Canti (Leopardi - Donati)/Appendice/I.III.IV.II

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Appendice - I.III.IV

II
Annotazioni

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Appendice - I.III.IV.I Appendice - I.IV
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ii. — Annotazioni


Non credere, lettor mio, che in queste annotazioni si contenga cosa di rilievo. Anzi, se tu sei di quelli ch’io desidero per lettori, fa’ conto che il libro sia finito; e lasciami qui solo co’ pedagoghi a sfoderar testi e citazioni, e menare a tondo la clava d’Ercole, cioè l’autoritá, per dare a vedere che anch’io cosí di passata ho letto qualche buono scrittore italiano, ho studiato tanto o quanto la lingua nella quale scrivo, e mi sono informato all’ingrosso delle sue condizioni. Vedi, caro lettore, che oggi in Italia, per quello che spetta alla lingua, pochissimi sanno scrivere, e moltissimi non lasciano che si scriva; né fra gli antichi o i moderni fu mai lingua nessuna civile né barbara cosí tribolata a un medesimo tempo dalla raritá di quelli che sanno, e dalla moltitudine e petulanza di quelli che, non sapendo niente, vogliono che la favella non si possa stendere piú lá di quel niente. Co’ quali, per questa volta e non piú, bisogna che tu mi dii licenza di fare alle pugna come s’usa in Inghilterra, e di chiarirli (sebbene, essendo uomo, non mi reputo immune dallo sbagliare) che non soglio scrivere affatto affatto come viene, e che in tutti i modi non sará loro cosí facile come si pensano, il mostrarmi caduto in errore.


CANZONE PRIMA

ALL’ITALIA.


St. VI, v. 10.       Vedi ingombrar de’ vinti1
(v. 110)       la fuga i carri e le tende cadute.

Cioè «trattenere», «contrastare», «impacciare», «impedire». Questo sentimento della voce «ingombrare» ha due testi nel Vocabolario della Crusca; ma, quando non ti paressero chiari, accompagnali con quest’altro esempio, ch’è del Petrarca2:

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Quel si pensoso è Ulisse, affabil ombra,
che la casta mogliera aspetta e prega;
ma Circe amando gliel ritiene e ’ngombra.

Dietro a questo puoi notare il seguente, ch’è d’Angelo di Costanzo3: «Che quel chiaro splendor ch’offusca e ingombra, Quando vi mira, ogni piú acuto aspetto (cioè vista), D’un’alta nube la mia mente adombra». Ed altri molti ne troverai della medesima forma, leggendo i buoni scrittori; e vedrai come anche si dice «ingombro» nel significato d’«impedimento» o di «ostacolo»; e se la Crusca non s’accorse di questo particolare, o non fu da tanto di spiegarlo, tal sia di lei.

St. VI, v. 12.      E correr fra’ primieri
(v. 113)      pallido e scapigliato esso tiranno.

Del qual tiranno il nostro Simonide avanti a questo passo non ha fatto menzione alcuna. Il volgarizzatore antico dell’Epistola di Marco Tullio Cicerone a Quinto suo fratello intorno al proconsolato dell'Asia4: «Avvegnacch’io non dubitassi che questa epistola molti messi, ed eziandio essa fama, colla sua velocitá vincerebbono». Queste sono le primissime parole dell’epistola. Similmente lo Speroni5 dice che «amor vince essa natura» volendo dir «fino alla natura».

Ivi, v. 14.           Ve’ come infusi e tinti
(v. 114)      del barbarico sangue.

«Infusi» qui vale «aspersi» o «bagnati». Il Casa6: «E ben conviene Or penitenzia e duol l’anima lave De’ color atri e del terrestre limo Ond’ella è per mia colpa infusa e grave». Sopra le quali parole i comentatori adducono quello che dice lo stesso Casa in altro luogo7: «Poco il mondo giá mai t’infuse o tinse, Trifon, nell’atro suo limo terreno». Ho anche un esempio simile a questi del Casa nell’Oreficeria di Benvenuto Cellini8, ma non lo tocco, per rispetto d’una lordura che gli è appiccata e non va via.

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Ivi, v. 18.            . . . Evviva, evviva9.
(v. 118)

L’acclamazione «viva» è portata nel Vocabolario della Crusca, ma non «evviva». E ciò non ostante io credo che tutta l’Italia, quando fa plauso, dica piuttosto «evviva» che «viva»; e quello non è vocabolo forestiero, ma tutto quanto nostrale, e composto, come sono infiniti altri, d’una particella, o vogliamo, interiezione italiana, e d’una parola italiana, a cui l’accento della detta particella o interiezione monosillaba raddoppia la prima consonante. Questo è quanto alla puritá della voce. Quanto alla convenienza, potranno essere alcuni che non lodino l’uso di questa parola in un poema lirico. Io non ho animo d’entrare in quello che tocca alla ragion poetica o dello stile o dei sentimenti di queste canzoni, perché la povera poesia mi par degna che, se non altro, se l’abbia questo rispetto di farla franca dalle chiose. E però taccio che laddove s’ha da esprimere la somma veemenza di qualsivoglia affetto, i vocaboli o modi volgari e correnti, non dico hanno luogo, ma, quando sieno adoperati con giudicio, stanno molto meglio dei nobili e sontuosi, e danno molta piú forza all’imitazione. Passo eziandio che in tali occorrenze i principali maestri (fossero poeti o prosatori) costumarono di scendere dignitosamente dalla stessa dignitá, volendo accostarsi piú che potessero alla natura, la quale non sa e non vuole stare né sul grave né sull’attillato quando è stretta dalla passione. E finalmente non voglio dire che se cercherai le Poetiche e Rettoriche antiche o moderne, troverai questa pratica, non solamente concessa né commendata, ma numerata fra gli accorgimenti necessari al buono scrittore. Lascio tutto questo, e metto mano all’arme fatata dell’esempio. Che cosa pensiamo noi che fosse quell’«Io» che troviamo in Orazio due volte nell’ode seconda del quarto libro10, e due nella nona dell’Epodo?11. Parola, anzi grido popolare che non significava altro se non se indeterminatamente l’applauso (come il nostro «viva»), o pure la gioia: la quale, per essere piú rara e breve delle passioni, è fors’anche la piú frenetica; e per questo e per [p. 179 modifica]altri molti rispetti, che non si possono dare ad intendere ai pedagoghi, mette la dignitá dell’imitazione in grandissimo pericolo. E i greci, ai quali altresì fu comune la detta voce, l’adoperavano fino coi cani per lusingarli e incitarli, come puoi vedere in Senofonte nel libro della Caccia12. E nondimeno Orazio, poeta coltissimo e nobilissimo, e cosí di stile come di lingua ritiratissimo dal popolo, volendo rappresentare l’ebbrietà della gioia, non si sdegnò di quella voce nelle canzoni di soggetto più magnifico.


CANZONE SECONDA

SOPRA IL MONUMENTO DI DANTE CHE SI PREPARA IN FIRENZE.

pag. 8.


St. IV, v. 1.       Voi spirerá l’altissimo subbietto.
(V. 53)

Io credo che s’altri può essere spirato da qualche persona o cosa (come i santi uomini dallo Spirito santo13), ci debbano esser cose e persone che lo possano spirare; e tanto piú che non mancano di quelle che «lo ispirano»; se bene il Vocabolario non le conobbe; ma te ne possono mostrare il Petrarca, il Tasso, il Guarini e mille altri. Dice il Petrarca14 in proposito di Laura: «Amor l’inspiri In guisa che sospiri». Dice il Tasso15: «Buona pezza è, signor, che in sé raggira Un non so che d’insolito e d’audace La mia mente inquieta: o Dio l’inspira; O l’uom del suo voler suo dio si face». Ed altrove16: «Guelfo ti pregherà (Dio sí l’inspira) Ch’assolva il fier garzon di quell’errore». Dice il Guarini17: «Ché bene inspira il cielo Quel cor che bene spera». Aggiungi le Vite dei santi padri: «il giovane inspirato da Dio»18, «Antonio inspirato da Dio»19, «uno scelleratissimo uomo inspirato da Dio»20, e simili. Anche i versi [p. 180 modifica]infrascritti convengono a questo proposito, i quali sono del Guidi21. «Vedrai come il mio spirto ivi comparte Ordini e moti, e come inspira e volve Questa grande armonia che ’l mondo regge». E il Guidi fa annoverato dagli accademici fiorentini l’anno 1786 fra gli scrittori che sono o si debbono stimare autentici nella lingua.


St. VIII, v. 14. Qui l’ira al cor, qui la pietate abbonda.

Il Sannazzaro nell’egloga sesta dell’Arcadia22: «E per l’ira sfogar ch’al core abbondami». Non credere ch’io vado imitando appostatamente, o che, facendolo, me ne pregiassi e te ne volessi avvertire. Ma quest’esempio lo reco per quelli che dubitassero, e dubitando affermassero, com’è l’uso moderno in queste materie, che «abbondare» col terzo caso, nel modo che lo dico io, fosse detto fuor di regola. E so bene anche questo, che fra gl’italiani è lode quello che fra gli altri è biasimo, anzi per l’ordinario (e singolarmente nelle lettere) si fa molta piú stima delle cose imitate che delle trovate. In somma negli scrittori si ricerca la facoltá della memoria massimamente; e chi piú n’ha e più n’adopera, beato lui. Ma contuttociò, se paresse a qualcuno ch’io non l’abbia adoperata quanto si richiedeva, non voglio che le annotazioni o la fagiolata che sto facendo mi levi nessuna parte di questo carico. Circa il resto poi, la voce «abbondare» importa di natura sua quasi lo stesso che «traboccare», o in latino «exundare»; secondo il quale intendimento è presa in questo luogo della canzone, e famigliare ai latini del buon tempo, e usata dal Boccaccio nell’ultimo de’ testi portati dal Vocabolario sotto la voce «abbondante».


St. X, v. 16.       Al cui supremo danno
(v. 169)       il vostro solo è tal che rassomigli23.

Io credo che se una cosa può «somigliare a un’altra», «le» debba potere anche «rassomigliare», e parimente «assomigliarle» o «assimigliarle», oltre a «rassomigliarsele» o «assomigliarsele», [p. 181 modifica]o «assimigliarsele»; e tanto piú che io trovo «le viscere delle chiocciole terrestri», non «rassomigliantisi», ma «rassomiglianti a quelle de’ lumaconi ignudi terrestri»24, e certi «rettori assomiglianti a’ priori» di Firenze25, e il cielo «assimigliante quasi ad immagine d’arco»26. Oltracciò vedo che le cose alcune volte «risomigliano» e «risimigliano» l’une «all’» altre.


St. XI, v. 13.       Dimmi, né mai rinverdirá quel mirto
(v. 184)       che tu festi sollazzo al nostro male?27.

Io so che a certi, che non sono pedagoghi, non è piaciuto questo «sollazzo»: e tuttavia non me ne pento. Se guardiamo alla chiarezza, ognuno si deve accorgere a prima vista che il «sollazzo» de’ mali non può essere il «trastullo» né il «diporto» né lo «spasso» dei mali; ma è quanto dire il «sollievo», cioè quello che propriamente è significato dalla voce latina «solatium», fatta dagl’italiani «sollazzo». Ora stando che si permetta, anzi spesse volte si richiegga allo scrittore, e massimamente al poeta lirico, la giudiziosa novitá degli usi metaforici delle parole, molto piú mi pare che di quando in quando se gli debba concedere quella novitá che nasce dal restituire alle voci la significazione primitiva e propria loro. Aggiungasi che la nostra lingua, per quello ch’io possa affermare, non ha parola che, oltre a valere quanto la sopraddetta latina, s’accomodi facilmente all’uso de’ poeti; fuori di «conforto», che né anche suona propriamente il medesimo. Perocché «sollievo» e altre tali non sono voci poetiche, e «alleggerimento», «alleviamento», «consolazione» e simili appena si possono adattare in un verso. Fin qui mi basta aver detto a quelli che non sono pedanti e che non si contentarono di quel mio «sollazzo». Ora voltandomi agli stessi pedagoghi, dico loro che «sollazzo» in sentimento di «sollievo», cioè di «solatium», è [p. 182 modifica]voce di quel secolo della nostra lingua ch’essi chiamano il buono e l’aureo. Leggano l’antico volgarizzamento del primo trattato di san Giovanni Grisostomo Sopra la compunzione a capitoli otto28: «Ora veggiamo quello che séguita detto da Cristo; se forse in alcuno luogo o in alcuna cosa io trovassi sollazzo, o rimedio di tanta confusione». E ivi a due versi: «Oimè, credevami trovare sollazzo della mia confusione, e io trovo accrescimento». Cosí a capitoli undici29: «Tutta la pena che pativa [san Paolo], piuttosto riputava sollazzo d’amore, che dolore di corpo». E nel capo susseguente30: «Onde ne parlano spesso, acciocché almeno per lo molto parlare di quello che amano, si scialino un poco e trovino sollazzo e refrigerio del fervente amore c’hanno dentro». L’antica versione latina in tutti questi luoghi ha «solatium», o «solatia». Veggano eziandio nello stesso Vocabolario della Crusca, sotto la voce «spiraglio», un esempio simile ai soprascritti, il qual esempio è cavato dal volgarizzamento di non so che altro libro del medesimo san Grisostomo. E di più veggano, s’hanno voglia, nell’Asino d’oro del Firenzuola31 come «le lagrime» sono «ultimo sollazzo delle miserie de’ mortali». Anzi è costume dello scrittore nella detta opera32 di prendere la voce «sollazzo» in significato di «sollievo», «consolazione», «conforto», ad esempio di quei del Trecento, come anche fece il Bembo33 nel passo che segue: «Messer Carlo, mio solo e caro fratello, unico sostegno e sollazzo della mia vita, se n’è al cielo ito».


St. XII, v. 10.                 Che stai?
(v. 196)

La particella interrogativa «che» usata invece di «perché» non ha esempio nel Vocabolario se non seguita dalla negativa «non». Ma che anche senza questa si dica ottimamente, recherò le prime autoritá che mi vengono alle mani, fra le innumerabili che si potrebbero addurre. Il Pandolfini nel Trattato del governo della [p. 183 modifica]famiglia34: «O cittadini stolti, ove ruinate voi? che seguitate con tante fatiche, con tante sollecitudini, con tante arti, con tante disonestá questo vostro stato per ragunare ricchezze?». E in un altro luogo del medesimo libro35: «Se adunque il danaio supplisce a tutti i bisogni, che fa mestieri occupare l’animo in altra masserizia che in questa del danaio?». Il Caro nel volgarizzamento del primo sermone di San Cipriano Sopra l’elemosina36: «Che vai mettendo innanzi quest’ombre e queste bagattelle per iscusarti invano?». Il Tasso nel quarto della Gerusalemme37: «Ma che rinnovo i miei dolor parlando?». E similmente in altri luoghi38. Il Varchi nel Boezio39: «Che starò io a raccontarti i tuoi figliuoli stati consoli?». Ed altre volte40. Il Castiglione nel Cortegiano41: «Come un litigante a cui in presenza del giudice dal suo avversario fu detto: — Che bai tu? — subito rispose: — Perché veggo un ladro». — Il Davanzati nel primo libro degli Annali di Tacito42: «Che tanto ubbidire, come schiavi, a quattro scalzi centurioni e meno tribuni?». Dove il testo originale dice: «Cur paucis centurionibus, paucioribus tribuitis in modum servorum obedirent?». Aggiungi Bernardino Baldi, autor corretto nella lingua, e molto elegante: «Ma che stiamo Perdendo il tempo, e altrui biasmando insieme, Quando altro abbiam che fare?»43. Ed altrove44: «Ma che perdiamo il tempo, e non andiamo Ad impetrar da lei», con quello che segue. Sia detto per incidenza che sebbene delle Egloghe di questo scrittore è conosciuta e riputata solamente quella che s’intitola Celeo o l’Orto, [p. 184 modifica]nondimeno tutte l’altre (che sono quindici, senza un epitalamio che va con loro), e maggiormente la quinta, la duodecima e la decimaquarta, sono scritte con semplicitá, candore e naturalezza tale, che in questa parte non le arrivano quelle del Sannazzaro né qual altro si sia dei nostri poemi pastorali, eccettuato l’Aminta e in parecchie scene il Pastor fido.


St. XII, s. 12.            ... altrice.
(v. 198)

Credo che ti potrei portare non pochi esempi dell’uso di questa parola, pigliandoli da’ poeti moderni: ma, se non ti curi degli esempi moderni, e vuoi degli antichi, abbi pazienza ch’io li trovi, come spero, e in questo mezzo aiutati col seguente, ch’è del Guidiccioni45. «Mira che giogo vil, che duolo amaro Preme or l'altrice de’ famosi eroi».


Ivi, v. 13.       Se di codardi è stanza,
(v. 200)      meglio l’è rimaner vedova e sola.

«Solo» in forza di «romito», «disabitato», «deserto» non è del Vocabolario, ma è del Petrarca46. «Tanto e più fien le cose oscure e sole Se morte gli occhi suoi chiude ed asconde». E del Poliziano47: «In qualche ripa sola E lontan da la gente (dice d’Orfeo) Si dolerà del suo crudo destino». E del Sannazzaro nel proemio dell’Arcadia: «Per li soli boschi i salvatichi uccelli sovra i verdi rami cantando». E nell’egloga undecima48: «Piangete, valli abbandonate e sole». E del Bembo49: «Parlo poi meco, e grido, e largo fiume Verso per gli occhi in qualche parte sola». E del Casa50: «Nei monti e per le selve oscure e sole». E del Varchi51: «Dice per questa valle opaca e sola [p. 185 modifica]Tirinto». E del Tasso52: «Per quella via ch’è più deserta e sola». È tolto ai latini, tra’ quali Virgilio nella favola d’Orfeo53: «Te, dulcis coniux te solo in litore secum, Te veniente die, te decedente canebat». E nel quinto dell’Eneide54: «At procul in sola secretae Troades acta Amissum Anchisen flebant». Cosí anche nel sesto55: «Ibant obscuri sola sub nocte per umbram». E Stazio nel quarto della Tebaide56: «Ingentes infelix terra tumultus, Lucis adhuc medio solaque in nocte per umbras, Exspirat».


CANZONE TERZA


AD ANGELO MAI.

pag. 15.


St. I, v. 4.           .... incombe.

Questa ed altre molte parole, e molte significazioni di parole, o molte forme di favellare adoperate in queste canzoni, furono tratte, non dal Vocabolario della Crusca, ma da quell’altro vocabolario dal quale tutti gli scrittori classici italiani, prosatori o poeti (per non uscir dall’autoritá), dal padre Dante fino agli stessi compilatori del Vocabolario della Crusca, incessantemente e liberamente derivarono tutto quello che parve loro convenevole, e che fece ai loro bisogni o comodi, non curandosi che quanto essi pigliavano prudentemente dal latino fosse o non fosse stato usato da’ piú vecchi di loro. E chiunque stima che, nel punto medesimo che si pubblica il vocabolario d’una lingua, si debbano intendere annullate senz’altro tutte le facoltá che tutti gli scrittori fino a quel punto avevano avute verso la medesima; e che quella pubblicazione, per sola e propria sua virtú, chiuda e stoppi a dirittura in perpetuo le fonti della favella; costui non sa che diamine si sia né vocabolario né lingua né altra cosa del mondo.

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St, I, v. 14.            . . . O con l’umano
valor contrasta il duro fato invano?57

Il Casa nella prima delle Orazioni per la lega58: «Né io voglio di questo contrastare con esso lui». E nell’altra59: «Conciossiaché di tesoro non possa alcuno pur col re solo contrastare». Angelo di Costanzo nel centesimosecondo sonetto: «Accrescer sento e non giá venir meno Il duol, né posso far si che contrasti Con la sua forza o che a schernirsi basti Il cor del suo vorace aspro veneno».


St. IV, v. 3.      ... a te cui fato aspira
(v. 48)      benigno.

I vari usi del verbo «aspirare» cercali nei buoni scrittori latini e italiani; ché, se ti fiderai del Vocabolario della Crusca, giudicherai che questo verbo propriamente e unicamente significhi «desiderare e pretendere di conseguire»; laddove questa è forse la più lontana delle metafore che soglia patire il detto verbo. E ti farai maraviglia come Giusto dei Conti60 pregasse «Amore che gli affrancasse e aspirasse la lingua», e come il Molza61 dicesse che la «fortuna aspirava lieto corso ad Annibal Caro», e il Rucellai che «il sole aspira vapori caldi» e che «il vento aspira il freddo boreale»62 e che «l’orto aspira odor di fiori e d’erbe»63, e come Remigio fiorentino (avverti questo soprannome) scrivesse in figura di Fedra64: «Il qual sí come acerbamente infiamma Il petto a me (parla d’Amore), cosí benigno e pio A tutti i voti tuoi cortese aspiri». E prima65 avea detto parimente d’Amore: «Cosí benigno ai miei bei voti aspiri». Similmente dice in [p. 187 modifica]persona di Paride66: «Né leve aspira A l’alta impresa mia negletto nume». E in persona di Leandro67: «O benigna del ciel notturna luce (viene a dir la luna), Siami benigna ed al mio nuoto aspira». Cosí anche in altri luoghi68.


St. VI, V. 3. Quand’oltre a le colonne, ed oltre ai liti
(v. 78)      cui strider parve in seno a l’onda il sole69.

Di questa fama anticamente divulgata, che in Ispagna e in Portogallo, quando il sole tramontava, s’udisse a stridere di mezzo al mare a guisa che fa un carbone o un ferro rovente che sia tuffato nell’acqua, sono da vedere il secondo libro di Cleomede70, il terzo di Strabone71, la quartadecima satira di Giovenale72, il secondo libro delle Selve di Stazio73 e l’epistola decimottava d’Ausonio74. E non tralascerò in questo proposito quello che dice Floro75, laddove accenna le imprese fitte da Decimo Bruto in Portogallo: «Peragratoque victor Oceani litore, non prius signa convertit, quam cadentem in maria solem, obrutumque aquis ignem, non sine quodam sacrilegii metu et horrore, deprehendit». Vedi altresí le annotazioni degli eruditi sopra il quarantesimoquinto capo di Tacito delle Cose germaniche76).


St. VII, V. 5.      ... e del notturno
(v. 93)      occulto sonno del maggior pianeta?

Al tempo che poca o niuna contezza si aveva della rotonditá della terra, e dell’altre varie dottrine ch’appartengono alla [p. 188 modifica]cosmografia, gli uomini, non sapendo quello che il sole nel tempo della notte operasse o patisse, fecero intorno a questo particolare molte e belle immaginazioni, secondo la vivacitá e la freschezza di quella fantasia che oggidí non si può chiamare altrimenti che fanciullesca, ma pure in ciascun’altra etá degli antichi poteva poco meno che nella puerizia. E se alcuni s’immaginarono che il sole si spegnesse la sera e che la mattina si raccendesse, altri si persuasero che dal tramonto si posasse, e dormisse fino all’aggiornare; e Mimnermo, poeta greco antichissimo, pone il letto del sole in un luogo della Colchide. Stesicoro77, Antimaco78, Eschilo79, ed esso Mimnermo80 piú distintamente che gli altri dice anche questo: che il sole dopo calato si pone a giacere in un letto concavo a uso di navicella, tutto d’oro, e, cosí dormendo, naviga per l’Oceano da ponente a levante. Pitea marsigliese, allegato da Gemino81 e da Cosma egiziano82, racconta di non so quali barbari che mostrarono a esso Pitea la stanza dove il sole, secondo loro, s’adagiava a dormire. E il Petrarca s’avvicinò a queste tali opinioni volgari in quei versi83: «Quando vede ’l pastor calare i raggi Del gran pianeta al nido ov’egli alberga». Siccome in questi altri84 seguí la sentenza di quei filosofi che per via di raziocinio indovinavano gli antipodi: «Ne la stagion che ’l ciel rapido inchina Verso occidente, e che ’l dí nostro vola A gente che di lá forse l’aspetta». Dove quel «forse», che oggi non si potrebbe dire, è notabilissimo e poetichissimo, perocché lasciava libero all’immaginazione di figurarsi a modo suo quella gente sconosciuta, o d’averla in tutto per favolosa; dal che si deve credere che, leggendo questi versi, nascessero di quelle concezioni vaghe e indeterminate che sono effetto principalissimo ed essenzialissimo delle bellezze poetiche, anzi di tutte le maggiori bellezze dei mondo. Ma, come ho detto, non mi voglio allargare in queste materie.

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St. IX, v. 23.                      . . . Al tardo onore
(v. 132)            non sorser gli occhi tuoi; mercé, non danno
l’estrema ora ti fu. Morte domanda
chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda.

S’ha rispetto alla congiuntura della morte del Tasso, accaduta quando si disponeva d’incoronarlo in Campidoglio.


St. XI, v. 5.                . . . polo.
(v. 155)

È pigliato all’usanza latina per «cielo». Ma il Vocabolario con questo senso non lo passa. Manco male che la Dafne del Rinuccini, per decreto dello stesso Vocabolario, fa testo nella lingua. Sentite dunque, signori pedagoghi, quello che dice il Rinuccini nella Dafne85: «Non si nasconde in selva Sí dispietata belva, Né su per l’alto polo Spiega le penne a volo augel solingo, Né per le piagge ondose Tra le fere squamose alberga core Che non senta d’Amore». Vi pare che questo polo sia l’artico, o l’antartico o quello della calamita, o l’una delle teste d’un perno e d’una sala da carrozze? Oh bene inghiottitevi questa focaccia soporifera da turarvi le tre gole che avete, e lasciate passare anche questo vocabolo.


St. XII, v. 3. E morte lo scampò dal veder peggio.
(v. 168)

Il Petrarca86: «Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti». Il medesimo in altro luogo87: «Questi in vecchiezza la scampò da morte». Il Passavanti nello Specchio88: «Si facesse beffe di colui che avesse saputa scampar la vita e le cose dalla fortuna, e da’ pericoli del mare». Il Guarini nell’argomento del Pastor fido: «Mentre si sforza per camparlo da morte di provare con sue ragioni ch’egli sia forestiero». Segno questi luoghi per ogni buon rispetto, avendo veduto che la Crusca non mette esempio né di «scampare» né di «campare» costruiti nell’uso attivo col sesto caso oltre il quarto.

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CANZONE QUARTA


NELLE NOZZE DELLA SORELLA PAOLINA.

pag. 21.


St. I, v. 1.       Poi che del patrio nido
i silenzi lasciando, ...
te ne la polve de la vita e ’l suono
tragge il destin.

Questa e simili figure grammaticali, appartenenti all’uso de’ nostri gerondi, sono cosí famigliari e cosí proprie di tutti gli scrittori italiani de’ buoni secoli, che, volendole rimuovere, non passerebbe quasi foglio di scrittura antica dove non s’avesse a metter le mani. Puoi vedere Il torto e ’l diritto del non si può, nel capitolo quinto, dove si dichiara in parte, e poveramente, a paragone ch’ella si poteva illustrare con infinita quantitá e diversitá d’esempi. E anche oggidí, non che tollerata, va custodita e favorita, considerando ch’ella spetta a quel genere di locuzioni e di modi, quanto piú difformi dalla ragione, tanto meglio conformi e corrispondenti alla natura, de’ quali abbonda il piú sincero, gentile e squisito parlare italiano e greco. E siccome la natura non è manco universale che la ragione, cosí non dobbiamo pensare che questa e altre tali facoltá della nostra lingua producano oscuritá, salvo che s’adoprino con avvertenza e naturalezza. Piuttosto è da temere che, se abbracceremo con troppa affezione l’esattezza matematica, e se la studieremo e ci sforzeremo di promuoverla sopra tutte le altre qualitá del favellare, non riduciamo la lingua italiana in pelle e ossa, com’è ridotta la francese, e non sovvertiamo e distrugghiamo affatto la sua proprietá: essendo che la proprietá di qualsivoglia lingua non tanto consista nelle nude parole e nelle frasi minute, quanto nelle facoltá e forme speciali d’essa lingua, e nella composizione della dicitura. Laonde possiamo scrivere barbaramente quando anche evitiamo qualunque menoma sillaba che non si possa accreditare con dieci o quindici testi classici (quello che oggi s’ha in conto di puritá nello scrivere italiano); e per lo contrario possiamo avere o meritare opinione di scrittori castissimi, accettando o formando parole e frasi utili o necessarie, che non sieno registrate nel Vocabolario né protette dall’autoritá degli antichi.


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St. III, v. 14.      E di nervi e di polpe
(v. 44)           scemo il valor natio.

L’aggettivo «scemo», negli esempi che la Crusca ne riferisce, è detto assolutamente, e non regge caso. Dunque segnerai nel margine del tuo Vocabolario questi altri quattro esempi: l’uno ch’è dell’Ariosto89 e dice cosí: «Festi, barbar crudel, del capo scemo Il piú ardito garzon che di sua etade», con quello che segue. L’altro del Casa90: «E ’mpoverita e scema Del suo pregio sovran la terra lassa». Il terzo dello Speroni nel Dialogo delle Lingue91: «La quale, scema di vigor naturale, non avendo virtù di fare del cibo sangue onde viva il suo corpo, quello in flemma converte». L’ultimo dello stesso, nell’Orazione contro le cortigiane92: «Che scema essendo di questa parte, sarebbe tronca e imperfetta».


CANZONE QUINTA


A UN VINCITORE NEL PALLONE.

pag. 25.


St. IV, v. 4.      ... e pochi soli
(v. 43)      andranno forse93.

Cioè pochi anni. «Sole» detto poeticamente per «anno» vedilo nel Vocabolario. E si dice tanto bene quanto chi dice «luna» in cambio di «mese».


St. V, v. 5.      Nostra colpa e fatal.
(v. 57)

Cioè colpa nostra e del fato. Oggi s’usa comunemente in Italia di scrivere e dir «fatale» per «dannoso» o «funesto» alla maniera francese; e quelli che s’intendono della buona favella non [p. 192 modifica]vogliono che questo si possa fare. Nondimeno io lo trovo fatto dall’Alamanni nel secondo libro della Coltivazione. «Non quello orrendo tuon, che s’assomiglia Al fero fulminar di Giove in alto, Di quell’arme fatal che mostra aperto Quanto sia piú d’ogni altro il secol nostro Giá per mille cagion lá su nemico»94. Parla, come avrai capito, dell’arme da fuoco. E di nuovo nel quinto95: «La fatal bellezza Sopra l’onde a mirar Narcisso torna». Vero è che il poema della Coltivazione e l’altre opere scritte dall’Alamanni in Francia, come il Girone e l’Avarchide, sono macchiate di parecchi francesismi: e quel ch’è peggio, la detta Coltivazione ridonda maravigliosamente di rozzissime sregolatissime e assurdissime costruzioni e forme d’ogni genere: tanto ch’ella è forse la piú difficile e scabrosa poesia di quel secolo, non ostante la semplicitá dello stile, che per veritá non fu cercata dal buono Alamanni, anzi fuggita a piú potere, benché non gli riuscí di schivarla. Ma quelle medesime cagioni che da un lato produssero questi difetti (e che parimente generarono sui principi del Cinquecento l’imperfezione della lingua e dello stile italiano), dall’altro lato arricchirono straordinariamente il predetto poema di voci, metafore, locuzioni, che quanto hanno d’ardire, tanto sono espressive e belle; e quante potrebbero giovare, non solamente agli usi poetici, ma eziandio gran parte di loro alla prosa, tanto in ogni modo sono tutte sconosciutissime al piú degli scrittori presenti.


CANZONE SESTA


BRUTO MINORE.

pag. 28.


St, I, v. 1.      Poi che divelta, ne la tracia polve
giacque . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
prepara.

Acciò che questa mutazione di tempo non abbia a pregiudicare agli stomachi gentili de’ pedagoghi, la medicheremo con un [p. 193 modifica]pizzico d’autoritá virgiliana. «Postquam res Asiae, Priamique evertere gentem Immeritam visum superis, ceciditque superbum Ilium et omnis humo fumat Neptunia Troia; Diversa exsilia et desertas quaerere terras Auguriis agimur divum»96. «Irim de caelo misit Saturnia Iuno Iliacam ad classem, ventosque adspirat eunti»97. «Ille intra tecla vocari Imperat, et solio medius consedit avito»98. «At non sic Phrygius penetrat Lacedaemona pastor, Ledaeamque Helenam Troianas vexit ad urbes»99 «Haec ait, et liquidum ambrosiae diffundit odorem, Quo totum nati corpus perduxit»100. Reco questi soli esempi dei mille e più che si potrebbero cavare dal solo Virgilio, accuratissimo e compitissimo sopra tutti i poeti del mondo.


St. II, v. 2.      De le trepide larve101.
(v. 17)

«Trepitus» è quel che sarebbe «tremolo» o pure «agitato», e «trepidare» latino è come «tremolare» o «dibattersi». E perché la paura fa che l’animale trema e s’agita, però le dette voci spesse volte s’adoperano a significazione della paura: non che dinotino la paura assolutamente né di proprietá loro. E spessissime volte non hanno da far niente con questa passione, e quando s’appagano del senso proprio e quando anche non s’appagano. Ma la Crusca termina il significato di «trepido» in quello di «timoroso». Va errata: e se non credi a me, che non son venuto al mondo fra il Ducento e il Seicento, e non ho messo i lattaiuoli, né fatto a stacciabburatta in quel di Firenze, credi al Rucellai, ch’ebbe l’una e l’altra virtú: «Allor concorron trepide, e ciascuna Si mostra ne le belle armi lucenti. . . e con voce alta e roca Chiaman la gente in lor linguaggio a l’arme»102. Questa è la paura dell’api «trepide». E cosí la sentenza come la voce ritrassela il Rucellai da Virgilio103: «Tum trepidae inter se coeunt, [p. 194 modifica]pennisque coruscant, . . . magnisque vocant clamoribus hostem». Anche il testimonio dell’Ariosto, benché l’Ariosto non fu toscano, potrebb’essere che fosse creduto: «Ne la stagion che la frondosa vesta Vede levarsi e discoprir le membre Trepida pianta fin che nuda resta»104. Quanto poi tocca al verbo italiano «trepidare», che la Crusca definisce similmente per «aver paura», «temere», «paventare», venga di nuovo in campo a farla discredere il medesimo Rucellai105: «A te bisogna gli animi del vulgo, I trepidanti petti e i moti loro Vedere innanzi al maneggiar de l’armi»; cioè gli ondeggianti, inquieti, fremebondi petti. Anche questo è di Virgilio106: «Continuoque animos vulgi et trepidantia bello Corda licet longe praesciscere». Venga fuori eziandio l’Alamanni:107 «Egli stesso alla fin cruccioso prende La trepidante insegna, e ’n voci piene Di dispetto e d’onor, la porta, e ’n mezzo Dell’inimiche schiere a forza passa»; cioè la barcollante o la tremolante insegna. E forse che ha paura anche «il polso trepidante» dalla febbre amorosa nel testo del Firenzuola?108.


St. III, v. I.            . . . e la ferrata
(v. 31)           necessitá.

«Ferrata», cioè «ferrea». Nel difendere questa sorta di favellare metterò piú studio che nelle altre, come quella che non è combattuta da’ pedagoghi ma dal cavalier Monti, il quale109 dall’una parte biasima fra Bartolomeo da San Concordio che in un luogo degli Ammaestramenti dicesse «ferrate» a guisa di «ferree», dall’altra i compilatori del Vocabolario che riportassero il detto luogo dove registrarono gli usi metaforici della voce «ferrato». In quanto al Vocabolario, è certissimo che sbaglia, come poi si dirá. Ma il fatto di quel buono antico mi persuado che, oltre a scusarlo, si possa anche lodare. Primieramente la nostra lingua ha per usanza di mettere i participi, massimamente passivi, in luogo de’ nomi aggettivi (come praticarono i latini), e [p. 195 modifica]per lo contrario i nomi aggettivi in luogo de’ participi; secondo che diciamo «lodato» o «laudato» per «lodevole»110 «onorato» per «onorevole», «fidato» per «fido», «rosato» invece di «roseo», e dall’altro canto «affannoso» per «affannato», «doloroso» per «dolorato», «faticoso» per «affaticato»111; o come quando si dice «essere» o «aver pieno», o «ripieno» o «morto» per «essere» o «aver empiuto» o «riempito» o «ucciso». Anche diciamo ordinariamente «essere» o «aver sazio», «privo», «quieto», «fermo», «netto», e mille altri, per «essere» o «aver saziato», «privato», «quietato», «fermato», «nettato». Ma lascio questo, perché possiamo credere che si faccia piuttosto per contrazione degli stessi participi che per surrogazione degli aggettivi. In sostanza «ferrato» detto per «ferreo» mi par ch’abbia tanto dell'italiano quanto n’ha «rosato» in cambio di «roseo». Nel secondo luogo soggiungerò che, quantunque io non sappia di certo se i nostri poeti antichi e moderni, quando chiamarono e chiamano «aurati», «orati» o «dorati» i raggi del sole112, i ricci delle belle donne113, gli strali d’Amore114 e cose tali, ed «argentata» o «inargentata» la luna115, i ruscelli116 o altro, volessero e vogliano intendere che quei raggi, quei ricci, quei dardi sieno inverniciati d’oro o che sieno d’oro massiccio, e che la luna e i ruscelli sieno incrostati d’argento o sieno fatti d’argento; so bene che il «colore aurato» del raspo d’uva117 e il «color dorato» del cotogno118 nell’Alamanni, e parimenti il «colore arientato» della luna in Francesco da Buti119, sono colori, quelli d’oro», e questo d’argento, e non vestiti dell’uno o dell’altro metallo, perché non vedo che al colore, in quanto colore, se gli possa fare una camicia né d’argento [p. 196 modifica]né d’oro né d’altra materia. Lo stesso dovremo intendere del «color dorato» che diciamo comunemente di certi cavalli, di certi vini, e dell’altre cose che l’hanno; e cosí lo chiamano anche i francesi. Un cotal ponte che il Tasso chiama «dorato», so certamente che fu d’oro per testimonio del medesimo Tasso, che lo fabbricò del proprio. «Ecco un ponte mirabile appariva, Un ricco ponte d’or, che larghe strade Su gli archi stabilissimi gli offriva. Passa il dorato varco; e quel giú cade»120. Oltre a questo so che l’«aurata pellis» di Catullo121 è propriamente il famoso vello d’oro; il quale se fosse stato indorato a bolo, a mordente o come si voglia, o ricamato d’oro, o fatto a uso delle tocche, non si moveva Giasone per andarlo a conquistare, e non era il primo a cacciarsi per forza in casa de’ pesci. E so che gli «aurati vezzi» che portava al collo quel giovanetto indiano descritto da Ovidio122 per galante e magnifico nell’ornamento della persona, sarebbe stata una miseria che non fossero d’oro solido; che la «pioggia aurata» di Claudiano123 è pioggia d’oro del finissimo; che l’asta «aeratae cuspidis nelle Metamorfosi d’Ovidio124 è probabile ch’abbia la punta di rame o di ferro, e in ultimo che gli «aerati nodi»125, l’«aeratae catenae»126 e l’«aerata pila»127 di Properzio sono altresí di ferro o di rame. Posto dunque che sia ben detto «aeratus» invece di «aereus»; «auratus» ed «aurato», «orato» o «dorato» invece d’«aureus» e d’«aureo»; «argentato» o «inargentato» invece d’«argenteo»; non potrá stare che «ferrato» invece di «ferreo» sia detto male. Ed eccoti fra i latini Valerio Flacco nel sesto libro chiama «ferrate» certe immagini di ferro. «Densique levant vexilla Coralli, Barbaricae queis signa rotae ferrataque dorso Forma suum»128. Lascio stare che dove nel terzo delle Georgiche129 si legge «Primaque [p. 197 modifica]ferratis praefigunt ora capistris», dice Servio che «ferrati» sta per «duri»: intende che sia metaforico, e, salvo questo, viene a dire che sta per «ferrei:» sicché o ragione o torto ch’egli abbia in questo luogo, mostra che a «ferratus» nel sentimento di «ferrens» non gli sa né vizioso né strano. Queste tali non sono metafore, cioè traslazioni, ma catacresi, o vogliamo dire, come in latino, abusioni: la qual figura differisce sostanzialmente dalla metafora, in quanto la metafora, trasportando la parola a soggetti nuovi e non propri, non le toglie per questo il significato proprio (eccetto se il metaforico a lungo andare non se lo mangia, connaturandosi col vocabolo), ma, come dire, glielo accoppia con un altro o con piú d’uno, raddoppiando o moltiplicando l’idea rappresentata da essa parola. Doveché la catacresi scaccia fuori il significato proprio e ne mette un altro in luogo suo; talmente che la parola in questa nuova condizione esprime un concetto solo come nell’antica, e se lo appropria immediatamente, per modo che tutta quanta ell’è, s’incorpora seco lui. Come interviene appunto nel caso nostro, che la voce «ferrato» importa onninamente «ferreo», e chi dice «ferreo», dice altrettanto, né più né meno. Laddove se tu chiami «lampade» il sole, come fece Virgilio, quantunque la voce «lampade» venga a dimostrare il «sole», non perciò si stacca dal soggetto suo proprio, anzi non altrimenti ha forza di dare ad intendere il sole, che rappresentando quello come una figura di questo. E veramente le metafore non sono altro che similitudini o comparazioni raccorciate. Occorrendo poi (secondo che fece fra Bartolomeo da San Concordio) che si chiamino «ferrate» le menti negli uomini, allora il vocabolo «ferrate» sará metaforico; in guisa nondimeno che la metafora non consisterá nello scambio della voce «ferree» colla voce «ferrate», il quale sará fatto per semplice catacresi, ma nell’accompagnamento di tale aggettivo con tale sostantivo; perché in effetto le menti degli uomini, credo bene che sieno quali di fumo, quali di vento, quali di rapa, quali d’altre materie, ma per quello ch’io sappia, non sono di ferro. Il che né piú né meno sará il senso letterale della metafora; cioè che quelle menti sieno «di ferro», non giá che sieno «munite di ferro». E qui pecca il Vocabolario, che senza piú mette l’esempio di Fra Bartolomeo tra gli usi metaforici di «ferrato» fatto da «ferrare» cioè «munire di ferro», quando bisognava specificare appartatamente che «ferrato» s’usa talora in cambio di «ferreo», non solamente nel proprio, ma [p. 198 modifica]eziandio nell’improprio, e quivi allegare il suddetto esempio. Al quale aggiungerò quello d’uno scrittore meno antico d’etá e molto piú ragguardevole d’ingegno e di letteratura che non fu quel buon frate, cioè del Poliziano, che sotto la persona d’Orfeo dice ai guardiani dell’inferno130: «Dunque m’aprite le ferrate porte». Non può voler dire che queste porte sieno «guarnite di ferro», come sono anche le piú triste porte di questo mondo, ma dee volere che sieno «di ferro», come si possono immaginare le porte di casa del diavolo, che non ha carestia di metalli, essendo posta sotterra, né anche di fuoco da fonderli, essendo come una fornace. Altrimenti quell’aggettivo nel detto luogo avrebbe del fiacco pur assai. Cosí quando Properzio131 chiamò «ferrata» la casa di Danae, «ferratam Danaes domum», si può stimare che non avesse riguardo a’ saliscendi o a’ paletti delle porte né agli ingraticolati che potessero essere alle finestre, ma volesse intendere ch’ella fosse «di ferro», come Orazio132 la fece di bronzo, o d’altro metallo ch’ei volesse denotare con quell’«ahenea». E nello stesso Poliziano, poco avanti al predetto luogo133, il «ferrato inferno» e «spieiato» o «inesorabile», e, se non fosse la traslazione, «ferreo». Di più troverai nel Chiabrera134 un «ferrato usbergo», il quale io mi figuro che sia «di ferro»; e nel Redi135 «le ferrate porte» del palazzo d’Amore: se non che, dicendo il poeta che su queste porte ci stavano le guardie, mostra che dobbiamo intendere delle soglie; e però quell’aggiunto mi riesce molto male appropriato, che che si voglia significare in quanto a sé. Dato finalmente che gli arpioni, vale a dire i gangheri, delle porte e delle finestre, come anche le bandelle, cioè quelle spranghe che si conficcano nelle imposte, e per l’anello che hanno all’una delle estremitá, s’impernano negli arpioni, sieno fatte, e non foderate o fasciate, di ferro effettivo; resta che «ferrato» nel passo che segue, sia detto formalmente in luogo di «ferreo»; e non di «ferreo» traslato, ma del proprio e naturale quanto sarebbe se [p. 199 modifica]dicessimo, verbigrazia, «ferreo secolo». Il passo è riferito nel Vocabolario della Crusca alla voce «bandella», e parte ancora alla voce «arpione», e spetta all’antico volgarizzamento manoscritto dell’Eneide, nella quale corrisponde alquanto sotto il mezzo del secondo libro136: «Ma Pirro risplendiente in arme, tolta una mannaia a due mani, taglia le dure porte, e li ferrati arpioni delle bandelle». Da tutte le sopraddette cose conchiuderemo, a parer mio, che la voce «ferrato» posta per «ferreo», non tanto che si debba riprendere, ma nella poesia specialmente, s'ha da tenere per una dell’eleganze della nostra lingua.


St. IV, v. 13.      Quando le infauste luci
(v. 58)           virile alma ricusa137.

«Luci» per «giorni» sta nella Crusca veronese con un testo del Caro, al quale aggiungendo il seguente, ch’è d’uomo fiorentino anzi fiorentinissimo, cioè del Varchi138, non sei per fare opera perduta: «Dopo altre notti, piú lucenti e belle Luci piú vago il sol mena a le genti». Il Petrarca139 usa il singolare di «luce» per «vita»: «I’ che temo del cor che mi si parte, E veggio presso il fin della mia luce».


St. V, v. 4.                      . . . Ma se spezzar la fronte
(v. 64 ss.)      ne’ rudi tronchi, o da montano sasso
dare al vento precipiti le membra,
lor suadesse affanno.

Il Vocabolario ammette le voci «suadevole», «suado», «suasione», «suasivo». Ma che vale? Se non porta a lettere di scatola il verbo «suadere», chi mi proscioglie dal peccato d’impuritá? Non certo i latini: di modo ch’io me ne vo dannato senz’altro; e mi terrá compagnia l’Ariosto, che nel terzo del Furioso140 disse di Bradamante: «Quivi l’audace giovine rimase Tutta la notte, e gran [p. 200 modifica]pezzo ne spese A parlar con Merlin, che le suase Rendersi tosto al suo Ruggier cortese». Anzi troverò fra la gente perduta anche il Bembo, capitato male per lo stesso misfatto; e che piú? fino al padre Dante, che non s’astenne dal participio «suaso». E quanto al peccato di questi due, vedi il Dizionario dell’Alberti.


CANZONE SETTIMA


ALLA PRIMAVERA

pag. 32.


St. I, v. 5.      Credano il petto inerme
gli augelli al vento.

Se tu credi al Vocabolario della Crusca, non puoi «credere» cioè «fidare» altrui se non quel danaio che ti paresse di dare in prestito, voglio dire a usura, ché in altro modo è fuor di dubbio che non puoi, quando anche lo permetta il Vocabolario. Ma se credi agli ottimi scrittori latini e italiani, «crederai» cioè «fiderai» cosí la roba come la vita, l’onore e quante cose vorrai, non solamente alle persone, ma eziandio, se t’occorre, alle cose inanimate. Per ciò che spetta ai latini, domandane il Dizionario; o quello del Forcellini o quello del Gesner o di Roberto Stefano o del Calepino o del Mandosio o di chi ti pare. Per gl’italiani vaglia l’esempio seguente, ch’è dell’Alamanni141. «Tutto aver si convien, né men che quelli Ch’al tempestoso mar credon la vita». E quest’altro, ch’è del Poliziano142: Né si credeva «ancor la vita a’ venti». E questo, ch’è del Guarini143: «Dunque a l’amante l’onestá credesti?». Al che l’autore medesimo fa quest’annotazione144. «Ripiglia acutamente Nicandro la parola di ’credere’, ritorcendola in Amarilli con la forza d’un altro significato, che ottimamente gli serve; perciocché il verbo ’credere’ nel suo volgare e comunissimo sentimento significa ’dar fede’; e in questo l’usa Amarilli. Significa ancora ’confidare sopra la fede’, sí come l’usano molte volte i latini; e in questo l’usa [p. 201 modifica]Nicandro in significazione attiva, volendo dire: — «Dunque confidasti tu in mano dell’amante la tua onestà?». — E forse il Molza ebbe la medesima intenzione de’ poeti sopraddetti usando il verbo «credere» in questo verso della Ninfa tiberina145: «Troppo credi e commetti al torto lido».


St. II, v. 2.           . . . «dissueto».
(v. 21)

Questo forestiere porta una patente di passaggio, fatta e sottoscritta da «Dissuetudine», e autenticata da «insueto», «assueto», «consueto» e altri tali gentiluomini italiani, che la caverá fuori ogni volta che bisogni. Ma non si cura che gli sia fatta buona per entrare nel Vocabolario della Crusca, avendo saputo che un suo parente, col quale s’acconcerebbe a stare, non abita in detto paese. E questo parente si è un cotal «mansueto»; non quello che, secondo la Crusca, è «di benigno e piacevole animo», o «che ha mansuetudine», vale a dire è mansueto; insomma non quel «mansueto» ch’è mansueto, ma un altro che sotto figura di participio, come sarebbe quella del mio «dissueto», significa «mansuefatto» o «ammansato», anche di fresco, e si trova in casa del Tasso: «Gli umani ingegni Tu placidi ne rendi, e l’odio interno Sgombri, signor, da’ mansueti cori, Sgombri mille furori146». Questi che opera tanti miracoli, se giá non l’hai riconosciuto, è colui che ’l mondo chiama Amore. Per giunta voglio che sappiano i pedagoghi ch’io poteva dire «disusato» per «dissueto», colla stessissima significazione; ed era parola accettata nel Vocabolario, oltre che in questo senso riusciva elegante, e di piú si veniva a riporre nel verso come da se stessa. A ogni modo volli piuttosto quell’altra. E perché? Questo non tocca ai pedanti di saperlo. Ma in iscambio di ciò, li voglio servire d’un bello esempio della voce «dissuetudine», che lo metteranno insieme con quello che sta nel Vocabolario; come anche d’un esempio della parola «disusato» posta in quel proprio senso ch’io formo il vocabolo «dissueto»: «Mi sveglia dalla dissuetudine e dalla ignoranza di questa pratica». Il qual esempio è del Caro, [p. 202 modifica]e si trova nel comento sopra la Canzone de’ gigli147. L’altro esempio è del Casa, e leggesi nel Trattato degli uffici comuni148: «Perciocché a lui pareva dovere avvenire ch’essi a poco a poco da quello che di lui pensar solevano, disusati, avrebbero cominciato a concepire nelle menti loro non so che di maggiore istima». Il latino ha «desuefacti».


St. II, V. 9.      ... e ’l pastorel ch’a l’ombre
(v. 28)           Meridiane incerte (col rimanente della stanza).

Anticamente correvano parecchie false immaginazioni appartenenti all’ora del mezzogiorno, e fra l’altre, che gli dèi, le ninfe, i silvani, i fauni e simili, aggiunto le anime de’ morti si lasciassero vedere o sentire particolarmente su quell’ora, secondo che si raccoglie da Teocrito149, Lucano150, Filostrato151, Porfirio152 Servio153 ed altri, e dalla Vita di san Paolo primo eremita154, che va con quelle de’ padri e fra le cose di san Girolamo. Anche puoi vedere il Meursio155 colle note del Lami156, il Barth157, e le cose disputate dai comentatori, e specificatamente dal Calmet in proposito del demonio meridiano detto nella Scrittura158. Circa all’opinione che le ninfe e le dèe sull’ora del mezzogiorno si scendessero a lavare ne’ fiumi o ne’ fonti, da un’occhiata all’elegia di Callimaco Sopra i lavacri di Pallade159, e in particolare quanto a Diana, vedi il terzo libro delle Metamorfosi160. [p. 203 modifica]


Ivi, v. 10.            . . . e a la fiorita
(v. 30)           margo adducea de’ fiumi161.

Se per gli esempi recati nel Vocabolario la voce «margo» non ha sortito altro genere che quello del maschio, non ti maravigliare ch’io te l’abbia infemminita. E non credere ch’a far questo ci sia bisognato qualche gran forza di stregheria, qualche fatatura, o un miracolo come quelli delle Trasformazioni d’Ovidio. Giá sai che da un pezzo addietro non è cosa piú giornaliera e che faccia meno maraviglia del veder la gente effeminata. Ma, lasciando questo, considera primieramente che la voce «margine», in quanto significa «estremitá», «orlo», «riva», ha l’uno e l’altro genere; e secondariamente che «margine» e «margo» non sono due parole, ma una medesima con due varie terminazioni, quella del caso ablativo singolare di «margo», voce latina, e questa del nominativo. Dunque, siccome dicendo, per esempio, «imago» invece d’«imagine», tu non fai mica una voce mascolina, ma femminina, perché «imagine» è sempre tale; parimente se dirai «margo» in iscambio, non di «margine», sostantivo mascolino, ma di quell’altro «margine» ch’è femminino, avrai «margo» non già maschio, non giá ermafrodito, ma tutto femmina bella e fatta in un momento, come la sposa di Pigmalione, che fino allo sposalizio era stata di genere neutro. O pure (volendo una trasmutazione piú naturale) come l’amico di Fiordispina; se non che questa similitudine cammina a rovescio del caso nostro in quanto ai generi.


St. V, v. 2.           ... le varie note
(v. 78)           dolor non finge162.

Cioè «non forma», «non foggia», secondo che suona il verbo «fingere», a considerarlo assolutamente. Non è roba di Crusca. Ma è farina del Rucellai163 giá citato più volte: «Indi potrai veder, [p. 204 modifica]come vid’io, Il nifolo, o proboscide, come hanno Gl’indi elefanti, onde con esso finge [parla dell’ape] sul rugiadoso verde e prende i figli». E dello Speroni164: «Egli alfin trovi una donna ove Amore con maggior magistero e miglior subbietto, conforme agli alti suoi meriti lo voglia fingere ed iscolpire». È similmente del Caro nell’Apologia165: la quale, avanti che uscisse, fu riscontrata coll'uso del parlar fiorentino, e ritoccata secondo il bisogno da quel medesimo166 che nell’Ercolano fece la famosa prova di rannicchiare tutta l’Italia in una porzione di Firenze: «E le (voci) nuove, e le novamente finte, e le greche, e le barbare, e le storte dalla prima forma e dal proprio significato talvolta?» Dove il Caro ebbe l’occhio al detto d’Orazio167: «Et nova fictaque nuper habebunt verba fidem, si Graeco fonte cadant, pace detorta».


St. V, v. 18.                 . . . s’alberga,
(v. 94)

«Albergare» attivo, o neutro assoluto, dicono i testi portati nel Vocabolario sotto questa voce. «Albergare» neutro passivo, dico io coll’Ariosto168: «Pensier canuto né molto né poco Si può quivi albergare in alcun core».


CANZONE OTTAVA


ULTIMO CANTO DI SAFFO.

IX dell’edizione definitiva, pag. 40.


St. I, v. 14.      Noi per le balze e le profonde valli
natar giova tra’ nembi.

Il verbo «giovare» quando sta per «dilettare»o «piacere», se attendiamo solamente agli esempi che ne registra sotto questo significato il Vocabolario, non ammette altro caso che il terzo. Ma qui voglio intendere che sia detto col quarto, bench’io potessi allegare che «noi», «voi», «lui», «lei» si trovano adoperati [p. 205 modifica]eziandio nel terzo senza il segnacaso. Ora, lasciando a parte i latini, i quali dicono «iuvare» in questo medesimo sentimento col caso quarto; e lasciando altresí che «giovare», quando suona il contrario di «nuocere», non rifiuta il detto caso, come puoi vedere nello stesso Vocabolario, e che l’accidente di ricevere quell’altra significazione traslata, o comunque si debba chiamare, non cambia la regola d’esso verbo; dirò solamente questo, che in uno dei luoghi del Petrarca citati qui dalla Crusca, il verbo «giovare», costruito col quarto caso, non ha la significazione sua propria, sotto la quale è recato il detto luogo nel Vocabolario, ma ben quella appunto di «piacere» o «dilettare», come ti chiarirai, solamente che il verso allegato dalla Crusca si rannodi a quel tanto da cui dipende: «Novo piacer che ne gli umani ingegni Spesse volte si trova, D’amar qual cosa nova Piú folta schiera di sospiri accoglia. Ed io son un di quei che ’l pianger giova». Il Poliziano usa il verbo «giovare» in questa significazione assolutamente, cioè senza caso: «Quanto giova a mirar pender da un’erta Le capre e pascer questo e quel virgulto!»169. E il Rucellai, fra gli altri, adopera nella stessa forma la voce «gradire»: «Quanto gradisce il vederle ir volando Pei lieti paschi e per le tenere erbe!»170. Dice delle api.


St. IV, v. 8.      . . . Me non asperse
(v. 62)       del soave licor l’avara ampolla
di Giove171.

Vuole intendere di quel vaso pieno di felicitá che Omero172 pone in casa di Giove; se non che Omero dice una botte, e Saffo un’ampolla, ch’è molto meno, come tu vedi: e il perché le piaccia di chiamarlo cosí, domandalo a quelli che sono pratichi di questa vita.

[p. 206 modifica]


St. IV, v. 10.                . . . indi che173.
(v. 64)

Cioè «d’allora che», da «poi che». Della voce «indi» costrutta colla particella «che», se ne trovano tanti esempi nella Coltivazione dell’Alamanni, ch’io non saprei quale mi scegliere che facesse meglio al proposito. E però lascio che se li trovi chi n’avrá voglia, massimamente bastando la ragione grammaticale a difendere questa locuzione, senza che ci bisogni l’autoritá né degli antichi né della Crusca. «I’ fuggo indi ove sia Chi mi conforte ad altro ch’a trar guai», dice il Bembo174. Cioè «di lá dove». Ma siccome la voce «indi» talvolta è di luogo, e significa «di lá», talvolta di tempo, e significa «d’allora», perciò séguita che questo passo della nostra canzone, dove «indi» è voce di tempo, significhi «d’allora che» né più né meno che il passo del Bembo significa «di lá dove», e nel modo che dice Giusto de' Conti175: «E il ciel d’ogni bellezza Fu privo e di splendore D’allor che ne le fasce fu nudrita», cioè «da che». Il quale avverbio temporale «da che» non è registrato nel Vocabolario; e perché fa molto a questo proposito, lo rincalzerò con un esempio del Caro176: «da ch’io la conobbi, non è cosa ch’io non me ne prometta». Altri esempi ne troverai senza molto rivolgere, e nel Caro e dovunque meglio ti piaccia. Ma io ti voglio pur mostrare questa medesima locuzione «indi che», adoperata in quel proprio senso ch’io le attribuisco; per la qual cosa eccoti un passo di Terenzio177: «Quamquam haec inter vos nupera notitia admodum' est (Inde adeo quod agrum in proxumo hic mercatus es), Nec rei fere sane amplius quidquam fuit; Tamen», col resto. Dal qual passo i piú de’ comentatori e de’ traduttori non ne cavano i piedi. Vuol dire: «Non ostante che tu ed io siamo conoscenti di poco tempo, (cioè da quando hai comperato questo podere qui nel contorno), e che poco o nient’altro abbiamo avuto da fare insieme; tuttavia», con quello che segue.


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CANZONE NONA


INNO AI PATRIARCHI

VIII nella edizione definitiva, pag. 36.


Chiamo quest’inno, « canzone », per esser poema lirico, benché non abbia stanze né rime, ed atteso anche il proprio significato della voce «canzone», la quale importa il medesimo che la voce greca «ode», cioè «cantico». E mi sovviene che parecchi poemi lirici d’Orazio, non avendo strofe, e taluno oltre di ciò essendo composto d’una sola misura di versi, tuttavia si chiamano «odi» come gli altri; forse perché il nome appartiene alla qualitá non del metro ma del poema, o vogliamo dire al genere della cosa e non al taglio della veste. In ogni modo mi rimetto alla tua prudenza: e se qui non ti pare che ci abbia luogo il titolo di «canzone», radilo, scambialo, fa’ quello che tu vuoi.


Verso 10.                . . . equa178

Tra l’altre facezie del nostro Vocabolario, avverti anche questa, che la voce «equo» non si può dire, perché il Vocabolario la scarta, ma ben si possono dire quarantadue voci composte o derivate, ciascheduna delle quali comincia o deriva dalla suddetta parola.


Verso 15.       . . . e pervicace ingegno179.

Qui non vale semplicemente «ostinato» e «che dura e insiste», ma oltre di ciò significa «temerario» e «che vuol fare e conseguire quello che non gli tocca né gli conviene». Orazio nell’ode terza del terzo libro180: «Non haec iocosae conveniunt lyrae. Quo, Musa, lendis? desine pervicax Referre sermones deorum, [p. 208 modifica]et Magna modis tenuare parvis». Vedi ancora la diciannovesima del secondo libro181, nella quale «pervicaces» viene a inferire «petulantes», «procaces» e, come dichiarano le glosse d’Acrone, «protervas» ma è pigliato in buona parte. E noto l’uno e l’altro luogo d'Orazio, perché non sono avvertiti dal Forcellini e perché la voce «pervicax», a guardarla sottilmente, non dice in questi due luoghi quel medesimo ch’ella dice negli esempi recati in quel Vocabolario.


Verso 32.           . . . e gl’inarati colli
solo e muto ascendea l’aprico raggio
di Febo.

I verbi «salire», «montare», «scendere» sono adoperati da’ nostri buoni scrittori, non solamente col terzo o col sesto caso, ma eziandio col quarto senza preposizione veruna. Dunque potremo fare allo stesso modo anche il verbo «ascendere», come lo fanno i latini, e come lo fa medesimamente il Tasso in due luoghi della Gerusalemme182.


Verso 43.           . . . fratricida.

Il Vocabolario dice solamente «fraticida» e «fraticidio». Ma io, non trovando ch’Abele si facesse mai frate, chiamo Caino «fratricida» e non «fraticida».


Verso 46. Primo i civili tetti, albergo e regno
a le macere cure, innalza; e primo
il disperato pentimento i ciechi
mortali egro, anelante, aduna e stringe
ne’ consorti ricetti.

«Egressusque Cain a facie Domini», dice il quarto della Genesi183, «habitavit profugus in terra ad orientalem plagam Eden. Et aedificavit civitatem».


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Verso 51.           Improba.

Don Giovanni dalle Celle nel volgarizzamento dei Paradossi di Cicerone184: «Certo io a te, non istolto, come spesse fiate, non improbo, come sempre, ma demente e pazzo, con forti ragioni ti dimostrerò». Cosí ancora in altro luogo del medesimo volgarizzamento185. Il Machiavelli, nel capitolo di Fortuna186: «Spesso costei i buon sotto i piè tiene, Gl’improbi inalza». Aggiungi questi esempi a quelli del volgarizzatore antico di Boezio che ti sono portati per questa voce nelle Giunte veronesi187.


Verso 53.           Eruppe188.

Sia pregato il Vocabolario ad accettare per buona la voce «erompere» o «erumpere», e lo muova a farle questa cortesia l’autore del Cortegiano189: «Quasi come scoppio di bombarda erumpe dalla quiete, che è il suo contrario».


Verso 62.           Instaurata190.

Se la parola «instaurare» è un contrabbando, facciano i doganieri pedanti cercare indosso al Segretario fiorentino, e non abbiano rispetto al segretariato, ché gliela troveranno attorno. «Partito Attila d’Italia, Valentiniano imperatore occidentale pensò d’instaurare quella»191. E altrove192: «Accrebbe Ravenna, instaurò Roma, ed eccettoché la disciplina militare, rendè ai romani ogni altro onore». E in piú altri luoghi. [p. 210 modifica]


Verso 77.            . . . nodrici193.

Hai questo vocabolo nel Dizionario dell’Alberti coll’autorità del Tasso.


Verso 100.            . . . a le riposte
leggi del cielo e di natura indutto
valse l’ameno error, le fraudi, e ’l molle
pristino velo.

Maniera tolta ai latini, ma per amore, non per forza. L’Ariosto nel ventesimosettimo del Furioso194: «Ed egli e Ferraú gli aveano indotte L’arme del suo progenitor Nembrotte». Questa locuzione al mio palato è molto elegante; ma quelli che non mangiano se non Crusca, sappiano che questa non è Crusca, e però la sputino. Vuol dire «gliele aveano vestite», ed è frequentatissima nella buona latinitá con questa e con altre significazioni.


Verso 115.           . . . inesperti195.

Qui è voce passiva. Non la stare a cercare nel Vocabolario, ché sotto questo significato non ce la troverai, ma piuttosto cerca la voce «esperto», e vedi anche «inexpertus» nei vocabolari latini.


Verso 117.           E la fugace, ignuda
felicitá per l’imo sole incalza.

Non occorre avvertire che la California sta nell’ultimo termine occidentale del continente. La nazione de’ californi, per ciò che ne riferiscono i viaggiatori, vive con maggior naturalezza di quello ch’a noi paia, non dirò credibile, ma possibile nella specie umana. Certi che s’affaticano di ridurre la detta gente alla vita sociale, non è dubbio che in processo di tempo verranno a capo di quest’impresa; ma si tiene per fermo che nessun’altra nazione dimostrasse di voler fare cosí poca riuscita nella scuola degli europei196.


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CANZONE DECIMA


ALLA SUA DONNA.

XVIII nella ediz. definitiva, pag. 66.


St. V, v. I.           Se de l’eterne idee
l’una se’ tu.

La nostra lingua usa di preporre l’articolo al pronome «uno», eziandio parlando di piú soggetti, e non solamente, come sono molti che lo credono, quando parla di soli due. Basti recare di mille esempi il seguente, ch’io tolgo dalla quindicesima novella del Boccaccio: «Egli era sopra due travicelli alcune tavole confitte, delle quali tavole quella che con lui cadde era l’una».


Lettor mio bello (è qui nessuno, o parlo al vento?), se mai non ti fossi curato de’ miei consigli, e t’avesse dato il cuore di venirmi dietro, sappi ch’io sono stufo morto di fare, come ho detto da principio, alle pugna; e la licenza, che ti ho domandata per una volta sola, intendo che giá m’abbia servito. E però «hic caestus artemque repono». Per l’avvenire, in caso che mi querelino d’impuritá di lingua e che abbiano tanta ragione con quanta potranno incolpare i luoghi notati di sopra e gli altri della stessa data, verrò cantando quei due famosi versi che Ovidio compose quando in Bulgaria gli era dato del barbaro a conto della lingua.


Note

  1. «Ingombrar» si trova nella sola ediz. fiorentina del 1831: in quella stessa cui poneva questa nota (1824) e nelle altre si ha «intralciar» [Ed.].
  2. Trionfo d’Amore, capitolo 3, verso 22.
  3. Sonetto 13.
  4. Firenze, 18 5. p. 3.
  5. Dialoghi d’Amore. Dialoghi dello Speroni (Venezia, 1596), p. 3.
  6. Canzone 4, stanza 3.
  7. Sonetto 45.
  8. Capitolo vii (Milano, 1811, p. 95).
  9. Nelle edizioni posteriori «. . . Oh viva, oh viva» [Ed.].
  10. Versi 49, 50.
  11. Versi 21, 23.
  12. Capo vi, art. 17.
  13. Vocabolario della Crusca, v. «spirato».
  14. Canzone «Chiare, fresche e dolci acque», stanza 3.
  15. Gerusalemme liberata, canto xii, stanza 5.
  16. Canto xiv, stanza 7.
  17. Pastor fido, atto i, scena 4, v. 206.
  18. Parte i, capo i (Firenze, 1731-1735, t. i, p. 3).
  19. Capo v, p. 12.
  20. Capo xxxv, p. 103.
  21. Endimione, atto v, scena 2, v. 35.
  22. Verso 19.
  23. Nell’ultima edizione: «tal che s’assomigli» [Ed.].
  24. Vocabolario della Crusca, v. «rassomigliante».
  25. Ivi, v. «assomigliante».
  26. Ivi, v. «assimigliante».
  27. Nelle edizioni posteriori:
    Di’: né piú mai rinverdirá quel mirto
    ch’alleggiò per gran tempo il nostro male? [Ed.].
  28. Roma, 1817. p. 22
  29. Pag. 33.
  30. Pag. 35.
  31. Libro vi (Milano, 1819, p. 185.)
  32. Libro ii, p. 61; libro iii, p. 75; libro iv, p. 103, libro v, pp. 148 e 169.
  33. Lettere, vol. iv, parte ii, (Opere del Bembo, Venezia, 1729, t. iii, p. 310).
  34. Milano, 1811, p. 47. [L.]. — Al posto di questi esempi de’ Pandolfini, nella edizione bolognese era: «Il Casa nell’Orazione a Carlo quinto (Opere del Casa, Venezia, 1754, tomo iii, p. 344): «Che parlo io degli uomini? Questa terra, sacra Maestà, e questi liti parea ch’avessono vaghezza o desiderio di farvisi all’incontro» [Ed.].
  35. Pag. 174.
  36. Venezia, appresso Aldo Manuzio, 1569, p. 131.
  37. Stanza 12.
  38. Canto viii, stanza 63; canto xi, stanze 63 e 75; canto xiii, stanza 64: canto xvi, stanze 47 e 57: canto xx, stanza 19.
  39. Libro ii, prosa 4 (Venezia, 1735. p. 36).
  40. Libro ii, prosa vii, p. 50; libro iii. prosa v, p. 69, e prosa xi, pp. 90 e 91.
  41. Libro ii (Milano, 1803), vol. i, p. 190.
  42. Capitolo 17.
  43. Egloga 10, v. 16 (Versi e prose di monsignor Bernardino Baldi, Venezia 1590, p. 195).
  44. Egloga ii, v. 81, p. 209.
  45. Sonetto: «Viva fiamma di Marte, onor de’ tuoi».
  46. Sonetto: «Tra quantunque leggiadre donne e belle».
  47. Orfeo, atto iii, v. 16 (edizione dell’Affò, Venezia, 1776, p. 41).
  48. V. 16.
  49. Sonetto 35.
  50. Sonetto 43.
  51. Sonetto: «Tesilla amo, Tesilla onoro, e sola».
  52. Gerusalemme liberata, canto x, stanza 3.
  53. Georgiche, lib. iv, v. 465.
  54. V. 613.
  55. V. 208.
  56. V. 438.
  57. Nelle edizioni posteriori:
    . . . O con l'umano
    valor forse contrasta il fato invano? [Ed.].
  58. Lione (Venezia), p. 7.
  59. Pag. 38.
  60. Bella mano, canzone i, stanza i.
  61. Sonetto: «Voi cui Fortuna lieto corso aspira».
  62. Api, v. 159.
  63. V. 404.
  64. Epistola 4 d’Ovidio, v. 309.
  65. V. 40.
  66. Epistola 15, v. 51.
  67. Epistola 17, v. 130.
  68. Epistola 15, vv. 70 e 392.
  69. Nell’ultima edizione:
    Quand'oltre alle colonne, ed oltre ai liti,
    cui strider l’onde all’attuffar del sole [Ed.].
  70. Circularis doctrina de sublimibus, lib. ii, cap. i (editio Bake, Lugduni Batavorum, 1820, p. 109 et sequentes).
  71. Amstelodami, 1707, p. 202 B.
  72. V. 279.
  73. Genethliacum Lucani, v. 24 et sequentes.
  74. V. 2.
  75. Liber ii, caput 17, sectio 12.
  76. Questa nota e le due seguenti furono quasi testualmente riportate nell’edizione del 1831 [Ed.].
  77. Apud Athenaeum, lib. xi, cap. 38 (ed. Schweighäuser, t. iv, p. 237).
  78. Apud eumdem, loc. cit., p. 238.
  79. Heliades, apud eumd., loc. cit.
  80. Nannone, apud eumd., loc. cit., cap. 39, p. 239.
  81. Elementa astronomiae, cap. v, in Petavii, Uranologia, Antuerpiae [Amstelodami], 1703, p. 13.
  82. Tipographia Christiana, lib. ii, ed. Montfaucon, p. 149.
  83. Canzone: «Nella stagion che ’l ciel rapido inchina», stanza 3.
  84. Stanza i.
  85. Coro 3, v. i.
  86. Sonetto: «Solo e pensoso i piú deserti campi».
  87. Canzone: «Spirto gentil, che quelle membra reggi», stanza i.
  88. Distinzione iii, cap. i (Firenze, 1681, p. 34).
  89. Furioso, canto xxxvi, stanza 9.
  90. Sonetto 36.
  91. Dialoghi dello Speroni, Venezia, 1596, p. 102.
  92. Parte ii. Orazioni dello Speroni, Venezia, 1596, p. 201.
  93. Nelle edizioni posteriori:
    ... e pochi soli
    forse fien volti [Ed.].
  94. V. 747.
  95. V. 933.
  96. Aeneidos, lib. iii, v. 1.,
  97. Lib. v, v. 607.
  98. Lib. vii, v. 168.
  99. V. 363.
  100. Georgicon, lib. IV, v. 415.
  101. Ne le edizioni posteriori: «Dell’inquiete larve» [Ed.].
  102. Api, v. 272.
  103. Georgicon, lib. iv, v. 73.
  104. Furioso, canto ix, st. 7.
  105. Api, v. 266.
  106. Georgicon, lib. iv, v. 69.
  107. Coltivazione, lib. iv, v, 792.
  108. Vocabolario della Crusca, v. «trepidante».
  109. Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, vol. ii, parte i, p. 103.
  110. Petrarca, canzone: «O aspettata in ciel, beata e bella», stanza 5.
  111. Sannazaro, Arcadia, egl. 2, v. 12.
  112. Bembo, canzone 6, chiusa.
  113. Giusto de' Conti, Bella mano, son. 22; Bembo, son. 13; Ariosto, Furioso, c. x, st. 96; Bernardo Tasso, sonetto: «Superbo scoglio, che con l’ampia fronte».
  114. Petrarca, son. «Fera stella, se ’l cielo ha forza in noi»; Poliziano, Stanze, lib. i, st. 82; Ariosto, Furioso, c. xi. st. 66.
  115. Boccaccio, Ameto, Firenze, 1521, carte 62; Tasso, Gerusalemme liberata, c. xviii, st. 13; Remigio fiorentino. Epistola xvii d’Ovidio, v. 156.
  116. Boccaccio, Ameto, carte 65.
  117. Alamanni, Coltivazione, lib. ii, v. 499.
  118. Ivi. lib. iii, v. 493.
  119. Vocabolario della Crusca, v. «arientato».
  120. Gerusalemme liberata, c. xviii, st. 21.
  121. De nuptiis Pelei et Thetidos, v. 5.
  122. Ovidii, Metamorphoseon, lib. v, v. 52.
  123. De laudibus Stilichonis, lib. iii, v. 226.
  124. Lib. v, v. 9.
  125. Propertii, lib. ii, eleg. 20, v. 9.
  126. V. 11.
  127. Lib. iv, eleg. i, v. 78.
  128. V. 89.
  129. V. 399
  130. Orfeo, atto iv, v. 16, edizione dell’Affò, p. 45.
  131. Libro ii, elegia 20, v. 12.
  132. Libro iii, ode 16, v. 1.
  133. Atto iii, v. 39, p. 42.
  134. Canzone: «Era tolto di fasce Ercole appena», st. 7
  135. Sonetto: «Aperto aveva il parlamento Amore».
  136. V. 479.
  137. Nelle edizioni posteriori:
    Quando gl’infausti giorni
    virile alma ricusa [Ed.].
  138. Boezio, lib. iii, rim. i.
  139. Sonetto: «Quand’io son tutto vólto in quella parte».
  140. Stanza 64.
  141. Coltivazione, lib. vi, v. 118.
  142. Stanze, lib. i, st. 20.
  143. Pastor fido, atto iv, sc. 5, v. 101.
  144. Pastor fido, Venezia, appo G. B. Ciotti, 1602, p. 292.
  145. Stanza 30.
  146. Aminta, atto iv, coro.
  147. Stanza i, v. 13, fra le Lettere di diversi eccellentissimi uomini, Venezia, p. 515)
  148. Cap. ii (Opere del Casa, Venezia, 1752, t. 3, p. 215).
  149. Idylli i, v. 15 et sequentes.
  150. Lib. iii, v. 422 et sequentes.
  151. Heroicus, cap. i, art. 4 (Opera Philostrati, ed. Olearius, p. 671).
  152. De antro nympharum, capp. 26 et 27.
  153. Ad Georgicon, lib. iv, v. 401.
  154. Cap. 6 in Vita patrum, ed. Rosweyde (Antuerpiae, 1615) lib. i, p. 18.
  155. Auctarium philologicum, cap. 5.
  156. Opera Meursii, Florentiae, 1741-1763, vol. v, col. 733.
  157. Animadversiones ad Statium, par. ii, p. 1081.
  158. Psalmorum, 93, v. 6.
  159. V. 71 et sequentes
  160. V. 144 et sequentes
  161. Nelle edizioni posteriori:
    . . . ed al fiorito
    margo adducea de’ fiumi [Ed.].
  162. Nelle edizioni posteriori:
    . . . tue varie note
    dolor non forma [Ed.].
  163. Api, v. 956 e sgg.
  164. Dialoghi d’Amore (Dialoghi dello Speroni, Venezia, 1596, p. 25).
  165. Parma, 1558, p 25.
  166. Caro, Lettere familiari, ed. Cornino, 1734, vol. ii, lett. 77, p. 121.
  167. De arte poetica, v. 52.
  168. Furioso, canto vi, st, 73.
  169. Stanze, lib. i, st. 18.
  170. Api, v. 199.
  171. Nelle edizioni posteriori:
    . . . Me non asperse
    del soave licor del doglio avaro
    Giove [Ed.].
  172. Iliade, lib. xxiv, v. 527.
  173. Nell’ultima edizione: «poi che» [Ed.].
  174. Son. 41.
  175. Bella mano, canz. ii, st. 4.
  176. Lettere familiari, ed. Cornino, 1734, vol. ii, lett. 233, p. 399.
  177. Heautontimorumenos, act. i, sc. i, v. i.
  178. Nell’ultima edizione:
    Non la pietà, non la diritta impose
    legge del cielo [Ed.].
  179. Nell’ultima edizione: «e irrequieto ingegno» [Ed.].
  180. Verso 69.
  181. Verso 9.
  182. Canto iii, st. 10, e canto 20, st. 117.
  183. Vers. 16.
  184. Paradossi, iv, Genova, 1825, p. 35.
  185. Paradossi, ii, p. 29.
  186. Verso 28.
  187. Questa noticina, che non era nella ediz. bolognese, fu aggiunta nella ristampa del Nuovo Ricoglitore [Ed.].
  188. Nell’edizione del 1824 l’autore aveva scritto... «le soglie scelerate occupò: l’immonda eruppe fame de l’oro, e ne le tarde membra...» ; nelle posteriori «le soglie scelerate occupò; ne’ corpi inerti...»; onde restò escluso «eruppe» [Ed.].
  189. Lib. ii, Milano 1803, vol. i, p. 26.
  190. Nota aggiunta nella ristampa del Nuovo Ricoglitore [Ed.].
  191. Istorie fiorentine, lib. i, Opere del Machiavelli, Italia, 1819, vi, p. 214.
  192. Ivi, p. 218.
  193. Nell’ultima edizione: «nutrici» [Ed.].
  194. Stanza 69.
  195. Nelle edizioni posteriori l’autore a «inesperti» sostituì «ignorati» [Ed.].
  196. Nota riprodotta nell’edizione Firenze, 1811 [Ed.].