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LA SCUOLA DI LEONARDO DA VINCI DIPINTO A FRESCO

OPERA DI CONCORSO PREMIATA DALL' I. R. ACCADEMIA DI MILANO

SE fu mai sempre verità inconcussa che buon seme generi ottimo frutto, certo maggiormente essa non sfolgorò più chiara che nella recente fondazione di un premio biennale presso l'accademia Milanese per un concorso di pittura a buon fresco. Ognuno comprende di quanta importanza sia il favorire con ispeciali incoraggiamenti un tal genere di pittura del tutto italiana, in questo volgere di tempi appunto in cui l'arte grande e colossale, in cui la pittura monumentale sembrano spegnersi per difetto di propizie occasioni, e se perciò ragion vuole applaudito tale intendimento dettato da ottimo consi- glio; ma ben maggiore sorgerà tra noi il plauso quando si sappia che di questa nuova fondazione abbiamo debito alla liberalità di un privato, che non è certo al primo suo passo nella via della beneficenza illuminata e sincera, di tale il cui nome vale il migliore degli elogi, di quell'Enrico Mylius, che venerando e venerato, dobbiamo ormai ascriverci od onore di chiamar concittadino. In qual modo poi l'opera sua generosa possa maturare degni frutti, valga, come il più splendido dei presagi questo primo saggio dell'istituzione, nel quale e la scelta del soggetto non poteva sortire più felice ed appropriata , ed il lavoro del premiato non presentare una riuscita più ragionevole e degna d'ammirazione e d' encomio. Considerato il soggetto per se stesso, due importanti ragioni infatti ne mettono in luce, la bontà: la vastità, cioè, del campo che lascia aperto all'ingegno dell'artista e l'alta significazione che esso assume più particolarmente nell'Accademia della città nostra. Pur troppo è un fatto evidente e generale che, nell'invito per concorsi ad opere d'arte, le corporazioni artistiche circoscrivono il tema in tale ferrea cerchia , ne designano strettamente le circostanze, il momento, le pose dei personaggi per modo che la fantasia di chi s'avvanza al cimento anzichè venir ad una prova della ingenita sua potenza, sente una pressione che la obbliga a stringere le ali, ad annichilarsi onde sostituire invece quel giuoco d'attrito d' uno studio più calcolato e ristretto che torna assai difficilmente ad onore delle menti alte, bollenti e perciò sdegnose di misurati confini. Il soggetto dell' Accademia Vinciana ai tempi del Moro, quale fu reso pubblico, non può essere tacciato di questa pecca, anzi per lo contrario, apre un largo adito a raffigurare in tutto il suo splendore e quell'artefice sommo, e quella società e quell'eletto stuolo di allievi che tanto contribuirono a far salire in fama ed in onoranza l' eccellenza dei precetti del maestro. Se si riflette poi alla significazione che traluce da un tal tema il quale fa mostra di sè consacrato prima, quasi la pietra angolare onde preludere ad una serie di pitture decorative dell'Accademia nostra, si avrà a commendare del paro la convenienza e la scelta giudiziosa, non potendosi dubitare che senza un intendimento chiaro e preciso dell'intimo senso proprio sia stato preposto. E le idee tanto si connettono, le immagini tanto si richiamano e si moltiplicano a vicenda, infinite, vivaci, che la rappresentazione del Vinci e della sua scuola potrebbe ben parere, qui, dove un giorno suonava la sua parola, una promessa, un impegno, un incitamento di non essere da meno degli avi od almanco di non voler porre in non cale quell'altezza di principi, quel fondamento di scienza, quell'acume di critica, quello spirito d'osservazione, quella larghezza d'insegnamento, in una parola, quel complesso sublime di tradizioni che improntano di un carattere unico ed affatto impareggiato, oggidì più che mai, la colossale figura del Vinci. E per vero nella biade miracolosa che l' Italia al finire del XV secolo, con uno sforzo supremo, quasi sfidando le altre nazioni nelle arti, deponeva dal fianco lacerato, Leonardo, Rafaello e Michelangelo, se il primo non fu il più fecondo in opere d'arte, se meno felice degli altri fu la conservazione sino a noi de' suoi lavori, egli non fu meno grande dei suoi rivali, anzi, considerato altrimenti, che come artefice, egli fu l'uomo più meraviglioso e più straordinario del tempo suo, fu l'uomo che nelle regioni del pensiero inaugurò un'era novella, che svincolando lo spirito dal gretto empirismo, sulle gruccie del quale si era fino allora trascinato, lo lanciò nelle secrete cose per le vie d'una vasta e potente analisi e poscia dai voli dell'induzione lo richiamò al cimento dei fatti, e così primo piantò il vessillo di quel processo mentale nella scienza che condusse dappoi i trionfi moderni delle scoperte fisiche e naturali. Ancora mezzo secolo fa si vedeva nel Vinci specialmente l'eccellente artefice; oggidì non meno che l'artefice splende in esso il filosofo insigne, l'antesignano di quella schiera di poderosi ingegni che seppero trovare la parola alla quale la natura, interrogata non sa rifiutare i suoi responsi, oggidì non havvi chi non riconosca in lui una di quelle poche menti privilegiate dalla Provvidenza a drizzare il cammino ali' umanità, ed altamente fra le molte voci, ai giorni nostri lo proclama quella potente dell' Humboltd. Nello studio della mente del Vinci, la naturale e giusta armonia in lui dell'immaginazione e della ragione, basterebbe senz' altro a dimostrare vittoriosamente come queste due evoluzioni del pensiero umano, che pur sembrano così contrastanti fra loro, siano ambedue egualmente indispensabili negli esercizi dell'arte non meno che della scienza, e come il fervore dell' immaginazione soccorra l' astronomo nelle sue peregrinazioni pei campi del cielo, al pari che la ragione valga a guidar la mano dell'artefice nello scrutare e tradurre le impronte delle umane fisonomie così mobili e svariate in fatto, eppure mosse, si potrebbe dir quasi, da un processo sempre costante e logico. Ed è impossibile il non andar persuasi che quand' anche il figlio di Pier Vinci non avesse varcato la soglia della bottega del Verocchio, che, quand'anche i casi lo avessero distolto dalle arti della forma, egli sarebbe egualmente salito sommo perchè d'anima grandissima e d'ingegno oltrepotente. Come artefice poi egli emerge in special modo perchè era, non il genio inconscio delle proprie forze, da cui si lascia trascinare, anzichè comandarle, siccome è dell' Urbinate; non l'animo disdegnoso e fremente sotto l'aculeo segreto d' una passione generosa , siccome è del Buonaroto, ma l' intelligenza tranquilla, serena, secura che, assorta nelle armonie della creazione, trasvola per quella mirabile concordia di forze da grado in grado fino alle cause supreme e giunge, armata sempre da un criterio misurato, e sottile, da una logica inflessibile ed ardita fino alla divinazione. Ed è perciò appunto che a Leonordo anche ne'suoi studi d'arte, l' uomo non doveva sembrare un essere isolato e di cui non doveva tener conto, che delle sue apparenze esteriori; per lui anzi le sue forme, i suoi moti, le sue contrazioni. muscolari, le espressioni stesse del suo volto dovevano apparire, anzichè un effetto superficiale, i risultamenti di una dinamica particolare ed ordinata secondo le ragioni dell'organica sua conformazione e quindi parrà chiaro in lui l'affaticarsi negli studii anatomici, lo studio di sorprendere il vero, onde risalire più in là che alle materiali combinazioni dei moti, onde cogliere al volo quelle contrazioni originali , tipiche che rispondono alle umane passioni. E che tali infatti nell' arte fossero le tendenze del Vinci non una, ma infinite abbondano le prove senza staccarsi dall' aureo suo trattato della pittura, dai lavori di lui che ci rimangono ancora i quali, comunque si trovino oggidì, sono la miglior prova di quanto valessero i suoi precetti. Ma per chi pure volesse approfondirsi nel misterioso labirinto di quella mente oltre i confini dell'arte, per quanto dotato di vasta comprensione, è ben lecito il dubitare che possa seguirne dovunque i passi, imperocchè moltissime e variatissime sono le direzioni nelle quali irradiossi il suo pensiero, tanto che la lettera da lui scritta a Lodovico Sforza nell' offrirgli l'opera del suo ingegno, che per ogni altro po- trebbe sapere di vanità e di petulanza, a noi, posteri suoi, può ben parere modesta al confronto delle orme lasciate da quel sommo suo intelletto. Ma quello forse che è ancor più meraviglioso l'indagare, quello che abbaglia l'acume d' ogni sguardo che in esso si è appunta, egli è come e dove e quando Leonardo venisse in tanta eccellenza e superiore ai contemporanei suoi, nelle diverse vie dello scibile umano in cui avviossi, mentre sembra che le dissipazioni cortigiane non siano state estranee ai suoi anni giovanili, eppurre lo troviamo oltre appena il trentesimo anno già fatto maturo in una ben ampia sfera di cognizioni scentifiche. È questo uno degli innumerevoli misteri che velano all' umanità tali essenze prodigiose, e se è meraviglia singolarissima lo scorgere l' allievo del Verocchio non solo scultore ed architetto specialmente di cose militari, come Michelangelo, non solo musico celebrato ed educato nelle lettere e nella poesia, come non pochi fra gli artefici più rinomati, è mistero il ravvisarlo meglio che intendente, maestro nelle arti meccaniche ed in particolare nell' idraulica, di cui l'agro milanese possiede le più belle e preziose prove, il riconoscere in lui già concette quelle leggi intorno all' equilibrio dei fluidi che solo un secolo dopo dovevano essere ammesse quali fondamenti della scienza, il vederlo precorrere nei principii sulla statica e sulla caduta dei gravi, le scoperte di Galileo e poi le molte sue osservazioni i meravigliosi suoi teoremi qua e là sparsi nelle scienze matematiche e naturali, intorno alla balistica, all' acustica, alla visione, nel trattar della quale la costruzione della camera ottica, e dei telescopi, la rifrazione della luce stellare, la teoria dei colori sembrano già a lui rivelate, ed inoltre intorno alla geologia, al moto della terra, alla luce della luna nella parte ombrata, all'agronomia, alla botanica, al volo degli uc- celli , alla combustione; senza voler rammentare quanto si connette più particolarmente all' arte, come l' anatomia, il moto dei corpi, la prospettiva lineale ed aerea: tanta insomma fu la sapienza in lui che corse in fama a' tempi suoi di eretico e negromante , comechè fosse inesplicabile poter bastargli a tanto le sole forze umane. Senz' altre considerazioni che queste poche, parrà manifesto che l'inaugurare in una pubblica accademia la rappresentazione della scuola di Leonardo è quasi mettere davanti il più grande dei simboli nell' arte, è quasi proclamare a quali principii debba informarsi l' artefice, e come l'arte debba necessariamente procedere accoppiata colla scienza ed a quale elevatezza di vedute pertanto debba sollevarsi chi volge l' opera all' insegnamento di essa. Infatti nel Vinci l'arte, più che un aspirazione, era una luminosa conseguenza della vasta sua potenza scientifica, era quasi una dimostrazione geometrica d'un principio più grande e prima di lui innavvertito, laonde giustificherebbe in certo qual modo, chi dalle forme regolari dei solidi incede negli esercizi visuali e manuali dell' arte. Quindi lo studio teoretico delle forme animali ben si può dire cominci colla scuola Leonardesca e con lui che abbia origine un sistema critico e di calcolo onde determinare le varie combinazioni lineari dei corpi, siccome ci viene dimostrato dai non pochi disegni che di lui ci rimangono. Inoltre lo vediamo occupato a disegnare alcune immagini del libro de divina proportione dell' amico F. Luca Paciolo, attendere con Marcantonio della Torre alle preparazioni anatomiche, alternando egli stesso il ferro e la matita, indi cominciare un libro sulla luce, e passando alle investigazioni sul moto locale porre ogni studio nelle ragioni del centro di gravità della persona, ondechè tutto nelle sue figure è la conseguenza d' una ponderazione profonda ed estesa, d'una scienza comprensiva ed illuminata. Fin dove l'arte libra i suoi vanni negli spazi sconfinati della fantasia , nel concetto delle composizioni, nell'elezione dei tipi umani, nella loro espressione, il Vinci spicca bensì il volo, ma come quello di Dante, è lo slancio del filosofo che tutto interroga , in tutto s'addentra, perchè di tutto vuol ragione, comechè l'arte non debba ballonzonare sfrenata, ma affrettarsi sicura pel suo cammino, sorretta dalla scienza, se mira a sopravvivere nei secoli: e ben si può asserire che, fra le non molte opere d'arte di Leonardo, il Cenacolo, come quella che le vince tutte, compendia eziandio l' essenza della sua mente artistica. A voler degnamente apprezzare i principii del Vinci, e nell' istesso tempo delle tre grandi scuole italiane, è curioso come torni a cappello l' istituire un confronto tra i capolavori principi delle tre potenze contemporanee nell' arte, Rafaello, Michelangelo, Leonardo e come risulti, non solo la conferma di quanto non ci siamo peritati di esprimere, ma come vengano a disegnarsi mirabilmente i caratteri dei tre artefici, e le caratteristiche loro tendenze nell' arte. Volgasi infatti uno sguardo alla Trasfigurazione, al Giudizio, all' ultima Cena e parrà di evocare di subito gli spiriti di quei tre grandi. Nella prima infatti è tutto l' ardore, tutta la fantasia incomposta della giovane immaginazione, uno splendore di forme certamente impareggiato, ma guai allo sguardo che sopra vi si arresti, freddo e critico. E ragioni storiche e ragioni prospettiche lo obbligano a distogliersene, seppure non ami considerare quella tavola, per le stupende bellezze di ciascuna figura, senza por mente alla nessuna relazione tra la parte superiore e l' inferiore, quasi che fossero là per caso appiccicate. Nel secondo è ancora la fantasia che predomina, ma se il senso è più grande, qual si conviene al supremo spettacolo annunciato nei lamenti dei profeti e delle sibille, ani che il ritorno a vita dell' innumerevole caterva delle generezioni, è una scena di collera e di maledizione, e nell'immagine del Cristo, più che il divin Verbo sereno sul suo trono di gloria , par di scorgere l' anima sdegnosa del repubblicano fiorentino che irrompe in una imprecazione a quella imbelle e bastarda sua età. - Nel simposio invece non è l'ispirazione in onta alla critica, non è l'impeto d'una passione oltracotante, ma l'intima manifestazione d'un'anima pacata e chiaroveggente che ravvisa il vero sull' ultimo confine dei sensi e lo esprime. Perciò appunto quanta proprietà nella composizione, quanta semplicità nella distribuzione delle figure, nel contrasto delle linee, sopratutto quanta varietà nell' euritmia, come opera di quell' artefice che poneva nell' equilibrio delle forze, nell'armonia il primo elemento della bellezza! E come poi questa Cena risponda al concetto divino che destano nell' animo le sublimi pagine del Vangelo , lo si prova in noi di primo tratto, poichè tosto si è colpiti non essere una mensa comune e volgare quella che ci sta davanti, non un'opera fatta per sfoggio d' arte, o in cui per lo meno scorgasi uno sceneggiamento pittorico e capriccioso, ma appare chiaro invece che Leonardo, compreso dell'altezza del mito che doveva raffigurare, trascelse una disposizione semplice, severa, quasi geometrica, escluse qualsiasi personaggio accessorio, che potesse menomare la solennità di quel momento, e volse invece ogni suo studio intorno all'ordinamento delle pose onde riuscissero composte e vere: ma in modo peculiare intese il pensiero suo intorno a diversi tipi delle teste, come sogliono gli artefici fortemente pensanti, onde raggiungere nell' aria dei volti quella grandiosa e nobile' impronta di ingenuità che pur si conveniva alla tribù dei poveri pescatori del Tiberaide, per lo che chi sa per prova quanta tortura d' ingegno importino questi studi, non si rifiuterà a credere col Bossi che quest' opera gli costasse ben sedici anni di fatiche, contando il tempo speso negli scudi preparatorii, ed a convenire col Vasari che lasciasse imperfetta la testa del Cristo per non poterle inspirare quell' aria celestiale che doveva essere il primo de' suoi attributi, imperfezione però che non poteva essere scorta e valutata che dalla mente istessa che l' ha concetta, e che almanco dimostra nel Vinci stesso quell' incontentabilità che rode l' anima dei grandi artisti. Insomma per riassumere in poche parole il confronto tra questi tre capilavori si può dire che se il primo ci rapisce di meraviglia, se il secondo ci riempie di spavento, questo solo del Vinci ci persuade e ci infonde nell'animo quell'ineffabile senso di venerazione che decide del trionfo del suo lavoro. E se potesse venir permesso dalla brevità di questi cenni, tornerebbe facile l'addimostrare che quello speciale carattere che spicca dai capi d'opera di questi maestri dell' arte italiana, trova non meno una conferma nell' esame delle tre scuole, e vedremmo il perchè sull'orme del Sanzio non potevano venire che ciechi imitatori e plagiari, il perchè su quelle del Bonaroto gli adoratori suoi non potevano che precipitare ebbri e baccanti nell' esagerazione e nel barrocchismo, il perchè invece sulle pedate del Vinci non potevano avviarsi che pochi ed eletti allievi siccome quello che moltissimo da loro esigeva e li voleva informati prima alla scienza che all' arte. Ed è forse a quella sua tendenza d'investigazione a quella sua smania di aprirsi sentieri inesplorati anche nell'arte che dobbiamo imputare e la scarsità delle sue opere, e lamentare il rapido deperimento di esse e singolarmente del Cenacolo, imperocchè è noto come egli si ostinasse , di sostituire al fare a fresco un particolare suo processo con mestiche, tempre e vernici, onde dipingere ad olio le muraglie, certamente perchè questo è sistema di manipolazione meglio si presta ad un lavoro lento, meditato ed in cui si vuol toccare a perfezione. Comunque sia per altro lo stato attuale delle sue opere, l' importanza del suo trattato sulla pittura, dettato appunto mentre andava fantasticando intorno alla più grande di esse, a questa del refettorio delle Grazie, e che può reputarsi quasi il corollario dei ragionamenti che su di quella spendeva, sta e starà in ogni tempo sinchè vi avrà ombra di senno, come il fondamento d' un istruzione a larghe vedute, a principii grandi e senza meschine restrizioni, come quello che offre a tutti gl' ingegni quel tanto del frutto delle sue esperienze che valga a non attutare le naturali tendenze dell' artista. Ed è la voce del Vinci che proclama ancor tuttodì prima base del pittore essere lo studio della prospettiva, - dover esso far buon fondamento sulle cose naturali se l' opere vuole tornargli ad onore e ad utilità - dover esso raccogliere ogni studio intorno alle ragioni anatomiche se l'ignudo non vuol fare inanimato e senza grazia - insomma studiare prima la scienza e poi la pratica nata da essa scienza - sorprendere il vero ne' suoi accidenti senza ch' esso se ne avegga - e sopratutto nessuna imitazione della maniera di un' altro se l' artefice vuole essere detto figlio e non nipote della natura. Per tali ragioni Leonardo sorge oltre l'altezza comune, rappresenta il simbolo dell' arte illuminata dalla scienza, di un arte, serva a nessun precetto, solo studiosa del vero, così il raffigurarlo degnamente, lo stampargli in tutta la persona quello spiro divino dond'era agitato, personificare l'alta idea che in lui s' incarna, non può essere agevole all'artefice se bene non si comprenda del complesso prodigioso delle sue facoltà intellettive. E sotto questo rapporto ci pare che il Casnedi abbia colto nel segno, ed abbia anch' egli risposto qual si conviene alla prima prova della recente benefica istituzione. Egli infatti, con saggio consiglio, immaginò il Vinci nell' atto che viene svolgendo i canoni delle umane proporzioni agli allievi suoi più celebrati, al Salaino, al Beltraffio, al Marco d'Oggiono, ai due Luini, a Cesare da Sesto e ad alcun altro che intorno a lui s' aggruppano nell' estasi dell' attenzione. La prima condizione del suo concetto doveva essere una maestosa sobrietà nella scena, nulla di superfluo o di accessorio, solo un raccoglimento solenne nello stuolo eletto che pende dal labbro facondo, e dalla luminosa parola di tanto maestro; e l' artista la raggiunse nella posa semplice degli scolari, nella muta meraviglia impressa sulle loro fisonomie, donde traspare tutto lo sforzo di acume che in tali momenti ci compone inconsci tutte le forme del viso. Anche l'elezione delle forme, la varietà dei tipi, e, oseremmo dire, una certa qual castità nelle pieghe aggiungono singolare eleganza a questo gruppo. Plausibile poi fu quel pensiero del pittore di lasciar scorgere poco men che deserta la vasta sala, abbandonati ì leggii, e gli allievi accorsi, alcuni ancor cogli strumenti del lavoro tra le mani , ma tutti con singolare affetto e premura onde raccogliere i tesori di quella splendida parola , di cui pare che senta l' ineffabile fascino fino la rozza anima del modello ignudo, che vicino si tiene assiso in atto d' aspettazione. Non meno ottimamente intesa e collocata è la figura del protagonista. Essa sorge ritta sopra un palco di piccolo rialzo e come domina la scena per la venustà e la dignità delle forme, primeggia per l'altezza della persona; e mentre colla destra sostiene una tavola su cui appare disegnato di profilo la figura umana, coll' altra volge su questa un aperto com- passo, quasi in atto di additare le diverse ragioni delle parti col tutto. Invero il concetto non poteva svolgersi più propriamente e felicemente, e vuol essere perciò meritamente ammirato. Se havvi chi appunta questo bel lavoro di alcune mende, è rispetto al colorito forse alquanto monotono ed intorno alla figura del protagonista, pel quale vorrebbesi più slancio nella persona ed eleganza nella estremità, ed in cui mal si ravviserebbero quella forza staordinaria, quei tratti maestosi ed austeri che strappavano al Lomazzo tale un' ammirazione da paragonarlo al figlio dell'antico Glapeto. Quando però si voglia riflettere che la riuscita perfetta d'un lavoro a buon fresco è opera che richiede anche nei sommi maestri lunghi anni di pratica e di esperienza, quando si voglia por mente alla difficoltà, anche per un artefice provetto, di toccare nella rappresentazione del tipo unico del Vinci, un' altezza pari al sublime complesso delle sue doti, non vi sarà chi non applauda a questo lavoro del giovane Casnedi e non goda di scorgere in esso, nella prima produzione suscitata dalla generosa istituzione Mylius un forte incitamento ai giovani che si volgono a questa via nell'arte ed un arra di splendido avvenire per un ramo di pittura che fece le glorie per cui stanno i più grandi artefici italiani. G. Mongeri.