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SULLA CONSERVAZIONE DEI MONUMENTI E DEGLI OGGETTI D'ARTE E D'ANTICHITÀ.

PAROLE DETTE IN SENATO TULLO MASSARANI.

ROMA. [TIPOGRAFIA DEL] SENATO DI FORZANI E C. 1877. SULLA CONSERVAZIONE DEI MONUMENTI E DEGLI OGGETTI D'ARTE E D'ANTICHITÀ. PAROLE DETTE IN SENATO DA TULLO MASSARANI.

ROMA. TIPOGRAFIA DEL SENATO DI FORZANI E C. 1877.


[dedica autografa dell'Autore] S'è agitata, di questi giorni, in Senato, una questione di molta importanza per la coltura e per il decoro del paese: quella della conservazione dei monumenti e degli oggetti d'arte e d'antichità. Ma il paese, a dire il vero, se n'è addato appena, distratto com'era in altro verso, dal trambusto della retroscena politica. E non c' è da farne le meraviglie: con la limitazione delle nostre facoltà visive, anche un prunaio, visto da vicino, può nascondere una stesa di cielo. Quel ch' è peggio, in questo povero cielo dell' arte, non solamente gli astri un giorno adorati si vanno oscurando, e dalle nebulose stentano a venirne fuori di nuovi; ma c' è altresì questo guaio che le stelle, tutt' altro che fisse ancora che di prima grandezza, noiate forse dell'abbandono e del disprezzo in cui sono tenute dagli uomini, filano una per una, e scompaiono. Fuor di celia, il mal andazzo di vendere all'estero i nostri capolavori antichi e i più preziosi nostri cimelii non è cosa da pigliare a gabbo: un provvedimento ci vuole, che infreni questo esodo malaugurato. E già il Senato stava per adottarne uno, se non tale da mandar soddisfatti i fautori della maggiore severità, o, secondo essi credono, della logica più rigorosa, tale almeno da non si poter dire senza efficacia; perchè il disegno di legge, ch'era stato già in buona parte discusso e approvato, vietava addirittura e di netto ai Corpi morali l' esportare oggetti d' arte e d'antichità di qualunque sorta; ai privati il concedeva, ma riserbava allo Stato il diritto di prelazione, e imponeva in ogni caso una tassa d'uscita del 25 per cento sul valore dichiarato. Quando, che è che non è, si viene a sapere che la tassa non si può mettere, perchè nel rinnovare il trattato di commercio colla Francia si è fatto di questi benedetti oggetti d'arte e d'antichità un fascio con le cianfrusaglie da rigattiere, e s'è in obbligo di lasciarli liberissimamente uscire come quelle, senz'altro dazio che il minimo, dell'uno per cento. La discussione è sospesa, il disegno di legge scomparisce dall'ordine del giorno; siamo da capo. Ora si cerca un altro bandolo: si vuol vedere se al dazio d' uscita non possa sostituirsi una qualche tassa interna, di licenza o di registro. Ma noi, a dirla schietta, non ci rallegreremmo gran fatto d'uno di codesti spedienti, che potrebbe essere preso in mala parte, come cosa poco diritta, da chi ha avuta, sia pure con nostro danno, la nostra parola. Ci par dunque che sia il caso di tornare, anche per coloro che prima ne rifuggivano, alla proposta più radicale: libera uscita rispetto agli oggetti di secondaria importanza; divieto assoluto d'esportazione rispetto a quegli altri che, per il decoro e per la coltura nazionale, sia giudicato necessario di conservare in paese. Stando le cose a questo punto, crediamo che possa non tornare del tutto vano il mettere sott' occhi agli amici dell' arte, che in Italia non dovrebbero essere pochi, le ragioni da noi poveramente e frettolosamente addotte in difesa della detta proposta. Se l'opinione pubblica vorrà suffragarla, chi sa ancora che non approdi. Tornata del 23 novembre 1877. Discussione generale del progetto di legge: Conservazione dei monumenti e degli oggetti d' arte e d' archeologia. Dopo un eloquente discorso del Senatore Di GIOVANNI, il Senatore MASSARANI parlò in questa conformità: (Dal resoconto ufficiale.) Signori Senatori! Se vi è occasione nella quale io possa sperar venia dalla vostra cortesia, pigliando a parlare, io, ultimo di voi tutti, in così onorando Consesso, pare a me che sia la presente. La discussione che abbiamo intrapresa, e nella quale mi ha preceduto un così autorevole e sapiente oratore, non è, in effetto, di quelle, alle quali non si possano commettere se non coloro che, al par di lui, sono maestri in ispeciali dottrine : essa agita una materia inviscerata, per così dire, alle memorie, ai pensieri, agli affetti di ogni Italiano. In fatto d' arte in Italia, pare che anche l' ultimo del popolo, non che l'ultimo del Senato, possa dire la sua. Lasciandomi dunque andare alla tentazione, io confido che, se non potrà valermi il lungo studio, mi valga almeno il grande e sincerissimo amore. L' arte, nelle grandi Assemblee politiche, non ha di consueto molta fortuna. In mezzo all'arruffio dei materiali interessi, all'incalzare delle questioni irte di cifre, essa pare a molti una bella superfluità, una dispendiosa decorazione, un lusso, magnificamente prodigo, dell' intelligenza; credo che la paragonerebbero volentieri a una seducente Etéra, fatta per rallegrare i giorni agiati e tranquilli; ma degna appena, in tempi pieni di faccende e corti a danaro, di questa sola cortesia: incoronarla di rose, e avviarla bellamente così, come nella sua repubblica usò coi poeti Platone, fuori dell'uscio. Questo però io non temo, onorevoli Senatori, da voi. Voi custodi non solamente degl'interessi materiali di questa Italia, ma, e più ancora, del suo patrimonio morale, delle sue tradizioni, della sua coltura, della sua civiltà; voi, per lungo e assiduo esercizio del pensiero accostumati a sollevarvi in quelle sfere serene, dove le effimere cure attutiscono, e la parte più eletta di noi signoreggia la più grezza e volgare: voi non potete tener l' arte in così basso concetto; voi non potete aver fretta di disimpacciarvene, come da una questuante importuna; e meno che mai lo potete in questa Roma, nella quale, se l'arte fosse mai per restare diserta d' ogni asilo nel mondo, ancora troverebbe la sua patria e il suo trono. Non io certo, o Signori, vorrò ricordarvi vanamente quello che a me si addice di imparare da voi. Voi m'insegnate che l'arte è tutt'uno col pensiero civile, colla storia medesima delle nazioni; che ogni età vi ha specchiata e impressa la propria immagine; che oggidì non solamente l'arte, come ha fatto sempre, educa, raggentilisce e affina gli animi umani; ma che di lei si vale e a lei si appoggia la scienza per ricostruire quel passato, di cui si può dire che l'arte ci custodisca il vivente volume. Era quindi, più che un desiderio, un dovere, che il patrimonio dell' arte, massime in un paese come il nostro, erede e continuatore di tre civiltà, fosse circondato di particolarissime cure; e, non solamente all' amore degli studiosi, ma fosse raccomandato alla materna tutela della legge. E in tanta molteplicità di provvisioni legislative, che, in ciascuna parte d'Italia diverse, reggevano per lo passato questa materia, non è a dubitare che urgesse di ridurla sotto unità di sistema. Però, se dobbiamo rallegrarci che in tanta mole di cose quanta è quella che grava sul Parlamento e sul Governo, si sia trovato un po' di luogo anche all'arte; se dobbiamo rallegrarci che un disegno di legge per tutelare la conservazione dei monumenti e infrenare la esportazione degli oggetti d'arte e di antichità, meditato già da cinque anni, ci torni innanzi rimeditato da Ministri e da Commissioni, ben si può dire che sia stato adempiuto il dovere; non forse che sia altrettanto soddisfatto il desiderio. Nessun disegno di legge più diligente, più minuto, più sollecito dei particolari; tollerate tuttavia che io dubiti se possa reputarsi altrettanto efficace. Sotto ai suoi complicati meandri io vedo una serpe insidiosamente appiattata; e la serpe non è altra che quella turpe e crudele povertà, duris urgens in rebus egestas, dalla quale scaturiscono tutti i nostri malanni. Il disegno di legge è pieno di buone intenzioni; ma non vogliate, ve ne scongiuro, darmi taccia di irriverenza, se vi confesso ch' e' mi fa involontariamente sovvenire d'un certo tipo tradizionale della nostra commedia, d' uno di quei bonarii e decaduti cavalieri, che, di gran cuore e con infinita larghezza, promettono protezione a tutti; ma poi, allo stringer dei nodi, non sono guari in grado di darla a nessuno. A che, in effetto, si riduce la sostanza di questo disegno di legge? A due norme - non oserei dire a due massime nè a due principii - a due norme, che ne governano tutta quanta l'economia. La prima riguarda la conservazione dei monumenti, ed è questa: scaricarsi il più che si possa di ogni cura e di ogni spesa sulle Provincie e sui Comuni; serbata soltanto, per ragione di decoro, allo Stato una certa quale apparenza di alto dominio. La seconda riguarda l'esportazione degli oggetti d'arte e di antichità; e può formularsi a un dipresso in questi termini: richiedere dai privati e dai Corpi morali, che nulla da loro si venda senza saputa dello Stato, nulla senza che lo Stato vi abbia diritto di prelazione; bene inteso però che, non essendo lo Stato in grado di esercitare pressoché mai questo dispendioso privilegio, e' sarà nel più dei casi per contentarsi di quel po' di fumo, che il venditore, come già un tempo il vassallo in certe prestazioni feudali, avrà fatto ascendere fino alle sue nari. Il disegno ministeriale, bisogna dirlo, era sul primo punto assai sincero; confessava senza ambagi la propria impotenza. « Gli edifici sacri e profani (cosi testualmente diceva) e gli avanzi monumentali di proprietà demaniale, dai quali il Demanio non ritragga nessuna utilità per la sua amministrazione, saranno ceduti alle Provincie e ai Comuni. » Il rimedio, non c'è che dire, era eroico: « Saranno ceduti ». Ma di grazia, e il consenso di colui al quale s'ha a cedere? Un edifizio o un avanzo monumentale, dal quale il Demanio (come dice con aritmetica e imper- turbabile breviloquenza la legge) non ritragga nessuna utilità, verosimilmente neppure a una Provincia o a un Comune sarà per dare utilità nessuna. Dovrà allora la Provincia, dovrà il Comune, come il povero Duumviro del Basso Impero, accettare forzatamente l'incomportabile dono? Quest'ovvia domanda si è affacciata da sé all'Uffizio Centrale del Senato; e a cosiffatte trasmissioni esso non ha tralasciato di restituire la loro base giuridica, richiedendo il reciproco accordo. Ma e se questo accordo non ci sia ? Se la Provincia, se il Comune ricusi di sobbarcarsi, dopo tanti oneri, anche a questo? E se d'altra parte lo Stato, sapendo pur troppo quid valeant humeri, quid ferre recusent, voglia scoterselo di dosso ad ogni costo, quale destino, di grazia, sarà per incogliere al misero edifizio o al più misero avanzo monumentale ? Non diverso, io temo, da quello, che per poco non incolse al nido d'aquila del secondo Federigo, alla magnifica reliquia sveva di Castel del Monte; o a quell'altra famosa reliquia ghibellina del Castel di Sermione, maniero un tempo di Can Grande e asilo di Dante: stati a un filo amendue di diventare cave di mattoni, e salvati, se dopo molto strazio si può dir tanto, più per disperato sforzo di volontà, che per longanime provvidenza di leggi. Questi dissimulati, ma non negabili pericoli, tormentarono, si vede, anche la coscienza dei valent'uomini che hanno elaborato il presente disegno di legge. E così nell'originario schema ministeriale, come in quello della Giunta senatoria, è manifesto lo sforzi) fatto per evitarli, o almeno per persuadere a sè medesimi di averli in qualche modo evitati. Dice lo schema ministeriale, che ove il proprietario nel suo legittimo interesse domandi la remozione di un oggetto d'arte o d'antichità, ovvero lo lasci deperire, potrà il Ministero promuoverne l'acquisto, applicando le disposizioni della legge sull'espropriazione per titolo di pubblica utilità. Ed il progetto riformato dall'Ufficio Centrale, definendo in altri termini il medesimo caso, dice che potrà il Ministero provvedere, d'accordo col proprietario, ovvero valersi delle disposizioni della legge sulla espropriazione. Ma, siamo schietti. Questi potrà, sono potrà intenzionali, potrà ipotetici, di quei tanti potrà, che stanno sempre sull'avviso per camparsela, non appena tu accenni a fermarli e a farli stare a segno, appaiandoli con un bravo dovrà. La celia muore sul labbro quando si pensa che il risultato più positivo di tutto questo fare a chi tocca fra Stato, Provincia e Comune, sarà nel più dei casi uno sciupio d' inchiostri infinito, e un altrettanto infinito indugiare dei buoni, saldi, efficaci, conclusivi provvedimenti. Sagunto, mentre in Roma si deliberava, è perita; ma anche le rovine di Sagunto, se fossero in terra italiana, c'è da credere che avrebbero tutto il tempo di scomparire prima che si fosse usciti a riva dal gran discorrere che se ne farebbe, da quell'eterno palleggiarsi il debito di conservarle. Sotto a queste infelici emulazioni, non d'operosità, ma d'inerzia, non del fare, ma del pretendere che altri faccia, io so bene, e l'ho detto e lo ripeto anche qui, so che si nasconde un fatto doloroso e indipendente dal voler nostro, la nostra infelice povertà; disgrazia questa non imputabile, se si vuole, che alla stessa miracolosa rapidità del nostro risorgimento politico, al quale il risorgimento economico non ha potuto a gran pezza venire di pari. Ma la piaga non si cura col nasconderla: anzi più virile è lo scoprirla; e più dicevole sarebbe affrontare, che non dissimulare la difficoltà. Ora, se lungo tempo noi dovremo rassegnarci a dispensare lo Stato, per ragione d'impotenza economica, da talune delle più vitali sue funzioni di tutore e di educatore, apparecchiamogli almeno il modo onde assolverlo degnamente, il giorno, nel quale avrà ricuperato le normali sue forze. Né di questo lavoro di preparazione si verrà a capo, anche nell'argomento dell' arte, se non si incomincia dal mettere in sodo la misura dei bisogni, ai quali importa di provvedere. Per questo, provvidamente, io credo, imponeva l'originario schema di legge, presentato or fanno cinque anni al Senato, e per questo saviamente ripropone ora l'Ufficio Centrale, che si dia opera a compilare un completo ed esatto inventario del patrimonio artistico ed archeologico del paese. So bene che un simile ufficio fu affidato a Commissioni locali per un regio decreto, che data da circa due anni. Ma ognuno di leggieri intende come nello spinoso loro ufficio queste Commissioni non possano sentirsi sufficientemente suffragate dalla sola autorità del decreto; e come sia necessario sorreggerle, nelle non poche lotte che avranno a sostenere, colla suprema autorità della legge. Allora soltanto quando si possegga questo indispensabile substrato dell'inventario, sarà dato di classificare i monumenti secondo la reale loro importanza archeologica e artistica; di riconoscere quali tra essi abbiano veramente carattere di monumenti storici nazionali; e di definire una buona volta qual parte incomba allo Stato nel carico di conservarli. Non altrimenti ha proceduto un popolo, il quale, dopo l'italiano, possiede forse il più copioso retaggio di dovizie artistiche fra le genti latine. La Francia, alla quale si potrà forse muovere appunto di procedere più sovente per le vie dell'autorità che non per quelle della libertà, ma a cui nessuno, io credo, vorrà negar vanto di operosità e di risolutezza, la Francia non ha ancora una legge per la conservazione dei monumenti; ma ha un elenco dei monumenti storici da conservare, ed ha un fondo stanziato in bilancio per conservarli; al resto provvedono Ministri e Commissioni. Diamo dunque opera alacremente noi pure a riconoscere almeno l'entità del nostro debito verso la storia e verso l'arte, se assolverlo ancora non possiamo; e forse il giorno di soddisfarlo degnamente sarà men lontano che altri non pensi. Vi é, a dir vero, un assai scarso margine nei nostri bilanci; ma vi è fors' anco minore sicurezza di criteri rispetto a certe materie; ed io non sono alieno dal confidare che un' oculata recensione possa metterci in grado di spender meglio, anche senza spender di più. Io non voglio su questo punto incidentale eccedere i limiti che la vostra indulgenza mi lascierebbe forse varcare, ma che il tema istesso della odierna discussione ha prefissi; non voglio entrare nella delicata disamina del quanto e del come si spenda dallo Stato per l'arte; oso per altro affermare fin d'ora, che non pochi sussidi, i quali con iscarso utile si profondono in pomposo apparato di accademiche oligarchie, potrebbero con assai maggior frutto versarsi ad accrescere, o per lo meno a custodire, il patrimonio dell' arte nazionale, ed a fomentarne il vero e vivo progresso. Ma, di ciò non volendo dir oltre, io vi chieggo licenza, o Signori, di esporvi piuttosto alcune idee intorno alla seconda parte del disegno di legge, sul quale siamo chiamati a deliberare. Il titolo primo, del quale ebbi dianzi l'onore di ragionarvi, patisce, dirò così, di anemia, è vuoto di quel nutritivo sangue, che allora soltanto gli si potrà dentro trasfondere, quando tutto il corpo della nazione ne abbia nelle vene di più. Nè d'altra infermità patisce, a dir vero, anche il titolo secondo, che riguarda l' esportazione degli oggetti di antichità e d' arte; se non che di questo io mi fo a ragionarvi con un po' più di coraggio; perché il rimedio, che, rispetto al primo (lo sento e ve l'ho confessato) è di là da venire, rispetto a questo invece, non che possibile, è prossimo; e sta, sol che il vogliate, nelle vostre mani. Voi m'insegnate, o Signori, quanto misera e inetta dottrina sia quella, la quale, considerando alla pari con qualunque valore in corso e in cambio i monumenti dell'arte, reputa che, immagazzinati dove che sia e pur che sia, tornino sempre allo stesso. Egli è al contrario di per sè manifesto che un assai più copioso e più immediato beneficio può ritrarre dalla contemplazione e dallo studio dei monumenti quel popolo in mezzo al quale son sorti, al quale intellettualmente non meno che materialmente appartengono, col quale fanno, agli occhi della istoria, una cosa sola. Vedete, o Signori, le Fiandre. Come in quei palazzi di città pieni ancora delle storiche reliquie del Cinquecento, come il popolo rivive interi i giorni gloriosi della lotta e della vit- toria! Anversa, un piccolo Municipio sussidiato dal Governo di un piccolo Stato, acquista per un milione e duecento mila lire le case dei Plantin e dei Moretus, i famosi tipografi, emuli degli Elzeviri e degli Aldi (1); e là, in quel venerando edilizio, dove ogni cosa occupa ancora il posto di tre secoli addietro, dove dalle tele di Rubens e di Van-Dyk, pittori e amici di casa, vi sorridono, virili e pensose faccie, gli antenati di quella strenua e laboriosa famiglia insieme coi letteratissimi ospiti, dove il vecchio gran tavolo di quercia è ancora quello su cui Ario Montano correggeva le bozze della sua Biblia polyglotta, dove i torchi, i compositoi, i caratteri sono quei medesimi che hanno servito a Giusto Lipsio; ivi il popolo impara a leggere sullo stemma gloriosamente borghese di quei suoi gagliardi progenitori una impresa, che non per nulla dice: labore et constantia. Quei cimeli, che sparsi in tutti i musei d'Europa non sarebbero più se non dotte o artistiche curiosità, ivi sono efficacissimi strumenti di educazione civile. Ma si può aggiungere di più: istessa universale coltura dell'uman genere, l'istessa suprema e univoca magistratura dell' umano pensiero, ottiene dallo studio dei monumenti un frutto incomparabilmente più succoso e

(1) STADT ANTWERPEN, GEMEENTERAAD. Verslag der Commissién van schoone Kunsten en van Financién, 1875. migliore, allorchè li viene considerando colà dove li ha piantati la storia, e dove, si può dire, vivono ancora, che non quando li sterpa dalle radici, e, quasi corpo morto, se li viene permutando di mano in mano e di paese in paese. Domandatene, o Signori, a tutti gli artisti, a tutti gli eruditi del mondo; meglio che in qualsiasi biblioteca e in qualsiasi museo, gli è a Pompei o qui al Palatino ch' essi sorprendono, belli e parlanti, i segreti della vita antica. Ma che dico, domandatene? Molti di voi, signori Senatori, percorreste larga parte d'Europa. Se alcuno è di voi che non abbia sentito una fitta al cuore vedendo quelle mirabili e divine metope del Partenone dai soli dell'Attica trascinate a disfarsi in mezzo alle nebbie britanne; se alcuno è, il quale davanti ai marmi di Egina non abbia in cuor suo giudicato rigida e morta anche la regale ospitalità monacense, e non abbia evocata col desiderio a consolare quei poveri naufraghi dell'arte la splendida visione del tempio natio, quegli dica che io esagero o invento. E notate. Cito esempi di monumenti tolti ad una terra, della quale era lecito dubitare se, manomessa, conculcata, divisa, potesse degnamente conservarli ed efficacemente difenderli. Che pensare poi di un paese, il quale, miracolosamente riunito, riplasmato, risorto, i monumenti suoi si lasciasse con più miracolosa accidia e con incredibile vituperio involare? A questo punto forse qualcuno, sorridendo della mia ingenua e troppo infiammata parola, potrebbe, chi sa ? ammonirmi di non mi commettere a così fatti sgomenti, e amorevolmente segnarmi a dito, nel titolo secondo della legge, tutto quel meditato e laborioso viluppo di articoli, che, quasi rete alzata a rompere gli audaci voli, appunto intende a impedire lo sperpero dei tesori natii. Se non che, una ammonizione di questa sorta io me la potrei aspettare dovunque altrove, non me l'aspetto certamente, o Signori, in quest'aula solenne, dove la vostra sapienza è di lunga mano esercitata a discernere, anche dentro a' più densi volumi, quello che è apparato e forma, da quello che è sostanza ed efficacia vera di provvedimenti legislativi. E in verità, chi per poco analizzi l'originario tenore del titolo secondo,quale ci venne dal disegno ministeriale, tostamente riconosce che il risultato finale da aspettarsene non tanto sarebbe una valida tutela dell'arte avìta e della storia patria, quanto un materiale guadagno pel Fisco. Chiunque voglia esportare oggetti di antichità, ovvero opere d'arte di autori non viventi - dice il disegno ministeriale, di cui vi riassumo il costrutto - dovrà chiederne - licenza. Ove il Ministero giudichi trattarsi di oggetti d'alta importanza storica o artistica, potrà, piuttosto che lasciarli esportare, avocarne a sè l'acquisto esercitando il diritto di prelazione; ove reputi invece trattarsi di oggetti di secondaria importanza, concederà senz'altro licenza di esportazione, verso il pagamento di una tassa equivalente ad un quarto del valore dichiarato. Ma ognuno di leggieri può intendere se nelle condizioni presenti delle nostre finanze sia da fare assegnamento sull'esercizio del diritto di prelazione. Resterà dunque sola, nel più dei casi, l'applicazione della tassa; e il Fisco, noverando il denaro, si consolerà per noi della gloria venduta. Sentì, a dir vero, il nostro Ufficio Centrale tutta la radicale inefficacia del sistema della prelazione; e saviamente vi surrogò il sistema del divieto assoluto rispetto a quelle opere d'alta importanza artistica o storica, che appartengano a Corpi morali. Se non che, dopo essersi messo animosamente per la retta via, si venne poi peritando di percorrerla sino in fondo tutta; piegò il capo davanti al Dio Termine della privata proprietà, e per rispetto alle opere da privati possedute calò a contentarsi di quella lustra della prelazione, che aveva, rispetto alle altre, riprovata e respinta. Or, con tutta la reverenza che io professo agli illustri Colleghi dell' Ufficio Centrale, io stento a capire come non temessero, con questa attenuazione conceduta ai privati, di ridurre a nulla anche il beneficio sperabile da quel loro primo giustissimo e salutare rigore verso i Corpi morali. E, valga il vero, nella tentazione del vendere non tanto facilmente incorrono questi, quanto quelli; trattenuti questi, dico i Corpi morali, dalla vigilanza e dalle censure della opinione pubblica, se già nol siano da quei rispetti che passano in tradizione insieme con le cose; sospinti invece bene spesso gli altri, dico i privati proprietari, o da povertà o da cupidigia, a far cosa, che alla perfine a loro non sembra eccedere i confini del privato diritto. E vi ha di più. Se ai privati concedasi quella facoltà di esportazione che a'Corpi morali si nega, il divieto non tarderà a diventare, anche rispetto ai Corpi morali, illusorio; nulla essendo per questi più agevole del trasferire in prima entro i confini dello Stato a conniventi fiduciari quegli oggetti, che direttamente non potrebbero mandare fuor dai confini. Che poi la proprietà privata meriti ogni rispetto fino a che non si trovi in diametrale opposizione, come testé vi diceva l'onorevole Senatore Di Giovanni, colla ragione suprema dell'utile pubblico, non io certo vorrò rivocarlo in dubbio. Ma forse che dinanzi a questa suprema ragione non deve la proprietà privata anch' essa inchinarsi? Forse che non s'è fatta dalla legge in più d'un caso inchinare? Che altro è la storia del progresso giuridico, se non quella di un perpetuo compromesso fra l'antica e sconfinata ragione eroica del possessore e la nuova ragion civile del legislatore e del giudice? Che altro il lento ma continuo trasformarsi del giure, dal jus vitae et necis sul figlio, sullo schiavo, sul debitore, dalla aeterna auctoritas e dal ferreo si plus minusve secantur delle XII TAVOLE, fino alla squisita equità del Diritto pretorio e dell'Editto perpetuo? Ogni giorno noi rechiamo più avanti questa ingerenza della legge, depositaria e mandataria del pubblico bene, nelle ragioni del privato cittadino. Al privato cittadino manomettiamo, coll'acquedotto coattivo, i suoi campi; spiantiamo i suoi vigneti ed abbattiamo le sue case davanti al corso irruente ed irresistibile della vaporiera; se le pendici de'suoi monti sono vestite del sacro verde delle selve, gli imponiamo che non ne le spogli; se erige una abitazione od un opificio, diamo norme inviolabili alle dimensioni, ai materiali, perfino ai metodi di costruzione, e alla facoltà di abitare entro le sue proprie pareti domestiche. O perchè non potremmo per un'alta ragione di decoro, di coltura, di civiltà, quello che per ragioni d'ordine, di igiene e di sicurezza possiamo? Io comprendo le esitazioni dell'Ufficio Centrale e vorrei assolverle anche, se il divieto dell'esportazione applicato ai capi d'arte e d'antichità - e, si badi bene, non ai volgari, nè a quelli di secondaria importanza, anzi a' più cospicui soltanto e preziosi, che supremamente rilevino per l'istoria patria e per la patria coltura - se, dico, questo divieto venisse di botto ad aggiungere restrizioni nuove, e rese dalla stessa loro novità incomportabili, agli oneri già troppo molteplici, e gravi, di cui abbiamo carche al cittadino le spalle. Una patria grande e libera, dicono, non dovrebbe annunziarsi che con l'amore. Perchè darle sempre un littore a lato, e a simbolo il fascio, e a linguaggio il comando? Ma, o io vo grandemente errato, e leggo male ciò che trovo scritto da dottissimi uomini di due Giunte senatorie, ovvero sta, come dianzi anche l'autorevolissimo Senatore Di Giovanni veniva affermandovi, che nella maggior parte delle regioni italiane , e in quelle massimamente che più sono ricche di artistiche dovizie, la legislazione vigente fin qui, lunge che fosse punto più blanda, anzi era più rigida di quella che oggi con noi i più rigidi domanderebbero. Lascio stare i ferrei Senatusconsulti romani, e l'Editto di Vespasiano, e le multe e le confische di Pio II, di Sisto IV, di Paolo III, Pontefici, e giù scendendo fino a Benedetto XIV ed a Pio VII. Ma più miti non erano neppure gli ultimi bandi in questo Stato che fu della Chiesa; non le leggi lorenesi in Toscana, non nel Reame di Napoli ed in Sicilia gli editti sovrani. Che anzi, a non parlare della autorità fuor di confronto più legittima, da cui la legge nuova emanerebbe, fra quelle vecchie ordinanze e una legge propriamente nazionale e patria correrebbe, notate, questo divario: che dove le vecchie ordinanze interdicevano la esportazione di capi d'arte e d'antichità fuori dal breve àmbito di Stati non molto più vasti di talune odierne provincie ; la legge nuova invece, anche per i capi più cospicui e più rari, estenderebbe la libera permutabilità a tutta Italia, che è dire a un mercato di 330 mila chilometri quadrati e di 27 milioni di abitatori. Fu già strenuamente combattuta dall'onorevole Senatore Di Giovanni un' ultima obbiezione. Si è detto che a paese libero non possono convenire i portamenti di Governi assoluti. Ma forse che in tutte le legislazioni, da qualunque potere emanino, non vi hanno principi costanti, inconcussi, che a tutte s'accomunano, che penetrano in tutte egualmente? La differenza vera e propria cade sul modo dell'applicazione. E però, dove nei vecchi Stati il beneplacito e l' arbitrio entravano, anche rispetto al divieto di esportare opere d'arte, in luogo di ragione e di legge, giova sperare che nello Stato nuovo, in una Italia redenta, la legge e la ragione sole sottentrerebbero, anche in questa materia dell' arte, all' arbitrio ed al beneplacito. E la cerna delle opere d'arte, per la rarità loro e per il loro pregio non esportabili, essendo commessa a Giunte cittadine, costituite in buona parte per via di elezione, anche in questa materia dell'arte il paese solo, come è desiderabile sempre, reggerebbe sè stesso. Ancora una considerazione, Signori, ed ho finito. Badiamo che nelle vecchie società molti impulsi, molti elementi, molti instituti concorrevano a preservare, insieme con tutte le altre tradizioni, anche quella dell'arte; impulsi, elementi, instituti, che nelle società nuove vanno al tutto dispersi, o cadono vuoti di effetto. Non parlo della domestica e pubblica religione delle memorie, assai più intensa un tempo che oggi non sia; non degli ostacoli materiali e legali che si frapponevano tra paese e paese, tra ceto e ceto, tra acquisitore e venditore. Voglio ricordare soltanto, perchè propriamente alle collezioni d'arte e di antichità si applicavano, i vincoli di fedecommesso e di maggiorasco. Lungi da me fin 1' idea di rimpiangerli , se anche, in mezzo a molti mali, di qualche bene abbiano pure potuto esser fonte; ma non credo io già che, per averli condannati a ragione, avremmo ragione poi di obbliare quest' ovvia sentenza : che, tolto via un riparo fracido, se ne deve, quando occorra, sostituire uno sano. Scompariscano dunque, e sta bene, con tutto il restante corredo del medio evo, fedecommessi e maggioraschi patrizii; ma conserviamo, o Signori, all'Italia il sacro suo fedecommesso dell'arte, conserviamole il civilissimo suo maggiorasco fra tutte le genti. E se le mie parole vi paressero impresse di uno zelo esagerato, ed inspirate da quella che il nostro Vico ha chiamata la boria delle nazioni, tollerate che per ultime io vi ripeta queste di un pensatore straniero: Chaque pays puise à pareille source - parla delle tradizioni e dei monumenti dell' arte - le sentiment de la nationalité, de l'attachement à la patrie. Ce qui caractèrise l'Italie, ce n'est pas seulement le climat ou la langue, c'est aussi, c'est surtout l'art. qui a imprimé un cachet particulier sur les innombrables monuments répandus dans cette heureuse contrée. Supposez la destruction de ces monuments, l'Italie ne sera plus elle méme; elle aura perdu les principaux traits de sa physionomie. Les Italiens ne se sentiront plus un peuple à part; ils n'auront plus l'orgueil du passé et l'ambition de l'avenir, ces deux sentiments qui font faire de si grandes choses (1). E a quest'oratore voi non imputerete certo di essere posseduto da spiriti di patria eccessivi. Ma se le cose troppo poveramente dette da me non possono avere sull'animo vostro, o Signori, autorità alcuna, ne abbia, ve ne scongiuro, il voto dell' onorando Senatore Di Giovanni, il quale, appartenendo già alla prima Giunta senatoria che cinque anni or sono ebbe ad esaminare questo disegno di legge, non esitò a pronunziare separatamente la sua sentenza con

(1) Fétiss. L'art dans la société et dans l'État. Mémoire présenté à l'Académie royale de Belgique (1870). un'energia ed una saldezza, degne di un alto convincimento; quella sentenza medesima, che egli, con sì vigorosa e sapiente parola, oggi è venuto svolgendo. Io spero che nel seguito di questa discussione egli sia per presentarvi pochi e brevi emendamenti, i quali, senza scomporre l'economia generale del disegno di legge, possano, come ne ho fede, migliorarlo e accrescerne l'efficacia di molto. Sarò lieto, quanto a me, di venire sulle orme di così strenuo antesignano, e di consociarmi, reverente, con lui. E nel rendervi grazie, o Signori, della indulgenza di cui vi piacque essermi cortesi, io non saprei meglio mostrarmene penetrato , se non che promettendovi che nel seguito farò di restringere le mie troppo recise forse, e certo troppo grezze parole, entro a rigorosi limiti di brevità e discrezione (Bene, Bravo). Tornata del 24 novembre 1877. Seguito della discussione generale. Dopo ch'ebbero parlato i Senatori CARACCIOLO DI BELLA, AMARI, TORELLI, e il signor MINISTRO DELLA ISTRUZIONE PUBBLICA, il Senatore MASSARANI, replicando al discorso del signor MINISTRO ed a quello che sul fine della precedente tornata aveva pronunziato il Senatore PEPOLI, COSÌ si espresse: (Dal resoconto ufficiale.) Fedele alla promessa che ho fatta ieri al Senato, io non usurperò del prezioso suo tempo se non i brevi istanti, strettamente bastevoli a scagionarmi almeno degli appunti più gravi, che nella seduta di ieri l' onorevole Pepoli, e nell'odierna l'onor. signor Ministro dell'Istruzione Pubblica, pur circondando la loro eloquente parola di tutti gli avvedimenti della più squisita cortesia, mi hanno fatto l'onore di rivolgermi. E veramente l'onor. Pepoli non ha detto cosa che contraddicesse ai miei convincimenti, nè alle idee che avevo avuto l'onore di svolgere avanti al Senato, quando ha affermato che l'arte non è l'unico fattore della civiltà. Chi mai sarebbe così sconsigliato da sostenere una siffatta dottrina? Io dissi essere l' arte un elemento, un segno, un simbolo, un prodotto e uno strumento insieme efficacissimo di civiltà, non sostenni mai che fosse l'unico suo fattore, e neppure il massimo di tutti. Epperò parmi che torni vano il contrapporre, secondo l'onor. Pepoli si piacque di fare, allo splendore delle arti in certi periodi la decadenza spaventosa dell'agricoltura. Egli ci dipingeva le terre che circondano questa eterna città invase dallo squallore del deserto, mentre nelle sale patrizie si accumulavano le più suntuose ricchezze dell' arte. Ma, Signori, senza risalire alle cause remote per le quali gran parte delle ubertose nostre campagne caddero nell' abbandono , e che possono compendiarsi nelle fazioni civili e chiesastiche che desolarono il nostro paese, senza, dico, risalire sì lunge, è sufficiente notare che il periodo del maggior fasto patrizio non fu, neppure nell'arte, il periodo della maggiore e più produttiva operosità. Quel periodo, come con isplendida parola testè vi diceva l' onor. signor Ministro della Pubblica Istruzione, quel periodo sfruttò piuttosto la vigoria delle età precedute; onde la pomposa coltura che venne in tempi corrottissimi a spirare l' ultimo fiato a piè del trono di Leone X, era più veramente il portato di quelle generazioni, che erano state educate a virili intendimenti e a forti opere in seno ai liberi Comuni. E quelle generazioni, né certo l' onor. Pepoli, dottissimo di cose storiche, può averlo obbliato, quelle generazioni non isperperarono già il retaggio dei patrii cimeli, il quale, durando perenne in mezzo a loro, valse a suscitare il loro genio; nè fu già col fare mercato di quei sacri avanzi che esse ottennero fama nel mondo; sibbene vi diffusero il proprio nome e la propria gloria la mercè di quelle opere, che esse medesime seppero, ispirandosi agli avanzi greco-romani, con fecondità meravigliosa creare. Togliete a Nicola Pisano i sarcofagi greci, che lo accesero di magnanima emulazione; e chi può dire che egli sarebbe riuscito a far balzare nuovamente, sotto il suo rozzo mazzuolo di tagliapietre, la scintilla del bello? Che poi lo sperpero dei vecchi nostri tesori artistici, disseminati la mercè della conquista e dell' oro straniero in tutti i musei dell'Europa, abbia di molto contribuito a rialzare la nostra reputazione di popolo italiano, mi conceda l'onorevole Pepoli di dubitarne. Questo sperpero, o Signori, ha dato piuttosto ansa agli ipocriti rimpianti, che mentre celebravano le nostre glorie passate, ci respingevano intanto nell' ombra e quasi sotterra, come un popolo di morti. Ciò che veramente può rialzare la nostra fama si è la produzione contemporanea, sono le opere dei vivi; e, la dio mercé, ingegni e volontà da tanto, ancora non mancano. Sì, noi possiamo qualche volta esultare, come nel suo patriotismo ha esultato l'onorevole Pepoli, imbattendoci all'estero nei capolavori dell'ingegno italiano. Sì, noi possiamo, con l'onorevole signor Ministro e con ogni patriota, esultare imbattendoci in quei capolavori; ma gli é quando essi non sono trofeo di guerra o di postumo mercato, sibbene testimonianza dell'omaggio spontaneamente reso ai massimi ingegni nostri d'ogni epoca dai loro contemporanei d'ogni paese. Ne piace vedere il ritratto di Carlo V imperatore, e quello di Francesco I di Francia, dipinti per loro dal massimo Tiziano ma io credo che non ci rallegreremmo incontrando sparpigliati qua e là per il mondo gli undici volumi dei disegni di Leonardo, che non siamo ancora riusciti a farci restituire. Si chiuda una buona volta l' esodo infelice dei nostri antichi tesori, e la curiosità e l'oro degli stranieri si verseranno laddove possono essere davvero accettevoli e benefici, a fecondare, a prosperare l'arte vivente. Voglia crederlo l'onorevole Pepoli, il quale a buon diritto si mostrava ieri così sollecito della produzione nazionale; voglia crederlo l'onorevole signor Ministro, il quale dianzi a buon diritto domandava che si accomunassero al mondo civile i frutti dell'ingegno italiano ; gli é appunto infrenando l'esodo dei cimelii antichi, che noi apriremo lo sbocco, che noi fomenteremo l'uscita, della vera e viva produzione contemporanea; la sola che sia bello augurare largamente diffusa nel mondo. Non pare a me che il retaggio dei padri debba confondersi col lavoro delle generazioni che loro succedono. A ciascuna il proprio cómpito; producano anche i moderni adunque, non vivano sfruttando il patrimonio e le glorie delle andate età. E qui tolleri l'onorevole signor Ministro ch'io mi scagioni di un altro appunto, che, in forma sempre squisitamente cortese, egli dianzi mi rivolgeva. Codesto, egli diceva, di cui vi preoccupate con uno zelo forse eccessivo, codesto non è e non può dirsi patrimonio artistico italiano; è veramente patrimonio della civiltà, del genio, della coltura universale. Perchè contendere altrui ciò che il nostro suolo, sia pure in altri tempi, ha prodotto? Io non so se la parola abbia tradito il mio pensiero; tuttavia credo di aver detto in modo abbastanza esplicito ieri, che non per eccesso di patriottico zelo, non punto per quella che il Vico ha chiamata la boria delle nazioni, io dimandava provvisioni vigorose, le quali valessero a custodire il patrimonio dell'arte. Non solo, io diceva, il popolo in mezzo al quale i monumenti dell'arte son sorti, ne cava un beneficio incomparabilmente maggiore, quando gli ha sotto gli occhi, che non quando delle cose sue proprie deve attendere che gli giunga di lontano la fama; ma aggiungevo che la scienza medesima, la stessa universale coltura dell'uman genere, fuor di confronto più si giova dei monumenti e dei cimelii tutti dell'arte, quando può consultarli colà dove li ha collocati l'istoria, e dove si connettono ai luoghi, alle tradizioni, al pensiero ancora vivente, che non quando è costretta a racimolare morte testimonianze in tutti i musei del mondo civile. Vede dunque l'onorevole signor Ministro che io non mi scostava punto dalla sua savia sentenza, doversi cioè non solamente badare al beneficio del proprio paese, sibbene tener conto di quello dell' intero civile consorzio. Scendendo a ribattere alcuni appunti minori, ma non tuttavia trascurabili, mi permetta l'onorevole signor Ministro che io ricordi come, allorchè accennai a certe onerose cessioni che lo Stato intenderebbe di fare alle Provincie ed ai Comuni, e lamentai l'andazzo dello scaricare gli oneri propri sopra le spalle altrui, non parlai già del disegno di legge quale risulta dalle modificazioni che l'Ufficio Centrale opportunamente v' introdusse; anzi citai testualmente un articolo del primitivo schema ministeriale, da cui quelle incondizionate ed unilaterali cessioni risultavano; e mi affrettai ad aggiungere che l'Ufficio Centrale del Senato aveva a cosiffatte trasmissioni restituito la loro base giuridica, ri- chiedendo il reciproco accordo. Se non chernon potei a meno di considerare altresì l'ipotesi che questo accordo non intervenisse; e notai come le cose resterebbero allora, se non in balia del caso, certamente commesse a indefiniti indugi. I quali indugi vorrà poi l'onorevole signor Ministro permettermi di lamentare, non certo come imputabili a negligenza volontaria di pubblici uffiziali, e meno che mai a difetto di zelo in lui, che con insigne intelletto ed animo egregio sopraveglia questa parte della cosa pubblica; sibbene come conseguenza inevitabile di un sistema, il quale, complicando il congegno delle forze, moltiplica necessariamente gli attriti. Né io credo essere stato men che nel vero asserendo che le legislazioni vigenti per lo addietro nei piccoli Stati d'Italia imponevano alla libertà, anche in questa materia dell'arte, vincoli più stretti per avventura di quelli, che oggi l'onorevole Senatore Di Giovanni ed io con lui dimanderemmo. V'è nella storia di quelle legislazioni una lunga sequela di sanzioni penali, e ne ho citato per brevità alcune soltanto, delle quali é naturale che in Istati retti a governo assoluto si potesse invocare e si invocasse a talento la efficacia giuridica, ancora che risalissero a tempi assai remoti. E per non parlare che di questa Roma, chi non sa che vi erano tuttavia considerati come fonti vive del diritto anche gli editti e i pre- cetti e i responsi più antichi del giure romano? Non è dunque a meravigliare che si potesse, avocando l'Editto di Vespasiano e l'autorità di Ulpiano e gli stessi romani Senatusconsulti, non che le Ordinanze e i Bandi di tutti i Pontefici, interdire l' esportazione degli oggetti d' arte e d'antichità sotto sanzioni impresse d' estremo rigore. In Toscana poi, lo stesso onorevole signor Ministro ne ha convenuto, esisteva, e si può dire che esista ancora, il divieto assoluto della esportazione, non dallo Stato soltanto, ma dall'istessa città di Firenze; e non solo rispetto ai capi d'arte più cospicui, ma rispetto a qualunque opera che sia uscita dai pennelli di ben diciannove celebrati pittori. Ora io non dubito di asserire, che, reclamando il divieto unicamente rispetto alle opere più cospicue, non si chiede d'infliggere alla proprietà se non un vincolo assai meno rigoroso di quello che vigeva negli antichi Stati della Chiesa, e di quell'altro, che, per testimonianza dello stesso onor. signor Ministro, tuttavia sussiste in Toscana. Aggiungasi poi che il mercato libero si allargherebbe di molto, estendendolo a tutta la penisola, ed alle isole italiane. Aggiungasi altresì che, sotto i governi preceduti alla instaurazione del Regno italico, era naturale che l'arbitrio prendesse il posto delle precise disposizioni legislative. Può essere che n qualche regione d'Italia non si trovi tassa- tivamente indicata piuttosto una misura coercitiva che un'altra, nelle ordinanze che concernono questa materia dell'arte. Non resta men vero però, che, abbandonata come anche questa materia era assolutamente all'arbitrio, potesse ciascun Governo vietare senza restrizione, senza limite alcuno, la esportazione degli oggetti d'arte e d'antichità fuor dal breve circuito del proprio Stato. Con che parmi sia sufficientemente dimostrato non esservi eccesso nel domandare che si stabilisca dalla nazione un regime, il quale, non alterando in peggio ma in meglio quello da prima vigente, tenda tuttavia, in forma molto più degna di liberi uomini, ad assicurarle gli istrumenti della sua civiltà. Io non voglio abusare della pazienza del Senato; e però mi consolo pensando che l'onorevole signor Ministro, il quale è certamente tenero quanto altri mai delle discipline del bello e del vero, se a buon diritto è predominato dalla considerazione delle pratiche difficoltà, non deve in cuor suo gran fatto dolersi che altri, il quale non potrebbe di certo sobbarcarsi a così grave peso, tenga invece rivolti gli occhi all' ideale supremo; a quell' ideale, che non è disdicevole sia qualche volta ricordato anche nelle aule solenni, dove si agitano i destini della nazione. (Bene) Tornata del 28 novembre 1877. Discussione degli articoli. Imprendendosi a ora molto inoltrata la discussione del titolo II della legge, il Senatore MASSARANI presentò, anche in nome del Senatore Di GIOVANNI, una serie di emendamenti al detto titolo, in conformità alle idee da amendue svolte nella discussione generale; e così prese a dire: (Dal resoconto ufficiale.) Di conformità alle idee che furono svolte nella discussione generale dall' onorevole Senatore Di Giovanni e da me, ho l'onore di rassegnare al Senato, anche a nome del prelodato Senatore, una proposta di emenda al titolo II, la quale , senza troppo alterare la economia generale della legge, pare a noi che varrebbe a meglio conciliare i diritti della privata proprietà con la tutela efficace del decoro e della coltura nazionale. La proposta è semplice; essa si riduce a i-i stabilire per questo Titolo il testo dello schema ministeriale, con alcune varianti. E benchè l' ora tarda mi sospinga, io vorrei dimandare alla indulgenza del Senato che mi concedesse di esporre, avanti tutto, in che cosa queste varianti consistano; poi, di mostrare brevemente com' esse non si possano punto dire informate a quegli spiriti draconiani, che gli strenui propugnatori del diritto di proprietà, e primo fra questi l' onorevole Pepoli, ci son venuti apponendo. Ho detto che proponiamo di ristabilire il testo dello schema ministeriale ; se non che pare a noi consigliato dall'ordine logico lo enunziare, prima delle eccezioni, il principio generale, che regge tutta quanta la materia ; e però il proclamare la libera permutabilità degli oggetti d'antichità e d'arte nell'interno del Regno, prima di scendere a determinare le cautele da cui cosiffatte permutazioni devono essere accompagnate all'interno, e le limitazioni a cui devono soggiacere quando si tratti di varcare i confini dello Stato. Quindi è che in testa al titolo II dovrebbe, a nostro avviso, collocarsi l'articolo che secondo la numerazione dello schema ministeriale è l'undecimo; e che diverrebbe decimo, secondo la nostra proposta. E vorremmo altresì che più intera ed. esplicita fosse la dichiarazione di libertà con cui questo articolo principia; onde, laddove è detto che « nell' interno del Regno è libero il tra- sferimento degli oggetti mobili di arte e di antichità da un luogo ad un altro, » vorremmo si dicesse che libero é di cotesti oggetti « il trasferimento e il commercio. » Seguirebbe poi il precetto di tutte le opportune cautele, che lo schema ministeriale già nel medesimo articolo impone, affinché il tramutamento da un luogo all' altro avvenga senza guasto, alterazione od altro detrimento qualsiasi degli oggetti medesimi. Sicché 1' intero articolo rimanendo inalterato, salva l'aggiunta delle parole « e il commercio, » esso suonerebbe nel seguente tenore: « Art. 10. Nell'interno del Regno é libero il trasferimento e il commercio degli oggetti mobili d'arte e di antichità da un luogo in un altro. Sarà bensì necessario il permesso dei Prefetti delle provincie, i quali, intese le rispettive Commissioni conservatrici, lo accorderanno qualora non vi sia pericolo di guasti o di alterazioni nella remozione, nel trasporto o nella ricollocazione degli oggetti medesimi, e questi non abbiano una grande importanza per determinare il carattere artistico di quella regione. In caso diverso si dovrà renderne informato il Ministro della Pubblica Istruzione, ed attendere le disposizioni del medesimo. Il Ministero sarà sempre informato di ogni trasferimento permesso ed avvenuto, come ancora della opportuna e sicura ricollocazione degli oggetti trasferiti.» Di qui naturalmente si passerebbe alle restrizioni cui il principio generale della libertà deve soggiacere rispetto alle vendite all'estero; e però qui troverebbe il suo posto l'art. 10° dello schema ministeriale, che diventerebbe 1'11°. Quest'articolo principia così : « Chiunque vorrà esportare all'estero, per via di terra o di mare, oggetti di antichità ed opere d'arte di autori non viventi, raccolte numismatiche, iscrizioni, codici, diplomi e collezioni convenienti ai Musei artistici ed archeologici, ne dovrà ottenere licenza dal Ministero della Pubblica Istruzione. « Il Ministero, per mezzo de' suoi delegati, giudicherà se alcun rispetto d' importanza storica locale o il valore artistico o storico del monumento consiglino di non permetterne la esportazione. » E fin qui corriamo d' accordo. La disparità incomincia di qui innanzi: « In questo caso (continua lo schema ministeriale) è riservato al Governo il diritto: di acquisto. » Noi proponiamo che invece si dica: «In questo caso la licenza di esportazione sarà negata. » E valga il vero, pare a noi, secondo abbiamo procurato di dimostrare ampiamente nella discussione generale, pare a noi che, non potendosi fare assegnamento sopra un efficace esercizio del diritto di prelazione parte dello Stato, il quale nel più dei casi sarebbe impotente a ridurlo in atto per la deficienza di mezzi, economici, altro non resti, una volta ammesso che un oggetto d' antichità o d'arte altamente rilevi al decoro e alla coltura nazionale, se non assicurarne la immanenza in paese. In altri termini, quando sia giudicato che « l'importanza storica locale o il valore artistico o storico del monumento consiglino - come dice lo schema ministeriale - di non permetterne la esportazione, » quale mai logica e legittima conseguenza può emanare da cosiffatto giudizio, se non questa, che la esportazione debba essere vietata ? Dirò poi tutte le attenuazioni con le quali noi reputeremmo che potesse essere mitigato l'apparente rigore di questa provvisione. Cosi adunque dovrebbe, a nostro avviso, essere concepito l'art. 11: « Chiunque vorrà esportare all'estero, per via di terra o di mare, oggetti di antichità ed opere d'arte di autori non viventi, raccolte numismatiche, iscrizioni, codici, diplomi e collezioni convenienti ai Musei artistici ed archeologici, ne dovrà ottenere licenza dal Ministero della Pubblica Istruzione. Il Ministero, per mezzo de'suoi delegati, giudicherà se alcun rispetto d'importanza storica locale o il valore artistico o storico del monumento consiglino di non permetterne la esportazione: in questo caso la licenza sarà negata. » L'art. 12 dello schema ministeriale riguarda l'esercizio del diritto di prelazione. Ora, introdotto rispetto ai capi d' arte e d' antichità più cospicui e più rilevanti per la coltura e per il decoro nazionale il principio del divieto di esportazione, poteva, rispetto agli altri, essere argomento di dubbio, se si dovesse o no mantenere il diritto di prelazione in favor dello Stato. Se non ammettete, altri potrebbe dirci, il diritto di prelazione per le cose più importanti, perché introdurlo rispetto a quelle di minor conto? Se non che, a rifletterci su un po' più maturamente, è facile intendere come possa accadere che un oggetto , pur non avendo in assoluto un' altissima importanza storica o artistica, possa tuttavia, rispetto ad un Comune o ad una Provincia, offrire una importanza locale sufficiente , da rendere desiderabile che non sia esportato. Per questo caso adunque non pare inopportuno che sia riservato allo Stato, anche nello interesse delle Provincie e dei Comuni, il diritto di prelazione. Ma appunto perché non si tratterebbe in questo caso di oggetti della massima importanza, pare a noi che non si dovrebbe qui entrare nel ginepraio degli apprezzamenti per via di perizia, i quali sono sempre tali da aprire l'adito a controversie assai gravi; e che sarebbe da ammettere bensì la prelazione in favor dello Stato, ma soltanto pigliando a norma il prezzo indicato da chi dimanda la licenza di esportazione. Si avrebbe così anche una sufficiente malleveria che la indicazione del prezzo non fosse per essere inferiore al vero. L'articolo 12, adunque, vorrebb' essere così formulato: « Il Ministero della Pubblica Istruzione, udite le autorità da esso delegate, concederà licenza di esportazione, quando sia riconosciuto che l'oggetto possa essere esportato senza danno della storia e del decoro nazionale, e quando lo Stato non voglia esercitare il diritto di prelazione. « Ogni domanda di esportazione sarà accompagnata dalla dichiarazione del valore dell'oggetto; e lo Stato avrà tre mesi per deliberare se acquista l'oggetto al prezzo indicato. » Qui finirebbe l'articolo; il quale, in tutto conforme al testo ministeriale, verrebbe solo ad essere alleggerito di quella parte da cui non potrebbero se non iscaturire maggiori complicazioni e difficoltà. Segue l'articolo 13, che stabilisce la tassa di esportazione. E qui appunto noi ci siamo ,dato carico di temperare quello che poteva avere di eccessivamente rigoroso la massima del divieto; avvegnachè, quasi a compensa- zione del rigore usato in quei casi, in cui, trattandosi d'oggetti d'alta importanza, il divieto d'esportazione parve a noi indispensabile, abbiamo cercato di togliere alla legge ogni carattere fiscale rispetto a tutti quegli altri casi, e sono fuor di confronto i più numerosi, in cui la esportazione, risguardando oggetti d'importanza minore, può essere concessa. Quando adunque l'esportazione sia concessa, e però sia da aversi come dimostrato che non trattasi di oggetti di cospicua importanza, pare a noi che la tassa non debba se non essere in qualche modo rimuneratrice delle spese e degli uffici, a cui deve sobbarcarsi lo Stato per i1 fatto medesimo dell'esportazione. "È stato detto da un celebre campione del libero scambio, che i dazi non eccedenti il 10 per cento sono tollerabili anche nel sistema della libertà; tuttavia, in ossequio al desiderio del mio onorando Collega, ed anche allo scopo di mostrare vie meglio ai propugnatori del diritto di proprietà come noi medesimi vogliamo tenerne grandissimo conto, io vi propongo di limitare la tassa al 5 per cento, certo che, ridotta in questi termini, essa non può incontrare difficoltà presso alcuno. L'art. 13 sarebbe pertanto così concepito: « Nel caso che sia permessa l'esportazione, gli oggetti saranno assoggettati ad una tassa corrispondente al 5 per cento del loro valore dichiarato. » Viene per ultimo, l' art. 14, e anche questo rimarrebbe pressoché del tutto conforme allo schema ministeriale, dove si legge: « Quando gli amministratori delle chiese o di altri enti morali intendano di alienare o permutare, anche nell'interno del Regno, i loro oggetti d'arte, d'antichità o di storia, dovranno renderne consapevole il Ministero della Pubblica Istruzione. » Solamente, a maggiore cautela, vorremmo aggiunte in fine le parole: e ottenerne licenza. Tale è il tenore delle modificazioni che noi proponiamo. Ora, se me lo consente il Senato, io vorrei brevemente giustificare questo sistema, il quale, come ho avuto l' onore di dire, intende a conciliare gli interessi supremi dello Stato e della patria coltura, col rispetto dovuto alla privata proprietà. Lo stesso onorevole signor Ministro della Pubblica Istruzione, rispondendo all'onorevole Senatore Di Giovanni, non ha potuto revocare in dubbio che inespugnabile fosse, a fil di logica, la serrata e veramente romagnosiana argomentazione del valoroso oratore. Non v'ha diritto, anch'egli si sentiva trascinato ad ammetterlo, contro il diritto; non è possibile mantenere in un rigoroso parallelismo il diritto dello Stato e quello della privata proprietà ; forza è che uno dei due ceda ; e se allo Stato importa che sia guarentita la immanenza dei monumenti, e se il danno della perdita, avvenga esso per distruzione o per esportazione, è il medesimo, innegabile è nello Stato, ed uguale è in amendue i casi, il diritto d' impedire cotesto danno. Se non che poi all'onorevole signor Ministro pareva che, non potendosi nelle cose umane applicare il rigore assoluto dei principi, e dovendosi tener conto delle contingenze, convenisse anche in questa materia conformarsi alle consuetudini invalse ; secondo le quali, a suo credere, ogniqualvolta alla proprietà privata viene irrogato alcun danno e inflitto per ragione di utilità pubblica alcun detrimento, suolsi costantemente ad essa concedere una indennità; o, per usare le sue parole, ogniqualvolta la società civile crede necessario d'invadere la proprietà altrui, non lo fa che in una forma sola: il riscatto. Badiamo. La indennità, il correspettivo, il riscatto, in parecchi casi, gli è il vero, si applicano; ma non in tutti : anzi il novero dei casi nei quali nessun riscatto, nessun correspettivo, nessuna indennità si concede alla proprietà manomessa, non sarebbe minore, chi volesse tutto esaurirlo, di quelli nei quali trovano luogo siffatti compensi. Già il Senatore Di Giovanni citava parecchi esempi di sagrifizi imposti alla proprietà senza retribuzione. Le servitù prediali per ragioni militari, quelle che gravano sui littorani per rispetto alla na- vigazione fluviale, quell'altra che riguardano la conservazione delle strade, le restrizioni edilizie per titolo non pur di sicurezza e d'igiene, ma di ornato e di decoro, sono del numero. E gravissimi fra tutti, ancora che non siano altrimenti da lamentare, sono i vincoli forestali, i quali inceppano la libera coltivazione di tanta parte della superficie del Regno. Quest'Aula risuona ancora del vivace dibattito, che intorno a siffatta materia fra Voi lungamente, onorevoli Senatori, e dottamente si venne agitando; e che appunto si chiuse con questa deliberazione, che il vincolo forestale non tragga seco indennità veruna, ogniqualvolta la immanenza dei boschi sia per ragioni telluriche o meteorologiche richiesta dal pubblico bene. L'unico caso addotto dal Senatore Pepoli non è la regola in questa materia, anzi è l'eccezione; perché l' indennità si ammise soltanto rispetto al vincolo forestale imposto per ragioni igieniche, molto dubitandosi se queste ragioni igieniche possano aversi per comprovate, davanti alla scienza; e ancora l' indennità per siffatto titolo neppure generalmente si concedette, ma tassativamente per quei luoghi soltanto, dove già era in vigore. Anche qui dunque si può dire che l'eccezione conferma la regola; e sta che i vincoli forestali generalmente sono imposti alla proprietà privata, senza compensazione nè riscatto veruno. Che più? Quando i beni affetti da vincolo fedecommessario si sono prosciolti in beneficio degli attuali possessori e dei primi chiamati, non si mandarono forse deluse le legittime aspettative di tutte le venture generazioni, alle quali questi beni dovevano per volontà dei fondatori immancabilmente devolversi? E forse che per cotesto inevitabile sagrificio di talune private ragioni si deve minor lode al legislatore, il quale ha reso permutabile tanta ricchezza, e suscitato tanto stimolo di produttività in pro del civile consorzio ? Un'altra sorta di proprietà tollerate che io vi ricordi, la quale continuamente, e per fatto delle nostre leggi, non che assoggettata a detrimento gravissimo, è, si può dire, colpita di rapida e precoce morte, a fine di accomunarne all'universale gl'inestimabili benefici. E voglio ricordare questa di preferenza, perché offre una analogia grande coll'obbietto di cui ci occupiamo. Quale proprietà più sacra di quella delle opere dell'ingegno, la quale si può dire che formi quasi tutt' uno colle facoltà intellettive dell'uomo? Eppure, dopo ottant'anni questa proprietà si estingue nella famiglia dell' autore. I nipoti, se non i figliuoli, del pensatore, del poeta, dell'uomo illustre che ha consumato la vita al foco del proprio genio e alla cote delle proprie opere, cessano di ritrarre alcun beneficio dalle sue onorande fatiche, dal suo sacrosanto retaggio. Verso un tanto sagrifizio inflitto alla disceffdenza, alla famiglia dell'uomo di lettere o del l'artista, è egli da recare in paragone quel detrimento assai limitato che può patire il proprietario di un'opera d'arte, al quale non si contende già il godimento di quest'opera, ma si prefiniscono certi confini, entro i quali pur tuttavia può questo godimento perfettamente attuarsi? Al quale questo soltanto si dice : voi che per beneficio di fortuna siete in pari tempo proprietario in vostro pro, e quasi depositario in pro di tutti, di un capolavoro del genio umano, voi lo manterrete così che anche i vostri concittadini e la Nazione vostra profittino della potenza intellettiva che se ne irradia? Certo in questo caso, se detrimento può mai chiamarsi quel contributo che al privato è richiesto in nome del pubblico bene, il detrimento è assai tollerabile e lieve. Io non posso del resto dimenticare, o Signori, alcune savie parole che assai opportunamente pronunziava nell'attuale dibattito l'onorevole Relatore. Onori ed oneri, egli ne diceva, sono alla proprietà congiunti, e fra sè inseparabili; ed egli ottimamente diceva, avvegnachè la proprietà non sia per assoluto e per intrinseca essenza un privilegio, anzi piuttosto una funzione sociale ; e, a quel modo che essa arreca considerazione e benefici, dei quali tornerebbe troppo lunga l'enumerazione, così anche sia naturale ch'essa imponga non pochi e non lievi doveri. La proprietà, oserei dire, ha cura d'anime; essa non può rinchiudersi in sè medesima, ma deve attuare in tutto quanto è.possibile la mutualità verso i men fortunati; deve, e questo le costa un sacrifizio assai minore, far copia altrui di quel tanto di godimento, di cui può rendere partecipi gli altri senza detrimento proprio, od anche assoggettandosi ad un detrimento minore del beneficio che altrui ne risulta. Vediamo, d' altra parte, un poco, se davvero il danno che può risentire il proprietario di un capolavoro dall'esserne limitata la permutabilità all'interno mercato, sia così grave come è parso ai nostri contraddittori. Il proprietario di un insigne capolavoro d'arte, o versa in laute condizioni di censo, ovvero è caduto in basse fortune. S'egli è ricco, la legge, vietandogli di esportare il patrio capolavoro con danno del decoro e della coltura nazionale, difende in qualche modo contro la cupidigia del lucro, dalla quale uscirebbe inquinata, la sua medesima reputazione; poichè gli è evidente che il biasimo non gli sarebbe risparmiato se, guarentito contro ogni necessità, anzi ridondante di superfluo, per mera avidità di guadagno egli spogliasse sè stesso ed altrui di un bene, del quale la fortuna sua lo ha reso in pro di tutti depositario. Se invece si tratta di persona caduta in basse fortune, non è dimostrato, avanti tutto, che dalla esportazione essa sia per cavare un beneficio assai maggiore di quello, che dalla vendita sul mercato interno potrebbe ottenere. Sa, chi per poco abbia qualche esperienza di cosiffatte transazioni, che rade volte il beneficio ne profitta direttamente al venditore; che vi hanno, massime rispetto alle transazioni coll'estero , numerosi e inframmettenti intermediari, i quali, assai più con lode di accortezza che non di magnanimità, stanno sulle traccie sempre, dall'una parte, del bisogno di vendere, dall'altra della ghiottornìa di acquistare; e facendo sè negoziatori fra i due, raccolgono bene spesso per sè soli la massima parte del beneficio. Onde chi davvero scenda al midollo della cosa, non trova che in siffatto caso sia grande il profitto del venditore. Ma vi ha di più. La vendita all'estero non è il solo modo col quale anche il signore deca- duto possa cavare un qualche materiale profitto da alcun capolavoro che possegga. Può, avanti tutto, e noi lo vorremmo proclamato col primo articolo del titolo II, liberamente vendere sull'interno mercato, in tutta quanta la estensione del Regno, la cosa sua. Ora, in uno Stato vasto quanto il nostro è, in virtù di quella perpetua volubilità delle sorti umane per la quale le ricchezze nuove alle antiche succedono , avverrà assai probabilmente che nuovi ricchi possano fare quello, che non sono più in grado di fare signori venuti al meno. Vero è bene che da la gente nova e i subiti guadagni non sempre si può aspettarsi molto amore delle cose d'arte ; ma è anche vero che le leggi, se non possono supplire intieramente ai costumi, concorrono anch'esse a formarli. Ora se, togliendo via la concorrenza schiacciante di certe fortune colossali dell'estero, voi ridurrete ad un valore discreto anche i capolavori dell'arte, molto più facilmente gli amatori nazionali si sentiranno incuorati a sottentrare a quei proprietari vecchi, che non sieno più in caso di conservarli. E vi hanno poi anche le associazioni di amici dell'arte, forma nuova dei nuovi tempi, le quali, quando non bastino le forze individuali, possono efficacemente sottentrare agli acquisitori privati. All'infuori poi anche dalla vendita, vi hanno altri spedienti, mediante i quali da' capolavori dell'arte si può cavare un qualche beneficio materiale in pro di chi li possiede. Non abbiamo che a volgere gli occhi alle straniere contrade per andarne convinti. Vi hanno le private e nomadi esposizioni a pagamento, le quali, in paesi ove pure non è antichissimo il culto per le discipline del bello, fruttano utili considerevoli; e, mentre arrecano un vantaggio materiale non trascurabile all'espositore, arrecano in pari tempo un benefizio morale grandissimo all'universale, diffondendo tra il popolo l'amore e il gusto delle cose belle. Vi ha dunque una serie dispedienti che agevolano ai proprietari il modo di cavare benefizi materiali dai capolavori che posseggono , senza sottrarli al patrimonio della coltura nazionale. Nè infine, allorquando incalzi l'urgenza di soccorrere a immeritate sventure, è punto da temere che non sorga spontanea e non suggerisca i trovati più santamente ingegnosi quella mutua assistenza, la quale, se altre virtù mancassero, ultima perdurerebbe in Italia. Passiamo, o Signori, se vi piace, a un altro ordine di considerazioni. Ammettono tutti gli scrittori, i quali dettarono intorno alla filosofia del diritto, che le leggi, oltre a quel tanto di bontà assoluta cui loro è dato di raggiungere, devono possedere una certa bontà relativa; devono, cioè, rispondere alle condizioni attuali del luogo e del tempo, in cui sono, destinate ad esercitare la loro efficacia. Se il nostro paese avesse già raggiunto un alto grado di prosperità, se sui risparmi della rendita nazionale si potesse destinare una cospicua somma da essere investita, a cura del Governo, nella acquisizione dei capolavori dell'arte, io comprenderei che anche il diritto di prelazione potesse parere una malleveria sufficiente. Ma a che vorremmo noi pascerci di vane illusioni? Tutt' altre sono, e saranno per un pezzo ancora, le nostre condizioni economiche. Né io medesimo, per quanto abbia caldamente a cuore gl' interessi dell'arte, oserei, nelle angustie in cui versa l'erario pubblico, consigliare incomportabili dispendi, massime considerando che sarebbe sottratto all'arte viva quel peculio, che l'acquisto dei cimelii antichi più preziosi avrebbe tra breve assorbito. Mi pare adunque che anche una ragione speciale, una considerazione dedotta da quella ch'io dicevo bontà relativa delle leggi, raccomandi il temperamento da noi proposto. Consideratelo, se vi piace, soltanto come temporaneo: noi pure auguriamo che rapidamente maturi e giunga sollecito un tempo, nel quale lo Stato, potendo avventuratamente disporre di considerevoli civanzi in pro dell'arte, sottentri esso medesimo ai privati proprietari, i quali più non fossero in grado di reggere cotesta, secondo io vorrei chiamarla, onorifica ma gravosa funzione sociale, di depositari delle glorie patrie. Ma fino a che quel tempo non giunga, la malleveria che noi vi proponiamo di sancire, o Signori, non ne sembra eccedere i confini dell'onesto e del giusto. Fino a che noi lottiamo colle gravissime difficoltà finanziarie, in cui parevamo pur ieri affogare, fino a che non siamo certi di aver debellato e spento un nemico che partecipa alla natura dell' idra , della quale quando una sola testa sfugga alla clava è da temere non tutte le altre ripullulino, fino a quel giorno, io dico, è necessario che qualcosa si faccia per la preservazione, per la tutela, per la incolumità di un patrimonio, che altamente rileva al decoro e alla coltura nazionale. Noi non vi consigliamo punto una confisca; se anche voleste dare un nome odioso a tal provvisione la quale a noi odiosa non pare, tutt'al più potreste dire che vi consigliamo di staggire questo patrimonio, per il lasso di tempo durante il quale non possa lo Stato farsene acquisitore. Ma non si può dire che ciò involga una negazione del principio di proprietà. Noi possiamo in qualche modo paragonare la nostra alla condizione anormale di un paese, che debba pensare alla propria difesa. Se, sotto la minaccia o il sospetto di prossime ostilità, od anche soltanto al rabbuiarsi della situazione politica generale, gli è lecito e non infrequente che si vieti la esportazione di molti prodotti della industria e della natura, e che s' infreni l'uscita delle armi, dei cavalli, del ferro, persino dei cereali, perché non potremmo noi tener conto di un pericolo morale non dissimile da quel materiale pericolo, e ricorrere a non dissimili ancorchò assai meno gravi cautele ? Un ultimo riflesso parmi che valga a raccomandare al Senato la proposta che abbiamo avuto l'onore di rassegnargli. Mentre per una parte noi aggraviamo, gli è vero, le disposi- zioni dello schema ministeriale, col sancire il divieto della esportazione rispetto a quelle opere le quali veramente raggiungano un carattere eminente di merito e di importanza, noi per altra parte alleviamo in modo considerevole l'onere, che altrimenti si devolverebbe su tutti indistintamente gli oggetti d'arte e di antichità anche di secondaria importanza; e questa compensazione mi pare che non debba essere tenuta in poco conto anche da coloro, che hanno strenuamente sostenuto i diritti dei privati proprietari. Altri vorrà dire, per avventura, che noi compartiamo un beneficio ai detentori di oggetti d'arte di minore importanza, e rechiamo un danno a quelli che posseggono oggetti di importanza maggiore ; ma è cosa a tutti nota che le vendite, alle quali hanno ricorso per ragione d'angustie economiche talune decadute famiglie, raro è che involgano un oggetto d'arte solo ; di consueto sono collezioni passate di padre in figlio, d'avo in nipote, sono copiose raccolte quelle di cui si bandisce la vendita. Ora, in coteste raccolte rari sono i capilavori; ci ha di consueto una quantità considerevole di oggetti degnissimi ai attenzione, certo apprezzabili da tutti gli amatori, ma che non raggiungono quella eccellenza, per cui debbano essere assolutamente conservati al paese. Ebbene, il privato al quale noi apriamo pressoché gratuitamente, attraverso i confini dello Stato, lo sbocco all'esportazione della massima parte degli oggetti della sua collezione, non è egli largamente compensato così, di quel tanto che pure potesse perdere per il limite posto alla permutabilità di un' oggetto solo, il quale tuttavia non cessa d' essere liberamente permutabile in tutta la estensione del nostro paese ? Io lo ripeto qui in sul finire, noi non intendiamo di gettare le fondamenta diun sistema immutabile. Nessuna legge, io credo, di sua natura lo è; credo anzi che il legislatore debba tenere sempre alcun conto delle temporanee contingenze; e che però noi faremmo cosa savia pigliando una malleveria, la quale è augurabile che torni superflua allora, quando il paese abbia raggiunto lo svolgimento completo delle normali sue forze. Ma perchè questo giorno si raggiunga, perchè il paese attui tutte le sue potenze, non è egli desiderabile che noi gli conserviamo tutti gli strumenti della sua civiltà, tutti i modi onde educare sè medesimo alle belle e forti e grandi cose? E vogliamo noi dimenticare il grandissimo influsso che anche le discipline del bello esercitano. sugli animi umani? Le generazioni , ricordiamolo , che hanno diffuso in tutto il mondo la loro fama coi commerci e colle imprese più audaci, furono quelle medesime che ci tramandarono i più splendidi capilavori dell'arte. Ora, se esse hanno avuto virtù di crearli, noi potremo al- meno camminare sulle loro orme, purché teniam fede ai loro insegnamenti, purchè vogliamo quotidianamente ispirarci alle opere del loro genio. Deh, non si dica di noi vi ripeto parole che udii testè fremere sulle labbra dell'uomo onorando, al quale vo superbo d'essermi consociato nell' odierna proposta - deh non si dica di noi, che, mentre con meticolosa pietà raccattiamo in ogni lembo di terra straniera le ossa de'nostri grandi, ne lasciamo poi con ismemorata apatia esulare lo spirito. Conchiudo raccomandando alla considerazione dell' onor. signor Ministro e dell' onor. Uffizio Centrale la proposta nostra; e poichè il Senato deve oramai rinviare a domani il seguito dei propri lavori, auguro che questo intervallo possa sembrar loro opportuno per concedere qualche attenzione alla serie degli emendamenti, che abbiamo avuto l' onore di rassegnarvi. Tornata del 29 novembre 1877. Seguito della discussione precedente. Sul fine della seduta, dopo che ebbero parlato i Senatori PEPOLI, VITELLESCHI, Relatore, MIRAGLIA, membro della Giunta centrale, e il signor MINISTRO DELLA ISTRUZIONE PUBBLICA , il Senatore MASSARANI replicò nel seguente tenore : (Dal resoconto ufficiale.) Per quanto io abbia sfruttata già la indulgenza del Senato, parlando ripetutamente su questa materia, e per quanto io , nuovo ed oscuro in questo eccelso Consesso, debba provare un grande sgomento, e lo provi, vedendo converse verso il mio petto inerme le armi di tanti, così valenti e così illustri oratori, tuttavia io sento più incalzante ancora e più vivo il bisogno di parare i loro formidabili colpi; imperocchè gli argomenti principali che mi furono opposti tenderebbero, nientemeno, a rovesciare sul mio capo un'accusa, non dissimile da quella che si rivolge ai sovvertitori dei principi fondamentali, su cui la società civile si regge. Tolleri pertanto la benignità del Senato che, prima di ribattere, se non di spuntare, alcuna delle tante e tanto sottili argomentazioni, che in lunga, serrata e quasi non numerabile schiera, l'onorevole sig. Ministro è venuto accampando contro ciascun fatto, ciascun esempio, ciascun pensiero, che io nella precedente tornata avevo procurato di svolgere; tolleri, dico, che prima di scendere a questo particolare subbietto, io mi difenda dall' impeto delle armi più gravi, dirizzate contro il midollo istesso di una proposta, alla quale per mia fortuna è pur tuttavia concessa l'egida di un nome onorando ed illustre, il nome del Senatore Di Giovanni. Si è detto dall'onorevole Pepoli che adottare ciò che dai nostri emendamenti risulta, è recidere, né più né meno, il capo alla proprietà; si è detto che, non pure la legislazione per lo passato vigente nelle varie regioni d'Italia, ma nessuna legislazione in nessun paese civile ha mai offerto esempio di cosi fieri, così enormi, cosi intollerabili vincoli, inflitti alla proprietà dei capo-lavori dell' arte, come quelli che noi proponiamo. Ma, vedi ancora fortuna nostra! Il solo giureconsulto, il solo magistrato che si sia mescolato di questa discussione , e giureconsulto e magistrato dei più illustri, e membro dell' istessa Giunta Centrale che ci combatte, è ve- nuto frattanto a porre in sodo che, secondo le testimonianze del diritto storico, tutt'altro che dubbia è la continuità di gravissime sanzioni penali, non che de'più rigorosi ed assoluti divieti, in cotesta materia. Egli vi accennava solamente di volo, poichè l'aveva già lungamente esposta, or son cinque anni, nella sua dottissima Relazione, la storia di tutto ciò che le nazioni civili ci tramandarono rispetto alla legislazione in materia d'arte. Dai comites nitentium rerum scendendo fino all'ultima ordinanza pontificia, egli vi mostrava come questa Roma, che fu principale depositaria della coltura artistica, sia stata anche costante ministra delle più rigorose sanzioni contro chi pretendesse esportare dallo Stato cose d'arte, e « generalmente tutti quelli lavori, o di grande o di piccolo modulo, che sono conosciuti sotto il nome di antichità pubbliche o private, sacre o profane. » (1) Occorre egli che io mi dilunghi di più per convincere l'onor. Senatore Pepoli che non è cosa nuova quella che da noi si propone ? Lo stesso onorevole signor Ministro, che non noveriamo, pur troppo, fra i nostri alleati, confermava qui nelle precedenti sedute come in Toscana le opere di ben diciannove pittori siano tuttodi assolutamente escluse, non che dalla esportazione all'estero, ma persino dalla interna

(1) Ordinanza di papa Pio VII, I ottobre 1802. circolazione, non concedendosi facoltà neppur di cavarle fuori dalla città di Firenze per portarle in villa. E avrebbe potuto aggiungere che dal Reame e dalla Sicilia nessuna reliquia d' arte poteva esportarsi , pena la galera o la relegazione , senza espressa licenza del Re. (1) Non ci era dunque davvero in noi soverchia baldanza, se ci permettevamo di asserire che numerosi precedenti istorici possono giustificare la proposta di qualche rigore, mitigato pur sempre da quei temperamenti e circondato da quelle guarentigie, che si addicono a popolo libero e civile. Ma insufficiente ancora sarebbe 1' autorità dell' istoria, se la ragione filosofica del diritto assolutamente negasse ogni appoggio alla nostra teoria; se, cioè, fosse veramente dimostrato che ogni qualvolta il civile consorzio, per una suprema ragione di utilità pubblica, impone limiti alla privata proprietà, sempre il facesse, secondo il signor Ministro diceva , per via di riscatto, ossia fornendo al proprietario una compensazione, una indennità, un correspettivo, quale che sia. Or bene, o Signori, io non voglio stancare la vostra pazienza ripetendo qui tutto quanto ebbi già altra volta 1' onore di esporvi intorno a questo argomento; vi chieggo solamente licenza di addurre un' autorità, la

(1) R. Dispaccio 24 luglio 1755. quale spero non sarà revocata in dubbio da voi, e molto meno dall'on. signor Ministro. Leggo in un documento ufficiale, del quale dirò poscia la fonte, queste parole: « Le leggi vigenti offrono molteplici esempi di limitazione di alcune funzioni di proprietà senza diritto a compenso. « Vi hanno le servitù prediali talora stabilite dalla legge per causa di utilità pubblica, come sarebbero le servitù militari cui sottostanno i terreni posti in vicinanza delle opere di fortificazione costrutte per la difesa dello Stato, le quali servitù consistono nel divieto di fare in tali terreni scavi od elevazioni, aprire fosse o strade, costruire edifizi, senza autorizzazione delle autorità militari... » - E qui mi sia lecito osservare che non è da confondere punto questa condizione di cose, affatto normale e permanente, coi danni di guerra, ai quali teste l'onorevole signor Ministro alludeva -... «Vi hanno (continua il mio documento), le servitù cui sono sottoposti i fondi situati lungo i corsi di acqua pubblica, lungo le strade pubbliche e lungo le ferrovie, le quali consistono nel divieto di fare costruzioni, escavazioni e piantagioni a distanze minori di quelle stabilite dalla legge ; le servitù edilizie, a cui sono, specialmente nelle città , sottoposti gli edifizf nell'interesse del decoro pubblico e della pubblica igiene, ed altre simili. » - E qui il mio documento, che più particolarmente s'occupa dei vincoli forestali, così conclude : « Si potrà dunque discutere se, in fatto, sia veramente il vincolo forestale giustificato da motivi d'interesse pubblico; ma una volta ammessa l'affermativa, non può dubitarsi che in diritto la proprietà possa e debba essere al vincolo sottoposta SENZA CORRESPONSIONE D'INDENNITÀ; esso non sarebbe che la naturale limitazione delle ragioni della proprietà, al di là delle quali non è diritto ma abuso. » Ora a chi appartengono, o signori, e quando e dove furono pronunziate queste sentenze? Sono, o signori, sentenze di un altro degli attuali Consiglieri della Corona, di uno degli onorevoli uomini che anche di presente seggono a lato dell' on. signor Ministro della Pubblica Istruzione; e furono proferite in quest'aula medesima, quando si discusse la legge sul vincolo forestale. Ma forse che era questa una opinione individuale del sig. Ministro d'Agricoltura, Industria e Commerciò, forse che fu riprovata, quasi sovvertitrice dottrina, dal Senato? Mai no! Il Senato coi suoi voti la confermò pienamente, non s'arrestando altrimenti alle obbiezioni che anche allora oratori valentissimi avevano recato in mezzo; e sancì il principio che i vincoli forestali (vincoli per i quali, badate, sei milioni di ettari sono ridotti in condizione di servitù pubblica), sancì, dico, il principio che i vincoli forestali fossero universalmente imposti senza diritto a indennità veruna. Una eccezione, è vero, fu ammessa, quella di cui parlai ieri, e che si riferisce ai pochi casi in cui il vincolo sia imposto per ragioni di igiene; ma perchè questa eccezione fu fatta? Diciamolo: perché in quei casi la ragione di utilità pubblica era controversa, perché la scienza revocava in forse se veramente all' igiene sempre convenisse la conservazione dei boschi, e perché in una regione d'Italia era invalsa la consuetudine che, quando pure questa conservazione fosse per ragione d' igiene prescritta, anche fosse suffragata di correspettivo. Ma, si dice: tutti questi esempi da voi addotti si riferiscono a limitazioni imposte alla proprietà per evitare un danno materiale, un danno che tutti possono valutare; perché volete estendere una provvisione la quale riguarda la conservazione soltanto e la difesa dei beni materiali, alla conservazione, alla difesa, di beni immateriali ? Signori, ve lo confesso, una siffatta argomentazione avrei potuto aspettarmela da chi sovratutto codesti interessi materiali rappresentasse; ma l'onorevole Ministro dell' Istruzione Pubblica, il qUale con tanta solerzia, con tanta vigoria, con tanto zelo tiene la somma delle cose che appunto alla coltura si riferiscono, egli, mi perdoni, pare a me che non possa affatto mettersi in ischiera tra coloro, che tengono per somiglianti dottrine. Io credo che se si deve una larga parte concedere, e il nostro secolo la concede larghissima, ai materiali interessi, é pur necessario di ricordarsi che vi ha qualcosa al di sopra della prosperità materiale, qualcosa a cui gli animi umani attingono le soddisfazioni più pure e insieme gli impulsi più generosi: voglio dire quel complesso di tradizioni, quel tesoro di memorie, quel patrimonio di coltura, di gentilezza, di civiltà, che fanno bella e cara e decorosa e non infeconda la vita. In tutto questo anzi gli antichi, i quali non reputavano che si vivesse di solo pane, mettevano il pregio e le ragioni vere dell'esistenza; vietando di farne getto per amor del ventre, Et propter vitam, vivendi perdere caussas. E perché anche sovente gli antichi ammonivano doversi ritirare le cose ai loro principi, pare a me che sia bene di ricordarsi che le società non sono state sempre fondate, né sempre si sono mantenute in fiore e preservate da decadenza, la mercé sola delle utilità materiali. Le quali anzi, trasmodandone il desiderio in cupidigia e l'uso in abuso, sono state spesso argomento di corruzione, e causa che poderosi imperii n'andassero rovesciati e distrutti: laddove io credo che non ci sia esempio di un popolo, il quale, per soverchio innamorarsi del buono. e del bello, per soverchio gusto degli immateriali diletti, per devozione soverchia alla coltura, all' arte, alla scienza, a tutte le discipline virtuose, abbia precipitato le proprie fortune. Né vorrei che altri, meno di me consapevole dei buoni e ratti intendimenti a cui s'inspirano i nostri oppositori, o meno di me riguardoso, credesse d'allogare qui gli acerbi versi del poeta latino: O cives, cives, quaerenda pecunia primum est, Virtus post nummos. Che se la preferenza non si voglia concedere, la parità per lo meno si dovrebbe accordare alla causa della scienza e dell'arte con quella dei materiali godimenti; e concludere che bene si possa in difesa dell'una tutto quello, che in pro dell'altra ogni giorno e senz'ombra di difficoltà vediamo essere comandato ed eseguito per legge. La selva delle obbiezioni che contro di noi furono accumulate é sì fitta, e l'ora tardissima che m' incalza così inesorabile, ch' io son costretto a cacciarmi nel prunaio senza pure orientarmi, e a far di abbattere, senza scelta, quei primi argomenti che mi si parano innanzi. Onde, il Senato benissimo comprende ch' io non posso nemmeno aiutarmi con quell'ordine e quella studiata sequela di raziocini, che l'oratore suole introdurre a proprio beneficio; anzi piglio quasi a chius'occhi dalla memoria, così come alla rinfusa me li offre, questo o quello dei troppi argomenti avversari da confutare; e però senza che nelle mie parole possa tro- var luogo quell'arte oratoria, alla quale, con arguzia pari alla cortesia, faceva allusione l'onorevole Pepoli. Egli, l'onorevole Pepoli, e mi volgo ora a lui perchè da lui ci vennero i primi strali, egli affermò, se io non erro, che noi pretendevamo l'integrità assoluta del patrimonio artistico nazionale. Ma consulti, di grazia, il tenore medesimo della nostra proposta : e se l'aritmetica voglia per poco acconciarsi a metter piede in mezzo agli oggetti che formano il patrimonio dell'arte, chiarissimamente vedrà che apriamo il varco alla moltitudine, e non serbiamo in casa se non i pochi. Non è dunque da asserire che da noi si voglia con una superstiziosa meticolosità mantener fisso e chiuso nel territorio dello Stato tutto ciò che possa esservi di qualche pregio in fatto d'antichità e d'arte. Noi, anzi, non ci opponiamo affatto all' uscita di tutte quelle cose le • quali non siano di tale eccellenza che, per usar le parole dello schema ministeriale, l'esportazione delle medesime non si possa fare senza danno della storia o del decoro nazionale. Di qui anche sono condotto a rispondere a talune considerazioni che l' onorevole sig. Ministro ne rivolgeva su questo argomento. Egli ne partecipava, ed io me ne rallegro sinceramente, come negli, ultimi anni le transazioni che si riferiscono all'arte si sieno venute svolgendo piuttosto in pro dell'arte nuova, che non dell'an- tica; e ,ne diceva: Badate; se voi vorrete chiudere il mercato dell'arte antica (e qui supponeva che noi lo chiudessimo, mentre ho detto poco innanzi che, salvo quei capolavori i quali sono dei più preziosi per la coltura e pel decoro nazionale, noi lo lasciamo apertissimo), se dunque, egli diceva, vorrete chiudere cotesto mercato, la conseguenza sarà che quella corrente benefica della curiosità e dell'oro straniero, la quale s'è principiata a manifestare in pro del nostro paese, s'arresterà anch'essa d'un tratto, e cesserà insieme anche il beneficio che da essa risente l'arte nuova e viva. Io ho riprodotto, credo , fedelmente l' argomentazione del signor Ministro; ma non saprei andarne persuaso affatto. Le fortune, per quanto grandi, di cotesti ricchi stranieri, di cotesti Cresi amici dell'arte , hanno anch' esse un limite; e quanto più si fomenti presso di loro, in quel che ha di più dispendioso, il gusto delle grandi collezioni d'arte antica, tanto meno, evidentemente, rimarrà loro da potere e volere spendere in cose d'arte moderna. Né certo l'Italia può perdere i suoi visitatori perché trattenga sul suo suolo ciò che ha di più bello, di più eletto, di più desiderabile a vedersi. Anzi, pare a me, che se noi conserveremo tutti i suoi gioielli più squisiti e più splendidi a questa gran madre dell'arte, noi ne renderemo ammirato e vago lo straniero assai più, che non se con indifferente animo lascieremo che d'ogni cosa più bella e nobile la si dispogli; per lamentar poi, frodata che l'avremo di ogni bellezza, che gli ospiti d'un tempo le volgano disdegnosi le spalle. Un altro precipuo argomento adduceva l' onorevole signor Ministro per combatterei; e questo s'appuntava contro l'opinione da me svolta ieri, rispetto all'uffizio sociale che io diceva convenirsi alla proprietà. Mentre la proprietà, io diceva, fruisce di molti vantaggi e di molti privilegi, essa ha certi oneri altresì, dei quali non può discaricarsi ; essa, per ripetere una espressione che è piaciuta, e me ne tengo , all'onorevole signor Ministro, essa , io diceva, ha cura d'anime; e fin qui egli non negava di consentire. Ma tosto di poi soggiungeva : - E come, di' grazia, volete che la proprietà adempia a questo suo nobile ufficio, se le ne togliete voi medesimo i mezzi, condannandola a non poter far danaro de'suoi vecchi marmi e delle sue vecchie tele, che potrebbe vendere con profitto allo straniero? - Mi perdoni l'onorevole signor Ministro, ma io temo forte che noi ci aggiriamo in un circolo vizioso, che noi caschiamo in una petizione di principio. E valga il vero: se il proprietario di un capolavoro d'arte è ricco, impedendogli di manomettere. il patrimonio avito per mera cupidigia di lucro, la società fa cosa provvida per la reputazione di lui, in pari tempo che è utile alla coltura e al decoro dell'universale. In que- sto caso adunque non si toglie, anzi si conserva al proprietario quella funzione benefica, che desideriamo vedergli esercitare. Che se invece egli è povero, evidente è allora che già quell'alta funzione, quella efficacia irradiatrice è in lui scemata, non per colpa nostra, ma solo per colpa delle vicende che lo condussero in basso stato; onde neppure in questo caso si può dire che noi togliamo al proprietario la facoltà di fare il bene, se già questa facoltà ei non l'ha più, o l'ha in misura minore, per avversità di fortuna. Che se la povertà del proprietario fosse titolo sufficiente a disarmare la legge di quella severità salutarìssima che le è imposta da considerazioni d'utile generale, non meno del privato potrebbe invocare l'istessa immunità anche l'ente morale, a cui pure, senza scrupolo, imponete il divieto della esportazione. Se allo spedale, se alla chiesa, che vi chiedano licenza di vendere all'estero un quadro od una statua per meglio sopperire ai loro uffici di pietà e di carità, credete di poter rispondere che lo vietano considerazioni d'ordine superiore, perchè vi parrà di non poter rispondere il medesimo al proprietario privato ? Quanto agli spedienti poi che rimangono a chi possiede un'opera d'arte, per cavarne profitto anche senza spogliarsi della sua proprietà, io accennava, semplicemente per cagion d'esempio, il più ovvio: l'esposizione a pagamento. Se non che qui m' obbiettava onor. Ministro dovercene scoraggire la recente esperienza, la quale ha pur troppo dimostrato che le esposizioni, per quanto grandiose, non sono affatto rimuneratrici. Or bene, io con sua licenza rispondo che le esposizioni alle quali egli allude non furono rimuneratrici, appunto perché furono troppo grandiose. Le mostre sconfinatamente vaste, i pomposi apparati, i palazzi arredati e financo costrutti apposta con alto dispendio, cose tutte da cui non sappiamo, noi altri, dissociar mai il concetto d' esposizione artistica, sono quelle che il più sovente distruggono in germe tutti i benefizi materiali, se non pure anche i benefizi morali, sperabili dall' attuazione di siffatto concetto. Tutt' altra cosa sono quelle esposizioni modeste, ma preferite da' buongustai, e non ignote altrove né rare, nelle quali, con poco dispendio o nessuno, aprendo senz'altro al pubblico qualche stanza adatta e tranquilla, i proprietari di preziosi cimeli o di capolavori dell' arte da lungo tempo seppelliti nel silenzio delle pareti domestiche, ne fanno copia a'visitatori, non senza richiederne una onesta mercede; per modo che all'utile loro proprio va di pari anche la soddisfazione morale di accomunare un'eletta voluttà estetica alla moltitudine, e di diffondere in mezzo ad essa il gusto delle cose belle, contribuendo così alla educazione del paese. Questi umili, minuti e pratici particolari, che vi ho detti alla buona come mi soccorrevano alla mente, pare a me che non si possano respingere in quel campo delle teorie, e, diciam la parola, delle utopie, nel quale, se io non erro, l'onorevole Relatore mi faceva un cortese rimprovero di spaziare. Egli, e qui mi riduco agli argomenti suoi, egli diceva: sta bene tutto quello che ci venite ragionando intorno ai principi; ma io guardo piuttosto alle difficoltà, dell'applicazione. D'onde trarrete le norme per distinguere le cose più cospicue e più elette dalle volgari? Quando, come si farà questa terna, e da chi? Ma lo stesso schema che la Giunta Centrale approva e propone all' approvazione del Senato, pare a me che risponda, che giustifichi la nostra idea, e che la dimostri non punto aliena dalla possibilità e dalla pratica. In effetto, per compilare i cataloghi tanto raccomandati dalla Giunta Centrale, non è egli mestieri addentrarsi persino nel sacrario delle famiglie , e prender nota di tutti gli oggetti d' arte, siano essi della maggiore importanza o non lo siano ? Or non è forse un còmpito meno grave quello che noi affidiamo alle autorità delegate dal Ministero, quando proponiamo che di caso in caso esse rechino la loro attenzione sugli oggetti rassegnati dai proprietari a fin di ottenere la licenza di esportazione ? Pare a noi che quando questi oggetti vengono ad uno ad uno sotto la mano , sia più facile lo apprezzarli e il recarne giudizio, che non quando s' ha da mescolarsi di una grandissima congerie di cose. Diceva altresì l'on. signor Relatore, che vano era e superfluo il principiare il titolo II coll'enunciazione del principio generale di libertà, perché le leggi non enunciano principi generali. Io non voglio qui ribattere questa sua assoluta sentenza; ma mi giova citare in contrario l'esempio dell'illustre magistrato che siede nella Giunta Centrale, e che appunto cosi principiava lo schema di legge allorquando, cinque anni or sono, ne fu Relatore; bastandomi a nostra difesa l' autorità di un tanto giureconsulto, il quale non rifuggì dall'incominciare il testo della legge appunto colla enunciazione di un principio. Del resto, non sarebbe questa una seria difficoltà; e, se volentieri noi avevamo riprodotto cotesto principio generale, trovandolo già nello schema primitivo, non reputeremmo assolutamente indispensabile che se ne conservasse la enunciazione. Soggiungeva ancora, se non erro, l'on. Relatore, Senatore Vitelleschi, che quand'anche le cautele e le terne da noi raccomandate fossero inserite nella legge , resterebbero inefficaci; imperocchè le leggi in siffatte materie non valgono senza i costumi. Ma tolleri che io gli risponda come il suo asserto, a pigliarlo per assoluto, proverebbe troppo, e si ritorcerebbe contro l'opera sua. A fil di logica egli avrebbe dovuto, se così pensava, proporre un sistema di assoluta libertà; allora soltanto, quando avesse escluso egli pel primo dal proprio schema ogni prescrizione minuta, ogni minuta cautela, sarebbe stato in diritto di respingere siffatte disposizioni se proposte da altri. Ma poiché lo schema dell' Ufficio Centrale abbonda esso medesimo, e vorrei quasi dire sovrabbonda, di precetti, di cautele e di particolari, poiché in ciò coincide con quello dell'on. signor Ministro, che noi riproduciamo, non vedo come si possa incolpar noi di soverchia minuziosità. Oltrepasso il resto, perché il tedio d'udirmi dev'essere già troppo, e, chiedendovi licenza di pronunziare contro un argomento solo una sola parola, a titolo di necessaria difesa, ho finito. Fu detto che gli autori dell'emendamento non si sono dati carico del danno che patirebbe all'estero il nome e la riputazione del nostro paese, se si impedisse che le opere più elette del genio italiano venissero sotto gli occhi dello straniero. L'onorevole Pepoli, in particolare, mostrò di non mi voler perdonare facilmente quelle fitte al cuore, tanto da lui ricordate, che, secondo a lui parve intendere, io avrei provato imbattendomi all'estero nei capolavori italiani. Ma, se egli consulta meglio la ferace sua memoria o il testo delle mie parole, que' cimeli, davanti ai quali io confessava d'aver provato dolore, erano i marmi del Partenone e d'Egina; rammentandomi essi un gran popolo, che, a furia d'essere spogliato delle opere del proprio genio, fini col non ritrovarsi più se non l'ombra di sè medesimo. Né però negai che anche i capolavori nostri mi infondessero mestizia, allorchè li vedevo testimoniare all'estero non tanto della nostra gloria passata, quanto della povertà o dell'accidia presente. E in verità, se vi è cosa di cui siamo sicuri, gli è questa: che le proposte da noi rassegnate, signori Senatori, al vostro senno, lunge che facciano buon mercato della nostra fama presso gli stranieri, appunto mirano a difenderla, e, se ne è d'uopo, a rintegrarla. Noi bramiamo, o signori, che il paese nostro sia rappresentato all'estero dalla sua operosità viva, dalla produzione sua quotidiana, da tutto ciò che ancora sanno e possono il lavoro e l'ingegno italiano; noi non vorremmo che si perpetuasse quell'imputazione che ci è stata inflitta già troppo: di non saper vivere e trionfare che delle glorie passate. Se questo deSiderio è colpa, lo dica il Senato ; e purché di questo ci assolva, noi ci rassegneremo alla sorte, qualunque ella sia per essere, che sarà per toccare ai nostri emendamenti. Tornata del 30 novembre 1877. Seguito della discussione precedente. Essendosi, dopo lunga discussione, adottato, a proposta del Senatore TORELLI, l'ordine del giorno puro e semplice sugli emendamenti Di GIOVANNI e MASSARANI, il Senatore MASSARANI, chiesta la parola per una dichiarazione, così si espresse: (Dal resoconto ufficiale.) Qual che sia stata la sorte delle proposte recate innanzi da me, anche in nome dell'onor. Di Giovanni, al Senato, io non mi rammarico di averle rassegnate al suo senno, si perché suffragate dall' autorità, di un Senatore provetto ed illustre, sì perché impresse di un convincimento sincero. Mi giova per altro soggiungere che, non volendo ascrivermi fra coloro, i quali, per il desiderio del meglio, ricusano anche quel tanto di bene che sarebbe loro, dato ottenere in pro della pubblica cosa, io, ancor che stimi questa legge imperfetta, renderò il partito favorevole ad una condizione: che nell'ulteriore dibattito essa non perda quel tanto di efficacia che ha, vale a dire, che sia mantenuto il principio del divieto di esportare, almeno riguardo ai Corpi morali. E renderò il partito favorevole alla legge, perché essa ne toglie fuori dalla condizione pressochè eslege in cui versiamo, e ne fa per lo meno dare un passo innanzi su quella via, che io avrei desiderato di vederle fornire intera. Che se mai nelle parole che troppo improvvise ho dovuto pronunziare in questo onorando Consesso avessi ecceduto d'impeto e d'ardore... Voci: No no .... io spero che vorrebbe darmene venia la benignità vostra; e mi piace anche affermare nulla essere stato più alieno dall'animo mio che il pronunziare parola la quale non fosse impressa, anche verso l'egregio signor Ministro, di quella osservanza perfetta, che, quando pure io possa su qualche punto dissentire da lui, il suo eletto ingegno e la rettitudine dei suoi intendimenti m'inspirano. Infine, ancora che poca speranza mi rimanga che una proposta mia trovi grazia nè innanzi all'onor. signor Ministro nè innanzi all'Ufficio Centrale, oso rassegnar loro, e insieme raccomando alla benignità del Senato, un desiderio, il quale rispetto a questa legge sarà l'ultimo: dico il desiderio di veder restituito nella legge, quand'anche fosse in più compendioso tenore, il titolo IV, che nel primitivo disegno risguardava le Commissioni conservatrici. So bene che queste Commissioni già esistono ed operano, in forza di decreto reale: ma chi per poco rifletta alla gravità del compito che loro è assegnato, ed ai conflitti che dovranno assai probabilmente incontrare, di leggieri intende quanto sarebbe opportuno che fossero suffragate dalla piena autorità della legge. Dopo una cortese risposta dell'onor. signor MINISTRO, e dopo che furono votati gli articoli 10, 11 e 12, secondo lo schema dell'Ufficio Centrale, la discussione pareva dovesse avviarsi piú rapida al termine, quando, nella successiva tornata del 1° dicembre, fu improvvisamente sospesa, per l'incidente di cui si è fatto cenno in principio. Tutto può dirsi ora revocato in questione. Non di meno, gli è forse pregio dell'opera riferire qui talune cose dette intorno agli articoli 7 e 8, essendosi nella discussione di quegli articoli agitata, e fino a un certo punto risoluta, una importante questione intorno ai restauri. Ecco il brano a cui alludiamo: Tornata del 28 novembre 1877. (Dal resoconto ufficiale.) MINISTRO DELL'ISTRUZIONE PUBBLICA. Nell'art. 70 diciamo : « è vietato a tutti indistintamente, sotto le pene indicate all'articolo 25, di distruggere, guastare, deturpare i monumenti. » Io propongo che si aggiunga, oltre la parola « deturpare » queste altre : « in qualunque modo alterare. » La dizione dell'articolo lascia intendere anche questa idea, ma io desidero sia più nettamente espressa. Fra l'alterare, il guastare, il deturpare, vi è diversità. Se il distruggere, il guastare, il deturpare possono riguardare il mantenimento del monumento, l'alterare può essere commesso da colui che nell'idea di farlo più bello, ne trasforma e travisa il carattere. - Quindi risponde a quel concetto che deve governare i restauri, non essendo raro che si rechi ingiuria ad un'opera di arte, facendo quelle cose le quali con poco corretto giudizio il proprietario ritiene essere tali da accrescerne la bellezza. A questo sconcio non raro, del quale ad ogni passo ci sovrabbondano gli esempi, riparerebbe la modificazione che propongo. Quindi questa aggiunta mi sembra opportuna e la raccomando all'Ufficio Centrale. PRESIDENTE. La parola spetta al Senatore Vitelleschi, Relatore. Senatore VITELLESCHI, Relatore. L'Ufficio Centrale accetta. Senatore MASSARANI. Domando la parola. PRESIDENTE. Ha la parola. Senatore MASSARANI. Comprendo perfettamente il concetto da cui muove l'onor. sig. Ministro, quando ci propone l'aggiunta della parola alterare; comprendo che, ogni qualvolta un monumento abbia un carattere del tutto omogeneo, e rappresenti un'epoca dell'arte bene spiccata e distinta, non se ne debba in alcun modo alterare la unità, né travisare la fisonomia. a molti monumenti sono opera di età consecutive, le quali hanno ciascuna, e non tutte con eguale intelligenza del primitivo concetto, recato la propria parte alla edificazione. Or, quando si dà mano al restauro, egli é naturale che, se si vuole restituire nella sua interezza il primitivo concetto, sia pur necessario di toglier via dall'edificio quelle superfetazioni posteriori, che ne hanno assolutamente viziato il carattere. Non sarà essa in questo caso la parola alterare un ostacolo a che si ristabilisca il concetto, il carattere genuino dell'edificio, e non saremmo noi trascinati ad una conseguenza opposta a quella, a cui saviamente mirava l'onorevole signor Ministro? Io gli sottopongo, e sottopongo all'Ufficio Centrale ed al Senato, questo dubbio; avvegnachè, se la parola alterare volesse interpretarsi rigorosamente, essa di certo vieterebbe qualunque mutazione, anche determinata da giustissime vedute estetiche e storiche, rispetto ad un edifizio che non constasse di parti omogenee. Fra cento esempi che si offrono facili a chiunque, ne scelgo uno. Il Duomo di Milano è in Italia, credo, l'edilizio in cui lo stile ogivale ha di sé fatto lo sperimento maggiore; ma tutti sanno che la facciata, e soprattutto le porte e le finestre della facciata, sono impresse di un carattere il quale non è omogeneo con lo stile generale dell' edificio. Ora , se verrà giorno in cui una generazione più generosa della nostra e più doviziosa, ponendo mano ad un'opera augurata da tutti gli amici dell' arte, pensi a restituire a quell' edificio la sua nativa unità, vorremmo noi tarpare le ali al genio dell'architetto, e costringerlo a metter da parte ogni pensiero di omogeneità e di schietta redintegrazione dello stile, per rispettare con una sorta di superstizioso feticismo tutto ciò che troviamo costrutto? Ecco il pericolo a cui conviene por mente. Parrebbe dunque a me che le parole già ammesse nella precedente compilazione potessero bastare all'uopo; e, se qualcosa si voglia ag- giungere, suggerirei piuttosto la parola travisare che non un'altra, la quale, troppo rigorosamente applicata, potrebbe impedire di cambiar nulla e togliere la facoltà di fare quello che da rispetti storici e artistici fosse imperiosamente richiesto. MINISTRO DELL'ISTRUZIONE PUBBLICA. Domando la parola. PRESIDENTE. Ha la parola. MINISTRO DELL'ISTRUZIONE PUBBLICA. Ecco, io sarei molto contento che la difficoltà dell' interpretazionè del verbo alterare si presentasse ed avesse tutta la sua forza quel giorno in cui il desiderio degliamici dell'arte fosse soddisfatto riguardo alla facciata del Duomo di Milano. Ma, evidentemente anche allora resterebbe una questione che io non posso sciogliere che con una parola dell' onor. Senatore Massarani. Noi abbiamo, specialmente fra le opere architettoniche, alcune sulle quali diverse epoche hanno scritto la loro parola. Io domando: quando ciascheduna epoca ha bene impresso il suo carattere in un monumento, e non vi ha lavorato di rifacimenti, ma operò continuando i maggiori, sebbene col sentimento suo, non vi è anche un interesse artistico a mantenere queste orme ? Non mi risolverei subito a dire che non ci sia. Qui avete la storia, qui generazioni che voi vi trovate colla particolare loro fisonomia. Che si farebbe di quei monumenti i quali lentamente sono sorti, ai quali ciascuna generazione ha recato la sua pietra, cosi disponendola, secondo il gusto prevalente dell' età, e di quegli altri che per la vastità della mole e del pensiero, passarono dalla direzione di un artefice a quella di un altro, come si potrebbe dire di Santa Maria del Fiore e del San Pietro? La parola alterare che io desidero vedere qui introdotta, troverà a giudizio dei discreti la sua portata e il suo significato. Il monumento che hanno lavorato epoche diverse, o rappresenta così il carattere che questi vi hanno validamente impresso, e allora torna necessario il mantenerlo senz'altro, ben inteso che ciò sia stato naturale successione di operai, non superfetazione, o viziosa trasformazione di epoca guasta. Fare sparire una navata, una porta, una finestra, modificarne un frontone e via via, vuol dire talvolta portare via l'azione di una generazione; e innanzi alla possibilità di distruggere il pensiero e 1' opera di una generazione conviene arrestarsi. Tuttavia, l'osservazione dell'onorevole Senatore ha un peso, e bene ha chiamata l'attenzione del Relatore il quale mi fa avvertire che forse questa aggiunta invece che all'art. 7° potrebbe aver luogo più opportuno all'art. 8°, e la ragione che egli mi adduce è questa: che li discorrendosi appunto del consenso dell'au torità del Ministero della Pubblica Istruzione, questo caso gravissimo ed eccezionale potrebbe essere allora considerato con tutto il riguardo che è dovuto e all' interesse di quello che si vuole mantenere, e all'interesse di quello che convenga levare. Se la cosa andasse in questo senso anche all'onorevole Senatore Massarani, io accetterei la trasposizione là dove l'on. Relatore dell'Ufficio Centrale l'ha indicata. PRESIDENTE. La parola è al signor Senatore Massarani. Senatore MASSARANI. Amerei di essere ben chiarito sulla sede che avrebbe la parola alterare secondo il pensiero dell'onorevole Ministro. Accetto intanto che sia eliminata dall'articolo in discussione, e mi riservo, secondo il luogo in cui la vedrò collocata, di dichiarare se risponde al mio pensiero. E poiché ho la parola, vorrei soggiunger qualcosa anche sulla massima, che ha dettato la mia osservazione. Vi hanno età, per dir cosi, organiche, le quali recano ciascuna un proprio ed efficace contributo alla storia dell'arte, ed è giusto che si rispettino le loro traccie. Ma vi sono state pur troppo anche età, le quali, destituite di ogni forza creatrice, non hanno fatto se non se obliterare miseramente e cancellare con cieca arroganza le impronte nobilissime dei predecessori, ricoprendole del pedantesco loro accappatoio, o avviluppandole di puerili e ridevoli fronzoli. Se noi dovessimo rispettare ciecamente tutto ciò che il tempo ha accumulato di eterogeneo sopra un edifizio, noi andremmo ancora privi dei restauri migliori che possa vantare il nostro tempo ; poiché le più antiche e ragguardevoli basiliche erano state anch'esse al tempo dei barocchi ridotte in sembianze irreconoscibili, e tali da dissimularne onninamente la fisonomia originaria, se non anche la originaria struttura; e a rigor di termine anche il toglier via questo guasto si sarebbe potuto dir che fosse alterare. Mi pare dunque che si debba intendere con molta discrezione il rispetto dello status quo; e però io sono lieto che l'onorevole signor Ministro e l'Ufficio Centrale accettino 1' eliminazione della parola alterare dall' articolo di cui ora ci occupiamo. E rinnovo la preghiera di volermi significare dove la si collocherebbe. Senatore VITELLESCHI, Relatore. L' Ufficio Centrale aveva accettato la parola alterare nell' articolo 7°, perché riteneva che alterare un monumento fosse un concetto complessivo; vale a dire che non si dovesse permettere nessun danno, nessun lavoro, che mutasse il carattere, complessivo del monumento. E sotto questo aspetto non pareva che si potessero incontrare i pericoli ai quali accennava l'onorevole Massarani. Ma, come la parola alterare in questo potrebbe essere presa in un senso letterale, e per conseguenza che si rendesse per essa per sempre impossibile di fare nessuna modificazione a un monumento, benché utile, benché necessaria, io proporrei, per maggiore sicurezza, di rinviarlo all'art. 8°, nel quale non avrebbe gli stessi inconvenienti. E qui faccio rimarcare come altrettanto le osservazioni fatte dall'onorevole Massarani sono giuste per un lato, altrettanto per l' altro lo sono quelle fatte dall'onorevole Ministro della Istruzione pubblica. La distinzione si trova in questo. I monumenti che hanno esclusivamente un merito artistico, possono veramente qualche volta aver bisogno di essere mondati da certe affezioni morbose che hanno toccato in tempi infelici per restituirli alla loro bellezza artistica; ecco il caso in cui è necessario di produrvi quella che alla lettera può chiamarsi un' alterazione, ma che in effetto non lo è. Ci sono poi i casi ai quali accennava l'onorevole Ministro, in cui 1' interesse del monumento è più istorico che artistico; ed in quel caso le sue stesse anormalità costituiscono il valore del monumento. E per quei casi è evidente che il volergli dare piuttosto un carattere che l' altro, sarebbe un togliere al monumento il suo più gran pregio. Ora, forse la parola alterare colla possibilità che fosse intesa nel senso letterale, messa nel 7° articolo, potrebbe avere il rischio di nuocere ad uno di questi lati egualmente importanti. Trasportata invece all' articolo 8°, nel quale si può ottenere facoltà di derogare alla legge per mezzo dell' autorità competente, in quel caso quella parola risponde al desiderio dell' onorevole Ministro e dell' onorevole Massarani, vale a dire che in quei casi in cui l'alterazione sarà conveniente all' interesse del monumento, ne sarà data facoltà di farla. MINISTRO DELL' ISTRUZIONE PUBBLICA. Domando la parola. PRESIDENTE. La parola è al Senatore Massarani per una dichiarazione. Senatore MASSARANI. Dichiaro che sono soddisfatto delle spiegazioni avute, e che accetto la trasposizione nell'art. 8° delle parole « alterare in qualunque modo. » PRESIDENTE. La parola spetta all'onorevole Ministro. MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE. Io aderisco a questo desiderio, e dall' istante che 1' onorevole Senatore Massarani dice t he assente alla proposta del Relatore, non mi resta più nulla ad aggiungere. PRESIDENTE. L'Ufficio Centrale accetta la modificazione proposta? Senatore VITELLESCHI, Relatore. Accetto. PRESIDENTE. Rileggo dunque 1' articolo 7°: Art. 7. È assolutamente vietato a tutti indistintamente sotto le pene indicate all'articolo 25 di distruggere, guastare, deturpare i monumenti, gli oggetti insigni d'arte e d'antichità e le memorie storiche anche quando si trovino in proprietà private. Chi approva quest'articolo, sorga. (Approvato.) PRESIDENTE. Veniamo all'articolo 8°, che suona così: Art. 8. vietato alterare in qualunque modo e destinare monumenti o oggetti insigni per arte o per antichità appartenenti agli enti morali od alle pubbliche amministrazioni ad usi che si modifichino in alcun modo o li trasformino, senza il consenso delle autorità dal Ministero di Pubblica Istruzione a questo effetto costituite. PRESIDENTE. É aperta la discussione su questo articolo 8°. Se nessuno domanda la parola, lo metto ai voti. Chi approva quest'articolo, voglia alzarsi. (Approvato.)