Wikisource:Collaborazioni/SBM/testi/Residenza di un insigne patrizio milanese

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CASA PONTI [Didascalia immagine:]


La Porta della casa Ponti. (Pag. 5.) Dall' Archivio Storico Lombardo 30 Settembre 1881: Fasc. XXXI. LA RESIDENZA D' UN INSIGNE PATRIZIO MILANESE AL PRINCIPIO DEL SECOLO XVI ORA CASA PONTI

NOTIZIE RACCOLTE DA G. MONGERI MILANO


TIPOGRAFIA DI L. BORTOLOTTI E C. 1881 Non molti, al certo, percorrendo, oggi, in Milano, la bella e nondimeno solitaria via dei Bigli, pensano di seguire le traccie del vallo interno delle mura , con cui un Augusto di Roma aveva munito la città al finire del III secolo. Ora, è, circa al suo mezzo che una casa, nuova in aspetto, ci affaccia un'alta porta marmorea di cui la materia bigio-chiara s' accoppia alla nera con uno squisito gusto d'arte, e dove l'occhio del perito nella blasonica vi leggerebbe, senza esitanza, il nome dei Bigli nella piccola insegna, a frontale di cavallo, che tiene l' officio di chiudervi la ghiera dell' arco. Il resto del portale ha per l' arte un linguaggio non meno esplicito e più attraente. La trabeazione che corre rigida e perfettamente distinta nei suoi membri, si regge sopra due pilastri dalle forme corintie nei capitelli; i fusti si mostrano scanalati e chiusi da bacchette nel lor terzo inferiore, appoggiandosi colle basi sopra un sodo piedestallo che li eleva oltre il li- vello della persona. Una bicolorazione che arieggia uno degli amori del Bramante, si manifesta nei capitelli, nel fregio, nei pennacchi vestiti a bruno come che sono di marmo verde-cupo d'Oira campeggiante sul grigio della Crevola. Nel seno di questo interpilastro, di una singolare rigidezza e precisione, si apre la porta ad arco tondo con quella serraglia blasonata che prima ci ha fermato lo sguardo, e le fanno sostegno gli stipiti, pur di marmo, inquadrati da lievi specchiature al modo istesso con cui vanno ornati i piedistalli dei pilastri. Tutto ciò vi dà l' impressione d' una tensione di linee fine, rapide, corrette, onde vi è rivelato subito il tempo, e se non l'artista, la scuola onde il disegno è uscito. Ma prima di arrivare a questa conclusione ci rimane da interrogare qualche altro episodio architettonico: e prima, due medaglie tonde di marmo bianco della Candoglia, innestate nei pennacchi angolari a fondo bruno. Esse offrono, a figure d'alto rilievo, l' angelo annunciatore, a sinistra di chi vi s' affaccia: e all'opposto la Vergine annunciata. Anche in queste due figurette c' é una mano nota: una grazia placida, un movimento vivo e pronto, e poi un piegare minuto, quasi di zendado bagnato, che vale una sigla d'artista. Non occorre proceder oltre per avvedersi che siamo al cospetto d' un lavoro architettonico, ancor quasi integro, della fine del secolo XV , nettamente improntato dei caratteri onde si distingue la scuola del Bramante. Quanto alle medaglie, è ancora più facile scoprirvi il fare dell'Agostino Busti, ed in uno de' suoi primi momenti, e quindi, come di solito, de' più felici, in cui non vedesi ancor preso dalla mania, sorvenuta più tardi, di sgusciare il marmo quasi fosse avorio o cera. Per una curiosità passaggiera ciò potrebbe bastare per passar oltre, persuasi già ciò essere frutto di un tempo felice, in cui nulla si accoppiava a caso. Ma insieme al grigio perlato dei marini della Crevola e al bruno d' Oira , insieme ai puri lineamenti architettonici, e alla fioritura delle forme vive, c'è anche un eletto distico di saponi oraziano, il quale vi trattiene, vi afferra e vi chiama a ben altri pensieri. Ecco le parole che leggete lievemente incise, in una sol linea, nel fregio della trabeazione : ALTA QUID MIRARIS TECTA. INTUS NIL NISI BENIGNUM ET HUMILE. Egli è ad entrare che questa scritta sommessamente c'invita. All' esteriore, infatti, nulla havvi, all' infuori della porte, che valga a trattenerci. La fronte tiene aspetto di una fabbrica moderna a duo piani, non senza certo ordine e compostezza del XVI secolo: si può dire ancor più, che, gretta e sparuta qual era ancor quarant'anni sono, ebbe quell'acconciamento che vediamo circa il 1844. Ma non abbiamo che ad inoltrare pochi passi, sotto il misurato andito della porta, per avvederci che la benignità allegata, e l'annunciata umiltà dell'interno, non sono che una forma cortigianesca per meglio prepararci a quello che è ben dissopra ad ogni umiltà, e per cui l' indulgenza non ha parola atta a sostituirla se non quella di ammirazione. Il vero è che ci sentiamo, di subito, addentrati nei grandi dominii dell'arte; ma non di quella che viene, oggi, spiegando le sue evoluzioni intorno a noi, sibbene di un'arte che ha fatto il suo tempo, e della quale la porta altro non è che il prologo. La piccola volta a botte che s'incurva sull'androne è dipinta: la figurativa animale non vi fa atto di presenza; sono semplici ornamenti d'un grigio azzurrino su fondo lattiginoso che, a spire e ad intrecci, ne assecondano l'inquadratura, e mutando aspetto non carattere, si aggruppano, con inversa tinteggiatura, a piccole grottesche nelle lunette che rinfiancano l'alta volticella. Vi ha pure insieme tal cosa che non tarda a fermare l'attenzione del curioso avido di conoscere qual si fosse il luogo che sta per accoglierlo: è una contestura di steli ai capi dell'andito che si foggiano a targa per far luogo, nella sua testa, ad una piccola croce e alle due lettere A. A. appaiate, nella parte inferiore. Al segno cristiano predominante nella simulata targhetta, pone suggello, nel centro della volta, il monogramma del Re- dentore, il crisma radiato, onde ne verrebbe, di primo sguardo, idea di luogo ecclesiastico. Certo, questi segni direbbero ben poco, se non fosse dato di varcare il cancello onde si è divisi dalla corte. Quivi, oggi, ogni altra cosa è dimenticata, sopraffatti da tale un'impressione di ricchezza e di calma serena, come se all' improvviso ci fosse aperto dinanzi lo scrignetto d' una fata. In questo caso, la fata è unicamente l'arte, o quell'arte fina, sottile, distillata di arguzie e di sorrisi, ma signora e donna pur sempre, quale fu quella che regnò tra noi nel primo quarto del secolo XVI. Si varcherebbero facilmente i confini del giusto, se, nell'abbandonarci a questo entusiasmo, volessimo farne risalire tutto il merito al secolo che ce ne ha ammannito lo spettacolo. Ed invero, chi poco più d'un anno fa, prima del luglio 1880, si fosse fatto ad attraversare questa corte, vi avrebbe appena levato gli occhi come chi si vede circondato da aspetto di cosa non comune, ma tale cui i tempi e gli uomini hanno recato offese od inflitte incertezze che preparano la via all'oblio e alle disparizioni inavvertite. Gli uomini, però, non tutti sono cosiffatti: in ogni tempo, esiste lo spirito di conservazione prodotto dall'amore pieno e intelligente del lavoro umano. Intanto, questa corte noi troviamo ricordata dagli annotatori dei monumenti cittadini degli ultimi due secoli (I). Ma dal detto al fatto, dalle memorie che registrano, all'opera che instaura e assicura,il passato all'avvenire, c'è ancor molta distanza, e quindi merito proporzionato. Le sventure del tempo non sono mancate a questo cortile, tra cui nel secolo XVI, o XVII, una vasta sfaldatura dell' intonaco alla fronte di tramontana. Non gli sono pur mancati i soccorsi, ma certamente deboli, insufficienti, incompleti e fin traditori. Ricordiamo quello del 1845, in seguito alla rifabbricazione della facciata, col quale quasi tutte le vòlte del cortile vennero rico-

(I) Torre: Ritratto di Milano. Milano, 1674 pag. 290; Latuada: Descrizione di Milano. Milano, 1738. Tomo V, por. 382. Sormani: Passeggi storico-topografici-critici Milano, 1732, pag. 182. - Bianconi: Nuova Guida di Milano, 1787, pag. 415. perte di un lavoro monocromatico a macchia, simulante il rilievo, e appunto alla parete di tramontana, fatta spoglia della principale sua decorazione, furono portate tali alterazioni o sostituzioni, da mano d' artista non comune ma non educato all'arte del restauro, che sarebbero stati atti vandalici se non avessero avuto a difesa propria l' andare di tutto un tempo in cui non sapevasi procedere diversamente. Il tutto, è vero, si concentra in questo cortile d'onore: ma vi ha più di quanto basta per trattenerci e farci rivivere in quell'epoca fortunata. Esso è quasi quadrato; i lati maggiori si riscontrano in quelli paralelli alla fronte della casa; sono tutti egualmente circondati da portici; larghissimo, anzi ampio vestibolo, quello rispondente all' ingresso; assai ristretti ed eguali di misura quelli degli altri tre lati; la quale disparità non toglie che ogni lato, del pari, si apra verso il libero impluvio del cortile per cinque archi, dove corrono, tra angolo ed angolo esterno, met. 13. 50 sui lati maggiori, met. 12, o poco più, sui minori. All'aperto, il cortile si innalza a un sol piano; l' unico ordine di finestre, a davanzale pieno, si distende eguale di cinque finestre per ciascun lato, quanti ne sono gli archi sul cui centro esse cadono: il piano termina difeso superiormente, non da una cornice a modo delle trabeazioni classiche inaugurate dallo stesso Bramante, ma ancor da un' ala a volta curva scompartita con alterno gioco di vele o pennacchi che il quattrocento aveva consacrato, o che appare ancora nelle migliori sue costruzioni. Oggi noi vediamo adergersi sopra questa cornice un piano minore: se non che le proporzioni, i modi costruttivi, la decorazione istessa non vi lasciano esitare un istante sul tenerlo un'aggiunta posteriore, forse sopravvenuta nella prima metà del nostro secolo: da esso lo sguardo sente il bisogno di rifuggire per ritornare col pensiero al cortile originale della casa. Qualora si escludano da cotesta antica combinazione edilizia le forme tipiche e indispensabili dei capitelli, degli archivolti dell' incorniciamento delle venti finestre, la plastica appare so- verchiata dalla pittura. Non vuolsi credere perciò che lo scalpello siasi anneghitito, o sia corso noncurante nel limitato campito affidatogli, ben altro! archivolti, stipiti, corniciature sono un lavorio fino, minuto, accarezzato: si direbbero un'opera di cesello a listelli ripetuti, intramezzati da filari di perline, come negli archivolti; da foglie, da campanule, da rosette, da perle, da fusaiuole, come negli stipiti e nei cimazii delle finestre, segni di una particolare impronta d'amore nelle costruzioni di questo tempo, i quali traboccano, qui, quasi a modello voluto di cotesti intendimenti. I capitelli e le serraglie degli archi non sono venuti meno in quest'armonia di carezze. Le serraglie sono molto timide e semplici di pietra d'Oira, come per la porta; taluna mostra lo stemma dei Bigli, tal' altra il Crisma radiante. I capitelli sono di quel corintio composito, di cui Roma cesarea aveva fatto un fascio di fogliame, di cespi o di volute, mentre qui, invece, in ossequio alle ingenue alterezze del Rinascimento, non recano intorno al lor cratere che poche foglie e qualche palmetta di baccelli o di steli fiorenti, lasciando far capolino alle volute angolari e al fiore che sboccia tra l'orlo del cratere e il labbro della tavola, la quale s'insena, falciata quasi, sulle quattro fronti. Del resto, tutti questi capitelli svariati danno il sapore di una mano artistica delle più destre: hanno, per lo manco, uno stretto parentado coi più belli della corte minore del palazzo del Broletto, di cui Ludovico il Moro aveva ratificata la dimora della Gallerani, che, come tutti sanno, fu una delle sue amate. Tolto tutto questo, che in una fabbrica architettonica non è che il suo sviluppo plastico, la pittura vi è sottentrata dominatrice preponderante e assoluta. Dall'androne dell'ingresso al vestibolo non bevvi che un passo, ma la pittura da timida e contenuta nel primo, si mostra di un tratto disimpacciata e ardita nel secondo. Il vestibolo è quel primo lato del portico che ha una triplice larghezza degli altri tre, e, qual è, doveva fare l'ufficio dell' atrio corintio nelle case romane per la sosta, dei clienti, e forse di anticamera nelle età di mezzo. Comunque, l'intento è manifesto di averlo a luogo d'indu- gio e d'aspettazione. La volta quivi s'incurva leggermente a botte, in guisa da non uscire dal livello comune ai lati, e, appuntellandosi sui capitelli delle colonne, si spicca a modo di vele triangolari, le quali si rispondono verso il lato della parete piena, arrestando il ritmo delle lor curve sopra altrettali capitelli, ma da pilastro e infissi nella parete a forma pensile. Cotesta combinazione, non molto eletta, e che si mantiene anche ai capi di quest' ala di portico, pure ha aperto l'adito ad una decorazione pittorica semplice e ricca ad un tempo. Il motivo è bizzarro, e attinge il suo principio dalle tante fantasie del Vinci. Una grossa gomena appajata si slancia ad un tempo dai pennacchi della volta, e dalle vele che vi si combaciano; ne riveste e rinserra quasi l' impuntura dagli spigoli acuti, distrecciandosi, tratto tratto, in anse, in cocche, in nodi, in mezzo a che, agile e rapida, prende la corsa una cordicella minore, che vi giuoca attorno le sue ondulazioni simmetriche fino al centro della volta per ricominciare la sua corsa discendente dall'opposto lato. Chi conosce la magnifica decorazione della sagrestia di S. Maria delle Grazie, ideata unicamente sopra un intreccio di corde metalliche di grossezze diverse, ravvisa in questa alcun che con quella in parentela. Qui, come là, il canapa ha qualche cosa di vivo, accoppiato com'è, e finanche legato ad intervalli; e dovo ne esce libero si allarga, si contorce, si atteggia in vario modo, finché corre a rinfrescarsi ai piedi del pennacchio, mentre si arronciglia a nodo all'apice della volta. Ma, forse, si è sentito povero troppo, cosi com'era solitario col suo minor germano, la cordinella, per rinserrare l'organismo di questa volta; esso ha chiamato in suo sussidio un'edera pentilobata affatto fantastica, e ricca di bacche sferoidali. Questa non ha mancato alla chiamata, e con un'opulenza non consentita che dalla natura vegetativa, vi ha gittato a piene mani i suoi infrascamenti, allacciandosi al giuoco delle corde e colmandone i vuoti con quel giusto riserbo di chi non interviene se non per quanto importa l' equilibrio decorativo. I centri di questi annodamenti lasciano cadere un rosone di stile romano che, in origine, doveva essere di legno dorato: oggi, loro ne fu sostituito uno di bronzo, e si contano, ad eguali distanze, nel numero di cinque nel vestibolo. Le volte delle altre tre ale di portico , sebbene d'assai minore ampiezza, non sono diversamente adorne : gli avvolgimenti delle gomene , l'intrecciarsi del fogliame negl'interstizi, i rosoni di rilievo, proporzionatamente minori, che fermano i centri degli spazi tra gl'intercolonni, sono fratelli d'una medesima famiglia, e dai loro amplessi esce la medesima contestura. Coteste volte minori sono pur esse ad arco tondo, ma attraversate da archi che legano la colonna alla parete, organismo che manca a quella maggiore: tuttavolta, esse rientrano nell'omogenia comune coi capitelli pensili che, d'ogni intorno, ricevono il cadere degli archi trasversi colla decorazione pittoresca dei loro intradossi, sempre costante, cosi tra colonna e colonna come tra colonna e parete. Quando la decorazione si fa all' aperto, muta carattere senza mostrar mutata nè la mano, nè lo spirito che la detta. C' è l' armonia medesima: un' armonia gentile e spigliata, benché assuma la forma d' un classicismo pagano che il quattrocento non avrebbe rifiutato, ma che reca in sè già qualche cosa di più abbondante, di più libero di quanto il secolo delle ponderazioni severe soleva consentire. Il colore è vivo non petulante: riempie, anzitutto, di cespi a fiori, a gambi intrecciati i pennacchi triangolari che s' interpongono tra il ritmo degli archi giranti. Una cornice li arresta al livello delle costoro serraglio per lasciar posto al succedersi di linee e campi tesi orizzontalmente; onde lo spazio, tra il sommo dell' arco e il davanzale delle finestre, si divide in due parti: l'inferiore che appartiene ancora al corpo costruttivo fondamentale, con la corniciatura che gli compete, mentre la superiore corre, siccome base all' elevarsi più alto dell' edificio, e insieme siccome difesa alle finestre. Un' ornamentazione severa di membratura architettoniche a triglifi e ad inquadri, ornati d'intrecci a modo delle note grottesche, riempie cotesta fascia di una colorazione glauca, pari a quella dei pennacchi, sopra, un fondo di quell'azzurro marino quando le onde sono in corruccio sotto un cielo sereno. Dalla ricca cornice ond'è riciso questo aspetto poco men che grave, sorge la zona prima del piano superiore. Questa gira, intorno intorno, al livello dei davanzali delle finestre, e insieme larga e ricca fa contrasto col minuto e sistematico lavoro che abbiamo veduto. In essa l' allegria più sfrenata e irrefrenabile, e la più naturale, vi domina; è l' allegria d' una nidiata di putti smaglianti di vivi colori; i quali, a gruppi diversi, di quattro, di cinque, e non più di lì, divisi da incorniciature, alternamente, rettangolari sotto le finestre, quadrate negl' intervalli, si arrabattano festanti in mezzo ad un'ornamentazione lussureggiante e capricciosa della natura vegetativa, fiori, frutta, foglie, cespi, steli giranti: e nei lor giuochi non manca qualche cosa di più vivo, capretti, mostri, maschere animate di moti, fin' anche vasi e strumenti alla mano, come che nulla possa essere sottratto alla baraonda infantile. Oltrepassiamo d' un salto, collo sguardo, l' altezza superiore, corrispondente a quella delle finestre per giungere direttamente al sommo della trabeazione, perciocchè questa si ricongiunge meglio colla parte ornamentale dominante immediatamente sulle colonne. L'abbiamo notato: chi volesse vedere in quest' incorniciamento finale i modi strettamente classici inaugurati dal Bramante a Roma, e, là, abusati oltremisura dal Buonarroti, non sarebbe nel vero. La corona, qui, benchè adombri in qualche modo la rituale sovrapposizione vitruviana dell'architrave, fregio e cornice, tolta alla Grecia e ciecamente immedesimata nelle fabbriche romane, corre spregiudicata e ingenuamente libera ne' suoi atti. Se non che, è affidata per intero all'opera del pennello. La pittura sulla parete continua , anzitutto , al posto dell' architrave, la modanatura superiore delle finestre e la tesa maggiore che la difende a modo di sima finale. La sormonta un largo fregio: l'epoca non poteva non permettere che se ne approfittasse largamente. La pittura vi compie in esso il cimazio dello finestre con una cartelletta tra due mensole rovesciate: il suo campo centrale è tenuto, ai lati, da mostri fanciulleschi e da figure fantastiche che si aggrappano intorno a vasi, a candelabri, a tronchi, confermando quel canone del Rinascimento dell' unita' nella varietà. Gli spazi del fregio intermedi alle cartellette, lasciati liberi, permettono il corso ad una leggenda che dovrà occupare più innanzi la nostra attenzione. Infrattanto, basta arrestare lo sguardo sulla cornice finale , cosi singolare e pur così semplice nella sua contestura, quale l'abbiamo indicata, per renderci persuasi che la decorazione del secolo XV, non indietreggiava ancora, benché inoltrata già nel secolo successivo. Qui, l' impresa consisteva di riempire di gaie figurazioni l' alternarsi di lunette semicircolari, di vele triangolari e di pennacchi mistilinei, che si prendono per mano quasi a modo di una danza, lungo il ciglio del tetto. Cotesta decorazione non si scosta dal resto: è un seguito di forme e di colori che mutano apparentemente di aspetto, ma che insistono nello svolgimento del medesimo tema, inquadrature e formelle svariate che si acconciano all'ossatura edilizia, ornati che nell'intonazione prendono ragione da cammei a figure chiare iridiscenti sopra fondi bruni: capricciose poi le composizioni, putti ballonzolanti, o combattenti, o aggrovigliati in una vegetazione altrettanto splendida quanto folle, e per contro, ippocampi, delfini, chimere, mostri d' ogni natura. Quante pur siano queste cose non formano che la cornice del quadro. Questo prende posto dentro delle inquadrature allogate tra le finestre: esse portano quanto basta perché non passino nè innavvertite, nè inonorate: l' artefice, quivi, ha deposto il pennello del decoratore per quello del figurista; ed è andato Ancor più oltre, si è gettato in mezzo ai vortici di un mondo ideale. Cotesti intervalli, rettangolari di forra, per dimensioni pari a quelli delle finestre nella loro altezza, più ristrette nella larghezza, dall' artista hanno ricevuto l'aspetto d' un insenamento, e in ciascun d' essi una delle principali divinità del Panteon pagano. Tali intervalli, quattro per lato, sommano a sedici: noi sappiamo già che un lato ebbe a perdere gran parte del suo intonaco, e le figure ne ebbero a soffrire più del restante. Sol- tanto dodici sono, dunque, le figure originali concesseci dal tempo: c'è anche più di quanto sia necessario per apprezzarne il lavoro. Appariscono intere, poco meno del naturale, quanto a dimensioni: sono colorite, e se non tutte ritte, tutte nobilmente atteggiate, anzi in moto, quasi a dire o esprimere qualche cosa. Cosi, cominciando dall'affissarsi nella parete di contro all'ingresso, ci decorrono, di seguito, davanti allo sguardo: Pallade , con la destra armata di lancia, lo scudo nell'opposto braccio e la testa della vinta Medusa sotto il piede sinistro; Giove, seduto, paludato, coronato, lo scettro nella sinistra, il fulmine nella destra, Ganimede colla coppa dell'ambrosia divina, sospeso a volo presso questo fianco; Clio, la storia, con un volume a terra sulla sinistra; a destra, quasi sotto l'ascella, un altro grosso volume, se ben pare, mentre la mano sollevata agita un foglio aperto quasi d' arcano svelato; Euterpe, la musica dei suoni, che ne modula le note sulla semplice tibia; Talia, la commedia musicata, presso ad un tronco, veduta sul destro fianco che muove l'arco sul violino moderno, nuovo strumento al principio del secolo XVI, quale Raffaello lo pose tra le mani dello stesso Apollo nel suo Parnaso; qui, l'Apollo cho la segue, quasi nudo della persona, coi capegli cadenti, simile ad un Redentore, col destro piede posato sopra un dado, tiene invece una viola poco diversa dall'attuale violoncello, e la tiene posata sulla coscia piegata colla destra pronta, ed armata dell' arco musicale; l'arco guerriero gli è invece deposto dal lato medesimo, mentre ai piedi gli si divincola ancora il serpente Pitone; Melpomene, la nota preside della poesia tragica, si presenta nuda i seni, del resto lungamente paludata, con un'alta face accesa ma rivolta al suolo tenuta dal braccio sinistro: la spada ferale del carnefice a larga lama, ad impugnatura difesa da guardia a volute ritorte, rivelazione del tempo, le sta deposta al lato opposto; Tersicore nulla serba nell'aspetto della danzatrice baccante; come la sorella Melpomene, il petto discinto, non intona che il tintinno della danza colla destra stringente il plettro diretto ad un salterio di antica forma , dalla cassa quadrata , piena e dalle corde orizzontali; l' astronomia si vede raffigurata, come si suole, nella vergine Urania, assisa bensì ma in posa malcerta, come chi si muova seguendo il moto altrui; tiene in fatto lo sguardo levato al cielo, facendosi schermo della destra al raggio che l'offende , intanto che la sinistra fermasi sopra una sfera armillare: ai suoi piedi si spandono più fogli, alcuni dei quali con tracce di geometria celeste; Erato, la poesia erotica, come di ragione, non ha panno che la copra, appena un velo le ricinge i fianchi; ma non si lascia vedere che da tergo; allegoria ignota, sollevasi ad una tavoletta appesa ad una ramo, mentre un cupido alato, presso il suo destro piede, riceve un foglietto; nel tempo medesimo, il piede sinistro si posa sollevato sopra la bocca d' un' idria , quasi tentasse di tardarvi l'uscita ai segreti del vaso di Pandora; Polinnia, cui è il dono dell' eloquenza, ampiamente e riccamente vestita, ha la posa o il gesto dell' oratore ispirato ; parecchie teste maschili dal basso volgono ad essa lo sguardo; Ermete,lo stesso che il Mercurio della favola laziale, non è solo; forma gruppo con Argo , importuno custode, nudo e assiso al suolo, ma preso dal sonno, intanto che l'eroe tellurico sta per menare sul di lui collo un fendente colla scimitarra ricurva, tanto sollevata che esce col pugno da cui è tenuta, dal campo riservato alla figura: il capo porta il rituale petaso alato e la sinistra stringe ancora il liuto onde trasse le note che addormentarono il messo di Giunone. Non occorre ripetere che le dodici personificazioni notate sono le sole rimasteci della mano originale; dopo l' Ermete, infatti, nella quarta parete, quella oltraggiata dal tempo, urtiamo in una mano estranea e nemmanco lor contemporanea. Ne faremo parola parlando del restauro; sentiamo prima il bisogno di compiere le nostre osservazioni sulla parte antica ed originale. Ed uno dei contrassegni antichi che ci fanno risalire al tempo dell' opera sono le scritture con cui le figure vanno indicate e la leggenda che muove nel giro del fregio. Non é, invero, senza qualche sorpresa questo vedervi desi- gnato il Panteon pagano colla proprietà linguistica e grafica della favella greca. Noi tutti sappiamo il favore con cui questo studio in Italia era salito nel momento dell' alto Rinascimento; sappiamo come fosse il compimento d'ogni più nobile coltura nei dotti del tempo, e quanto diffuso dopo l' esodo degli ultimi eredi della scienza ellenica, cacciati dal grande avvenimento che, a mezzo del secolo XV, pose Bisanzio sotto la scimitarra dei Califfi: ma è, per lo meno, raro l'incontrare questa bandiera così largamente spiegata, come qui, nello opere dell'arte.

Or, ecco come ne corrono i nomi, secondo l'ordine avvisato:

[vedi immagine corrispondente]

E qui ci arrestiamo davanti all'ultimo dei nomi del terzo lato della corte, col quale sappiamo di non trovarci più contro l'artista originale: ad ogni modo. essi bastano per farci accorti che non sono corsi sotto il pennello d' una mente comune, o almeno tale che non siasi ricoverata, come allora lo stesso Raffaello, all'ombra d'uomini che portavano alto il senso del Rinascimento umanistico. E una domanda che viene qui naturale: chi può essere codesto artista, ovvero chi l'uomo educato alle lettere che lo ha ispirato? Ma ben altri motivi, per invocare luce e spiegazioni, dapprima ci s'impongono. La leggenda del fregio che corro nell'idioma latino, e che si direbbe fatta per illuminarci, all'incontro non riesce che ad un indovinello dippiù. Non è solo la mancanza della quarta linea che la fa incompleta, ma sui tre lati integri essa porta più d'una lacuna e tali che sia arduo il riempirle. Codesta iscrizione si svolge a spezzature, come permette la lista del fregio interrotta dai cimazi delle finestre: dippiù, come per la leggenda della porta, come per le denominazioni greche delle divinità, le let- tere s'abbreviano, s' intrecciano, si mozzano, svaniscono in punti perduti come che bastasse per farsi intendere delle mezze emissioni di fiato, o, se vuolsi meglio, come chi volesse giuocar di prestidigitazione anche colle lettere dell' alfabeto. Qui, dobbiamo contentarci di trascriverla pianamente, colle lacune, però, che il tempo congiurato coi ghiribizzi dello scrittore ha voluto interporvi:

VIRTVS VITAE IN CRIIAS FIDES OP NA AMBROSIO ALIPRANDO A ZN MI S COMIES VT HAE AEDES.

Per conto nostro, dopo il lungo studio fatto intorno a questa leggenda per trovarne il riscontro in qualche vecchia scrittura, o almeno un argomento per compierla letteralmente, lasciamo ad altri più di noi abili, o fortunati, cotesto cómpito. Una cosa, per altro, nell'iscrizione dove colpire chiunque di primo tratto, ed è che il significato suo concettuale accenna ad una dedicazione. Che questo ne possa essere il caso, provienici ad interrogare la storia per riconoscerlo, e anzitutto, non ci sia conteso di conoscere l'uomo designato. Del nome degli Aliprandi la storia di Milano è piena. Ci dilungherebbe troppo dallo scopo nostro una ricerca delle loro origini e della loro successione fino al nostro Ambrogio (I). Voglia il curioso, qui, tenersi contento del sapere che discendono, secondo il Giulini, da un profugo da Siena, Rodolfo da Liprando, morto e sepolto a Monza, nel 1131; che, nel secolo successivo, la famiglia era già ascritta alle nobili milanesi con diritto di ele-

(I) Cui piacesse tentare l'Impresa non avrebbe che a mettersi dinanzi il Corio: Storie di Milano; Il SITONI DE Scotia: Theatrum equestris nobilitatis secundae Romae; il Giulini: Memorie spettanti alla storia, ecc. della citai e campagna di Milano, ma soprattutto i manoscritti Fagnani, presso l'Ambrosiana, e quelli col titolo Mediolanensium Apocalypsium Centuria, premo la Trivulziana. Avremo occasione di citarli in seguito. [Didascalia immagine:]

L'aspetto generale del cortile. zione e di eleggibilità al novero dei cardinali della nostra metropolitana; che, nel XIV secolo, condottieri d'armi e giureconsulti vi pullularono; che dall'imperatore Carlo IV, nel 1355, veniva la famiglia aggregata alla schiera dei conti palatini nella persona di un Erasmo, figlio di Salvarino (1): infine, che uno degli Aliprandi, Giovanni, fu tra i generi di Barnabo', avendone sposato una figlia. La prima metà del secolo XV non meno abbonda delle memorie loro; soltanto è da notare che gli Aliprandi si trovano coinvolti nelle lotte cittadine, sotto i nomi di Guelfi e Ghibellini, e che uno dei primati della famiglia, Bellorino, dimorava già, nel 1447, dentro la parrocchia di San Giovanni alle quattro faccie, nel raggio della Porta Cumana. Figlio di questo Bellorino, un secondo nella loro schiatta, è appunto l'Ambrogio in discorso: egli ci si mostra, per la prima volta, nel 1456, ascritto al Collegio dei giureconsulti (2), lo che sarebbe quanto avvertirci essere egli nato circa il 1430, e quindi il padre di lui doveva avere giurata la pacificazione tra le famiglie milanesi, promossa e compita da frate Bernardino da Siena nelle due volte, 1418 e 1429, che fu in Milano (3) con diritto per sè e per gli eredi, di portare il Crisma radiante sulle proprie case. Dobbiamo credere ancora qualche cosa dippiù; che il figlio Ambrogio, avesse assunto con la fede o la serietà di un impegno ereditario quest'impresa di giustizia e di pace. Le Corti non sono fatte per potervela esercitare; tanto meno allora in quella degli Sforza, che si trovava aperta davanti al giovane

(I) Gli Aliprandi avevano il deposito delle loro salme nella cappella di S. Orsola, in S. Marco di Milano. Soppressa e chiusa questa, sussiste tuttavia fuori di essa, nel braccio di croce del lato dell'epistola, il davanzale dell'avello di questo Salvarino, opera di uno dei contemporanei e forse degli ajuti di Giovanni di Balduccio da Pisa. (2) De Sitonis De Scotia. Theatrum equestri nobilitalis secunda Romae, ecc. Mediolani, 1706. pars II, pag. 28. (3) Acta Sanctorum a Herschenio et Papeborchio etc. Tomus V. XX mai Antverpiae, MDCLXXX. Aliprando. Per tutto il resto del secolo il suo nome non appare tra il numeroso stuolo delle comparse cortigiane che primeggiano nelle feste e nelle adunanze del Castello di Porta Giovia. Non lo incontriamo che al cadere del secolo, nel 1474, dove la scienza e l'austerità della vita lo impongono; cOsì è notato tra i consiglieri del Consiglio Segreto per l' anno anzidetto, insieme ad un Protaso Aliprandi, forse un fratello, abitante, del pari, nel raggio della Porta Cumana, parrocchia di San Giovanni alle quattro faccie (1). Nè lo dimentica il Crescenzi (2), che lo addita per la sua dottrina egregia, sino dal 1481, del Collegio dei Giudici, senatore della città e fra i consiglieri del duca Giovanni Galaezzo Sforza, titolo d' onore, forse per incantucciarlo fuori dell'orbita dello zio e tutore, perciocchè nulla, quivi, rimanessegli da consigliare. Dove ripiglia la sua libertà d'azione e la sua dignità di giureconsulto, è allo sparire dalla scena di Lodovico Maria. Non gli andava a versi la dominazione assonnante degli ultimi Sforzeschi, e si comprende che ne era ricambiato. Sperava egli un regime migliore da una dominazione, estera bensì, ma riparatrice? Lo si dovrebbe credere, allorche lo si incontra, fin dal principio della nuova amministrazione ducale, fra i pochi personalmente chiamati, con lettera di Ludovico XII, del 23 aprile 1502, per la compilazione dei nuovissimi statuti della città di Milano, che ebbero nome dall'anno successivo in cui vennero pubblicati (3). L'Ambrogio Aliprando, allora sul settantesimo anno d'età, fermo nei suoi convincimenti di fede avita e di carità, non settario d'alcuno, pronto a dare l'opera sua dove potesse tornare giovevole al paese, il quale rimane, mentre gli uomini passano, in quel momento di dispersione dei maggiorenti e dei pusillanimi dovette parere la stella polare, intorno a cui riannodarsi gli uomini della pace e della buona volontà.


(I) Biblioteca Ambrosiana.- Mass. Fagnani: Famiglia Aliprandi. (2) Crescenzi. Anfiteatro Romano, ecc. Milano 1647. pag. [?] (3) Statuta Mediolani cum apostillis etc..Catelliani Cottae etc. Mediolani, MDDLII, in proemio novius. Mediolani Statut etc. MDIII. Col prendere parte all' opera statutaria del 1503, egli si atteneva ad una tradizione antica di famiglia; essa ricordavagli quella dell'Erasmo, al tempo dell'arcivescovo Giovanni, che anzi ogni altro, l'aveva assunta. Il corpo di queste istituzioni, che comprende l'opera dei due Aliprandi, resse il nostro diritto cittadino per tre secoli fino alla metà del passato. Se fosse vero quanto ci afferma a suo riguardo il Crescenzi (I), senza addurne prova però, che egli non soltanto fosse Consigliere di Lodovico XII di Francia, ma anche suo maestro delle entrate, di qua dei monti, ne apparirebbe il più alto atto di fiducia che un regnante di quel tempo, o sopratutto un estero, e in quel momento, potesse riporre in un cittadino nostro, quello di farlo custode e arbitro, quasi, del suo tesoro. L'ultimo documento che lo riguarda e che ci è sopravanzato nella sua interezza contiene il suo atto d'ultima volontà (2): porta la data del 13 Giugno 1506, due anni prima della sua morte, avvenuta nel 1508. Da questo scritto noi apprendiamo avere ancora vivente la consorte, Anna dei Crippa, una sorella Margherita, due figlie e due figli; di questi, Gerolamo il maggiore ed erede; l'altro Simone, frate nel Monastero di S. Marco nella città, e le figlie, Giunone e Clara. Il punto più importante per noi sta nella dichiarazione dove l'atto notariale si compiva, la designazione della sua abitazione; e la troviamo ancora quella del padre, al principio del secolo XV, o quella istessa del suo erede un quarto di secolo dopo, come ci verrà fatto di vedere in seguito. In mezzo alle sirti, siccome abbiamo fin qui proceduto, e malgrado gli sforzi per afferrare la personalità dell'Ambogio Aliprandi, non crediamo d'essere peranco riusciti in porto: forse le idee si sono appena schiarite; ma anche piccol lume nell'oscurità può essere riguardato non del tutto spregevole. Noi l' abbiamo appena ottenuto dai documenti storici; per altro lato,

(1) CRESCENZI: sopradetto e al luogo citato. (2) Archivio Notarile della città; atti del notaio Giovan Giacomo Lampugnano. potremmo ben invocarlo anche dalla poesia, e senza temere di male apporsi quando l' uomo che parla e scrive è di quelli di tempra antica cui sorride la verità anche sotto la forma poetica. L'amicizia dell'Aliprando pel Lancino Corti, o come allora poeticamente scrivevasi Curzio, forse il patrocinio di lui per l'umanista illustre, e povero ad un medesimo tempo, perciocche' non uomo di Corte al pari del Bellincioni e del Bandello, invece come il Parini, tre secoli dopo, tale che, negli atti, spregiava i nuovi vezzi d'acconciamenti e di vesti venuti da Francia (I), cotesta connessione, diciamo, di due nomi onora certamente l'Aliprandi non meno dei versi con cui il Corti lo eleva, senza forme adulatorie, sibbene colla dignità e colla schiettezza di rendere un omaggio al vero (2). Egli ce ne ha tramandato il ritratto non meno fisiologico che morale: lo vediamo muoversi a rapidi passi; imporre a cenni: di nulla obblioso; lo vediamo giureconsulto operoso e sapiente; uomo di lettere e di costumi incorrotto; sopratutto cittadino popolare e d' alto cuore. Per poco sia dato vedere così un uomo nella sua nudità storica, non riesce arduo seguirne gli atti, indovinarne l'animo, e penetrare per esso oltre quel confine sacro che il tempo, o i casi ci contendono. E siccome di lui, l'egual cosa può dirsi di quanto lo circonda, o lo riflette. Ora codesto Aliprando, per noi, non sarebbe che un fantasma, per un istante, sollevato dal sepolcro, se non ci spiegasse, qui dov'è passato, gli avanzi del santuario e lo sue ragioni. Certo, vi hanno dei veli ribelli ad ogni scongiuro: ma non è il caso di allibirne. Tutta la storia non è che una vasta penombra, in cui, qua e là, dei profili giganteschi ap-


(1) ARGELATI, Bibliotheca Scriptorum Mediolanensium. Mediolani, 1745. in Lancino Curtio. pag.531. (2) LANCINI CURTII - Silvarum: libro I. Mediolani. MDXXXIX.

[v. immagine corrispondente] pena si disegnano. Noi non domandiamo dippiù, in questo momento, che qualche lineamento, lasciando a più fortunati di afferrare forme meno inconsistenti. Intanto, alla prova dei fatti, possiamo ormai andar certi che questa casa dove splende il nome dell'Aliprando, non è né la sua casa avita, né la sua casa d'abitazione. Altre prove ci si aggiungeranno nel seguito: basta qui fermarci su questo punto. L' impronta blasonica dei Bigli pel primo dei fatti, doveva metterci sull'avviso. Ma che dire del segno del Crisma radiante, che noi troviamo sotto l'androne della porta insieme alle iniziali dell'Aliprando, e che vediamo poi ripetuto, insieme allo stemma nelle serraglie del cortile, mentre non vi appare punto quello degli Aliprandi che ben conosciamo? Anche qui non durasi difficoltà a tener per fermo che la costruzione risale ad alcuno dei molti membri dei rami in cui dividevasi la progenie che aveva dato il nome alla via, e che costui, come l'Aliprando, contava tra suoi antenati chi aveva giurato la pace del 1429. Dacché l'accoppiamento delle diverse insegne blasoniche, o rituali non può essere uno ostacolo alla loro coesistenza, possiamo risalire alla iscrizione del fregio per la interpretazione della quale fummo dilungati dal nostro indirizzo. Se rinunciamo ormai a ricomporla nella sua interezza, vi siamo decisi anche dai precedenti restauri, e a cuno di certo anteriore al secolo nostro, che devono aver alterato le lettere onde richiederebbesi troppo arbitrio per ricomporla con parole ragionevoli: ancor più, ci manca un'intera linea, quella della facciata a nord. Contentiamoci, adunque, dell'interpretazione sommaria, ché portiamo persuasione esser dessa sufficiente a guidarci nelle nostro indagini dopo le informazioni di cui ci sentiamo al passesso. L'abbiamo detto: l'iscrizione AMBROGIO ALIPRANDO, nel mezzo della fronte meridionale, suona dedicazione. Così le parole della linea che lo precedono: VIRTUS VITAE IN CRIIÀS (forse christianitate) FIDES, valgono quale indizio delle ragioni determinanti la dedica, e acquistano maggior verità dagli antecedenti della sua vita e del monogramma cristiano con cui si accampano le sue sigle. Ma prima e dopo del nome, a compiere la linea intera, si impuntano due accapigliamenti di lettere, di punti e di lacune da mandar vinto più di un Edipo. Alla terza linea qualche conforto ci arriva di non disperare: la M che la comincia, seguita, come la precedente, da punti e spezzature di lettere si crederebbe avere avuto l'officio di confidarci il tesoro prezioso di una data che l' ironia del destino non ha voluto cha restasse intera. Il rimanente della linea ce ne compensa. La parola COMIES, secondo il sistema di lettere intrecciate dell'artista, è facilmente leggibile in comites. LE parole negli spazi seguenti non hanno di che far arrovellare il cervello, parlano da se: VT HAE (c) AEDES: ma anche qui per finire la proposizione, un vuoto deplorabile, quello dell' intera linea della fronte volta a tramontana ripetutamente lamentato. Ad ogni modo, sbalestrati a traverso questo ginepraio, se non c' inganniamo, ci rimane ancor tanto da trovarvi uno spiraglio di luce. Ciò che ci balena al pensiero è ben questo: che havvi una cosa donata e dei donatori di fronte a un donato, mossi costoro da una ragione, che i meriti insigni dell'Aliprando o la riconoscenza dei colleghi giustificherebbero abbastanza fino ad un edificio offertogli in proprietà. Che questo gli fosse tale è uno dei punti più indubitabili, nel vortice dei fatti e di date, in cui siamo tratti. Ne abbiamo il documento irrefragabile (1) nell'Archivio Ponti; l'atto di vendita


(I) L'istrumento di permuta, nell'Archivio Ponti, porta la data del 27 gennaio 1536 ma non fa che confermare e regolare una convenzione intervenuta, nell'anno antecedente, tra le due parti contraenti, le quali sono, da una parte, il grancancelliere conte Francesco Taverna e il nobile Gerolamo Aliprando. L'istrumento è in latino, ed occupa quasi venti pagine con quello stile prolisso ed involuto dei notai del tempo onde ne vanno oscurate anche le trattazioni più chiare e naturali. Pel caso nostro valga riassumerne gli estremi. Anzitutto è constatato che il Gerolamo é il figlio dell'Ambrogio; dippiù nell'alto della convenzione non è detto se abitasse la casa in questione, ma è detto invece molto chiaramente nell' istrumento che aveva il tuo domicilio nella casa propria, porta Cumana, parrocchia di S. Giovanni alle quattro faccie, che era la tua paterna, quella, probabilmente, che gira, oggi, ad angolo acuto tra il piccolo o per dir più preciso, del concambio della casa medesima, dal figlio Gerolamo, nel 1535, mandato ad effetto col conte Francesco Taverna di cui gli eredi del nome la tennero ben tre secoli. Cotesto atto pubblico chiude bensì il campo alle induzioni a questo momento, ma va ben lungi dal colmarlo intero; anzi, vieppiù le complicazioni lasciate insolute sembrano fatte per provocare la curiosità a ricercarvi il fondo dei fatti, so non quello dei reali, almeno la congettura dei possibili. Ci si conceda di entrarvi risolutamente. Lo abbiamo veduto: chi murò l' edificio, chi diede forma e assetto alla porta e alla parte marmorea del cortile, fu uno dei Bigli: ma quale di essi? Silenzio completo nelle pagine delle memorie patrie giunte a noi. Prendendo l'arte a scorta si può affermare con molta serenità di giudizio che la costruzione coll'aria sua di parentela così spiccata, negli archi, nelle finestre, nei capitelli, nelle stesse modanature, alle costruzioni del Bramante più conosciute, attribuendola ad una creazione di lui nell'ultimo decennio del secolo XV, o, almanco, di un suo


tratto della via Oriani e quella dei Filodrammatici, dicontro alla via dei Bossi. Vi rimangono nel primo tronco alcune finestre di laterizio modonato della fine del secolo XV. L'altro contraente si riconosce nel conte Francesco Tavernea, già gran cancelliere ducale, allora cesareo, nella cui famiglia la casa doveva rimanere dalla data dello strumento, 3o6 anni. La premuta consisteva in ciò che il Taverna cedeva all'Aliprando la propria casa detta la Cobella, dentro della città in Porta Nuova, parrocchia di San Bartolomeo, molto probabilmente, dalle indicazioni dei termini, dove ora sorge il palazzo degli eredi del marchese Vitaliano D'Adda, e ne riceveva in concambio questa, detta palazzo con giardino (palatium cum viridario) in Porta Nuova, parrocchia dl S. Donnino alla mazza. Non una parola nell'istrumento sulla decorazione artistica di cui oggi c'interessiamo: invece, vi è accennato di camere terrene e superiori, di partici, di sale parecchie, di una verso la piazza, forse un largo davanti alla casa, e di un'altra superiore verso il giardino a cielo scoperto. Vi è pur cenno di due corti, di stalle e cantine, ed é singolare a notarvi un andito di passaggio fino alla via dei Moroni, circostanza che segna la distensione grandissima del terreno appartenente alla casa del grancancelliere Taverna; il quale doveva essere molto impaziente di occuparla, perchè all'atto della convenzione (21 marzo 1535) occupava ancora la Cabella, e al 27 gennaio 1536 data dell'istrumento, si trovava già insediato in quella dei Bigli, Del resto, la lunghezza della scrittura notarile è tutta dovuta al diretti domini e alle ragioni di affitto ond'era aggravate le due case, nell' intento reciproco di regolare ogni cosa in vista di un possibile rescindimento del contratto e delle scadenze, a lunghi termini, del pagamento. scolare e fido continuatore, quale, ad esempio, il Giangiacomo Dolcebuono, non si fa fatica alcuna. La fatica, invece, si farebbe, volendo attribuire all' architetto medesimo la decorazione pittorica. In questa c'è maggior lilertà; c'è, fin'anche, una certa leziosaggine, che, riSalendo per spirito caratteristico all'antichità ellenica, ci parrebbe tra i due la differenza che corre tra il Partenone, e il tempio di Minerva Poliade, il dorismo di fronte all' jonismo. Basterebbe, infatti, considerare soltanto le grandi figure della divinità del Panteon greco tra le finestre per vedervele annicchiate a mal' agio. C'è un artista decoratore che è venuto col pennello a soverchiare quello che ne modellava l'organismo. Quale il tempo trascorso tra l'uno o l'altro? certo non molto. Se la casa era murata nell'ultimo decennio del secolo XV, nel primo del XVI veniva, a creder nostro, dipinta. Allargare l' intervallo di tempo alle ricerche non è agevolarle: tuttavia, appunto nei termini segnati, vi è qualche cosa che non è al connubio delle due famiglie, cui parrebbe naturale doversi domandare la ragione di una proprietà cosi diversa in cosi breve distanza di tempo, ma egli è - effetto della bizzarria dei tempi - dall' incontro degli estremi opposti che potrebbe aspettarsi un raggio di luce. Diciamo tosto: appunto in questo momento di turbolenze inestricabili, alla discesa di Ludovico XII nel ducato per rivendicarne il possesso, come vi era un Bigli che perdeva ogni sua proprietà, cosi un Aliprandi che le acquistava. Ci rimane (1) trascritto per intero il decreto di Ludovico Maria, dato da Novara ai 29 marzo 1500, con cui, pochi giorni prima d'andarne preso dalle milizie del Tremouille, 4 aprile, apprende i beni e le sostanze di Leone, detto Leonino dei Bigli, passato al campo di Francia per farne donazione ai fratelli Paolo e Giovan Antonio dei Bigli.

(l) Biblioteca Ambrosiana. FAGNANI : Famiglia Biglia: - omnia bona mobilia et imobilia atque actiones et iura presentia et futura Leonini de Billis rebelli nostro qui ad gallos hostes nros confugit et iunctis armis, nos et statum nostrum, etc. etc. È molto probabile che questo decreto, di indole pari ai molti di cui fecero largo uso gli Sforza, ad imitazione della dinastia che li antecesse, non sia rimasto nel cumulo delle carte sequestrategli a Novara, ma sia arrivato ai fratelli Paolo o Giovan Antonio, o almeno sia giunto a notizia del Leonino per essersi egli affrettato, come ne troviamo esempio in simili momenti, a vendere quello che poteva essergli contestato, e a sottrarre, in qualunque modo, il suo valore mobile alla rapacità de' nemici ed amici che si contendevano il nastro paese. Forse lui stesso ne fu il venditore, se, come ci è comprovato dai documenti, egli, al cadere del 1504, trovavasi pacificamente in Milano, uno dei maestri all' entrata della Camera (1). La confusione è tuttavia inestricabile su questo punto del passaggio di proprietà, il che per maggior complicazione, coincide con una alterazione dello stemma dei Bigli, ottenuta ad istanza dello stesso Leonino dalli imperatore Massimiliano, ai 12 luglio 1501, in data d' Innspruck , insieme alla gratificazione di buon numero di beni (2). Non v' ha dubbio, siccom'è nella fortuna delle cose, che con un Bigli che tramontava o svaniva, si avesse uno degli Aliprandi che saliva sull'orizzonte: e questi era quell'Ambrogio il cui nome leggiamo sul fregio della casa. Il dubbio rimane forte, per altro, che l'Ambrogio Aliprando non l'abbia abitata giammai. Anche qui il poeta può recarci qualche lume. Se noi procediamo nella continuazione della lettura dei versi già citati (3),


(I) Biblioteca Trivulzio - Mss. Mediolanensium Apocalipsium Centuria. (2) La concessione blasonica concessa al Leonino e alla famiglia dei Bigli consisteva di porre sul campo superiore dello stemma sopra fondo ceruleo due bastoni nodosi d'oro incrociati secondo le norme della croce imperiale di Borgogna (la croce di S. Andrea). Vi era pure aggiunta la facoltà di sormontare lo stemma con un galeo aperto da torneo. Questi privilegi furono confermati da Carlo V, a Worms, ai 25 marzo 1521. (3) Ecco i versi del Curzio, dopo aver detto le lodi e segnati i tratti caratteristici e morali dell'Aliprando: non solo conosciamo l' uomo ma lo troviamo nella sede dell'alto suo officio: egli riappare nelle sue funzioni il notaio dei causidici stessi e i suoi cancelli, o la septa (1), e il portico veggonsi aperti ad ogni ordine di cittadini, e quivi scendere alle consultazioni cui era solito prestarsi, come in luogo apposito, a conforto dei miseri clienti che ricorrevano a lui. Se la septa del poeta non è il cortile nel quale noi ci siamo addentrati, e dove è scritto a lettere d'oro il nome dell'Ambrogio Aliprando, che ben abbiamo ormai imparato a conoscere, noi chiediamo dove potremo rintracciarla meglio di qui, dove l'uomo e il luogo coincidono e si completano ? Accontentiamoci, adunque, di questa soluzione che è certamente quella del principale dei quesiti che l' edificio veduto ci propone. Per ciò ci manca l' animo per appellarla la casa dell'Aliprando, sebbene possiamo riguardarla oramai con certezza la sua residenza officiale. Ma due altri quesiti gli si intrecciano e ci stringono i panni addosso. A qual momento del principio del secolo XVI dobbiamo attribuirne l' opera? E poi, quale l'artista che l'ha mandata ad effetto? Destino singolare! mentre molti lavori di minore ricchezza e significazione, e di età ben più lontana che sia quella entro cui ci dibattiamo, hanno lasciato dietro i lor passi memorie, descrizioni, documenti, questo ci è arrivato bensì con falsi giudizii


... et adde Quod superet quemvis ubicumque notarius est qui Causidicorum e cetu est ille notarius idem, quisque rogatus agit tutatur acumine eodem. Cancellos (seu septa) frequens atque excolit ordo porticum uti consultus adit qua, sede parata, desidet et miseros sat agit relevare clientes.


1) ll nome di septa dai romani s'applicava a qualunque ricinto chiuso, ma specialmente era usato a designare un numero di recinti nel Campo Marzio dentro i quali si raccoglievano le centurie prima del voto. Dapprima i cancelli erano di legno: più tardi furono ornati di marmi e circondati di colonnati e altre decorazioni architettoniche. Rich. Dizionario delle antichità greche e romane. Traduz. Bonghi e Dal Re. Milano, 1869, pag. 27. e senza apprezzamenti sufficienti (l), gettati là da quell'infelice seicento che riacconciava il passato, come il presente, a modo suo col cuor leggiero di chi ha la coscienza di non poter sopravvivere a sè stesso. Dato allora l' abbrivo, per due secoli si scivola in quel solco medesimo. Faremo di trarcene fuori fin dove ci è possibile. Domani, verrà forse il testimonio invanamente finora invocato, e noi, l' accoglieremo lieti come il benvenuto; intanto, in attesa di quel giorno, ci deve ben essere permesso di battere a tutte le porte, come abbiamo fatto fin qui, per averne lume e guida onde colmare quel vuoto da cui la scienza rifugge. Immaginare che tutta questa decorazione d' arte sia sopraggiunta dopo la morte dell'Aliprando ci pare difficil cosa ad accogliere; egli si spegneva due anni dopo il suo testamento (2), nel 1508, e noi tutti sappiamo che questi fervidi omaggi a cittadini potenti, per quanto benemeriti, sogliono dissiparsi alla lor morte nei momenti di torbidi, come quelli che allora funestavano la città nostra, di continuo sotto le minaccie di scorrerie nemiche, quando non erano invasioni, come quella degli Svizzeri, nel 1511, che recò enormi danni, o come quella del 1515, per lasciar luogo a nuove invasioni e a nuove taglie. Nè sapremmo indurci a riferire più tanti ancora un lavoro di tanta importanza, cioè dopo la battaglia di Pavia, 1525, quanti un' ombra di stabilità sembrò bensì sorgere sul dilaniato nostro territorio, mentre s' interrompeva un'opera ancor più grandiosa, come è la sepoltura per Gaston de Foix, e già s'avvicinava il momento, per l'erede Aliprando, di cedere la casa al miglior partito che si fosse presentato. Noi ritorniamo volentieri, impertanto, agli ultimi anni dell'Ambrogio Aliprando. Lui sparito dalla vita chi poteva interessarsi di farne lieta e splendida la residenza? Fino a dimostrazione contraria, non sapremmo arrenderci, e riguardare cominciato questo lavoro insigne se non prima del 1508, senza rifiutarsi però ad (I) TORRE.- Ritratto di Milano; già citato. (2) DE SITONIS DE SCOTIA Theatrum, ecc., già citato. ammettere che potesse essere stato condotto a compimento anche alcuni anni dopo. L' altro quesito, chi ne sia l' autore, ne implica un secondo, cioè, se l' artista istesso l' abbia per intero ideato o non sia stato piuttosto l'esecutore di un concetto dettatogli dai comites, i donatori e dedicatori. Anche qui, il secondo partito riassume, per noi, una combinazione di fatti che ci avvince e persuade. Per quanto l'artista sia colto e dotto, allora, all'infuori delle cose religiose e mitologiche, le quali erano sempre un seguito di variazioni sopra un tema conosciuto ed accettato, poco avevasi che uscisse dal sentiero battuto. Qui, pur restando nei confini mitologici, c'è un' invenzione libera e insieme un commento personale della creazione mitica raffigurata, come chi volesse trarla dalle figurazioni convenzionali a più sottili espressioni. Non occorre tornare sopra di esse per dimostrarlo: infatti, a più d'una di quelle immagini toglietevi il nome, e per sè sola non dirà a quale del coro delle Pierie essa appartenga. Cotesto stillarsi di cervello è più da letterato che da artista; e se si riguarda l' abbondanza delle leggende e quello sfoggio di ellenismo e lo stesso intreccio di lettere, insomma ogni cosa, vi si rivela l'affettazione di parere antico, a quel modo che, nelle scritture, la si era già inaugurata, col Sogno di Polifilo di Francesco Colonna, al cadere del secolo XV. E non abbiamo bisogno, se il senso nostro non c'inganna, di andar molto lungi per trovare il letterato, anzi il poeta, in questo caso, che ha gettato le fiamme della sua mente infautata del mondo greco e romano in questo cortile. Gli si vede troppo amore nel ricordare cotesta septa perchè non vi arrivi il senso d' alcun che di paterno. Sono fantasimi, lo sappiamo, ma dove tutto è silenzio o mistero, anche le ombre vanno segnate a dito, e quella del Lancino Curzio, qui, ci paro meno che mai incorporea, dove più d' un filo, comunque sottilissimi, ve la congiungono (1).


(1) CI piace notare i fatti seguenti, a proposito del Curzio, lasciando il lettore libero di trarne quello induzioni che stimerà. Ci è noto già che gli Aliprandi avevano i loro sepolcri in S. Marco. Al principio del secolo XVI, le relazioni della fami- Il vero è che in tutti i tempi, e in quello particolarmente in cui ci aggiriamo, l' artista si accontava facilmente coll' uomo della penna, fosse poeta o filosofo, quando tale non lo era lui stesso ad un tempo. Si corre pericolo di dir cose note ai bimbi, ricordando i nomi di coloro che facevano corona all' Urbinate. Ma, qui, chi l'artista? Lo abbiamo già notato: si cominciò solo dal Torre a parlare di questo cortile, dopo la metà del secolo XVII: e il nome di Luini è bastato, una volta pronunziato, per essere trascinato dagli altri annotatori dei nostri tesori artistici pel lungo di due secoli. Al tempo nostro, ai nostri giorni istessi, ricomponendo la Milano della storia e dell'arte, non si ebbe scrupolo di tirar via sulle orme delle pecorelle dantesche. Chi per poco abbia famigliarità colle pitture del Bernardino Luini è costretto a disconoscer queste per lavoro della sua mano.


glia Alipraadi colla corporazione claustrale dovevano sussistere ancora perché raccogliamo dal testamento d'Ambrogio che il minore de'suoi figli, Simone, vi aveva vestito l'abito agostiniano, e in riconoscimento della sua presenza nella corporazione. Ambrogio vi lasciava terreni e derrate alimentari. Il Lancino Curzio muore povero nel 1512: nondimeno é nel 5. Marco istesso che vi troviamo il suo deposito, probabilmente nella cappella di S. Orsola, insieme a quelli degli Aliprandi, e distoltovi contempononmeate, al certo, allorquando fu rimosso quello di Salvarino, ma non già collocato, come questo, nella chiesa bensì nel chiostro. Ed invero, insieme a tutto il sapore dell'arte più eletta della Scoltura adrianea, il gruppo delle Grazie che vi si abbracciano sulla cuspide lascia nulla a desiderare nella loro libertina nudità dal Rinascimento. E una lapidina ornata, degna di principe più che da poeta, portato, come sembra, alla setta stoica. Ben ci si crederà quando diremo che è una delle opere più delicate del miglior stile di quell'Agostino Busti, detto il bambaia (forse il balbuziente), di cui notammo nei pennacchi della porta le medaglie marmoree dell'Angelo e dell'Annunciata. Si pensi quel che si vuole, ma tra il Curzio, Il Busti, gli Aliprandi, le loro tombe in S. Marco, la casa che è scopo del nostro studio, corre un filo poco men che invisibile ma che pur si sente al tatto. Al lettore vicino non è bisogno che si dica che il monumentino pel Curzio si trova nel nostro Museo Patrio di Archeologia, a Brera, portatovi nel 1798, per salvarlo dagli iconoclasti cisalpini: pei lontani basti loro l'iscrizione, che dice l'estimazione del poeta EN VIRTUTEM MORTIS NESCIAM VIVET LANCINUS CURTIUS SOECULA PER OMNIA QUASCUMQUE LUSTRANS ORAS TANTUM POSSUNT CAMOENOE Una delle dodici figure rimaste potrebbe per un momento fuorviare, ma si ritorna tosto sul retto sentiero, guardando la Pallade, figura mancante d'ogni grazia luinesca: chi dicesse che non havvi di lui nè il modellare morbido e adiposo, nè il colore argentino e iridiscente che ammiriamo nelle suo opere migliori, nè quell'incantevole sorriso che gli dà una attrattiva particolare, non direbbe altro che cosa sentita da tutti. Escludere un nome non è attentare al merito dell'opera. D'altronde, il disegno non è sempre corretto; vi si crederebbe l' intervento di qualche mano estranea; quella che ha raffigurato lo Zeus non si stimerebbe la stessa che vi ha improntato l'Ermete; nè sarebbe da meravigliare che il pittore istesso si fosse modificato nel corso del lavoro, tanto più se giovane, persistendovi certi tratti caratteristici comuni. Poco, qui, importerebbe discendere a più minuti raffronti per toccare alle medesime conclusioni. Ormai il voto degli intelligenti è, da questo punto di vista, inappellabile, o non rimane che di averlo per indiscutibile. Ma, come accade sempre, il lavoro di demolizione è facile, arduo quello di ricostituzione. Allorché si gira intorno lo sguardo si è costretti a confessare che, per questo, ogni punto d'appiglio sembra sfuggirvi davanti. Il carattere leonardesco è manifesto: l'artista se non è uscito dalla scuola, vi ha attinto. Ma i nomi noti, gli scolari e i continuatori del grande maestro, non rispondono all'appello. Si prova il bisogno di allargare il campo alle indagini; e allora senza presumere ad una identità assoluta, un raggio di luce ci viene da un altro dipinto a fresco, non sono molti anni, preso in considerazione in conseguenza di un restauro generale richiesto dalla compromessa solidità di un edificio ecclesiastico del nostro territorio ; vogliamo dire del santuario di S. Maria in piazza a Busto Arsizio. Noi abbiamo già parlato di esso nelle pagine del Bollettino della Consulta Archeologica, in aggiunta a questo Archivio (1): le pitture della sua vOlta ottagonata ci hanno trattenuto non brevemente, mossi non solo dalla

(1) Archirio Storico Lombardo, anno III. fasc. 12°, del 31 dicembre I876. qualità e dall'importanza di quelle pitture, ma dalla singolarità dell'autore, pressoché sconosciuto; del quale, ivi, trovasi bensì la segnatura, per abbreviazione, ma che sarebbe tuttavia rimasta inesplicata senza il sussidio di un manoscritto, di cui una copia conservasi presso la chiesa del luogo. Egli sarebbe un Giovanni Pietro Crespi dei Castoldi, avo di quell'altro, pur celebre pittore milanese, che fu, un secolo dopo di lui, il Giovan Battista Crespi, detto il Cerano. Dal manoscritto il Giovan Pietro è designato pingendi arte eximius, primum inter pictores locum facile obtinet, etc.; le pitture della volta sono segnate del 1531, che è quanto dire ch'egli fioriva nel primo trentennio del secolo XVI, l'epoca appunto dentro del cui periodo cade la pittura del nostro cortile. Fin d'allora, per noi si notava in quelle figure dei profeti e dello sibille qualche cosa di particolare che contemperava, così nelle forme come negli accessori, la potenza diversa di due artisti pittori che allora tenevano il primato nel paese nostro, il Luini o il Gaudenzio Ferrari. Vi era, per dippiù, un'altra tendenza singolare nell'artista di Busto, quello di gettarvi l'oro a piene mani. Quella cupola tutta a lacunari traforati che ne lasciano aperto il cielo, si rileva, si contorna, si rinfianca nei piani sfuggenti dei bagliori del più nobile dei metalli, e con essi si confondono quelli dell'oro egualmente sparso intorno alle vesti e sugli strumenti che le figuro si recano tra le mani. Ora, se noi aggiungiamo quello che abbiamo taciuto nell'indicare da principio l'ordine successivo dell'ornamentazione del cortile, che le dorature vi hanno, anche qui, un intervento che tocca alla prodigalità, avremo constatato un argomento dippiù per ravvicinare i due lavori. Infatti, qui meglio che una pioggia, è un'onda d'oro quella che, dopo avere spruzzato i cordoni e le bacche della vegetazione onde s' infrasca la volta del portico, invade le foglie, i fiori, i cespi, i labbri delle volute dei capitelli, ed è di qui che seguendo il corso degli archi, si distende ai fregi, ai davanzali delle finestre che tengono forme di cuscino, s'avvinghia al telaio che le rinserra, onde si slancia alla cornice tor- minale, la quale va tempestata di punti luminosi e dove traccia quelle parole che tanto invano hanno esercitato l'acume di chi vi pose attenzione e studio. Se tutto questo soltanto per l'architettura, può ben credersi che re figure non vennero lasciate in obblio. Aneli esse mandano lampi e faville ; le personificazioni dinotate ne portano e pepli e veli e vesti risplendenti, come ne vanno ritocchi e talvolta ricoperti le anni, gli strumenti, gli oggetti tutti che portano ad insegna, o posano loro d' accanto. Che più! il fregio dei putti si trova per intero rialzato da uno sfondato capricciosamente messo ad oro. Di fronte a cotesta coincidenza di caratteri, di fatti e di tempo, non ci lasceremo andare alla conclusione della identità delle due mani che hanno decorato i due monumenti, quello di Milano e quello di Busto. Per quanto le osservazioni del comune loro restauratore siano d'un peso significante, differenze evidenti rimangono tuttavia fin dove è possibile studiarne il ravvicinamento memnonico, per accettarne il principio. Qui, l' ispirazione è bensì più calda, più spontanea, più elevata , in quell' Olimpo pagano , cosi caro agli umanisti del tempo, usa la mano è più incerta, più varia : là, è più sicura, più corretta, più decisa nei vaticinatori dell'Era Cristiana. Qui, a Milano, l'influenza dell'insegnamento leonardesco vi colpisce il senso, dove là, ovvi più calma, devozione maggiore agli esemplari in voga nel progressivo inoltrarsi del secolo. Vero è che coteste note parrebbero facilmente condurre a conferire alla coincidenza di mano soltanto un grado diverso di tempo; onde, qui, l'avremmo nello stadio giovanile, più vicina alla fonte del grande maestro; là, matura addestrata nell' arte da un quindici o sedici anni e contenta dei lavori di cui la vita rusticana le porgeva occasione. Nonostante cotesti incontri non ne siamo vinti tanto da rimoverei dal nostro proposito. Conosciamo abbastanza quali condizioni si richieggano ancora per decidere, e a quali rischi si corra incontro non fermandoci ad una risoluzione qual'è quella dell'astensione. Il destino fu avverso all'artista col celarcene il nome: [Didascalia immagine:] Il lato meridionale del cortile (pag. 15). noi non gli faremo violenza pel puerile compiacimento di pronunciare un nome e di far credere ad una scoperta. Quanto se ne può conchiudere è questo: che l'operosità artistica della pittura lombarda nella prima meta' del secolo XVI non si conterminava tutta nei nomi ben noti della scuola vinciana e di quella luinesca. In prova, ci sarebbe facile nominare il Bernardino de Conti e l'Ambrogio de Predis, o cosi lo stesso Giovan Pietro Crespi, di Busto, di cui oggi si conosce qualche altra opera egregia, i quali tutti andavano sconosciuti ai nostri buoni avi. Per Milano il disastro della peste del 1524 fu ben più terribile di quello del 1630, perché arrestò il paese nel rigoglio maggiore delle sue forze, e deve aver disperso tante memorie artistiche, fra cui probabilmente hanno fatto naufragio quelle che furono il soggetto delle nostre indagini. Nulla di più facile che coi nuovi studi delle cose d'arte s'incontrino altri lavori in piena corrispondenza di mano con questi: allora se non saranno apparsi documenti, finora invano invocati, per designare il nome dell'artista, come in simili casi, si suole, egli entrerà nella storia, assumendo per segno battesimale quello di pittore della Casa Ponti. Ma si lascino ormai nelle grandi loro ombre gli uomini e l'età che hanno confidato a questo cortile le loro impronte per ricordarci agli uomini e al tempo che sono i nostri. Sono note in parte le offese che il tempo recò a questo monumento, onde rinunziamo a ridirle tutte per filo e per segno. Chi si pone dinanzi l'opera del Gruner (1), pubblicata nel 1854, in cui due tavole gli sono consacrate, difficilmente potrebbe farsene un' idea intera perché lo studio per esso fattone risale al certo ad epoca anteriore ai lavori del 1845; questi avevano cancellato, specialmente nelle volte del portico e nei fregi sotto alle finestre, quel poco che il tempo aveva rispettato. Fra le altre


(I) GRUNER LEWIS, Specimen of ornamental Art. etc. London, by Thomas, M' Lean, 1850. Tab 75 and 76. alterazioni, per le quattro figure perdute, tra le finestre della fronte rivolta a nord, affine di riempirne i vani si era ricorso allo strano rimedio di ripeterti quattro delle figure delle Sante che sono nel tramezzo della chiesa del Monastero Maggiore, e di applicarvele col sistema del frescare della decadenza, consacrandole coi nomi di Calliope, la musa che mancava, Architecture, Zografa, e Glife (glittica). Le alterazioni non potevano immaginarsi più disdicevoli: lo dicemmo, non vogliamo accusare tanto gli uomini quanto il tempo; vogliamo soltanto mostrare in manco di quarant'anni in quale misura di criteri diversi da esso ci divida l'arte del restauro. E appunto se codesto nuovo concetto non fosso sorto, sallo il cielo durante quanti anni ancora, per non dire a perpetuità , forse, sarebbe rimasto larvato questo monumento sotto la malaugurataa camicia gittatagli addosso dal 1845! La sua recuperazione la dobbiamo ad un concorso di circostanze piuttosto unico che raro: l'incontro di tre uomini per cui l'arte e le sue manifestazioni non sono vanità passeggiere, o indifferenti cose nella vita. Sarebbe quasi superfluo nominare primo il nuovo possessore della casa, il Cav. Andrea Ponti che ad un amore illuminato dell'arte aggiunge un convincimento che sfida qualsiasi ostacolo ad ogni ardita impresa. Ma il voto suo sarebbe rimasto incompiuto so non si fosse trovato a fianco due artisti degni di comprenderlo e di mandarlo ad effetto. Certo è che senza lo sguardo acuto e scrutatore d'uno d'essi che seppe abbracciare d'un tratto l' indole del lavoro e ne presenti la sua riuscita finale, e senza l' altro, che per intelligenza di studi e per cantante e felice perizia d'operare fosse destro e pronto al più arduo dei cimenti nel restauro, mal si sarebbe tentata un' operazione che sa d'ardimento soverchio, com' è quella di denudare tutte le pitture antiche fino alla loro naturale epidermide da quelle estranee sovrapposte nel corso del tempo, per ricostituirle poscia, sugli avanzi originali, all'integrità primordiale. Senza volerlo, abbiamo nominato il professore Giuseppe Declini o il pittore Luigi Cavenaghi, due nomi d' artisti il cui accordo, e insieme, la cui indipendenza costituiscono la più salda cooperazione in questa sorta di assunti difficilissimi e quasi la guarentigia migliore del loro esito. La conferma riposa nei fatti. Quello che erasi presentito sotto il lenzuolo stesovi sopra dalle mani del 1845, apparve in piena luce, guasto bensì ed incompleto, ma tale da permettere ad una avvedutezza sapiente e paziente di farne tesoro, fin nei più lievi indizi, per ricostituire le membra del corpo monche ed inferme. Per siffatta guisa si giunse allo stato presente il quale può pretendere di nulla aver tolto, nulla aggiunto all' aspetto con cui l'opera mostrassi allorchè, per la prima volta, uscì dalle mani dell' artista. È debito il dichiararlo, se non altro a titolo di memoria, che non fu così pianamente come potrebbe credersi che a tanto si giunse. Il fregio dei putti che rigira sotto il davanzale delle finestre, ad eccezione di alcune inquadrature per intero conservate, ebbe ad essere quasi per intero rifatto sui moduli rimasti e cosi delle vòlte del portico, cosi di molte altre parti minori della ornamentazione architettonica. Ma ciò non bastava per raggiungere la perfetta armonia, conveniva studiare i metodi della pittura murale del tempo, quell' aspetto di pittura a smalto, arte vetusta che risale alle opere etrusche e si ammira specialmente sulle pareti pompejane, modo di frescare che il seicento ebbe in uggia, per amore delle larghe e rapido tinteggiature degli intonachi assorbenti a calce fresca, meravigliose e imponenti bensì per audacia, ma mute e opache per le aeree armonie del colore a luce di cielo. Inaugurato questo principio, non era più possibile retrocedere alla presenza delle quattro figure femminili lasciatevi dal 1895, estranee cosi al concetto poetico ed al senso estetico dell' opera, come, visibilmente, in contrasto pel modo pittorico dell'affresco che era quello riprovato della decadenza. L'artista restauratore due cose in una ebbe a recarvi: la ricomposizione tipica di figure che compissero il coro rimasto, e un rinnovamento di metodo nella loro esecuzione. Presa cosi a norma le antiche nelle significazioni, negli atti, nei modi, ora sonosi sostituite a quelle del 1845 le quattro, HPA (Hera, Giunone) ... ( Calliope ), ... ( Artemis, Diana), e .. (Demeter, Cerere). Rinunciamo a qualunque commento su queste nuove figure , notando soltanto che come la Calliope era d' obbligo, le altre compiono il numero delle divinità femminili più severe dell' Olimpo pagano, quali si convenivano alla nobiltà del cittadino della legge e della giustizia. Nulla gioverebbe il dissimularlo; qui abbiamo un' assoluta rinnovazione, dove pel rimanente ci è lecito usare la parola di restituzione, non sembrandoci il caso di contenerci alla designazione semplice di restauro. E come non dissimuliamo la parola di rinnovazione per coteste figure, così non ha inteso dissimularla l' artista. Sarebbe stato ben facile al Cavenaghi, come nei minori restauri dei dipinti, di aggiungervi l' applicazione di quegli accorgimenti che creano delle antichità simulate, ma egli ha voluto parere più sincero che abile; e per tal guisa veggonsi lasciati interi al tempo i suoi diritti. Chi ha veduto, anche nei paesi più colti dell'Europa, nel restauro dei monumenti procedere a rinnovazioni complete, obliterando spesso l'antico senza necessità, dovrà essere grato all'artista d'essersi tenuto in limiti diversi, rispettando la verità dei fatti secondo la loro diversa natura. Cotesta fronte di nord porta ancor un' altra impronta che non è né una restituzione, nè una rinnovazione: intendiamo parlare della leggenda posta nel fregio della cornice terminale. Il vuoto vi era completo, e senza traccia o segno di scrittura. Le opere citate lo avevano noncurato pel manco male. Compire la leggenda degli altri lati, già così rotta ed incerta, e tuttavia così mantenuta anche oggi, nelle sue forme e nelle sue lacune, essendo parso più che altro, vano, e forse ridicolo stono di fantasia, il rinunziarvi, anche qui, non costava fatica alcuna. Importava ben altra cosa: non permettervi la stonatura d'un vuoto assoluto, e con ciò cogliere l'occasione per affermarvi il lavoro dell'età nostra quale omaggio del passato, ed accenno ai presenti e ai posteri dell'indole di questo lavoro e del suo momento. Scri- vervi, quindi, come vi fu scritto, al modo del resto, con intrecci e innesti di lettere:

AND. PONTIUS MCCCLXXX RESTITVENDUM CURAVIT

dovrà parere non altro che una testimonianza storica, e un atto di rispetto al passato, e di giustizia al presente. Per compiere le notizie che riguardano il lavoro non passeremo sotto silenzio che esso fu l' opera di non molti mesi. Cominciata nel luglio dello scorso anno, continuata fino al novembre, rimase interrotta nel periodo invernale, nè la si ebbe compita se non nel giugno dell'anno che corre, colle quattro nuove figure, della parete nordica. Ecco, or dunque un antico monumento risorto, un monumento che tutto mostra il valore dell' arte decorativa lombarda nel tempo del maggior suo splendore , grazie ad una di quelle felici alleanze che hanno suscitato tante glorie artistiche ali' epoca del Risorgimento, la liberalità insigne di chi porge i mezzi, l'intelligenza appassionata di chi intende e adopera l'arte. Oggi, di questi esempi vuolsi far gran conto. L' indole istessa dello spirito umano ci porta all' entusiasmo del nuovo e del contemporaneo nell' arte; ond' è ragione se le maggioranze ne vanno dominate. Invece il culto del passato, quello proprio delle menti privilegiate e dei pochi che ne comprendono la schiettezza e la nobiltà, o che sanno cosi trasmigrare oltre i confini della vita attuale in più spaziose e serene regioni, è tanto più degno di plauso in quanto porta con sè l'assicurazione di quel patrimonio che è l'onore costante dell'umano ingegno, e, in questo caso, dell' arte italiana. Non è da credersi che le due correnti si contraddicono. Ma quando s' incontrano uomini cui tutto sorride nel presente, consacrarsi a ristabilire il passato devono sembrare ben più benemeriti della scienza e degli studi severi di chi si abbandona alle labili e facili sensazioni dell' ora che passa. L'intimo compiacimento di costoro è, in questi casi, il migliore dei compensi dell'opera compita. Intorno a loro, pero', per quanti osservano e notano, una ricostituzione, pari a quella che abbiamo tentato di far conoscere, vale tanto quanto un diritto di conquista per ben possederla. Chi avesse pertanto a dire: la splendida residenza di un antico ed illustre patrizio milanese essersi, per tal modo, fatta degna dimora d'un nuovo patrizio milanese, non si esprimerebbe se non una verità molto semplice e molto ovvia.