Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Lezioni/XII. La forma dei «Promessi Sposi»

Da Wikisource.
LEZIONI
XII. La forma dei «Promessi Sposi»

../XI. Il mondo intenzionale e la concezione dei «Promessi Sposi»| ../XIII. La forma dei «Promessi Sposi» - Don Abbondio IncludiIntestazione 16 settembre 2020 75% Da definire

LEZIONI
XII. La forma dei «Promessi Sposi»
Lezioni - XI. Il mondo intenzionale e la concezione dei «Promessi Sposi» Lezioni - XIII. La forma dei «Promessi Sposi» - Don Abbondio
[p. 256 modifica]

Lezione XII

[LA FORMA DEI «PROMESSI SPOSI»]

La posizione di Manzoni dirimpetto alla sua concezione, l’abbiam veduta. Egli non è né il poeta dell’entusiasmo, né il poeta della disillusione: l’ideale che si presenta innanzi a lui, non è l’ideale non ancora provato nelle contraddizioni della vita e perciò capace di destare le più grandi illusioni; né l’ideale di fresco calato nella vita, profanato da essa e capace di destare i più grandi disinganni. Anzi dirimpetto a quella contraddizione egli non sente maraviglia, e cerca di comprenderla, e quindi il suo sguardo è accompagnato da quel risolino, proprio di Manzoni, che significa: io ti conosco.

Fissato questo carattere ironico della forma manzoniana, se ne cava una prima tendenza nel suo lavoro di formazione. In generale, i poeti idealisti, quelli cioè che lavorano intorno a un ideale, hanno tendenza a spiritualizzare il fatto materiale abbozzandone leggermente i contorni, a sprigionare l’ideale e farne sentire la presenza, mettendo in rilievo le impressioni e i sentimenti che esso genera. Manzoni invece ha tendenza a nascondere l’ideale, a calarlo nella realtà, nel fatto concreto, e a dargli un’apparenza talmente storica, esternamente, che voi possiate dire; — Ciò non è verosimile, ma è avvenuto; non è poesia, ma storia — .

È questo già un carattere della forma di Manzoni, che lo stacca in modo rilevante da tutta la poesia italiana antecedente. A me sembra che prima di Manzoni i grandi poeti italiani, [p. 257 modifica]compreso il Tasso che volea fondare il suo poema sulla storia, sieno stati grandi sognatori, o come dicono i Francesi, grandi rêveurs, e che la tendenza a realizzare l’ideale non si cominci a manifestare che nel modo come Manzoni dà vita e forma alla sua concezione.

Questo che fa? Per la tendenza contraria a quella degli altri poeti, mentre essi ingrandiscono le proporzioni del reale per avvicinarlo all’illimitato dell’ideale, Manzoni invece vuol misurare le proporzioni di esso e accostarlo al finito, al determinato della reatà, e ne nasce quella che dicemmo la «misura dell’ideale», in modo da farlo apparire reale, storico.

Ora si comprende ancora un passo ulteriore nella forma manzoniana. Manzoni in essa non cerca il sentimento o le impressioni, cerca la figura, o per dirla con linguaggio antico, il «plastico». Idee, sentimenti, impressioni in lui si traducono in immagini esterne. Né si contenta di darvi la figura, ma vuole analizzarla e spiegarla; e questa potenza di analisi, congiunta con la spontaneità e grandezza della sua immaginazione, costituisce la forza produttiva del poeta.

Vorrei farvi comprendere tutto questo insieme con qualche leggero paragone. In tutt’i poeti italiani c’è, sì, la tendenza a darvi la figura, ma in masso, in blocco, in modo che voi avete vivamente l’idea del tutto, ma non così delle parti. Per esempio. Dante, il grande scrittore di questa maniera, fa dire a Capaneo:


— ... Qual io fui vivo, tal son morto — .

Oppure di Farinata dice:

Ed ei s’ergea col petto e colla fronte,
Come avesse l’inferno in gran dispitto.

Che è lì? È la totalità che si presenta innanzi al lettore sotto quell’immagine particolare, e fa tale impressione, che ei non ha agio o pensiero di analizzare. Farinata appare all’improvviso come una forma piramidale, così fuori di ogni contorno e limite, che voi, impressionati dalla prima immagine gigantesca, non [p. 258 modifica]analizzate e le parti vi sfuggono. Questa è la poesia primitiva; oggi siamo troppo pieni di scienza e avvezzi all’analisi per concepire «in masso», come concepiva l’immaginazione de’ poeti primitivi. Cominciando il mondo moderno cominciò l’analisi, ed il dipingere «in blocco» parve barbaro.

Il primo fra gl’italiani che adoperò l’analisi fu, voi lo sapete, Niccolò Machiavelli. La sua grandezza è stata appunto questa, di aver tolto via le immagini sintetiche che rappresentavano il primo pensiero italiano, e cominciatane l’analisi. Egli iniziò in Italia un movimento di civiltà che fu presto affogato, e per tre secoli l’Italia rimase stazionaria, mentre Shakespeare analizzava le statue di Dante, mentre Goethe e Schiller penetravano ne’ fenomeni più delicati del cuore umano. I poeti nostri del secolo XVIII han forme sintetiche, quantunque pel contenuto siano moderni. Prendiamo per esempio la Teresa dello Jacopo Ortis di Foscolo, il poeta più vicino a Manzoni, e che morì nell’anno in cui comparvero i Promessi Sposi, il 1827. Qual differenza è fra Teresa e tutt’i personaggi di Manzoni? Ella è reminiscenza di Beatrice e di Laura, è uno di que’ personaggi appunto che ho detti «in masso»: la faccia che ha al primo apparire, la conserva fino all’ultimo; comunque si presenti, la trovate sempre la stessa in mezzo agli avvenimenti che si succedono intorno a lei.

Vediamo ora come Manzoni formi la figura e fermiamoci alla prima pagina. V’è la descrizione famosa di un ramo del lago di Como, portata fino alla strada per cui passa don Abbondio, e che sarebbe troppo lunga se messa in mezzo al racconto. Ma siccome questo non è cominciato ancora e non si sa quali fatti debbano succedere, il poeta si dà il piacere di descrivere quel luogo, perché nessun interesse di fatti lo distrae.

Se guardate alle descrizioni italiane in verso e in prosa, ci trovate la tendenza di togliere al luogo i caratteri un po’ speciali, pigliarne alcuni generali, e confondere questi con impressioni derivate da apparenze comuni in gran parte a tutto ciò che è natura, in guisa da produrre in voi ciò che si chiama godimento estetico, sicché diciate: — Questo è bello! questo è [p. 259 modifica]sublime! — . Anche oggi dura questa tendenza, e basta citare il Prati e l’Aleardi. Avete un luogo veduto al raggio di luna: la luna produce certi effetti di chiaroscuro sui vostri occhi; avete un non so che di romantico nella selva, nel bosco, nel lago; aggiungete il mormorio delle acque serpeggianti per la pianura, e via di seguito. Tutti questi sono caratteri poetici certamente, ma comunissimi, generalissimi, e non dànno una fisonomia ad un luogo sì che sia quello e non altro. Anche i paesisti fanno così, van cercando un effetto di luce, e trovatolo, credono di avere indovinato il paesaggio.

Manzoni non si dà pensiero degli effetti estetici di ciò che descrive, toglie dalla descrizione le generalità del luogo, delle impressioni, dei sentimenti, va lui a vedere ciò che deve descrivere, ad osservarlo ed esaminarlo bene. Per chi voglia rappresentare la natura, c’è un immenso repertorio che non poteva essere ignoto a Manzoni, il quale conosceva non solo la letteratura che chiamasi classica, i Latini e i Greci, ma anche la francese, la tedesca, l’inglese, l’italiana; e non c’è poeta che non abbia copiose immagini intorno alla natura. Egli uccide tutto quello che è repertorio ed abito convenzionale, per mettersi in immediata comunicazione con la natura viva e, come si dice, ritrarre dal vero, non badando ai modelli che gli dánno gli altri poeti.

E non basta. C’è il vero comune, ordinario, come si vede da spettatori che non hanno ingegno poetico; e se Manzoni nemmeno lo avesse, vi darebbe appunto il vero superficiale, la scorza. I nostri poeti infatti, se hanno ingegno poetico oltrepassano il vero, se non l’hanno si rimangono nella scorza. Egli, con quella tendenza stessa con la quale Machiavelli diceva che la morale non è da cercarsi nei libri ma nel mondo effettuale, ha in sé sviluppato il talento dell’osservazione, quasi una seconda vista: quel veder le cose non superficialmente, ma cogliendone i fenomeni più fuggevoli e intimi che spariscono alla vista dell’uomo grossolano.

Vediamo ora la descrizione. Un ramo del lago di Como giunge a un punto in cui le rive si restringono, il lago cessa, comparisce [p. 260 modifica]il fiume; c’è un ponte al luogo che segna il passaggio fra il fiume e il lago. Questa è un’osservazione speciale, fatta da uno che sta sul luogo: uno scrittore dozzinale, vedendo il ponte, si sarebbe distratto, avrebbe cercato di rappresentare il ponte, i villaggi sparsi per le rive, le proprie impressioni, ecc. Manzoni invece è quasi un naturalista che vuol mettervi innanzi, non solo, ma spiegarvi quel fatto. Il suo occhio osserva senza alcuna intenzione poetica, e segue così: c’è la poesia, ma quando si presenta da sé. L’autore non deve cercarla e ficcarla nella descrizione per forza, deve descrivere col sentimento dello storico, deve essere come uno specchio per dare l’idea di ciò che in esso si riflette, e se nel luogo descritto si presenta un momento estetico, è il benvenuto.

In questa descrizione i particolari topografici sono tanti che vi costringono a leggere due volte lo stesso periodo per comprendere bene la figura, e non vi lasciano campo per cercare l’effetto estetico. Viene però il momento per questo; e vedremo come fa allora l’autore.

Le descrizioni italiane in generale, difficilmente si tengono a memoria. Per esempio quelle di Annibal Caro, nelle sue Lettere e nella traduzione di Longo Sofista, e le descrizioni del Bartoli, dopo averle lette tre o quattro volte, vi lasciano l’idea del luogo descritto? No, per quelle generalità poetiche di cui vi ho detto, perché i contorni sono appena abbozzati e non potete farvene l’immagine. Questa, letta un par di volte con attenzione, non si può dimenticare più perché ci è l’osservazione e la compiuta realtà dei luoghi, non solo, ma anche perché colui il quale osserva, volendo rendersene conto, comprende e segue il cammino della natura. Nella descrizione c’è un disegno: l’autore dopo le prime impressioni c’è tornato su e le ha ordinate.

Il lago a un punto dov’è il ponte divien fiume; come si allargano le rive, l’acqua si allarga e torna il lago. Tutto ciò Manzoni lo dice e lo spiega, aggiungendo perché si allarga l’acqua, perché forma il fiume, perché torna ad essere lago. La riviera è formata da tre torrenti, e per darvene l’idea, si parla [p. 261 modifica]d’uno di essi che piglia origine da un monte che i Lombardi dicono Resegone, perché colla cresta fatta a sega. I tre torrenti rompono la riviera riempiendola di ghiaia e ciottoli, poi essa piglia forma di terra, e qua è una valle, là un poggio, là una spianata, più su un’erta: «secondo l’ossatura dei due monti e il lavoro dell’acque», dice Manzoni, perché a ogni cosa aggiunge la spiegazione; valloncelli, poggi, per cui sono sparsi villaggi, tra i quali nomina il principale. Lecco. Non è una descrizione immobile, egli accompagna a poco a poco la natura nel suo cammino. Il lago si allontana ed egli descrive la terra, nella quale sono interessanti le strade tra i monti, alcune affondate in modo da lasciar vedere appena un pezzo di cielo o di monte, altre su terrapieni da cui si gode d’una vista più o meno bella e larga. Di lassù vedesi il lago prima descritto da vicino: ora ei lo guarda da lontano, e non cerca afferrare una veduta poetica qualunque, ma mostrare tutte le diversità che presenta l’aspetto di esso, che ora più, ora meno esteso tra i monti, ne riflette i villaggi, poi si dirada a poco a poco, serpeggia, sinché si perde nell’orizzonte. Due vedute complessive del lago che si possono sciogliere in speciali: ecco la descrizione. Dopo averla letta, non potete dimenticarla, perché c’è una successione come se fosse un’azione. C’è qualche movimento estetico? Ci è, perché quando l’autore l’incontra ci si ferma, e ve l’ho già indicato. È la vista del lago, del cielo, dei villaggi da un’erta: non v’ha nulla di più poetico. Come rappresenta questo movimento estetico? Non vi dice le impressioni che si possono sentire lassù, ma abbozza le figure di ciò che si può vedere di là, lasciando a voi la cura di averne impressioni e sentimenti. Così il plastico rimane il fondo di questa descrizione, anche là dove sarebbe luogo per le impressioni e i sentimenti.

Il caratteristico della forma manzoniana è, dunque, il «plastico analizzato». Come si chiama la facoltà che la produce? La facoltà produttiva ha tre gradi: talento, ingegno, genio. Fino a quale altezza la facoltà informatrice di Manzoni si eleva?

Il «talento» è la vita meccanica, il combinare idee, fatti, sentimenti, impressioni meccanicamente; ci riescono anche i [p. 262 modifica]diocri. Così diciamo: talento di osservazione, perché ciascuno che ha occhi può osservare più o meno: l’osservare è un talento. In poesia il talento è immaginare una totalità, coordinarne le parti, serbare l’armonia fra esse, fare che non vi sieno dissonanze, ed anche un po’ carezzare la frase, colorire le immagini, fi la poesia degli uomini mediocri, de’ poeti di second’ordine come il Prati e l’Aleardi. Non c’è l’ingegno, né a maggior ragione il genio; e si spiega perché dopo Ariosto e Tasso, per esempio, segua una lunga schiera d’imitatori, scrittori mediocri.

L’«ingegno» è di pochi, ed un paese si onora quando rispetta quelli a cui si può applicare questa parola. È la vista interna, nel di fuori guardare il di dentro. Goethe dice: — Il tesoro s’ha da cercare nelle profondità della terra — ;e Heine dice: — La scienza s’ha da cercare nelle profondità della natura — . Questo squarciare la superficie e vedere ciò che di spirituale o di segreto motivo è nel di dentro, ecco la vista dell’ingegno. L’ingegno del poeta non è soltanto una vista dall’alto e da lungi come quella del filosofo e del naturalista: è una forza produttiva. Non solo spiega la vita, ma la produce. Perciò pel poeta non basta vedere bene i caratteri, la parte psicologica: ciò che basta al filosofo; egli deve avere la volontà di riprodurre e mettervi innanzi quella parte. Chi ha questa forza ha veramente la volontà della produzione; quando l’uomo ha la forza di far certe cose, nasce in lui la volontà di farle, e se non le fa rimane insoddisfatto. Un poeta cui quella forza manchi, difetta di calore, produce il secco, l’arido, è debole nel colorito: come il Gravina nelle sue tragedie. Nell’arido sentite che lo scrittore mentre produceva si annoiava, rimaneva fuori della sua produzione, e siccome il poeta riflette generalmente sul lettore le stesse impressioni che sente lui mentre produce, ciò che annoia lo scrittore e lo distrae, annoia e distrae il lettore. All’opposto supponete una forza produttiva che sia una velleità, sì che il poeta deve produrre con fatica; allora non potendo cogliere il vero, lo esagera, va nel gonfio, nell’esagerato. Nella sua produzione sentite la fatica, lo sforzo; e ne è indizio la mancanza di

brio e di facilità. [p. 263 modifica]
La volontà e il piacere della produzione costituiscono il «genio» o la «genialità». Il genio non è, come volgarmente si dice, la qualità superlativa dell’ingegno. In fatto di genio non è questione di quantità ma di qualità: è cosa sui generis, che non ha nulla a fare coll’ingegno. Non è la visione, il vedere l’oggetto, ma la volontà, il piacere di rifarlo e riprodurlo al di fuori. Perciò si dice d’uno che faccia qualche cosa: — Ha il genio di farla — ; cioè la fa quasi per compiere se stesso. Ciò dà il marchio al grande poeta.

Quando v’è il segno esterno, accessibile a tutti, della genialitá? Quando qualunque opera dello scrittore è cancellata nella sua produzione senza lasciare orma di sé, quando la produzione rimane se stessa, ciò che di più spontaneo è nello scrittore. Se v’accorgete di qualcosa estranea, a lei venuta dallo scrittore, là non è genialità, là si vede la fatica e la noia di lui. I poeti geniali sono pochi. Il più geniale in Italia è Ludovico Ariosto, dopo di lui si può mettere con ragione Alessandro Manzoni: propria della sua produzione è appunto questa genialità. È per altri rispetti inferiore a Dante, a Petrarca, ecc, ma pel brio e la facilità di produrre, è difficile porgli a fronte nessuno, e in questo mi pare oltrepassi anche Goethe, nelle cui opere vedete spesso il filosofo, l’uomo di mondo che oltrepassa lo scopo della produzione.

Qual’è la più geniale delle sue creature? Ne avete già il nome sulle labbra, don Abbondio: essa è la più perfetta uscita dall’immaginazione di Manzoni. Egli comparisce pel primo in iscena, dopo la descrizione del lago. Per una di quelle stradicciuole che serpeggiano su pe’ monti, va don Abbondio: noi non sappiamo ancora chi sia; ma a ciò bastano due o tre periodi. Voi, che in massima parte venite da piccoli paeselli, potete comprendere don Abbondio. Avete certamente veduto certi buoni preti a passeggiare la campagna, recitando l’ufficio, e mettendovi l’indice quando lo chiudono, per non disperdere la pagina. Camminano oziando, e non sapendo che altro fare, gettano i ciottoli co’ piedi; van girando, e siccome han la testa vuota, guardano con indifferenza ne’ luoghi più poetici. Innanzi a [p. 264 modifica]don Abbondio è un magnifico spettacolo. È verso sera, la luce del sole scomparso per i fessi di un monte si dipinge nei massi del monte opposto come a pezze di porpora; ci è il lago, ci sono i monti. Don Abbondio si ferma macchinalmente, e poi riapre l’ufficio tranquillamente. Quello spettacolo non produce in lui nessuna impressione.

Ora voi non sapete come vesta, che faccia abbia, ma l’avete tutto innanzi, e non mediante riflessioni, ma con particolari plastici, e certi atti che per lo più non si notano e Manzoni ha presi dal vero e messi in rilievo, atti caratteristici che rappresentano tutto l’interno d’un personaggio.

Questo aver messo in ridicolo un prete spiacque ai divoti, ed anche Manzoni piú tardi c’ebbe scrupolo. Pur di qua è uscito il suo personaggio più popolare.

        [Nel Pungolo, 10-11 maggio 1872].