Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d'oro e d'argento dove non sono miniere/Parte terza/Capitolo IV

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CAPITOLO IV

Delli espedienti proposti come crescere la moneta propria
o bassarla di peso o di lega.

Tutti doi questi espedienti dice il detto De Santis nel suo Discorso siano stati proposti da altri, e tutti li reproba; ma si diffonde piú in reprobare il primo che il secondo, quale reproba per ragione di disconvenienza, stante la grandezza di Sua Maestá e che si levarebbe il commercio al Regno. In quanto alla prima ragione si potria concedere in alcun modo, ma la seconda non è vera, come si è visto nelle cittá e Stati dove è corsa e corre la moneta di lega bassa, che non per questo si è tolto il commercio, né vi è ragione che si debba togliere; ma vi sono altre ragioni potentissime, di quali si deve tenere conto piú che di queste. La prima è che contradice alla giustizia, quale vuole che la moneta apporti l’utilitá non nella forma, ma nella materia, come dice la legge prima nelli Digesti nel titolo De contrahenda emptione: sí che la materia non apportaria l’utilitá in quella, ma la forma, contra la disposizione della legge predetta. Secondo, daria occasione di far delitti contra il principale oggetto della giustizia, poiché saria occasione a fabricarsi moneta falsa piú facilmente. Terzo, daria danno grande a’ sudditi, oltre di quello che si è detto; ché, portandosi fuora, non si [p. 217 modifica]spenderia neanco per quello che vi fusse d’argento, e il simile interverrebbe al prencipe, se gli occorresse servirsene per fuora del suo regno, perché non se ne potria servire; e ultimamente contiene e causa maggiormente in sé tutti gl’inconvenienti, che causa il crescere la moneta o bassarla di peso.

E, se mi si dicesse che gli altri prencipi dell’Italia l’han fatto e fanno, come Venezia, Genoa e altri signori di Lombardia e di Toscana, e non ha generato alcuna delle cose predette, e che questo è causa di non fare estraere la moneta propria per fuora, lo che si cerca: rispondo che non è vero che da prencipe d’Italia si sia fatto mai tutta la moneta di lega bassa o maggior parte, ma solo una parte della moneta picciola e in poca quantitá, conforme li Stati loro, per commoditá di spendere e cambiare le monete grosse; ma le monete grosse e in quantitá, che serveno per trafichi e negozi e per servirsene per fuora, sempre sono state e sono non solo di lega eguale a questa di Napoli, ma assai megliore, che vi è differenza circa la terza parte tra lega e lega, fuorché quella di Roma, che è di pochissima differenza peggio. E chi se ne vuol chiarire, può far fare la prova d’ogni moneta grossa d’Italia, o sia Venezia, o Milano, o Fiorenza, o Genoa, o Parma, o Mantua, o altre, con quella di Regno, ché ritrovará tutta essere migliore di quella di Regno, come ho detto. E, con tutto ciò che Venezia ha dismesso di far la moneta picciola di lega bassa, come son le lire e li marcelli e altre simili, non per ciò vitupero che per le monete picciole, e in quella quantitá che sono bastanti per cambiare conforme la grandezza del Stato del prencipe, si facessero, non dico di lega bassa, ma di rame scietta, nella quale solamente la forma e non la materia apportasse d’utile, perché questo resultaria in beneficio d’alcuna considerazione del prencipe e non genereria alcuno delli predetti inconvenienti, e in ogni caso saria facilissima la provisione che non li generasse, e cosí ancora che non causasse che altri la facesse: quale provisione taccio, per non trattarsi di questa materia. Come all’incontro dico che non è espediente al prencipe o al regno far fare tanta quantitá di moneta piccola, che corra ordinariamente, anzi sia la maggior, [p. 218 modifica]per non dir sola, che corra in negozi, e, oltre l’incommoditá grande, è facilissima a tagliarsi e falsificarsi: ché, se a far quella move alcuno utile, per essere manco di peso a rispetto delle grosse, manco mal saria fare meno di peso una qualitá sola de le grosse, e avere tutto l’utile Sua Maestá e non partirlo con mercanti e artefici di zecca. Sopra lo che non dico altro, per non essere del mio proposito.

In quanto al crescere il prezzo alla moneta propria o bassare il peso, dico che, quando si devesse fare per alcuno espediente, bassare il peso è piú a proposito, né è vera alcuna delle ragioni apportate dal detto per la reprobazione.

E, incomminciando dalla prima che dice, che, bassandosi il peso, rovineria il mondo, perché si disordinaria tutta l’Europa, giaché tutta ha al detto argento stabilito un medesimo prezzo sotto diverse qualitá di moneta; questa ragione non è di considerazione alcuna.

Prima, ché, se detto bassare di peso causasse un tanto beneficio di fare abbondare il Regno d’argento, poco si dovria curare dello disordine delli Stati altrui. E in questo si contradice a rispetto di aver lodato la provisione di Marco Antonio Colonna, che, per fare abbondare Sicilia di monete, crebbe la valuta del ducato napolitano cinque per cento; quale provisione, secondo lui, causò che li danari di Regno andassero in Sicilia, e non si curò del disordine o danno d’altro regno, e pure era del medesimo patrone: del che si è ragionato di sopra.

Secondo, non so donde procederia questo disordine di tutta Europa da questo bassare di peso, perché le monete di Regno si può dire che in nisciuna parte d’Italia siano pratticabili fuorché in Roma e Sicilia, dove se ne ritrova alcuna puoca: in altre cittá d’Italia non ve ne è alcuna quantitá, che, se ve ne ritrovasse un migliaro o che ve ne andasse, saria il piú. E, per farli conoscere questo suo pensiero essere falso, si dice che la ragione per la quale fonda il disordine è falsa. Poiché dice essere la causa che tutta l’Europa ha stabilito un medesimo prezzo all’argento, e questo non è vero; e, se fusse vero con gli altri paesi, non è vero con il Regno, essendo [p. 219 modifica]difforme il prezzo dell’argento statuito in Regno da quello, non dico delle parti lontane della medesima Europa, ma delle vicine, come è dell’Italia medesima, essendo piú valutado l’oro e l’argento in Regno di qualsivoglia parte d’Italia, come si è detto nella prima parte. E per li pertinaci si porta l’esperienza doppia per prova che la moneta di tutta l’Italia vaglia meno nelli Stati propri che in Regno, e all’incontro le monete di Regno vagliono assai piú in Regno che in altri luochi d’Italia, perdendo quasi diece per cento pertutto, e quelle d’Italia avanzando poco meno in Regno: che, portando moneta di Regno o in Roma o in Venezia o Fiorenza, non averá la ragione di grana diece per carlino, ma al piú nove; e all’incontro, portando la moneta di Venezia, Fiorenza, Milano e altri Stati, il scudo d’argento, che pertutto vale lire sette, che sono carlini diece e mezzo, in Napoli si vende undeci e undeci e mezzo al presente; sí che non vi è l’equalitá del prezzo, e pure non genera disordine alcuno.

La seconda: che generaria grosso danno al re, per le grosse entrate che vi tiene, questo succederia quando il re estraesse l’entrate fuora Regno; ma, mentre non l’estrae, anzi ve ne remette piú volte argento, come può generare danno, mentre ha sempre il medesimo, restando in Regno la moneta? E che il remedio non sia sufficiente, perché l’altre cittá d’Italia aguagliariano al peso di queste le loro monete, si risponde che, quando il remedio giovasse, non per la detta ragione si deve lasciare di fare.

Prima, perché questa medesima ragione ostava al suo remedio di sbassare il cambio, e pur consultò che si sbassasse.

Secondo, perché è incerto quel che ha da seguire, e non si deve lasciare il certo per l’incerto, principalmente quando quello incerto, seguendo, non può apportare altro danno, come saria nel caso presente, che, dato che l’altre cittá sbassassero, non vi saria altro pericolo che di stare come stava.

Terzo: la veritá, quale è una in sé, nell’opinione e intelletto delli uomini è diversa, ché alcuno intelletto conoscerá la bugia per veritá e la veritá per bugia, e di questa qualitá abbonda infinitamente il numero, a proporzione di quelli che conoscano la [p. 220 modifica]veritá per veritá e la bugia per bugia. Come, in questo particolare istesso della moneta, potrei addurre essempio chiaro d’alcuna cittá d’Italia, che si governa d’altro modo che l’altre cittá con molto suo utile: nientedimeno dagli altri Stati non è conosciuto e non la imitano. Quale si tace, perché non è bene publicare cose manifeste, mentre l’autoritá e forza dell’ignoranza (della quale, se piace a Idio, si trattará nel libro Della forza dell’ignoranza) le tiene per secrete e occulte, atteso la medesima autoritá operaría che nulla giovasse il palesarlo, con apportar danno all’autore. Perciò, ritornando al mio proposito, dico che non vi è certezza che questo si dovesse esseguire non conoscendosi.

Quarto: ancorché si conoscesse, non séguita che, giovando questo remedio al Regno, giovasse all’altre cittá d’Italia, per le diverse condizioni dell’uno e dell’altro; come si vede che alcune medicine a alcuni giovano, e ad alcuni le medesime nuoceno, e ad alcuni altre cose sono nutrimento, che universalmente ad altri son veneno. E, acciò non si pensi che si parli in aria con similitudini lontane, s’applicherá nell’istesso particolare: che, essendo espediente al Regno, potria seguire che non fusse espediente agli altri, ma danno, il sbassar la moneta di peso; come con effetto saria, e la ragione recerca, per le diverse condizioni del Regno con l’altre cittá, principalmente per il defetto dell’accidente del trafico, il quale, come si è detto, nel Regno è a rispetto di se medesimo e non d’altre parti, essendo il contrario all’altre cittá d’Italia, nelle quali vi è l’accidente del trafico a rispetto d’altri luochi. E sopra si è detto che semplicemente l’estrazione della moneta è espediente alli Stati, e dove è piú trafico tanto piú è espediente, e perciò è libera l’estrazione in detti luochi; e dove l’estrazione è libera e vi è il detto accidente del trafico, non torna il conto sbassare il peso alla moneta, perché viene con effetto a proibire l’estrazione, quale proibizione, come si è provato, genera danno, nuocendo all’accidente del trafico, lo che non segue in Regno, nel quale, come si è detto, non vi è l’accidente predetto, e, per li disordini nati, l’estrazione, che giova all’altre parti d’Italia, al Regno nuoce: [p. 221 modifica]donde per questa ragione è chiaro che, giovando il remedio di sbassar la moneta, non ostaria alcuna delle predette ragioni.

Ma, dovendosi determinare se questo remedio è espediente, bisogna discorrere d’altra maniera. E prima, che beneficio genera universalmente al Regno. Secondo, che disordine può causare effettivamente. Terzo, se si può dare remedio a’ detti disordini.

In quanto al primo, se si vuol dire che questo facesse abbondare il Regno di moneta con farvene venire, si ha da vedere se si sbassa il peso della moneta propria e si lascia come stava il prezzo della forastiera, e cosí si viene a sbassare il prezzo di quella a rispetto della propria: questo non può generare che venga moneta piú di quella che vi veneva, perché, vi perde, e, se non vi perde, non vi guadagna.

Se si dice che si cresce alla forastiera conforme si sbassa la propria: e questo non altera cosa alcuna a rispetto della moneta forastiera, ma la lascia come stava e non può operare nuovo accidente; e tanto piú, quanto sopra si è provato che crescere il prezzo alla forastiera non produce l’effetto dell’abbondanza, anzi della penuria, ancoraché venga il denaro in Regno per qualsivoglia rispetto. Sí che il remedio non è espediente per questo effetto.

Se si dice, come il predetto asserisce, che non lascia andare la moneta fuora Regno: questo non è remedio per fare abbondare, ma per conservare; e questo bastaria alli Stati che sono ricchi e abbondanti, che hanno donde ne vengano, e non a quelli che sono poveri e bisognosi. Né meno questo remedio per conservare quelli pochi che sono in Regno saria sufficiente, perché saria sufficiente quando l’estrazione si facesse a rispetto del guadagno, ché in tal caso il sbassare di peso saria a proposito, perché non la faria uscire (si bene questo non uscire genera danno e non utile). Ma in Regno non vi è questo, come si è detto, e l’estrazione in Regno si faria a altro rispetto che per il guadagno; né vi è parte in Italia che, portandosi, non si perda, e il principale timore dell’estrazione, che genera danno necessariamente, è per l’entrate e industrie di forastieri, che per tale [p. 222 modifica]rispetto la proibizione si è approbata in Regno, essendo reprobata generalmente; e, facendosi l’estrazione per tal rispetto, poco giova il sbassare di peso, perché ognuno si contenta perdere meglio diece per cento che tutti li cento, né il remedio del cambio giovaria: lo che non discorro per non dilatarmi fuora di proposito.

E in questo si è visto l’esperienza se è vero che si estraa mentre pur vi si perde, e gli anni passati fu piú chiaro, mentre fu penuria di fromento, che, non ostante, come si è detto, la moneta sia piú cara, con tutto ciò li patroni del grano la saglîrno a diece per cento per ritrovarla e portarnela, perché si era permessa l’estrazione in tal caso; e a questo rispetto può operare piú la proibizione che il sbassare. È dunque chiaro il bassare non posser produrre abbondanza se non con alcune condizioni, o, per dir meglio, giovare e concorrere con altre provisioni; e poco o nulla d’effetto fará per conservarla a rispetto della causa predetta sola, ma sí bene con l’altre potria essere di molto beneficio al prencipe senza danno del Regno, facendosi alcune provisioni necessarie. Né mi si dica che, essendo sbassato il peso, li mercanti portaranno argento o la moneta forastiera per far della propria sbassata: ché questa ragione si contiene nelle considerazioni dette di sopra, e faria piú presto impoverire che abbondare, non essendo in Regno l’accidente del trafico, eccetto a rispetto di se medesimo; e si è concluso la moneta, che viene a rispetto del trafico di se medesimo, se è cresciuta, generare penuria e non abbondanza, e, essendovi li disordini predetti, che li potria aumentare. E non occorre trattarne di nuovo e piú di quel che si è detto, per non replicare il medesimo. Sí che si concluda non essere espediente di sbassar la moneta propria di peso o crescere di valuta per gli effetti predetti, se non correno altre provisioni.

Ma, perché si potria dire che, se bene non genererá li benefici predetti, mentre non genera disordine, che si potria provare questo remedio per la ragione detta di sopra, perciò si ha da vedere che disordini importanti generaria.

Il disordine principale, che potria causare il sbassare il peso alla moneta propria, saria l’alterazione del prezzo delle robbe, [p. 223 modifica]tanto di quelle che sono in Regno quanto di quelle che vengono da fuora in Regno; poiché, apprezzandosi ogni cosa per la moneta, alterato il prezzo o peso di quella (che è il medesimo), in consequenzia viene ad alterare il prezzo della robba.

Il secondo disordine è quello, che si è detto, di causare la bassezza della lega, che non apportaria utilitá nella materia, ma nella forma, e contradiria alla giustizia, dandoli maggior prezzo del giusto; e questo causaria l’altro disordine, che si disse, dell’istessa lega bassa, che portaria danno a’ sudditi e al prencipe in tempo che se ne volesse servire per fuora Regno.

E questi sono quelli disordini che potria causare, delli quali alcuni si possono reparare con provisioni, e alcuni, stante l’ordine del Regno, poco o nulla farian di danno al Regno. E si discorreria il modo, quando questo sbassar di peso potesse causare abbondanzia di moneta; ma, causando solo conservazione a rispetto della perdita che vi saria estraendola in alcuna parte, intanto bisogna trattar di questo remedio in tempo che si è dato modo di fare abbondare il Regno di monete; e poi, volendosi servire di detto remedio per conservarla con utile del prencipe, si ritrovaria modo che repararia ad alcuno delli detti inconvenienti, e gli altri si faria conoscere non fare danno al Regno.