scrittore e il suo pubblico" (33) e dalla "smania di raccontare" (34) di quanti avessero vissuto in prima persona quel periodo; infatti "chi cominciò a scrivere si trovò a trattare la medesima materia dell'anonimo narratore orale" (35).


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2. Renata Viganò, L'Agnese va a morire, Einaudi, Torino 1994

a) Trama

Il libro narra la "vita partigiana" di Agnese, una donna di mezza età, semplice e poco istruita. Dopo una giornata di lavoro al lavatoio, Agnese incontra un giovane soldato e lo invita, mossa da compassione, a trascorrere alcuni giorni nella sua casa, prima di riprendere il viaggio che lo porterà dai suoi familiari. Ma i tedeschi, venuti a conoscenza della presenza di questo "disertore", durante un rastrellamento portano via Palita, marito di Agnese. Disperata per questa perdita, Agnese accetta l'invito ad impegnarsi nella lotta partigiana come staffetta. Grazie a tale incarico, scopre questo "movimento" clandestino, che fino a poco tempo prima non conosceva, se non attraverso i discorsi di suo marito, e di cui non comprendeva l'importanza. Purtroppo un giorno uno degli uomini che erano stati presi dai tedeschi insieme a Palita le porta la triste notizia della morte di suo marito. Da questo momento in poi il suo impegno nella lotta partigiana crescerà insieme all'odio nei confronti dei tedeschi, che le avevano tolto il suo amato compagno. Questo odio trova in parte sfogo quando uccide il tedesco, che precedentemente aveva sparato alla sua gatta. Per non essere scoperta, Agnese é costretta a scappare dal suo paese e a raggiungere i "ragazzi", ai quali fino ad allora aveva portato solo rifornimenti. Inizia così per lei la vera e propria "attività" partigiana: infatti, spostatasi con i partigiani in un luogo più sicuro, le viene assegnato il compito di governare la cucina. Questo rimane il suo unico incarico, oltre a quello, naturalmente, di sostenere e confortare i suoi compagni, fino a quando, per paura di essere scoperti, i partigiani decidono di abbandonare la loro "base". Così Agnese e Rina, una giovane ragazza moglie di uno dei "ragazzi", non potendoli seguire, vengono mandate da Walter, una delle persone che organizzano il lavoro delle staffette, e qui riprendono questo incarico. Pure questo tipo di contributo alla lotta, anche se non comporta una vera e propria partecipazione, espone a gravi pericoli: infatti Walter ed altri uomini vengono catturati e torturati dai tedeschi. La "risposta" partigiana non si fa attendere: dopo pochi giorni una loro spedizione riesce a liberare i prigionieri e ad uccidere tutti i tedeschi responsabili. Agnese intanto si trasferisce, insieme al "comandante" e a Clinto, in una rimessa della casa di contadini, dove le vengono assegnate tutte le mansioni che aveva assunto separatamente fino a quel momento: diventa cuoca, responsabile delle staffette e copertura per i partigiani che, di volta in volta, si nascondevano in quella casa. Successivamente si sposta nuovamente, da sola, dal fabbro Magon: ma, mentre sta svolgendo il suo compito di staffetta, viene catturata dai tedeschi insieme ad altri civili. Vengono liberati, dopo qualche giorno, tutti tranne lei che, riconosciuta dai compagni del tedesco che aveva ucciso per la morte della gatta, viene uccisa.

b) Rapporto tra storia e finzione

Nel libro il rapporto tra storia e finzione va individuato su due distinti livelli di analisi. Per quanto riguarda il primo, come afferma la stessa autrice, il libro é basato sulla storia di una donna realmente esistita. L autrice non solo ha avuta l'occasione di conoscere questa donna, ma anche di


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condividere con lei l'esperienza della Resistenza; pertanto le vicende narrate riassumono un po' tutti i momenti che l'autrice e la donna, che nel libro viene chiamata Agnese, hanno vissuto. La loro esperienzaa diventa paradigmatica anche per un altro forte elemento che le accomuna: il dolore per l'assenza (temporanea per l'autrice) del marito, dolore che agisce da stimolo a un maggiore coinvolgimento nella lotta, cosi come appunto afferma la stessa autrice: "Il dispiacere bisognava farlo diventare piccolo, che stesse nello spazio di un cuore, di fuori non c'era posto, perché dei dispiaceri ne avevamo tutti. Piuttosto lavorare più forte; almeno quella sparizione di uno servisse a qualche cosa per gli altri, non portasse agli altri un danno troppo grande."(36). Così avviene che le vicende di Agnese e dell'autrice si confondono diventando un tutt'uno, ed esemplificano non la storia di due, ma di tutte le donne, che hanno avuto un ruolo attivo e fondamentale nella Resistenza. Ma così come si intrecciano le vicende delle due donne, si combinano anche storia e finzione. La finzione, che pure non contraddice l'affermazione dell'autrice che "tutto esiste"(37), orienta la costruzione "oggettiva", ma non fondata sulla veridicità storica, del sistema dei personaggi e la ricostruzione dei luoghi e degli spazi, e questo "per avere moto più libero nell'acqua corrente del racconto" (38).

c) Valore testimoniale

Il romanzo rappresenta una importante testimonianza della lotta partigiana vissuta da una donna: esso, pertanto, può essere considerato come narrazione non solo delle imprese eroiche dei partigiani, ma anche della presenza e partecipazione femminile al movimento di libérazione. Questa partecipazione era naturalmente meno esposta ai pericoli della lotta vera e propria, ma altrettanto importante e fondamentale. Per quanto riguarda Agnese, parte da un atteggiamento passivo: infatti quando i compagni del marito vanno a trovarla e le propongono di partecipare alla lotta clandestina, afferma: "Erano cose da uomini, io non ci badavo"(39), dimostrando di non preoccuparsi di questo "movimento"; ma, allo stesso tempo, avverte un sentimento che definiva come "un odio adulto, composto ma spietato, verso i tedeschi che facevano da padroni, verso i fascisti servi, nemici essi stessi tra loro e nemici uniti contro povere vite come la sua, di fatica, inermi, indifese."(40). Gradualmente arriva ad un impegno sempre più attivo e importante, cioè nasce in lei il desiderio di essere utile a qualcuno, di lottare contro chi le aveva tolto tutto: "lo non capisco niente, ma quel che c'é da fare si fa."(41). Alla fine "consacra" tutta la sua vita alla lotta clandestina fino alla sua morte, inaspettata per il lettore (ma già preannunciata dal titolo), ma inevitabile e da lei attesa, forse anche come un sollievo perché, avendo perso tutto, dopo la fine della guerra, avrebbe considerato la sua vita ormai inutile. Agnese agisce in ogni caso, e soprattutto alla fine del libro, con forte convinzione, con la stessa forza e coraggio che animavano tutte le persone coinvolte nella lotta clandestina. In questo modo viene ricordata dall'autrice: "Lei che risultava sempre presente, che non mancava mai a nessuna chiamata"(42). Questo romanzo oltre ad essere una testimonianza della partecipazione femminile presenta anche delle considerazione sulla guerra e sul movimento di Resistenza, considerazioni nelle quali, forse, ogni persona coinvolta nella guerra si può riconoscere. Ma, accanto a queste considerazioni sulla Resistenza, sono presenti, in minor misura, anche alcuni momenti in cui l'aspetto duro e spiacevole della guerra passa in secondo piano e affiorano sentimenti forse più remoti e considerati meno


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importanti, se non pericolosi, in quei momenti di lotta. Quindi accanto all'atteggiamento di difesa del Paese, di espressione di valori come l'amor di patria e l'identità nazionale, trovano spazio momenti in cui diventano prevalenti le considerazioni sulla comune natura degli uomini e sul rispetto dell'individuo.

3. Beppe Fenoglio, I ventitrè giorni della città di Alba, Einaudi, Torino 1952

a) Trama

Il libro é composto da 12 "storie partigiane". Il primo racconto, che dà il titolo al libro, narra la presa e la perdita di Alba da parte dei partigiani. Il 10 Ottobre 1944 duemila partigiani occuparono la città, scacciando così i repubblicani che erano stati fino a quel momento insediati all'interno. Il primo tentativo da parte dei repubblicani di rientrare nella città viene messo in atto il 24 Ottobre ma senza successo. Successivamente avviene un colloquio tra i partigiani e i repubblicani: il mancato accordo scatena la battaglia. Questa inizia il 2 Novembre ed é combattuta dalla parte partigiana solo da duecento uomini, che alla fine si arrendono e lasciano la città "che laggiù tremava come una creatura"(43) in mano ai repubblicani. Nel racconto "L'andata", un gruppo di giovani partigiani giunge in un'osteria di Alba per un'azione. Lì catturano un sergente e, allontanati dalla città lo uccidono e poco dopo in uno scontro con la cavalleria loro stessi muoiono. Ne "Il trucco" si parla di un partigiano che uccide un prigioniero, togliendo questo "piacere" a due suoi compagni. La quarta storia riguarda un giovane ragazzo che decide di arruolarsi tra i partigiani. Il primo approccio alla vita partigiana risulta per lui così traumatico che durante la prima notte sogna la sua morte e quella dei suoi compagni in un agguato. Nel racconto "Vecchio Blister" il protagonista é un vecchio partigiano che, ubriaco, ha compiuto una rapina a mano armata. Dimostrata la sua colpevolezza, é processato e giustiziato dai suoi stessi compagni. Nel sesto racconto "Un altro muro" Max, un soldato badogliano, viene catturato dai repubblicani e in prigione fa amicizia con un ladro partigiano, Lancia. Dopo qualche giorno i due prigionieri vengono portati in un cimitero: lì Lancia viene ucciso mentre a Max viene comunicato lo scambio con un altro prigioniero, e questo gli permette di tornare libero. Il periodo in cui sono ambientate le storie successive non é più quello resistenziale, ma il dopoguerra in tutti i suoi aspetti.

b) Rapporto tra storia e finzione

L' autore nomina nel libro luoghi, persone e date con precisione, conferendo alle vicende descritte un carattere storico verificabile. Questo vale in modo particolare per i primi racconti che presentano episodi della Resistenza: ad esempio un avvenimento storico come la battaglia di Alba e momenti particolari della vita dei partigiani, come un arruolamento (Gli inizi del partigiano Raoul), una esecuzione (Vecchio Blister) e uno scambio tra i prigionieri (Un altro muro). Nei rimanenti racconti l' obiettività storica lascia sempre più il posto alla "finzione": infatti sono narrate vicende non più di una parte della popolazione impegnata nella lotta clandestina, ma di gente comune nell'immediato dopoguerra: è più debole il riferimento a date e luoghi precisi e storicamente verificabili, presente nella prima parte di questo libro. La "finzione", comunque, non cancella del tutto il riferimento


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riferimento storico/ambientale, in quanto le vicende descritte possono considerarsi, in generale, realmente accadute; esse affrontano problemi e avventure che molte persone nell'immediato dopoguerra, e non solo, hanno dovuto affrontare, come, ad esempio, la ricerca di un lavoro o un matrimonio riparatore.

c) Valore testimoniale

Questo libro presenta un duplice livello testimoniale: nella prima parte (le prime sei storie) della lotta clandestina, nella seconda parte (le rimanenti sei storie) della vita nell'immediato dopoguerra. La lotta clandestina é descritta da Fenoglio non con l'intento di celebrarla, ma con quello di presentarla in tutti i suoi aspetti, anche con ironia. Ad esempio, ne "I ventitré giorni della città di Alba", descrive non solo la presa della città da parte dei partigiani, quindi un'azione gloriosa, ma anche i loro saccheggi e la loro sconfitta in seguito all'assalto dei repubblicani per riconquistare la città. In "Vecchio Blister" presenta, oltre alla rapina a mano armata di un partigiano ubriaco, la freddezza dei suoi compagni nell'ucciderlo. Fenoglio, narrando queste storie, si comporta, così, quasi da "osservatore esterno" della vita partigiana. Egli, infatti, a differenza dei memorialisti, che non falsificano la verità storica, e dei narratori, che fondano le loro opere sulla pura invenzione di personaggi e situazioni, "è l' unico che riesce a rispettare la verità dei fatti pur dando ai propri scritti un taglio autenticamente letterario e a superare le incertezze fra lirismo e realismo, tipiche degli autori minori di racconti, a tutto vantaggio d' un realismo robusto e spesso potente" (44).


(1) P. Malvezzi-G. Pirelli (a cura di), Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1994. (2) ivi, p. 3. (3) ivi, p. 184. (4) ivi, p. 332. (5) G. Pirelli (a cura di), Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea, Einaudi, Torino 1975. (6) ivi, p.782. (7) ivi, p.598. (8) P. Malvezzi-G. Pirelli (a cura di), cit., p.23. (9) G. Pirelli (a cura di), cit., p.94. (10) P. Malvezzi-G. Pirelli (a cura di), cit., p.8. (11) ivi, p.50 (12) ivi, p.117. (13) ivi, p.42. (14) ivi, p.6. (15) ivi, p.76. (16) ivi, p.273. (17) G. Pirelli (a cura di), cit., pp.143-144. (18) ivi, p.122. (19) ivi, p.146. (20) P. Malvezzi-G. Pirelli (a cura di), cit., p.84. (21) ivi, p.168. (22) G. Pirelli (a cura di), cit., pp.92-93. (23) ivi, pp. 224-225.


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(24) ivi, pp. 241-242. (25) P. Malvezzi-G. Pirelli (a cura di), cit., p.140. (26) ivi, p.17. (27) ivi, p.185. (28) ivi, p.66. (29) ivi, p.293. (30) G. Pirelli (a cura di), cit., pp.424-425. (31) T. Mann, Prefazione a G. Pirelli (a cura di), cit., p.XIV. (32) Enciclopedia Generale Mondadori, Verona 1985, vol. X, p.355 alla voce Resistenza. (33) F Fortini, La resistenza della parola, "Il Sole 24 Ore", 11 dicembre 1994, p. 21. (34) ivi. (35) ivi. (36) R. Viganò, La storia di Agnese non è una fantasia, epilogo di L' Agnese va a morire, Einaudi, Torino 1994. (37) ivi. (38) ivi. (39) R. Viganò, L' Agnese va a morire, cit., p.21. (40) ivi, p.20. (41) ivi, p. 142. (42) R. Viganò, La storia di Agnese non è una fantasia, cit., p.249. (43) B. Fenoglio, I ventitré giorni della città di Alba, Einaudi, Torino 1952, p. 24. (44) G. Falaschi, La Resistenza armata nella narrativa italiana, Einaudi, Torino 1976, p. 152.


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-XII- Appendice 4 LA MORALE NELLA RESISTENZA nell'interpretazione di Claudio Pavone di M. Campanella, A. La Francesca e G.L. Thione


I. Premessa: La Resistenza come alternativa etica

La Resistenza è uno dei fenomeni della storia contemporanea più studiati e maggiormente discussi, poiché gli avvenimenti militari e politici che appartengono al periodo immediatamente successivo alla caduta del fascismo hanno inciso in maniera determinante sull'assetto moderno dell'Italia. La ricerca degli storici è sempre stata mirata ad interpretare ed a valutare le azioni militari dei partigiani che, in particolar modo nel settentrione italiano, esercitarono un'attiva e costante opposizione alle forze nazifasciste cercando di realizzare quegli ideali politici ed etici che consideravano in grado di migliorare lo stato del paese, risollevandolo dalla forte crisi che aveva attraversato durante il ventennio fascista e che aveva raggiunto il suo apice negli anni del conflitto. Ma se spesso la ricerca storica ha riflettuto sui connotati politici della Resistenza, raramente gli studiosi si sono soffermati a valutare ed interpretare l'azione dei partigiani sotto un punto di vista strettamente etico. E' questa l'intenzione di Claudio Pavone nel suo libro Una guerra Civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, che affronta il fenomeno resistenziale inquadrandolo in un contesto culturale differente da quello in cui solitamente è inserito. L'autore ha voluto in tal modo sottolineare come anche alla base dell'azione partigiana vi fossero principi morali nati da situazioni culturali e sociali, che avevano fortemente influenzato la coscienza del popolo italiano, incarnandone le speranze per un futuro diverso da quello che l'evoluzione dei fatti sembrava presagire, costruito su ideali di democrazia, libertà ed uguaglianza. E' infatti impossibile ritenere che i partigiani abbiano potuto persistere nella loro lotta politico-militare, sopportando gravi conseguenze fisiche e psicologiche (va ricordato che essi non avevano a disposizione armamenti in grado di poter seriamente impensierire le forze nemiche) se non perché motivati e spinti da convinzioni e da ideali che non potevano più essere tenuti segreti ma che dovevano essere realizzati e trovare un riscontro reale nella vita della popolazione italiana. La storia insegna che solo grazie alla volontà di realizzare progetti dettati da ideali morali o politici, imprese apparentemente impossibili incontrarono un pieno successo: esasperati dalle condizioni in cui la povera gente versava ormai da anni, i partigiani, che esprimevano la rabbia e lo scontento della grande massa, trovarono in loro stessi la forza di combattere per quegli ideali un nemico tanto meglio organizzato ed attrezzato da sembrare invincibile. Questa reazione non fu comunque immediata poiché prima di comprendere la necessità di attivarsi militarmente e socialmente, combattendo in prima linea, la popolazione passò attraverso momenti di sconforto e di abbandono, attendendo la totale distruzione che sembrava incombere; questo in particolare era dovuto allo stato,


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pressoché confusionario, in cui versavano e l'esercito e la popolazione. «Così in mancanza di direttive precise e inequivocabili, moralmente prima ancora che tecnicamente, l'Italia si avviava verso una sorte analoga a quella che Churchill nel 1942 ricordava con vivezza a proposito della Bulgaria del 1918: quando una nazione viene completamente sconfitta fa ogni specie di cose che avremmo credute impossibili prima. Il modo brusco, fosco, universale, simultaneo onde la Bulgaria - governo, esercito, popolo - si tolse di mezzo nel 1918, è rimasto impresso nella mia memoria. Senza preoccuparsi di provvedere al loro futuro o alla loro sicurezza, le truppe semplicemente abbandonarono il fronte e se ne tornarono a casa»(1). Nel nostro caso «Il soldato italiano non combatterà più agli ordini di Mussolini, né per Hitler né contro Hitler, nemmeno per l'Italia. ll soldato italiano incrocerà le braccia e si lascerà uccidere dal nemico. [..] Il 25 luglio - ricorda un reduce della deportazione - all'improvviso siamo stati tutti contenti, come una liberazione perché abbiamo scambiato il 25 luglio per la fine della guerra; e poi ci siamo accorti che non era così: ci è venuta una rabbia in corpo, una rabbia terribile»(2). Questi sentimenti si riflettono in ogni singola parte dell'attività e dell'organizzazione di questo fenomeno, tanto esteso quanto profondamente radicato a livello del territorio e delle classi sociali più deboli. Tale spinta etica e tale coscienza morale costituiscono il fulcro attorno al quale ruota lo studio di C. Pavone di un momento peraltro complesso, quale quello resistenziale. E ciò è evidente fin dalla prime pagine in cui l'autore evidenzia le motivazioni etiche che spinsero ragazzi estremamente giovani e spesso mai neppure venuti a contatto con una vita diversa da quella familiare a buttarsi, anima e corpo in un'avventura che per molti avrebbe significato la morte sotto il fuoco dei tedeschi. Lo scopo di questo saggio, che nasce dalla analisi del saggio di Pavone, attraverso la sua documentazione e l'originale teoria delle tre guerre, è quello di mettere appunto in evidenza tutti gli ideali, tutte le sensazioni, le motivazioni e le paure, che messe sul piatto della bilancia, insieme al pericolo imminente di cadere sotto un'occupazione permanente delle truppe tedesche, o, ipotesi che alle masse sembrava ancora peggiore, di un ritorno in auge del regime fascista, hanno spinto uomini e donne di differenti fasce sociali e d'età a combattere e a sacrificare la propria giovinezza e in molti casi anche la propria vita in nome di una libertà su cui costruire una nuova democrazia repubblicana. La nostra repubblica è dunque anche e soprattutto frutto di quegli sforzi e di quella sofferenza, una repubblica fondata sul valore del lavoro e della democrazia, sulla libertà personale e sull'uguaglianza: un'eredità importante che la Resistenza ha lasciato ai contemporanei. Per questo ora è importante scoprire quali spinte e quali valori fossero alla base di questo fenomeno tanto complesso e controverso, per dare ad esso un valore nuovo e riscoprire l'importanza di un patrimonio sociale, politico e morale che non può essere dimenticato o distrutto. E' necessario però affermare che questi ideali non sempre rappresentavano l'unico motivo e l'unica ragione a spingere i partigiani all'azione; vi era chi, da una parte, lottava per gli ideali, chi, dall'altra, cercava nella lotta armata una scusa per arricchirsi, approfittando della disperazione e della violenza diffusa, commettendo azioni inutili alla lotta contro il nemico.

II.La ricerca storiografica: il valore del libro di Claudio Pavone

1. La tesi delle tre guerre: guerra civile, guerra di classe, guerra patriottica. Il testo di Claudio Pavone apre nuove prospettive interpretative del fenomeno resistenziale: in esso, accanto all'analisi della psicologia comune dei civili e dei militari coinvolti, sia nel conflitto bellico vero e proprio sia in quello resistenziale,


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l'autore delinea un'ipotesi tanto originale quanto affascinante e realistica, la "tesi delle tre guerre". L'autore ci parla del fenomeno resistenziale sotto una luce diversa rispetto alla tradizione storiografica: il conflitto, la guerra combattuta sul fronte dai partigiani non si configura più come un singolo scontro di carattere politico fra oppressi ed oppressori, animato dalla sola brama di libertà e democrazia, ma si scinde su tre piani fra loro interattivi e complementari: guerra civile, guerra di classe e guerra patriottica, sottese ciascuna da precise motivazioni etico-politiche.

A. Una guerra patriottica. Il conflitto resistenziale può essere visto sotto un aspetto strettamente ideologico, collegato a ciò per cui sembrava che si dovessero realmente "sollevare gli animi": la Patria. La tesi delle tre guerre, patriottica, civile e di classe, evidenzia differenti motivazioni e differenti aspetti di carattere morale, ideologico e strutturale del conflitto. Tra queste, la guerra patriottica è quella che maggiormente si rivela vicina all'idea tradizionale della lotta partigiana. E' infatti facile ed immediato accostare la guerra tra Resistenza e nazifascismo alla difesa della patria. In effetti, come si vedrà, la lotta resistenziale ha rappresentato per gli uomini direttamente coinvolti ben più che la sola, dura opposizione verso un regime che opprimeva la patria e annullava le libertà, che faceva ampio uso della violenza e della repressione creando ingiustizie e malessere in ogni fascia sociale. Ciò che era alla base di questo conflitto era il sentimento diffuso di una precisa identità nazionale. L'ideale della patria era molto forte: la memoria ancora viva degli sforzi compiuti per conseguire l'obiettivo dell'unità, il sentire comune di un unico popolo, il desiderio di libertà e di democrazia, la necessità di giustizia. Il popolo italiano percepiva che quegli ideali per cui aveva già sofferto a lungo erano stati violati e in alcuni tali sentimenti sfociarono nella ribellione, nelle azioni di rappresaglia e di sabotaggio: la Resistenza fu avviata così da persone comuni, da giovani e vecchi il cui amor-patrio era più forte di ogni altra cosa; uomini e donne disposti a rischiare in prima persona per la difesa dei propri ideali e per il ripristino di un ordine violato. L'8 settembre, Badoglio, «con un radio messaggio, ordinava alle forze armate di cessare le ostilità contro gli alleati e di tenersi pronte a reagire all'eventualità di attacchi da qualsiasi altra provenienza. Era un'ulteriore affermazione equivoca che doveva provocare non poche perplessità e confusione tra i comandanti delle unità militari. [:.] La disintegrazione del dispositivo militare italiano doveva indebolire gravemente il paese nei suoi rapporti con gli alleati. [...] Con la perdita dell'esercito, l'Italia veniva privata della sua capacità di guadagnarsi le concessioni promesse. (...] Così il paese rimaneva diviso in due parti: le regioni meridionali e le isole sotto controllo alleato, tutto il resto in mano ai tedeschi. La giurisdizione italiana rimaneva limitata ad alcune provincie pugliesi - il cosiddetto "Regno del Sud"»(3). Infatti, «Ad alcuni giovani romani che subito dopo l'8 settembre si erano presentati ai tedeschi per continuare a combattere al loro fianco, l'ufficiale fece notare che "L'Italia non c'era più; non c'era più governo; [non c'era più] esercito"»(4). L'unico vero nemico della patria sembrava essere sempre stato il fascismo e nelle menti e negli animi dei resistenti, ciò che era più vivo era il ricordo delle ingiustizie subite direttamente e indirettamente, dell'oppressione e del clima generale di infelicità e di insoddisfazione che caratterizzava la popolazione della penisola: non importava se il proprio territorio fosse o meno sotto la giurisdizione italiana, ciò che realmente contava era l'Italia, nel suo insieme; la nazione doveva tornare presto ad essere unita, e così anche la sua gente. Col passare del tempo


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fu però sempre più difficile costruire un reale concetto di patria «capace di restituire alla nazione un volto umano. [ ..] Il senso dell'infelicità individuale e collettiva già altre volte nella storia era stato visto, illuministicamente, come generatore di patriottismo»(5). Si veniva a formare così una vera e propria etica della patria, un sentire diffuso e concreto che spingeva all'opposizione e all'organizzazione di strutture, anche rudimentali, che fossero in grado di ostacolare, seppur in misura infima, i progetti e le azioni nazifasciste. Si giunse così, in effetti, alla formazione dei primi gruppi ribelli veri e propri, delle prime squadre partigiane fondate sull'ideale patriottico. Questo sentire, questo ideale si rifletteva in ogni cosa, in ogni gesto anche minimo, in ogni decisione presa singolarmente o in gruppo. La stessa scelta resistenziale, come pure si vedrà in seguito, si fonderà su questi fattori. Nel linguaggio comune, i termini "Italia" ed "Italiano" assumono significati diversi, si concretizzano di volta in volta in diverse realtà, esprimono giudizi morali sempre diversi. «Da quando si sono formati i primi gruppi di cosiddetti "ribelli" abbiamo visto che il nome "Italia" veniva pronunciato con un certo senso di ammirazione, non più con disprezzo»(6). L'Italia, la nazione, la patria entravano a far parte della tradizione popolare: la cultura si modificava, nascevano canzoni e ballate a sfondo popolare, sul tema della patria e dell'unità nazionale: gli inni partigiani e i canti intonati dai soldati e dalla gente comune testimoniano il valore della nazione e il significato che questa aveva per tutti gli italiani. Il fatto che italiani combattessero anche contro italiani, ma che entrambi invocassero l'Italia creava, da un lato una situazione difficile non priva di implicazioni morali, dall'altro «la riconquista di un sicuro senso della patria»(7) da entrambe le parti. «"Italia, Italia, cosa importa se si muore" cantava, in un carcere delle SS, un partigiano ferito, usando le parole di una canzone nazionalfascista, riutilizzata anche dai partigiani; e lo stesso partigiano, udendo le SS italiane cantare "canzoni italiane con ritmo tedesco", commentava, quasi a spiegazione di questi ribaltamenti: "Li hanno avvelenati."»(8) L'offuscamento del carattere antifascista della nuova guerra, combattuta, in termini generali, contro ogni "nemico della patria", inibiva, in un certo senso, la riconquista piena dell'identità nazionale. L'unica spinta comune che muoveva i resistenti all'opposizione al nazifascismo era la necessità di quella riconquista. Il conflitto sottolineava «l'impegno a sconfiggere l'egoismo, l'apatia, l'infingardaggine che gravavano sugli italiani come singoli e come popolo»(9): non si poteva più aspettare dei liberatori, bisognava agire. «Non esistono liberatori, ma soltanto uomini che si liberano!»(10) L'identità nazionale poteva essere ricostruita soltanto lasciandosi alle spalle un'epoca, scrollandosi di dosso un destino secolare che aveva reso l'Italia scenario di conflitti condotti da altri sul suo suolo. Un passato fatto di grandi drammi storici: si rendeva così necessario ricercare elementi nella storia più recente che offrissero dell'Italia una visione "meno deprimente", un quadro che rivalutasse la patria e la rendesse di nuovo motivo d'orgoglio. «Luoghi comuni, retorica, riciclaggio di memorie e di stereotipi culturali, autonoma riflessione sul proprio passato come popolo circolano nell'ambiente resistenziale, e puntano soprattutto sul Risorgimento [da cui] la Resistenza trasse [..] forza e insieme ambiguità»(11). L'espressione storica più largamente utilizzata per indicare questa tendenza a rivalutare l'Italia e il suo recente passato nella coscienza comune è quella di "secondo Risorgimento", ma in effetti ciascuna parte coinvolta nel conflitto ed anche le diverse componenti politiche e ideologiche dello schieramento resistenziale «si scelsero il


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proprio pezzo di Risorgimento cui riferirsi»(12). Ma in effetti, quali furono i reali tratti etici di questo particolare aspetto del conflitto resistenziale? Alla base di ogni azione, di ogni scelta, di ogni sacrificio erano ideali forti, valori e disvalori la cui unione si faceva forte dei sentimenti comuni, generava forza, si appoggiava ad una coscienza nazionale che spingeva gli uomini anche al sacrificio estremo. Gli ideali comuni assumevano tuttavia delle sfumature diverse da persona a persona, a seconda della particolare sensibilità etica, dell'orientamento politico e della fede religiosa. La legittimità di ogni azione, sotto il piano etico, quasi mai coincideva con quella che, in quel determinato momento, era il concetto vigente di legalità. La Resistenza si pose, in diverse occasioni, non solo al di fuori di una legalità che non accettava, ma anche al di fuori di una moralità definita a posteriori, dalle generazioni che in seguito studiarono il fenomeno, ma che non lo vissero in prima persona. Il problema della moralità della Resistenza, non inteso questa volta, come quello delle motivazioni etiche che spinsero i resistenti a prendere parte alla lotta partigiana, bensì come quello del giudizio a posteriori delle azioni di cui questi stessi si resero artefici, secondo determinati canoni etici o morali, porta in rilievo elementi differenti che possono condurre ad una considerazione più critica del fenomeno resistenziale. Il dilagare della violenza, il decadimento morale diffuso, cui anche la Resistenza fece appello durante i processi che seguirono alla Liberazione e che cercavano di fare luce sugli avvenimenti che avevano sconvolto l'Italia negli anni caldi della lotta fra partigiani e nazi-fascisti, il collaborazionismo e l'ambiguità dell'atteggiamento di molti nei confronti della Resistenza e del potere nazifascista, si scontravano violentemente con quegli ideali che animavano la lotta nelle sue componenti più sincere e che si fondavano, ancora una volta, su un sincero senso della patria e della libertà. Lo spirito neorisorgimentale, al quale si accennava in precedenza, aveva influenzato a fondo ogni tipo di azione resistenziale. Ciò fu evidente fin dalla comparsa delle prime organizzazioni partigiane: sebbene, però, molte di esse avessero nomi o motti che richiamavano direttamente il tema della patria e dell'Italia (GAP, SAP, Brigate Garibaldi), "l'impressione del dilagare di [tale spirito] [...] viene ricondotta entro limiti più ristretti. Nei giornali prevalgono invece i titoli generici, imperniati su parole quali libertà, liberazione, lotta, battaglia, rinascita, riscossa, combattente, volontario e simili, coniugati spesso con nomi geografici, oppure politici o ideologici'(13). Il tema della patria e della guerra patriottica ha molti punti di contatto, sotto diverse angolazioni, con la questione del nazionalismo, che ancora una volta si riproponeva verso la fine del secondo conflitto mondiale, quando, a poco tempo dalla liberazione, si sarebbe riproposto il problema dei confini, della ricostruzione, del rispetto delle popolazioni e delle culture nazionali nella riscrittura delle carte europee. Tuttavia in Italia il nazionalismo non trova terreno fertile nell'opinione pubblica, restando invece limitato a schemi più tradizionalmente fascisti. «Compaiono posizioni ispirate a un nazionalismo ritardatario e velleitario, ma che pur tuttavia trovava (e troverà) riscontri in un'area non piccola di media opinione pubblica quando venivano ai pettine questioni come quelle dei confini, specie di quelli orientali, dello smantellamento delle forze armate italiane, delle colonie, delle condizioni dell'armistizio. [..] Quello che era un dramma della coscienza collettiva diventava in queste posizioni, la richiesta, oscillante fra superficialità, sfrontatezza e servilismo, di riscossione del prezzo del mutamento di fronte, quasi che l'Italia potesse ripetere l'operazione che aveva portato la Francia della Restaurazione a sedere nel congresso di Vienna a fianco delle potenze vincitrici»(14).


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Dopo l'armistizio dell'8 settembre ci fu un totale ribaltamento delle alleanze e si trasferiva il ruolo del nemico dagli alleati ai tedeschi che, agli occhi degli italiani, meritavano molto più di ogni altro di essere combattuti: nei tedeschi i partigiani riassumevano tutte le qualità negative manifestate durante tutti quegli anni, rendendoli esempio di disvalori assoluti; d'altra parte l'atteggiamento dei resistenti non si limitava alla critica e al desiderio di vittoria, ma proponeva anche una sorta di antidoto contro questa degenerazione sulla base dei valori che animavano il loro agire. «Popolo tedesco, tu sei potente: tu agogni il primato nel mondo: tu sai anche mostrarti civile e gentile, dirò cortese, ma sotto la cute sei selvaggio! Per te la civiltà resta un mito e ogni tuo sforzo per raggiungerla si trasforma in ringhio bestiale»(15): il nemico veniva identificato come «automa teutonico», un mostro tecnologico nemico dell' "umanesimo garibaldino"; insomma, il nemico della patria italiana era il nemico assoluto che, però, proprio nell'ambito di una guerra di tipo patriottico mostrò tutta la sua debolezza. «"Eccoli i conquistatori del mondo"pensa un antifascista vedendo due soldati tedeschi scappare dal finestrino di un treno in seguito ad un allarme aereo [..] vedere i tedeschi fuggire e avere paura della morte costituiva la riprova, dura per l'orgoglio tedesco che essi erano uomini come tutti gli altri»(16). Tuttavia «il prestigio dei signori della guerra tedeschi rimaneva tale che talvolta i partigiani sembrano attendere proprio da essi il riconoscimento delle proprie qualità militari»(17). Dunque, l'impegno per liberare l'Italia dall'oppressione nazifascista assumeva i connotati della guerra patriottica, sotto tutti gli aspetti considerati, tuttavia non era solo il comune sentirsi italiani che spingeva i gruppi resistenziali ad agire in questo senso, ma anche una sorta di sentimento di solidarietà nel momento del bisogno; così, sentimento nazionale, ideali politici e necessità comune si fondevano tra loro a creare quell'atteggiamento esteriore che accomunava tutta la popolazione antifascista nella lotta contro il nemico, lotta che era innanzitutto ideologica e proprio dalla quale scaturiva la risposta armata. Il fascismo era un nemico reale da combattere su diversi fronti; in questo senso si poterono conciliare l'impegno di "compagno" e l'impegno di patriota. Il male comune diffuso fra la gente era costituito dalla struttura politico - amministrativa del fascismo, struttura nata e rafforzata da un'ideologia di fondo che presupponeva l'esistenza di un regime di tipo dittatoriale; non si poteva quindi pensare di eliminare tale male solo fisicamente, poiché esso non era la degenerazione di un giusto ideale politico, ma la necessaria conseguenza di un ideale errato. Liberare l'Italia significava dunque cacciare il nemico e distruggerne i residui dal punto di vista politico tramite la proposizione di un nuovo modello, democratico e repubblicano. E' perciò evidente l'identità tra democratici compagni di lotta e patrioti contro un governo che "uccideva l'Italia". Questo era allora uno degli obiettivi principe della strategia resistenziale: ricreare una patria nuova, scevra da ogni tipo di prigionia politica e militare, in cui la libertà di ognuno potesse manifestarsi palesemente. L'Italia doveva essere democratica, non avrebbe potuto più essere dittatoriale perché questo avrebbe significato un ritorno a quel governo di stampo fascista, che i partigiani stavano cercando in ogni modo di estirpare. E' pur vero però che in quel periodo l'Italia era immersa nella più totale confusione politico-istituzionale (confusione che tra l'altro sta alla base della guerra civile di cui più avanti): coesistevano sullo stesso suolo, in una stessa nazione più riferimenti politici che andavano dalla RSI al CLN e ognuna di queste pensava di costituire un'unità nazionale secondo i propri modelli, quello fascista o quello democratico; perciò guerra civile e guerra patriottica si fondevano, e l'italiano si scindeva in oppresso ed oppressore.


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B. Una guerra civile. La lotta resistenziale è stata giustamente considerata in un ambito globale che la vede inserita in un contesto più ampio di lotta per la liberazione nazionale. In realtà, con la caduta di Mussolini, ingenuamente identificata da molti, in un primo momento, con la fine della guerra ed il ripristino della democrazia, la Resistenza si trovò ad affrontare il vecchio nemico fascista concretizzato nella Repubblica Sociale. «L'interpretazione della lotta fra la Resistenza e la Repubblica Sociale Italiana, come guerra civile, ha incontrato da parte degli antifascisti, almeno fino a questi ultimissimi tempi, ostilità e reticenza, tanto che l'espressione ha finito con l'essere usata quasi soltanto dai vinti fascisti, [..] provocatoriamente agitata contro i vincitori»(18). E' certo che pur affermando che la Resistenza sia stata anche guerra civile, è indispensabile notare che, come per la guerra di classe, nessuno o quasi, la visse esclusivamente sotto quel profilo. E' indispensabile comprendere che i tre aspetti della lotta antifascista, patriottica, civile e di classe, erano vissuti dagli stessi protagonisti, convivendo fra loro nello stesso territorio, nelle stesse istituzioni. Proprio per questo può configurarsi il giudizio storiografico della Resistenza come guerra interna alla nazione, fuori da ogni forma di legalità, da entrambe le parti. Il conflitto civile nasce da differenti e contrastanti sentimenti patriottici: da una parte il fascismo sentiva propria e ancora forte l'idea di una identità nazionale, il ruolo di un'Italia destinata a ripristinare gli splendori di cui era stata teatro nell'antichità, dall'altra, quella parte della popolazione che combatteva contro la dittatura, lottava guidata da un acceso desiderio di liberazione nazionale. «Il prevalere della formula guerra, o movimento di liberazione nazionale rispetto a quella di guerra civile occulta la parte di realtà che vide italiani combattere contro italiani»(19). La questione dell'antifascismo comincia ad assumere corpo e rilevanza dal 1943, con la deposizione del duce, nonostante l'antifascismo fosse stato presente nella coscienza comune, in particolare in quella dei ceti medio bassi, anche prima della fine vera e propria del regime. II luglio 1943 era stato preceduto da un periodo di crisi per il partito. «Questa crisi era stata vissuta dai fascisti in modi vari, [..] alla domanda: come è potuto accadere il crollo? la risposta più a portata di mano stava nell'addossare tutte le colpe ai traditori con i quali era giunto il momento di fare i conti. [ ..] Punizione esemplare dei vili traditori è preannunciata da Mussolini stesso nei discorso registrato per la radio dopo il suo arrivo in Germania»(20). Quello del tradimento è un problema che assillò per mesi il regime ormai deposto, forse anche durante tutto il periodo intercorrente fra il 25 luglio e la liberazione. In realtà quali fossero le reali responsabilità nell'intera questione non fu mai facile determinarlo, né ai fascisti, che del "tradimento" pagavano le dirette conseguenze, né agli studiosi del fenomeno. Tuttavia tale questione ebbe l'immediata conseguenza nel sorgere, nelle coscienze dei fascisti, del desiderio di vendicarsi del torto subito. «Il desiderio di tendersi le braccia al di sopra delle baionette straniere, per sincero che potesse essere in alcuni fascisti, era dunque destinato a cedere il passo alla spinta più profonda a vendicarsi degli italiani antifascisti all'ombra di quelle stesse baionette»(21). Erano anni ormai che l'Italia non viveva più in un regime democratico: il desiderio di tornare ad essere liberi, di contare nella determinazione del proprio governo, il ricordo lontano delle ultime elezioni democratiche avevano contribuito ad animare una guerra "fratricida" che aveva in qualche modo messo in disparte quella contro il nemico esterno: l'ideale di democrazia animò tutto il fenomeno resistenziale ed in particolare il conflitto civile. L'idea di patria, la voglia di libertà e il sogno di una democrazia animavano questi uomini e queste donne, spingendoli a scegliere "la via dell'onore e della vita"; e di certo la lotta tra italiani era tutt'altro che priva, per


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i suoi diretti protagonisti, di conflitti etici: combattere contro propri compatrioti abbatteva i giovani ed i vecchi, fino ad allora convinti di dover combattere contro una minaccia straniera e lontana: «Se sapeste anch'io come sto! Non ne posso più! che si debba far questo fra italiani!»(22). Le giornate e le settimane, che seguirono 1'8 settembre, avevano creato i sentimenti più disparati nell'animo degli italiani, fascisti ed antifascisti: una gioia incontenibile, uno smarrimento incredulo, fino alla ribellione irosa, e infine seguita a tutto questo, una stanchezza rassegnata, totale. Era necessario reagire allo stallo, trovare nuovi stimoli, aggrapparsi a forti ideali quali la democrazia, la giustizia, la libertà, la voglia di rivoluzione. La costituzione dei CLN, delle Sap, delle Gap, e di ogni altra organizzazione intesa a liberare l'Italia da un'oppressione endemica e da una minaccia straniera, fu il primo segno evidente di questo nuovo sentire comune. Nonostante le continue ingiustizie cui il popolo italiano era stato abituato da vent'anni di egemonia fascista e da una lotta civile al di fuori di ogni legalità e legge morale, l'ideale della giustizia era vivo più che mai. E proprio l'ideale di giustizia si poneva alla base della scelta resistenziale; insopportabile era stato forse per molti un periodo così lungo di sospensione di ogni valore etico e di ogni giustizia. E soprattutto fra i giovani era più viva questa voglia di reazione, fra i giovani risorgeva l'ideale di giustizia. «Non vogliamo più vedere le vostre facce, [..] non le vogliamo più vedere perché tutti siete responsabili della catastrofe che ci ha travolto; non le vogliamo più vedere perché conservate la vecchia mentalità, perché avete i vecchi metodi, perché infine, fin che voi rimarrete al seggio dove vi siete di nuovo assisi, nessuno sarà capace di credere al rinnovamento, al nuovo impulso di marcia, al nuovo idioma che voi predicate. Vogliamo gente nuova e per gente nuova intendiamo: moralmente sana e illimitatamente onesta»(23). I giovani erano dunque i depositari di un patrimonio morale che la dominazione e il regime non erano riusciti a sradicare, nonostante tanti fossero stati gli sforzi dei fascisti nell'allevare una generazione asservita alla dittatura. Il duce, durante il ventennio in cui esercitò il suo potere dittatoriale, aveva cercato, con tutti i mezzi possibili, sfruttando tutte le possibilità che gli si erano prospettate favorevoli, di educare le nuove leve, fin dagli anni della scuola elementare, in modo tale che i giovani crescessero con una mentalità di totale rispetto ed obbedienza verso il regime. Inoltre la pesante censura cui erano sottoposte lettere e missive, che costituì solo uno dei tanti mezzi del ferreo controllo dittatoriale, impediva la divulgazione di idee che potevano in qualche modo andare contro gli ideali fascisti. In tali condizioni di oppressione, la giustizia e la libertà erano diventati ideali di vita irrealizzabili e lontani. Fu proprio questa prolungata "lontananza" ad alimentare il desiderio dei partigiani di rovesciare il regime, visto come disgregatore di quei valori per i quali l'uomo è sempre stato disposto a lottare, compiendo sacrifici e rinunciando perfino ad una vita agiata e tranquilla, pur di ottenere una società fondata sui diritti e sulla libertà. E' immediato, a questo proposito, il richiamo a quei partigiani, come Giancarlo Puecher, che furono disposti a rinunciare ad una vita che si prospettava relativamente comoda, impegnandosi a combattere in prima linea rischiando e perdendo, talora, la propria vita, affinché un valore nobile ed essenziale come la giustizia si realizzasse in un paese come l'Italia che, ormai da anni, ne avvertiva la mancanza. Ad accusare per primi il clima generale di illegalità e ad avvertire il bisogno di ritrovare questo ideale tanto sentito furono, come sempre, le classi meno elevate, che risentivano in prima persona degli effetti che l'assenza di quegli ideali provocavano sulla popolazione; in particolare, l'impossibilità di diffondere o aderire a


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idee diverse da quelle fasciste, o comunque l'obbligo di seguire e di approvare, almeno "salvando le apparenze", il governo del duce, fu il modo più evidente in cui il clima di ingiustizia che si respirava in Italia si manifestava. Si può inoltre affermare che giustizia e libertà costituissero un binomio indivisibile, perché il desiderio di libertà, dovuto all'insofferenza causata da anni di oppressione culturale e di pensiero, andava ad unirsi alla necessità di giustizia, che non può essere pienamente concretizzata dove l'uomo non sia completamente libero. La negazione dei più essenziali diritti umani portò la popolazione a vivere in condizioni tali per cui la mentalità e la sensibilità personale non erano più date dall'esperienza e dall'interiorità di ciascuno, ma erano imposte, senza alcun tipo di alternative, dall'esterno; se un individuo non è libero di pensare e tantomeno di agire, a causa del volere di un dittatore, significa che non vi è più la giustizia, cioè non vi è più quella virtù rappresentata dalla volontà di riconoscere e rispetta-re il diritto di ognuno mediante l'attribuzione di quanto gli è dovuto (in primo luogo la libertà) secondo ragione e legge. E' solo tenendo presente questo concetto che si comprende il valore rivoluzionario che ha avuto la Resistenza. I partigiani, infatti, combattevano per l'affermazione di ideali che avrebbero dovuto costituire la base di una società caratterizzata da un clima culturale e politico completamente opposto a quello che vigeva durante il regime fascista; la rivoluzione, in altre parole, avvenne innanzitutto su un piano etico e psicologico prima ancora di realizzarsi concretamente attraverso un'azione militare violenta. E' impossibile interpretare i fatti e gli avvenimenti che caratterizzarono la Resistenza senza prima valutare le spinte morali e culturali che essa ebbe; questo significa che il fenomeno non si basava su dei "capi" ideologici particolari, ma raccolse più che altro la varietà di valori e di desideri che ogni italiano sentiva. La Resistenza, analizzata nella sua componente rivoluzionaria, fu un movimento talora violento col quale si cercò di instaurare un nuovo ordine sociale e politico; la Resistenza cercò di ribaltare un insieme di condizioni imposte dalla volontà di una persona in favore di ideali comuni all'intera popolazione. E come una rivoluzione, la Resistenza coinvolse una popolazione male armata, spesso male gestita e male organizzata, che tuttavia non desistette dal combattere e che non si scoraggiò, nonostante le gravi perdite che ogni giorno segnavano tragicamente la storia dei gruppi di azione partigiana. E' solo il supporto materiale e morale fornito dalla popolazione che, in sintonia con l'azione dei partigiani, ebbe un ruolo fondamentale nelle vicende della lotta dei militanti. E come in una rivoluzione, la moralità nella Resistenza ebbe un ruolo fondamentale, essenziale e primario perché animò costantemente ed energicamente un'azione che, se fosse stata priva di una spinta etica di base, non avrebbe sicuramente ottenuto i risultati che storicamente ebbe. Gli stessi nemici dei partigiani, sia i fascisti che i tedeschi, combatterono la Resistenza proprio in qualità di rivoluzione, in quanto non avevano un esercito, nel senso proprio del termine, da combattere, ma si trovavano di fronte ad una popolazione sollevatasi improvvisamente e fortemente determinata, più di ogni altra coalizione armata, nella conquista e nella realizzazione di quegli ideali da tanto disattesi. Episodi come quello delle Fosse Ardeatine, avvenuto nei pressi di Roma il 24-25 marzo 1944, è solo uno degli avvenimenti che testimoniano come i tedeschi cercassero attraverso azioni punitive e dimostrative, di scoraggiare gli insorti prima ancora di combatterli sul piano militare. Il grande valore che hanno le rivoluzioni sta nella condivisione degli ideali da parte di tutta la popolazione e nello spirito d'unità che ne deriva; ma nonostante


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ciò la storia ci insegna che le rivoluzioni, quando riescono a ribaltare il regime contro cui lottano, non sempre hanno successo, una volta terminato il periodo di lotta nel porre al potere uomini in gra.Jo di mantenere l'ordine e di valorizzare gli ideali per cui la rivoluzione è avvenuta. Fu difficile per il popolo italiano cercare di realizzare concretamente quelle virtù che tanto aveva desiderato, e tutt'oggi, parlando con chi visse direttamente quegli anni,si avverte una delusione, magari non esplicita,ma comunque palpabile, poiché sembra, dopo anni,che l'Italia non possa ancora godere di quei valori per cui i partigiani tanto lottarono.

C. Una guerra di classe. Questa fra le tre è con ogni probabilità la più permeata di significati e motivazioni di carattere morale e politico. Ciò che nelle menti e agli occhi della più parte dei partigiani fu evidente, era la coincidenza dei due nemici: della patria e della classe; tale coincidenza scemò, con il procedere del conflitto a causa di una sempre maggiore coscienza nazionale necessariamente interclassista, professata e propagandata «dai maggiori partiti della sinistra: [..] cogliendo un travaglio volto a non fare annegare nell'unità nazionale ogni opposizione di classe»(24). La coscienza della necessità dell'affermazione della classe operaia nacque quando diventò sempre più evidente il legame tra imprenditori e governanti, tra mentalità capitalistica e regime fascista. Resta quindi inscindibile dalla lotta antifascista, una ribellione proletaria, di tipo classista. «Il proletariato veniva così caricato di un sovrappiù di responsabilità nazionale»(25), verso una patria che in realtà non era loro, «perché i borghesi gliela rubano»(26). Quando lentamente si fu fatta strada la consapevolezza fra le masse operaie che l'asservimento ai padroni era equivalente all'asservimento all'imperialismo straniero, l'impegno politico, la guerra per la libertà, il desiderio di democrazia si caricarono di un nuovo valore: quello del conflitto interclassista: «la lotta per l'indipendenza nazionale veniva perciò ricongiunta alla lotta di classe contro l'alta borghesia indigena: [ ..] è la battaglia non tra due ceti economici, bensì tra due concezioni di vita, fra due concezioni, politiche: [..] la concezione della vita come creativa libertà e quella della vita come subordinazione ed ordine gerarchico»(27). Le motivazioni di classe alla base dei comportamenti di molti resistenti, operai o contadini, come pure vedremo in seguito, si accompagnavano spesso ad altre più strettamente patriottiche ed antifasciste. Sia che gli operai fossero più o meno politicizzati, la figura più forte e riassuntiva di nemico era quella di padrone fascista e servo dei tedeschi. Quali fossero le motivazioni di questo atteggiamento e se queste facessero o meno riferimento alle convinzioni etiche e politiche di ciascuno dei partecipanti al conflitto è la questione che più ci interessa sciogliere. In realtà soggetti diversi si muovevano spinti da altrettanto distinte motivazioni. In primo luogo è irrealistico e approssimativo pensare che «tutti i padroni industriali o agrari fossero collaborazionisti, [o] tutti fossero fascisti»(28), e allo stesso modo non tutti gli operai erano coinvolti nel conflitto. Lo spirito di classe, più che costituire la naturale evoluzione e manifestazione del senso patriottico, sfociava in violenti episodi di odio sociale, creando un'atmosfera di tensione e un nesso a doppia mandata fra guerra di classe e guerra civile - esplicata fra Resistenza e Re-pubblica Sociale - mentre minor rilievo, o almeno minor clamore suscitava il conflitto patriottico. E' evidente come questo particolare aspetto del fenomeno resistenziale fosse collegato alla linea politica del PCI e in parte a quella del PSIUP: erano, in relazione a questo, presenti alcuni temi che alimentavano atteggiamenti ed aspettative che ben si confanno al conflitto di classe. E' la cosiddetta "doppia anima" della guerra di classe. Esistevano però una doppia anima di vertice e una doppia anima di base, legata a fattori culturali, politici, ideologici, morali.


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Quali fossero le reazioni del ceto operaio al clima di oppressione e servilismo al quale erano soggetti è un elemento che non solo si differenzia da regione a regione ma che pure si poneva in stretta relazione al patrimonio culturale e al retroterra etico-sociale di ogni singolo individuo. Gli sfoghi più frequenti, avendo perso, o quasi, ogni reale diritto di protesta o di sciopero, si concretizzavano nei sabotaggi o nella formazione di squadre di azione patriottica finalizzate al danno delle fabbriche, i cui padroni si erano mostrati o erano sospetti collaborazionisti. In tutti era forte la voglia di cambiare le cose, gli ideali morali si andavano fondendo alla rabbia e alla stanchezza per un regime che si protraeva ormai da anni, in animi più volte illusi di una imminente liberazione: una fine della guerra tanto agognata ma che per i resistenti nel senso più reale avrebbe tardato a venire. La considerazione della lotta contro i tedeschi e i fascisti non deve distoglierci da ciò che realmente aveva determinato il conflitto interclassista, ossia le condizioni concrete di vita degli operai; lo scoppiare del secondo conflitto mondiale, il protrarsi della dittatura in Italia, la povertà diffusa, l'abbandono dei ceti inferiori da parte delle organizzazioni sindacali, da parte del governo, persino il crollo dell'Italia nei rapporti internazionali avevano creato i presupposti perché l'astio covato dai proletari nei confronti del capitalismo e della borghesia padrona trovasse terreno fertile nella concretizzazione di quel conflitto di classe che gli ideali comunisti avevano da tempo ispirato negli animi, ma che non erano mai riusciti fino ad allora ad attuare. Possiamo dunque considerare la lotta di classe come soltanto parzialmente inserita nel contesto di una lotta per la libertà: è più ragionevole ritenere che agli occhi degli operai, il collaborazionismo e il filofascismo dei padroni rappresentasse il pretesto ideale per realizzare i propri ideali politici nella convinzione radicata di agire realmente nel bene e nell'interesse della nazione. Il sentimento di coscienza nazionale, che. anche i maggiori partiti della sinistra avevano contribuito a diffondere, non aveva in realtà annullato completamente quella coincidenza fra nemico della patria e nemico della classe proletaria di cui si è detto all'inizio, ma aveva tutt'al più consegnato agli operai un motivo e un principio in più cui aggrapparsi per vedere concretizzate le proprie aspettative e i propri ideali, partecipando alla lotta resistenziale più per migliorare le proprie condizioni che per altro, consapevoli, però, che il proprio impegno e i rischi che correvano avrebbero contribuito a creare per tutti uno stato democratico e libero in cui vivere e lavorare.

2. La scelta resistenziale Una delle caratteristiche che accomunavano l'azione di quasi tutti i partigiani era la spontaneità con cui essi scelsero liberamente di unirsi a coloro che per primi sentirono la necessità di intervenire militarmente per quegli ideali di giustizia e di libertà tanto desiderati. Come in precedenza accennato riguardo all'esperienza del partigiano Giancarlo Puecher, la scelta resistenziale non era solo dettata dalla necessità di una vita migliore o dalla ricerca di un futuro non certo peggiore di quello che si prospettava, ma costituiva anche un impegno rischioso e faticoso nel quale si metteva in pericolo la propria stessa vita e quella dei compagni. Certamente la scelta resistenziale nasceva dall'esasperazione e dalla voglia di pace covate nei lunghi anni del regime fascista e del conflitto mondiale, e proprio la consapevolezza di "essere arrivati ultimi" in una risposta di tipo politico e militare, alla situazione contingente, rendeva l'impegno partigiano non solo riferito all'obiettivo più immediato della cacciata dei tedeschi, ma anche rivolto a costruire un futuro migliore. Non sempre, però, si può parlare di "spontaneità", nella scelta resistenziale:


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come dice Albina Caviglione Russo, «singolare, questa tremenda libertà di scelta nelle massime cose, questa via tracciata nelle minime»(29). Ma proprio per le caratteristiche politico-ideologiche che stavano alla base della scelta partigiana, e che nascevano, come già detto, in risposta a un presente aberrante e come proposta per un futuro diverso e pacifico, la Resistenza veniva caricata di motivazioni tanto individuali quanto collettive: le prime nascevano dall'esigenza di una sorta di "fedeltà a se stessi", le seconde, invece, scaturivano, da un lato da un sentimento di solidarietà comune e di conforto reciproco, e dall'altro, dalla consapevolezza della inutilità di una risposta individuale e frammentata a un nemico che appariva così potente e superiore dal punto di vista militare. Pur seguendo questa distinzione, va però precisato che la scelta puramente personale doveva concretizzarsi e si concretizzava secondo disposizioni comuni. La scelta personale nasceva essenzialmente da due fattori: la considerazione della gravità dei fatti che si stavano verificando in quegli anni e la coscienza di non poter rimanere indifferenti e di dover quindi schierarsi in prima linea per una causa che coinvolgeva tutti gli italiani; di certo la popolazione non era costantemente al corrente delle evoluzioni politiche e militari del conflitto, ma indubbiamente, dopo i fatti e i sentimenti dell'8 settembre, e, ancor prima, del 25 luglio, restava la certezza che né i fascisti, né i tedeschi potevano in alcun modo aiutare l'Italia. «Il vuoto istituzionale creato dall'8 settembre caratterizza in questo senso il contesto in cui gli italiani furono chiamati a scelte alle quali molti di loro mai pensavano che la vita potesse chiamarli»(30). L'Italia doveva cercare la libertà e la giustizia tanto agognate, da sola, attraverso sacrifici e sforzi che avrebbero segnato un'intera generazione e che avrebbero lasciato negli animi di coloro che vissero tanto a lungo da poter assistere ai primi successi della democrazia un sentimento di eroismo, di orgoglio e di commozione. La vittoria conquistata solo grazie a meriti propri fa del vincitore un uomo realizzato e certo che la propria scelta, pur non priva di incertezze e causa di anni di sofferenze, ha fatto sì che un popolo da anni oppresso e "castrato" dal punto di vista ideologico resuscitasse dalle proprie rovine attraverso la strenua lotta per la libertà.«"Da una parte, infatti, il valore di libertà viene attribuito all'atto stesso dello scegliere, dall'altra sembra impossibile evitare il rinvio ai contenuti della scelta stessa»(31). «Compare in molti episodi, la tendenza a essere scelti piuttosto che a scegliere, fino alla tentazione a cedere ad un rassegnato e pallido moralismo»(32). La scelta è difficile quando si è incerti sugli esiti che il proprio agire può avere, tanto più in una contingenza come quella del dopo-governo fascista, quando le incertezze sovrastavano le certezze e quando l'unico stimolo rimaneva la tensione alla libertà, in una situazione governata solo dalla violenza. Questo presupponeva non solo un maggior coraggio, retto da motivazioni più forti dell'attaccamento alla propria stessa vita, ma anche una maggiore determinazione, legata alla consapevolezza del fatto che, una volta unitisi al gruppo di azione partigiana non sarebbe stato più possibile tornare indietro poi-ché questo avrebbe costituito un pericolo per l'incolumità dei compagni, oltre che un "tradimento" verso se stessi e le proprie convinzioni. D'altra parte era giunto il momento in cui non si poteva più rimanere inermi e indifferenti: il clima italiano in quegli anni non permetteva più, dal punto di vista morale, l'immobilità. «Nella banda Italia Libera [..] fu richiesto di impegnarsi con il giuramento di un uomo d'onore a combattere i tedeschi e i fascisti e a perseguire ideali di giustizia sociale e di libertà democratica: per chi avesse tradito era prevista la morte»(33). Questo testimonia il fatto che la scelta resistenziale comportava una responsabilità che andava oltre la dimensione strettamente etica e che assumeva connotati dettati dalla legge marziale che si era dimostrata indispensabile affinché l'azione


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dei partigiani non si sgretolasse a causa di una inconsistenza organizzativa. I singoli gruppi di azione antifascista dovettero quindi operare una serie di scelte atte a regolamentare e organizzare i loro movimenti: chi voleva aderire ad un gruppo di partigiani doveva accettare che la propria vita poteva essere sacrificata in ogni occasione e che i suoi compiti e le sue responsabilità durante un sabotaggio o comunque durante un'azione mirata a destabilizzare il nemico dovevano essere portate a termine senza alcun errore. Come già detto in precedenza gli ideali che muovevano i singoli erano accomunati dal desiderio di libertà e di riscatto della propria nazione: «Sono figlio d'Italia di anni 21, non di Graziani e nemmeno badogliano, ma sono italiano: e seguo la via che salverà l'onore d'Italia»(34). Di conseguenza le scelte personali andavano fondendosi in una scelta collettiva che senza dubbio fu il punto di forza del movimento resistenziale. Questo non significa che i partigiani avessero anche una decisionalità comune, poiché la frammentarietà dell'organizzazione lo impediva, ma, dal punto di vista etico, che porta le persone a perseguire determinati valori ideologico-morali, lo spirito collettivo fu uno.

3. Il problema della violenza Quanto evidenziato finora nella trattazione, pur presentando la Resistenza sotto aspetti diversi e distinti (la tesi delle tre guerre, la vita partigiana come scelta individuale e collettiva, ecc.), va ricondotto ad una caratteristica comune non solo al fenomeno resistenziale, ma addirittura a tutto il clima politico sociale di quegli anni: l'uso della violenza. Nella realtà contingente, la violenza era l'unico mezzo di comunicazione rimasto; violenza come mezzo di offesa, di difesa e di ribellione: violenza degli oppressori e degli oppressi. Occorre, tuttavia, anche e soprattutto in questo caso, «portare un contributo alla corretta valutazione del tipo di violenza che esercitarono i resistenti e i fascisti, da una parte rapportandolo a quel quadro della seconda guerra mondiale che era comune a tutti, fascisti e antifascisti, italiani e tedeschi, dall'altra tenendo ferme le distinzioni di fondo tra le parti in causa»(35) e contemporaneamente capire cosa si agitava nell'animo e nelle coscienze di coloro che, volenti o nolenti, usavano la forza e la violenza. Esisteva una grossissima differenza ideologico-morale tra la violenza fascista e quella partigiana, che nasceva sostanzialmente dalla rottura del "monopolio statale della violenza": il nazifascismo aveva fondato la sua stessa ideologia e la sua stessa linea di governo sulla brutalità, tanto che essa aveva finito per costituire un vero e proprio valore. E tanto più era considerato un bene, in quanto era gratuita, non necessaria, giustificata unicamente da un'ideologia politica di tipo dittatoriale e repressiva. Nell'Italia del 1943, invece, la violenza esplodeva presso i resistenti, a causa del troppo tempo in cui essa era stata accumulata: nasceva dall'esasperazione di anni di soprusi e crudeltà, da anni di guerra, una guerra che nessuno capiva, perché in realtà senza senso: in una situazione governata dalla disperazione e dalla disumanità, la violenza appariva, ai partigiani, come l'unico modo per dare voce alle loro esigenze politiche e sociali riguardo un presente libero (tale era il fine immediato della Resistenza, cioè cacciare dal suolo italiano nazisti e fascisti) e un futuro democratico. «La violenza come seduzione e la violenza come dura necessità si scontrarono così in modo palese, pur convivendo talvolta nelle stesse persone»(36); infatti era presente tanto nei fascisti, quanto nei resistenti, la dicotomia tra il rifiuto etico della violenza e la necessità di far emergere tutta quella aggressività accumulati in anni di guerra e di oltraggi tanto che è talvolta possibile riscontrare fra gli atteggiamenti di questi ultimi sentimenti e motivazioni più tipiche dei fascisti, quali la consuetudine e


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l'indifferenza nell'uccidere. La decisione degli antifascisti di intervenire anche militarmente, oltre che politicamente e ideologicamente, all'eliminazione delle compagini nemiche dopo anni di sopportazione, nasceva dalla considerazione del senso che la vita assumeva nella situazione contemporanea, in cui la pratica frequente e l'indifferenza nell'uccidere portava necessariamente ad una sorta di assuefazione all'aggressività e al suo utilizzo in ordine al raggiungimento di qualunque scopo: si arrivava così alla sdrammatizzazione della propria morte violenta proprio perché la violenza era rimasta l'unica strada possibile, uno sbocco ineluttabile per affermare nuovi e più giusti valori di libertà e democrazia. «Quando la magistratura vorrà, dopo la liberazione, applicare ai partigiani le attenuanti generiche per i delitti dei quali venivano imputati per fatti compiuti durante la Resistenza, essa invocherà il clima di "sfacelo morale" in cui quei combattenti si erano a suo giudizio mossi, compiendo così, a fin di bene, un'ingiuriosa assimilazione dello spirito resistenziale ai punti più bassi toccati dallo spirito pubblico in quei venti mesi».(37) D'altra parte in quel clima l'uso della brutalità non andava considerato in quanto tale, ma andava ricondotto alla causa in nome della quale essa veniva esercitata; e le motivazioni resistenziali erano tutte puntate alla vivendi causa dell'umanità, per la quale non si poteva più «tollerare l'intollerabilità dell'aggressione nazifascista»(38). Quella partigiana nasce dunque come violenza di tipo puramente difensivo rispetto ad una situazione che si era fatta insostenibile. In questo senso vanno distinti i due tipi di violenza (quella resistenziale e quella nazifascista) sotto due parametri: quello della legalità, intesa in senso giuridico, e quello della legittimità, intesa in senso ideologico, politico e morale; proprio in virtù di quella vivendi causa dell'umanità di cui sopra, persino i cattolici ammettevano la liceità della violenza anche se, da parte dei partigiani, questa usciva dalla legalità, eludendo il monopolio della violenza detenuto dai fascisti. Quindi l'utilizzo della forza da parte dei resistenti era legittimo, perché in un certo senso necessario e inevitabile, ma non legale perché al di fuori di una violenza "lecita": quella nazifascista. Al contrario i fascisti della RSI agivano tramite aggressioni legali ma non legittime, perché gratuite ed ingiustificate; l'aggressività fascista veniva inoltre accentuata dalla consapevolezza di non avere più la forza politica e "numerica" di un tempo e dalla insoddisfazione di battersi con un nemico, la Resistenza, che considerava, e che in effetti era, militarmente inferiore. Restava inoltre il rancore e la delusione, come se fossero stati derubati di quel diritto alla violenza che il regime garantiva. D'altra parte questo atteggiamento rendeva la lotta partigiana più accesa ed accanita, contro un nemico "onnipotente" e su cui avevano imparato a riversare tutta la loro rabbia: «Altezza di impegno etico e rischio di totalizzazione convivevano dunque nella guerra partigiana condotta contro un nemico - il fascismo ed il nazismo - che aveva tutti i requisisti per essere qualificato come il nemico totale[...] Il carattere disumano che assume il nemico visto nella prospettiva dell'annientamento [...si tramuta nella] disumanità che in tal modo esso tende a riverberare su chi, proprio per quel suo carattere gli si oppone»(39). Era forte il sentimento della liceità della violenza : «alla violenza-rischio, praticata dai partigiani, [ ..] voi fascisti non rispondete da uomini d'onore ma con la consueta vigliaccheria della violenza illegale protetta dalla "giustizia", cioè dal potere costituito dalla vostra repubblica «(40). Tuttavia non bisogna pensare che la vera e propria lotta armata non costituisse per i partigiani alcun problema, nonostante sentissero in qualche modo che era legittima: in particolare costituivano occasione di riflessione il modo con cui veniva condotta la guerra resistenziale e quel "di più" di violenza che rendeva


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talvolta l'agire partigiano simile a quello fascista. Nel primo caso creava qualche problema il combattere attraverso azioni di guerriglia e imboscate: infatti, pur essendo consapevoli del fatto che per inferiorità militare e per il carattere illegale del proprio lottare la risposta partigiana non poteva risolversi altrimenti, in molti rimaneva «il vago scrupolo che l'imboscata [fosse] pur sempre una guerra un po' a tradimento»(41). Ma era più difficile giustificare, anche e soprattutto agli occhi degli stessi partigiani, il surplus di violenza che si poteva riscontrare nell'agire dei resistenti. Pur considerando il clima di quegli anni, per cui la stessa violenza era divenuta un valore dominante, in cui la brutalità era quasi sempre necessaria e inevitabile, in cui la gente era carica di aggressività, pronta a fuoriuscire in qualunque occasione, rimaneva problematico concordare l'agire con le motivazioni politiche ed ideologiche di democrazia e libertà che avrebbero dovuto sorreggerlo, quando questo diveniva inspiegabilmente e inutilmente crudele. In questi casi l'illegalità giuridica si fondeva con l'illegittimità che era, o almeno avrebbe dovuto essere più tipica degli oppressori nazi- fascisti. Ma forse questo era dovuto proprio all'istintivo senso di una "risposta ad armi pari" degli stessi resistenti. Il contrasto militare tra partigiani e nazifascisti si basò sostanzialmente su una guerra che possiamo definire di logoramento, dato che mai i due schieramenti si scontrarono sul fronte, poiché i resistenti non costituivano un esercito nel senso proprio del termine; le due parti, ma soprattutto i gruppi di azione partigiana, cercavano di danneggiare il nemico attraverso quella modalità bellica che Caludio Pavone indica col termine "rappresaglia". Non essendo possibile per i resistenti fare altro che seguire una strategia siffatta, si rese indispensabile, perché la loro azione avesse una maggiore efficacia, attuare una violenza, spesso inaudita, che, estranea ad ogni tipo di legge morale, fece talvolta dei partigiani dei combattenti privi di scrupoli e tesi unicamente alla vendetta che andava di frequente oltre le reali "necessità" del conflitto. «Permetta, signor colonnello, che io approvi la sua troppa bontà. Nella guerra che conduciamo, e conoscendo gli Italiani, essere buoni è una colpa e non dobbiamo né possiamo esserlo nell'interesse della nostra Patria e della Causa per cui combattiamo. ogni tanto bisogna fucilare, anche per provare le armi»(42). Di qui la necessità dei gruppi di resistenti di autodisciplinarsi e di organizzare la risposta armata e di evitare azioni punitive verso il nemico che, per le ripercussioni che avrebbero poi comportato sull'intera popolazione, si sarebbero rivelate dannose ed inutili al conseguimento di quegli ideali sulla base dei quali la Resistenza era nata. Con il passare dei mesi i gruppi partigiani assunsero sempre più i connotati tipici di un esercito, perfino con l'adozione di divise, creando quindi una serie di regolamentazioni interne al gruppo: queste norme avevano lo scopo di dare all'azione partigiana una maggiore serietà dal punto di vista militare e un maggiore spirito di coesione tra i partigiani stessi, evitando così il verificarsi di episodi di razzie e di abuso da parte dei combattenti nei confronti dei nemici. «Disciplinare la violenza poteva dunque significare esercitarla fino in fondo contro quelli della propria parte che ne stravolgevano le ragioni. [..] Un partigiano temano che aveva svaligiato il magazzino degli slavi, viene condannato a morte. Un partigiano che ruba 10000 lire a un fascista arrestato viene fucilato, mentre il fascista viene rilasciato dopo diffida»(43). La facoltà punitiva scaturiva dunque dalla necessità di una ferrea autodisciplina e dal bisogno di distinguere tra aspetto sostanziale e aspetto formale, cioè tra l'essere realmente un partigiano e solamente il sembrarlo, dimenticando ogni dimensione etico-politica alla base dell'azione resistenziale. Le rappresaglie da parte dei partigiani costituiscono un elemento fondamentale nella lotta contro i nazi-fascisti, poiché l'azione di logoramento si realizzava anche


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attraverso attentati a gruppi nemici; questi avevano lo scopo di minare il controllo fascista sul territorio e sulla popolazione, tramite l'uccisione di soldati o di civili, che comunque rivestivano il ruolo di nemici, in quanto appoggiavano o avevano appoggiato il regime. Tali azioni, che segnarono il periodo resistenziale con un enorme spargimento di sangue e con atti di violenza che oltrepassavano ogni limite di necessità (la liberazione dell'Italia e la costituzione di un futuro democratico), potevano apportare alla causa dei resistenti grossi vantaggi, ma spesso le controrappresaglie tedesche avevano degli effetti così disastrosi da sconvolgere completamente ogni risultato fino ad allora ottenuto. La rappresaglia cercava di dissuadere il nemico dal continuare a lottare e ad opporre resistenza, la controrappresaglia aveva lo scopo di vendicare l'azione subita, di pareggiare le perdite, e di dimostrare al nemico la propria efficienza militare. Era fondamentale per le parti non mostrare i danni subiti dalle rappresaglie nemiche, poiché «piegarsi di fronte alle rappresaglie poteva essere considerato un implicito riconoscimento del diritto del nemico a esercitarle»(44). Ad ogni attacco partigiano corrispondeva una risposta militare nazifascista, e viceversa; ognuna delle due parti cercava di rispondere in modo più energico del nemico: episodi come quello delle Fosse Ardeatine, di cui si è già parlato, testimoniano le condizioni del conflitto fra partigiani e nazifascisti, e fanno riflettere sulle condizioni di estrema violenza in cui versava l'Italia della Resistenza, violenza che coinvolgeva anche persone innocenti, o almeno estranee al conflitto diretto. «Rappresaglie contro i familiari dei disertori sono stabilite da disposizioni delle autorità sia tedesche che italiane»(45). Le rappresaglie non erano in primo luogo un mezzo per raggiungere gli ideali per cui i partigiani lottavano, ma erano la concretizzazione di uno spirito vendicativo e di un'aggressività, spesso al di fuori di qualsiasi progetto razionale e di giustificazione morale. Lo testimonia il fatto che gli interessi militari delle parti avevano la meglio su quei principi fondamentali, quale il rispetto per le popolazioni innocenti, necessario perché un conflitto non provocasse più morti e più disastri di quanto non avesse già fatto. Ogni individuo catturato, anche se non appartenente ad uno dei due eserciti, poteva costituire un ostaggio ed, in quanto tale, non costituiva più un essere umano ma un mezzo di scambio, una potenziale vittima. La ricerca e la cattura degli ostaggi non era una semplice procedura da eseguire durante un attacco contro il nemico, ma diventò ben presto una strategia che entrambe le parti eseguivano con regolarità, per garantirsi un mezzo attraverso il quale minacciare e ricattare gli avversarsi. Il clima di terrore si era diffuso in tutto il territorio; la strategia della rappresaglia costituiva un elemento indispensabile per impensierire l'azione dei nemici, e gli stessi partigiani erano istigati dai loro superiori, come accadeva anche ai tedeschi, a essere ancora più violenti del nemico, a vendicare i danni e le perdite con azioni ancora più dure di quelle che si erano subite. «Nella guerra che conducono i patrioti delle formazioni partigiane, la rappresaglia del nemico sulla popolazione è quasi inevitabile. Sta a noi intervenire nel modo più acconcio nella difesa degli interessi degli abitanti minacciati dalle rappresaglie nazifasciste. Se i nazifascisti bruciano le case dei contadini noi dovremmo bruciare le case dei fascisti, dei capi fascisti; se uccidono per rappresaglia dei pacifici abitanti dei paesi dovremo passare alle controrappresaglie sui fascisti, tedeschi e anche loro famiglie. Al terrore antifascista bisogna contrapporre il terrore patriottico»(46). Lo spirito che animava le azioni di rappresaglia era più presente nei centri urbani, perché la scarsa possibilità di nascondersi e la massiccia presenza di contingenti tedeschi costringevano ad azioni più rapide e ad una maggior determinazione. E' proprio nelle città che nasce il "terrorismo" partigiano, inteso come


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estrema reazione ai soprusi nazifascisti, espresso dai GAP (Gruppi di Azione Patriottica), nell'agire dei quali è possibile individuare alcuni dei punti essenziali della vicenda resistenziale. Anche se operare una distinzione non era sempre facile, le azioni gappiste cercavano sempre di essere mirate ad personam, cioè «il terrorismo, in città, non era diretto contro tutti indiscriminatamente i soldati nemici, ma solo contro chi era adibito a compiti di polizia, di repressione, di rappresaglia»(47): le azioni di violenza dovevano essere esemplari solo in quanto dirette verso i reali responsabili: «solo così dimostreremo di essere implacabili sì contro i nemici del popolo e della libertà, ma retti e onesti e soprattutto combattenti rivoluzionari, come sempre lo hanno dimostrato e lo dimostrano i comunisti»(48). Tuttavia la resistenza urbana fu molte volte caratterizzata da elementi superficiali e scarsamente motivati: proprio questo aspetto, accanto a quello ideologico-politico, differenziava la lotta partigiana urbana da quella di montagna; il combattente di città appariva ai combattenti alpini come un politico, animato solo da uno spirito ardito e "colpista", operando una nettissima distinzione tra etica dell' "ardito" e etica dell' "alpino" e tra la definizione di "soldato" e di "colpista". Non bisogna però affrettare il giudizio, senza considerare che i gappisti, proprio a causa dell'ambiente e delle situazioni in cui dovevano operare, erano sottoposti a pressioni fortissime e dovevano tenere conto di problemi estranei alla vita partigiana alpina, o comunque presenti in modo minore come la determinazione e l'agilità dei nemici nelle città, la clandestinità, da cui derivava un forte senso di solitudine e abbandono, ecc. Le azioni partigiane urbane, inoltre, erano tali da comportare una sorta di "privatizzazione" del nemico e la conseguente esigenza di freddezza nell'ucciderlo; ciò portava ancora di più a rinchiudersi in se stessi, per riuscire a tenere saldamenti uniti i valori politico-morali e l'inflessibilità nella lotta contro il nemico. Particolarmente importante ai fini di un'analisi etico-emozionale del fenomeno resistenziale appare la considerazione della fase insurrezionale e postinsurrezionale, la cosiddetta "resa dei conti" affiancata dall'attuazione del processo di epurazione previsto dal nuovo assetto istituzionale. Accanto alla volontà di agire accentuata dal vicino traguardo della fine della guerra, esisteva però anche il timore che quel particolare momento potesse costituire l'ultima occasione per agire scorrettamente protetti dall'impunità che quel clima di assoluto disordine garantiva. Da un lato, quindi, si spingeva all'azione, dall'altro si cercava di frenarla per paura degli eccessi: «E' in questo quadro che va collocata l'esplosione di violenza avutasi in quei giorni cruciali, quando l'esasperazione accumulata in venti mesi di guerra civile venne allo scoperto ed ebbe uno sfogo che, se era legittimato dalla vittoria, la vittoria stessa poteva in breve tempo far scivolare sul terreno della mera e scomposta vendetta»(49). In questo contesto si inserì la politica del CLN che proponeva una giustizia "rapida ed esemplare" che escludesse gli eccessi e la radicalità partigiana. Si cercò, così, di operare, almeno a livello teorico, una distinzione tra attività militare, funzione di polizia e procedimenti giudiziari, anche se la realtà non sempre vi corrispondeva: non si poteva pensare di ridurre il ruolo dei partigiani a semplici militari, proprio per il valore politico e ideologico intrinseco alla risposta resistenziale; si era giunti al culmine di una lotta antifascista durata anni e che per essere conclusa richiedeva paradossalmente altri morti. D'altra parte non era sempre facile sopprimere la rabbia accumulata: così, molte volte, negata la possibilità di punirne i diretti responsabili, essa prendeva altre vie di sfogo, diventando rigetto della viltà nemica. Il desiderio di rivalsa e la necessità di sfogare quella aggressività tipica dell'oppresso non si risolveva quasi mai, però,

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nella denuncia alle pubbliche autorità, secondo quell'atteggiamento così radicato nell'etica popolare, di rifiuto dell'autorità stessa, qualunque essa fosse. L'abitudine alla violenza conduceva però anche ad atteggiamenti contrari a quanto sopra detto, come il rifiuto delle armi e la propensione al perdono: «il perdono come virtù, il perdono come colpa e come errore politico, il perdono come ripugnanza a stravincere e come desiderio di oblio, si intrecciano, dunque, con la violenza nei giorni di aprile-maggio 1945»(50).

3. La vita e la morte Quella resistenziale, come sopra detto, fu per i partigiani una scelta che li spinse a mettere a repentaglio la loro vita e quella dei familiari, per far sì che l'Italia potesse scrollarsi di dosso l'oppressione nazifascista. Il resistente in quanto soldato non poteva certo prevedere il destino della sua vita: avrebbe vissuto tanto da poter raccontare le imprese sue e dei suoi compagni, o sarebbe finito presto nelle mani dei nemici? Ma la vita di un uomo perdeva di significato in una situazione politica e ideologica come quella del regime fascista, ed il partigiano sentiva la necessità di alimentare quelle speranze che costituivano la unica spinta ad andare avanti, a costo di vivere a un passo dalla morte. La vita dunque, era per il partigiano qualcosa privo di valore se lontana da quegli ideali cui la Resistenza tendeva: la vita era qualcosa che doveva essere sacrificato per il bene comune e per un futuro migliore. La morte non costituiva quindi il tragico epilogo di un tentativo rivoluzionario, ma un atto di estremo amore per la patria e per i propri compagni. Il sacrificio e la morte erano spesso un binomio indivisibile; le perdite registrate dai partigiani erano il risultato di azioni militari contro i nemici che, disponendo di mezzi sicuramente più efficienti e di un maggior numero di uomini si trovavano spesso in vantaggio sui resistenti. L'azione partigiana poteva dunque avere successo solo attraverso gesti eroici da parte di uomini che, disposti al sacrificio, erano coscienti del fatto che l'unica possibilità di imporsi sul nemico comportava azioni nelle quali il rischio di rimanere uccisi era sempre e costantemente presente. I combattenti per la causa partigiana si sentivano gravare sulle spalle il peso di una grandissima responsabilità, di una sorta di promessa che essi avevano fatto non solo a se stessi, ma ai loro amici, ai conoscenti morti a causa del nazifascismo, a tutti coloro che speravano ardentemente, come loro, in un'Italia migliore. Essi si sentivano obbligati a continuare in una direzione che, proprio grazie alla costanza e alla determinazione, avrebbe portato alla liberazione dell'Italia dagli oppressori tedeschi e fascisti. Bisogna comprendere che, nella situazione in cui vivevano i resistenti, la felicità poteva essere data solo dal raggiungimento e dalla concretizzazione degli ideali di libertà e di giustizia; i partigiani erano coscienti della necessità di dovere attuare un'azione militare violenta per liberarsi dagli oppressori ed erano coscienti del fatto che, rinunciando ad una politica di questo tipo, mai essi avrebbero potuto vivere felicemente in un paese democratico e libero. Era dunque più giusto, dal punto di vista etico, continuare a lottare, pur continuando a mettere la propria vita a rischio, che vivere, pur senza correre rischi, in un paese dove la popolazione avrebbe continuato a subire l'oppressione straniera e dove mai si sarebbe potuto essere felici. Proprio per questo motivo i partigiani furono disposti non solo a mettere in pericolo le proprie vite, ma riuscirono a sopportare, pur con gravi conseguenze, il dolore e la sofferenza dovuta alla morte dei propri compagni, alla quale magari, si sarebbe preferita la propria. L'amicizia e la solidarietà erano infatti due elementi che legavano strettamente i compagni di azione partigiana che, coscienti della


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necessità di agire per il raggiungimento dei valori tanto desiderati, erano mossi da uno stesso sentimento e da una comune ricerca di giustizia. Il legame che univa i resistenti, che magari mai si erano conosciuti se non in occasione di azioni militari, fu un elemento essenziale dell'azione dei partigiani. E questo legame era talmente forte da spingere un uomo a sacrificarsi per salvare la vita ai propri compagni, oltre che per favorirne l'azione; ancora oggi, i testimoni diretti di questi momenti drammatici, ricordano con grande commozione i loro amici morti combattendo contro i tedeschi, spesso dopo agonie indescrivibili o magari torturati dopo essere stati catturati dai nemici. La giustizia e la libertà erano dunque valori, assieme all'amore per la patria, che venivano a mettere in secondo piano l'attaccamento alla vita per cui un uomo è naturalmente predisposto; per un partigiano era dunque moralmente più importante salvare la propria patria che la propria vita. E' questo uno degli aspetti connessi alla dimensione etica del fenomeno resistenziale che maggiormente aiutano gli uomini delle generazioni successive a comprendere la Resistenza, vista come movimento popolare collettivo rivolto alla ricerca della concretizzazione di ideali irrinunciabili. Proprio grazie a questa fortissima determinazione i partigiani poterono lottare con costanza e con risolutezza, raggiungendo quei successi la cui massima espressione venne raggiunta il 25 aprile. La Resistenza, in questo senso, è un esempio di coerenza verso i propri ideali e verso le proprie speranze che ci insegna come attraverso sacrifici, difficoltà, dolore e sofferenza, l'uomo possa raggiungere dei risultati magari apparentemente impossibili ed irrealizzabili. La convinzione morale dei resistenti, secondo la quale era giusto mettere a repentaglio la propria esistenza pur di non vivere in uno stato di oppressione, ci insegna a prendere in grande considerazione i risultati ottenuti grazie al loro agire; ciò significa non solo prendere esempio dal valore e dall'eroismo dell'azione partigiana, ma significa soprattutto non vanificare gli sforzi ed i grandissimi sacrifici di coloro che cinquanta anni fa lottarono per liberare la loro patria. Un altro valore che la Resistenza ci trasmette è quello del perdono; in condizioni di estrema violenza e di grande ingiustizia che caratterizzano gli anni conclusivi del secondo conflitto mondiale, stupisce l'atteggiamento di alcuni partigiani, fra cui Giancarlo Puecher che, pur consapevole del tragico destino che gli si prospettava, grazie anche alla forte sensibilità religiosa, riuscì a perdonare quelli che di lì a poco sarebbero diventati i suoi carnefici. Egli, nella sua giovane età, era consapevole che il suo impegno a favore dell'azione partigiana avrebbe potuto stroncare, come poi è stato, il suo futuro che, date le sue agiate condizioni familiari, sarebbe sicuramente stato meno difficile di quello di altri italiani. Ma un futuro roseo in una Italia oppressa dai nazifascisti non aveva senso, non lo avrebbe reso realmente felice e realizzato; la sua sensibilità interiore lo spinse a sacrificarsi e ad accettare la propria morte prematura in nome di valori superiori. «Non sanno quello che fanno» dice Puecher nella sua ultima lettera, citando il Vangelo: e proprio per questo egli perdona i suoi assassini, perdona coloro che non gli avrebbero permesso di vivere e di realizzare i sogni della sua vita. Non tutti i partigiani, come è d'altronde comprensibile, riuscirono a perdonare i loro nemici, poiché le grandi sofferenze e la disperazione che essi avevano procurato loro andava oltre ogni limite e oltre ogni possibile accettazione, ma non si può fare a meno di trarre un profondo insegnamento etico da coloro che riuscirono a perdonare gli artefici di tanta violenza ed ingiustizia.


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4. Le speranze e i progetti per il futuro

L'autore del libro analizzato, a proposito delle politiche e delle speranze per il futuro, utili alla ricostruzione di un ordine che sembrava essere stato perduto da tempo, accenna appena alla questione della utopia. Molti degli ideali che avevano guidato la Resistenza lungo tutto il cammino dell'opposizione al nazifascismo, dai primi albori di una Resistenza debole e mal organizzata fino alla liberazione d'Italia, quando ormai le squadre partigiane creavano ben più che qualche semplice problema alle forze nemiche, avevano un che di utopico. La democrazia e la libertà,la giustizia e la patria avevano sempre rappresentato, nella mente della gente, da una parte l'anticamera della rivoluzione che avrebbe finalmente capovolto un sistema ingiusto, dall'altra la rappresentazione di un Eden, la realizzazione di un'eterea idealità dove potessero essere ricompensate le ingiustizie e le angherie subite per una vita. Questo aspetto caratterizzava la maggior parte degli ideali resistenziali: molti partigiani agivano non tanto per una propria realizzazione personale, per un riscontro da ottenere in tempi brevi o per una ricompensa materiale o politica, quanto per garantire un futuro all'Italia, assicurare uno stato stabile e una nazione solida ai propri figli e ai figli dei propri figli, gettando le basi della democrazia che noi viviamo mezzo secolo dopo quegli avvenimenti. Ma tutto ciò sarebbe stato di certo irrealizzabile senza una forte componente realistica, se tutti gli ideali che erano alla base delle scelte resistenziali fossero state basate sulla utopia: la consapevolezza invece di essere davvero in grado di fare qualcosa, di aiutare in piccola misura a costruire una reale democrazia e una Repubblica la cui sovranità appartenesse realmente al popolo, fu il vero motore della forza e della volontà dei resistenti. E proprio questi elementi mettono in evidenza quanto fosse strettamente connesso alle questioni morali e alle connotazioni etiche del fenomeno resistenziale anche il rapporto generazionale: così come per i secoli, lo storico Marc Bloch osservò giustamente che esistono generazioni più brevi e generazioni più lunghe, la cui durata non dipende essenzialmente dallo scarto generazionale in termini di anni, bensì dal collegamento diretto che le diverse generazioni hanno o hanno avuto con i più recenti fatti storici; «quelli che hanno partecipato a eventi psicologicamente decisivi con uomini più vecchi di loro di quindici anni, possono sentirsi più vicini ad essi che a gente soltanto di poco più giovane, ma che non abbia partecipato a quelle grandi esperienze. Possiamo trovarne conferma nelle generazioni delle due guerre mondiali»(51). Le generazioni che furono coinvolte negli avvenimenti di quegli anni guardavano con sospetto ai fatti che accadevano e con ancor più sospetto guardavano verso il futuro: essi speravano realmente di poter costruire qualcosa per le generazioni a venire, la situazione politica così come era in quegli anni non lasciava molte speranze. I partigiani si aggrappavano ad ogni sogno, ad ogni ideale e ad ogni obiettivo per quanto utopico questo fosse. Le speranze e le aspettative per il futuro si mescolano in molti degli uomini e delle donne coinvolte nella Resistenza alla paura, al terrore del futuro: alla paura che un futuro non sia più possibile, al concreto timore di un'autodistruzione della civiltà. Bisogna anche considerare che ciascun protagonista del conflitto considerava la propria situazione, in mancanza di comunicazione, come rappresentativa di una situazione generale (e questo non era troppo lontano della realtà). Così se un uomo trovava solo distruzione e desolazione nei luoghi che un tempo aveva abitato, dopo essere tornato da uno scontro sul fronte o da altre missioni, nel regio esercito o nelle schiere della Resistenza, credeva che tutta l'Italia fosse diventata,

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alla stregua di quei luoghi, un deserto. Il mondo era crollato e il terrore era che non risorgesse più. «Quale sarà la Parigi, meglio quale sarà il mondo che uscirà dal tormento d'oggi? (... j Ho paura di questo domani che sarà così diverso, così ostile a troppe cose in cui ho creduto. Capisco che così deve essere; sono pronta a dare la vita perché così sia; ma avrò la forza di viverci, in questo "nuovo ordine" di domani?» (52). Tutti i problemi, politici, economici, sociali erano ignorati da tutti, erano rimandati a dopo il conflitto, «ogni guerra è così: si rimanda tutto a poi, a quando sarà finita. E mentre c'è la guerra è come se fossi sospeso a mezz'aria, fuori dal tempo. Il tempo riprenderà a scorrere un'ora dopo, ma è già la somma di tute le ore perdute» (53). Infine, la speranza che per tutti era la più importante, l'obiettivo più imminente da raggiungere e da conseguire era quello del ritorno non solo ad una stabilità politica agognata da tutti, ma anche e soprattutto ad una realtà privata stabile: una realtà familiare che ciascuno dei partigiani aveva, vicino o lontano: una moglie, un marito, una casa, dei figli, dei parenti lasciati a casa, i genitori anziani, i fratelli ancora giovani lasciati soli. L'ora del ritorno era quella che si aspettava sempre ma che non arrivava mai. Anche se spesso la speranza lasciava spazio al pessimismo, alla rassegnazione, alla depressione e all'incertezza, gli ideali che erano alla base della lotta e delle speranze resistenziali non morivano: restavano anzi vivi più che mai nelle menti e nei cuori di tutti i partigiani, ad animare quello spirito di unione, di organizzazione, e di opposizione ad un regime ingiusto che caratterizzò,lungo tutto il periodo resistenziale, le tre forme sotto cui si presentava la lotta partigiana: la guerra civile, la guerra di classe e la guerra patriottica. Molti non si resero neppure conto del termine della guerra, le cose cambiarono così, da un giorno all'altro e in molti altri l'effettivo momento in cui la guerra era finita e per i partigiani non c'era più nulla da fare costituì una piccola tragedia: per molti l'unica realtà rimasta era quella; accanto ad una moltitudine di uomini e donne che volevano tornare alle proprie case e alle proprie famiglie, ve n'era, infatti, un'altra che non sapeva più cosa fare, i cui vincoli con il mondo esterno alle organizzazione partigiane si era reciso nel momento in cui avevano deciso di farne parte, i cui familiari e amici erano stati portati via, e con ogni probabilità ammazzati, dai nazi-fascisti. Per tutti questi si trattava davvero di ricominciare tutto da capo, senza punti di riferimento, senza lavoro, senza casa, senza soldi. Dunque, il ritorno alla normalità fu tanto problematico quanto lo fu il periodo resistenziale. Mischiata a questi sentimenti, a questi problemi c'era però una profonda gioia per la fine della guerra, una contentezza ed un'euforia incomparabili: la guerra era finita, il nemico era stato sconfitto: si trattava di rimboccarsi le maniche, ricostruire un'Italia allo sfascio e gettare le basi di una Repubblica democratica fondata sul lavoro di tutti, nella quale vivere e far crescere i propri figli. La nostra Repubblica è dunque la vera eredità lasciataci dalla Resistenza. «Mi resta ancora il ricordo di una profonda euforia, di una esperienza di felicità, di grande fiducia in se stessi e negli altri»(54). «Ritorniamo a casa con semplicità, dopo venti mesi lotta e di lontananza: ritroveremo il tepore dell'affetto familiare, ritroveremo la mamma invecchiata, la povera santa Mamma. Leggete, studiate sui giornali i problemi del-la politica che sono i problemi dei nostri interessi, del nostro benessere, della nostra esistenza. Prendete sul serio il pensiero e non la forma, il lavoro e non le chiacchiere ( ..). Diffidate dei politicanti: chi vuoi vivere sulla politica è prima di tutto un fannullone ed è poi sempre un venale. La politica si fa quando termina la giornata di lavoro» (55).


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III. Conclusione

Il fenomeno resistenziale nell'opera di Claudio Pavone viene per la prima volta analizzato nelle sue componenti morali ed ideologico-politiche; viene così studiato l'atteggiamento partigiano non tanto dal punto di vista storico e "militare, ma soprattutto attuando un'indagine introspettiva delle situazioni psicologiche e delle radicate condizioni emotive che permeavano e fondavano la lotta antifascista. Secondo questa prospettiva anche l'agire militare vero e proprio, quella risposta armata descritta dagli storici per la maggior parte delle volte con freddezza e superficialità, viene esaminato a fondo e scisso in tre componenti individuabili a seconda degli ideali e del sentire che le animavano: si giunge così alla tesi delle tre guerre, interpretazione storica nuova ed originale che vede nella lotta resistenziale la coesistenza appunto di tre componenti: la guerra patriottica, la guerra civile e la guerra di classe. I sentimenti di identità nazionale, l'amore per la patria e la coscienza del bisogno di ricreare l'unità perduta avevano spinto infatti molti uomini e molte donne a combattere contro i nazifascisti per l'ideale della democrazia e della Repubblica. In questo senso il conflitto resistenziale si configura come guerra patriottica. Tuttavia, l'opposizione partigiana ai fascisti, si concretizzava, fra l'altro, in una guerra aperta combattuta sul suolo italiano, fra italiani, tutti invocando la patria, tutti combattendo in nome dell'Italia. Si era così di fronte ad una guerra civile che vedeva combattersi le fasce più povere e lavoratrici, insorte contro una situazione prolungata di sofferenza e di ingiustizie, ed una classe dominante, detentrice di un potere politico ormai decaduto, e convinta di aver ricreato un potere forte e in grado di risollevare le sorti del fascismo nella Repubblica Sociale. La guerra civile, è come visto, una delle più ricche di implicazioni morali e di conflitti etici per i suoi partecipanti. Infine, la guerra di classe, si legava ad un altro particolare aspetto della guerra resistenziale. La grande maggioranza dei resistenti e dei coinvolti in maniera più o meno diretta nel conflitto, era di estrazione proletaria: questi vedevano nell'opposizione al nazifascismo l'occasione ideale per realizzare quell'idea di rivoluzione che il socialismo aveva loro proposto. La guerra partigiana diventava così conflitto di classe, opposizione fra operai e borghesia: tentativo di realizzazione di quel nuovo ordine sociale proposto alle classi lavoratrici. Furono proprio le classi lavoratrici a porsi in prima linea nella lotta antifascista, creando gruppi di azione partigiana (come GAP e SAP nelle città) e organizzandosi militarmente contro il nemico: furono proprio i più oppressi a ribellarsi per primi al regime, spinti come erano da esigenze di libertà e di democrazia che tutelassero i loro diritti di uomini. Così, la partecipazione alla lotta antifascista nasceva come adesione spontanea alla comune ricerca di un presente libero e un futuro democratico, motivazioni ampiamente sostenute dal punto di vista politico dai partiti antifascisti, quali il PCI o il PSI, unitamente alla consapevolezza e in un certo senso anche all'orgoglio di essere italiani e di dover lottare per la propria patria contro un nemico che la stava distruggendo (se già non l'aveva fatto). E' pur certo che l'agire partigiano fu contraddistinto dall'uso della violenza, ma non bisogna fare l'errore di analizzare questo aspetto con gli occhi di oggi: bisogna infatti considerare le condizioni storiche e psicologiche in cui si decise l'uso della forza. Gli italiani si trovavano ad un punto di estrema esasperazione per tutto ciò che avevano dovuto subire dalle istituzioni fasciste e dalla guerra ed erano contemporaneamente ormai assuefatti ad un clima di violenze e di soprusi che durava ormai da troppo tempo; la violenza quindi era, da un lato, la risposta immediata a una situazione insostenibile sopportata per anni e che aveva provocato negli animi un'incredibile rabbia, dall'altro essa costituiva, in quella contingenza


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contingenza particolare, l'unica modalità di reazione al fascismo che potesse essere attuata. La questione dell'uso della violenza in epoca resistenziale è comunque molto complessa soprattutto per quanto riguarda la necessità di operare distinzioni tra la violenza fascista, legale ma illecita e quella resistenziale, lecita ma illegale; tra violenza ordinaria, contenuta entro i limiti di una risposta armata, e violenza eccessiva, come degenerazione di un atteggiamento comune non giustificabile in alcun modo se non considerandola come scelta del singolo individuo e non come scelta di gruppo, tra violenza come puro sentimento di odio e vendetta e violenza considerata solo come mezzo indispensabile per ottenere una realtà migliore, e quindi sorretta da precisi e forti ideali, ecc. Insomma durante il periodo resistenziale si intrecciarono vari tipi di violenza, moralmente fondati o meno, che comunque vanno presi in considerazione nell'ambito di una seria analisi storica che punti anche a delineare il sottofondo psicologico ed etico del fenomeno. I partigiani, fin da quando optarono per la scelta resistenziale, furono consapevoli del fatto che la loro vita era costantemente in pericolo, non solo durante le azioni militari che li vedevano a contatto diretto con il nemico, ma in ogni istante ed in ogni luogo, poiché i nazifascisti organizzavano e portavano a termine azioni di rappresaglia in ogni momento. Il partigiano era cioè consapevole di tutti i rischi che la scelta di lottare comportava; ma la forte necessità ed il grande desiderio di combattere per una patria libera dalle forze fasciste andava oltre l'attaccamento degli uomini alla loro vita: I resistenti avevano capito che non avrebbe avuto senso continuare a vivere in condizioni ingiuste, in un paese oppresso dagli stranieri e senza quei valori essenziali dei quali erano stati privati per anni. Per questo la spinta resistenziale fu così efficace, grazie cioè alla forte determinazione che ebbero i partigiani nel condurre la loro lotta; questi, attraverso i loro sforzi, potevano solo migliorare le loro condizioni di vita, e la esigenza di un futuro migliore costituiva un valore etico ben più importante della loro stessa esistenza. Di qui nasceva il desiderio del partigiano di sacrificarsi non solo per la sua patria, ma anche per favorire la azione dei propri compagni con cui era legato anche da profondi vincoli di amicizia; come raccontano i diretti testimoni del periodo resistenziale, i gruppi partigiani erano spesso composti da amici, da parenti, da conoscenti, o da uomini che si erano conosciuti solo in occasione di azioni militari, il cui legame di amicizia era comunque rafforzato dalla volontà di concretizzare ideali comuni. E sempre il desiderio di una Italia libera fece sì che i partigiani sopportassero, pur con gravi patimenti, il dolore e la sofferenza che la scelta resistenziale comportava. E stupisce, oltre alla forza interiore e alle motivazioni etiche che diedero ai partigiani la determinazione sufficiente per condurre la loro azione resistenziale, il comportamento di alcuni giovani, come Giancarlo Puecher che, negli ultimi istanti della propria vita, prima che fosse fucilato dai nazifascisti, ebbe il coraggio di perdonare i propri carnefici. La Resistenza, insomma, costituisce una parte fondamentale della storia della Repubblica Italiana ed è dunque indispensabile comprendere tale fenomeno in profondità e considerare che esso fu caratterizzato da enormi sofferenze; la nostra Costituzione dunque nasce da condizioni storiche ben precise, attraversate da ideali e da fondamenti etici irrinunciabili, che in quanto italiani, non possiamo ignorare. Grande è l'insegnamento che resta alla posterità dagli uomini e dalle donne della Resistenza, e le nuove generazioni dovrebbero considerare, in ogni loro agire, quale sia stato il prezzo pagato, in nome di quali valori, per quali ideali, la Repubblica sia stata fondata.


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1 C.Pavone, Una guerra Civile. Saggio storico sulla moralità nella resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 7. 2 Ivi, pp. 4-5. 3 G.Mammarella, L'Italia contemporanea. Storia d'Italia dal Risorgimento alla Repubblica, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 11-13. 4 C.Pavone, op. cit., p. 169. 5 Ivi, p. 170. 6 Ivi, p. 172. 7 Ivi, p. 173. 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 179. 10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 180. 13 Ivi, p. 183. 14 Ivi, pp. 201-202. 15 Manifestino ligure del P.d'A. in C.Pavone, op.cit., p. 207. 16 C.Pavone, op.cit., p.209. 17 Ibidem. 18 Ivi, p.221. 19 Ivi, p. 225. 20 Ivi, p. 227. 21 Ivi, p. 234. 22 Ivi, p. 243. 24 Ivi, p. 255. 25 Ivi, p. 314. 26 Ibidem. 27 Ibidem. 28 Ibidem. 29 Ivi, p. 315. A.Caviglione Russo, La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, La Pietra, Milano M76, p. 17 in C.Pavone, op.cit., p. 27. 31 C.Pavone, op.cit., p.23. 32 Ivi, p. 31. 33 Ivi, p. 32. 34 Ivi, p. 55. 35 Ivi' p.71. 36 Ivi, p. 415. 37 Ivi, p. 416. 38 Ivi, p. 31. 39 Ivi, p. 419. 40 Ivi, p. 423. 41 Ivi, p. 435. 42 Ivi, p. 427. Lettera dell'8 ottobre 1944 al tenente colonnello Pier Alessandro Vanni (INSMLI, CVL, b. 27, fasc. 2, c. 1) in C.Pavone, op cit, pp. 449-450. 44 C.Pavone, op cit., p. 455. 45 Ivi, p. 479. 46 Ibidem. 47 Ivi, p. 491. Ivi, p. 495.


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