Cesare/IV

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IV

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III V
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IV.

Chi non sa quanto sia desolato e penoso lo svegliarsi dopo il primo sonno che ci ha sorpresi in mezzo alle lagrime?

È forse il momento più terribile, quello in cui la sciagura che ci è toccata sveste ogni ombra d’incertezza, e ci appare in tutta la sua desolante verità.

Lo stupore che avvolge l’animo nostro nel prima momento, e vale a attutire il colpo, sparisce dinanzi a quel sole spietato che si leva la prima volta sulle nostre miserie. Tutti i minuti particolari del fatto doloroso ci tornano alla memoria, barbaramente rischiarati. Le conseguenze ci schiacciano col loro peso. [p. 50 modifica]

Bisogna alzarci e rincominciar la vita, senza una speranza, senza un’illusione di felicità.

A quel primo riaffacciarsi della disperazione, Emilia pensò subito che doveva recarsi dalla madre di Cesare per dirle che suo figlio era morto!

La signora Ottavia non s’aspettava un colpo così crudele; ma appena vide il viso d’Emilia ebbe il presentimento della sua disgrazia.

— Mio Dio! È morto! gridò la sventurata donna.

— Mamma mia, perdonami! mormorò Emilia gettandosi ai suoi piedi. È morto, sì, morto por colpa mia. Se io l’avessi trattenuto non sarebbe partito, se io l’avessi amato non sarebbe morto. O mamma, perdonami! Sono tanto infelice.

Il dolore della ragazza tormentata dal rimorso, era così straziante nella sua esplosione che la madre ne fu commossa.

Pietosa e buona fece sforzi sovrumani per frenare la propria disperazione e consolare quell’anima inconsolabile.

Ma l’unica consolazione che potessero trovar tutte e due, era quella di piangere insieme.

Giorni tristi e cupi tener dietro a quel primo.

Il nonno di Cesare nella paurosa taciturnità del suo cordoglio pareva il più inconsolabile di tutti. [p. 51 modifica]

Egli non piangeva il figliuolo, che di questo si sarebbe rassegnato assai facilmente, ma l’erede dei suoi vasti domimi, e l’ultimo rappresentante della sua nobile prosapia.

L’amore della famiglia non aveva mai avuto altro significato per lui.

Perpetuare il nome, allargare i possedimènti senza essere mai forzato a dividerli, quest’era la sua formidabile passione. Per questo, s’era relegato in quell’eremo, nel cuore d’una piccola provincia dimenticata, in mezzo a villani, mentre il suo titolo, le ricchezze e l’ingegno gli avrebbero permesso di vivere in una grande città fra genti civili. Ma in una grande città, anche spendendo tutte le sue rendite non sarebbe mai arrivato a mettersi in cima a tanti più ricchi di lui: là invece egli regnava assoluto: in tutta la provincia non c’era un possidente che potesse contendergli il vanto dell’immensa estensione di terre, tutte esenti da ipoteche, nè la nomèa di primo capitalista. Colla vita che faceva, e la catena corta a cui teneva legata la famiglia, non spendeva un quarto delle sue rendite; il resto andava in aumento dei capitali misteriosamente nascosti, o era impiegato nell’acquisto di qualche fondo limitrofo che rendeva sempre più vasto il suo patrimonio. [p. 52 modifica]

Ne’ primi anni della sua gioventù però aveva menato altra vita. Laureato in legge e nelle matematiche all’università di Padova fiorente a que’ tempi, egli s’era poi trovato in posizioni eminenti; ma non sò per quali ambizioni deluse o scacchi d’amor proprio si ritirava ancora giovane in Istria dove l’amministrazione delle sue passessioni e altri affari reclamavano la sua presenza.

Aveva trentacinque anni allorchè un giorno il fratello, di poco più giovane, che non s’era mai allontanato dal paese ed era in tutto ligio alla sua volontà, entrò nella sua biblioteca, e dopo molti preamboli ebbe con lui questo dialogo:

— Fratello mio, cominciamo a non essere più ragazzi.

— Pur troppo!

— Ebbene! Dobbiamo rimanere sempre soli così?

— Sei stato tanto tempo solo, e non te ne sei accorto, come mai ci pensi ora che sono venuto a tenerti compagnia?

— Oh! non parlo per me sai! s’affrettava a dire il fratello minore. È l’onore della casa che mi sta a cuore.

— E a me no forse! Capisco a cosa tu vuoi venire. Pensi che sarebbe tempo di provvedere agli eredi? [p. 53 modifica]

— Salvo la tua volontà, caro fratello, io crederei proprio che sia giunto il momento, prima che gli anni ci assalgano.

— Per Iddio! esclamava il fratello maggiore, vorresti dire che non siamo più giovani?

— Che il cielo me ne guardi, fratello diletto; ma il nostro erede non deve essere il figlio della nostra vecchiaia, e sopra tutto, deve essere nostro.

— Ho capito. È logico: hai ragione. Dunque a chi di noi il prender moglie?... Poichè, tu comprenderai al pari di me, che non tutti e due dobbiamo farlo.

— Sono perfettamente della tua opinione, rispose il fratello che non aveva studiato: ora che ci hanno levati i feudi, ci occorre la più occulata prudenza per deludere il rigore della legge. Ma tu sei il maggiore, a te tocca decidere; che se a te piacesse di più restar libero, dillo, affinchè provegga io in tempo al decoro della famiglia. Questo era lo scopo delle mie parole.

Quegli che fu poi il conte nonno, guardò da capo a piedi il suo fratello minore; e, dopo un momento di pausa:

— Ci penserò io, disse.

L’altro chinò la fronte, e cercò di sfuggire allo [p. 54 modifica]sguardo penetrante che pareva volergli leggere nel più segreto del cuore.

E lo aveva egli veramente un segreto? Quella risoluzione del fratello maggiore veniva forse a spezzare un dolce sogno di felicità? Quella parola detta così freddamente, era forse la condanna di due esistenze?

Chi lo sa!

Se mai, è certo che il segreto non fu tradito. Non un lamento, non un rimprovero rivelò al capo della famiglia il sacrifizio che il suo cadetto gli aveva fatto, ammesso che sacrifizio ci fosse.

Ligio allo stesso principio, schiavo del medesimo pregiudizio, egli non poteva lagnarsi di ciò che teneva per giusto. Ma non andarono molti anni che quel tronco inutile, cui era vietato il mettere nuovi rami si disseccò a poco a poco, e morì.

Una fanciulla nobile di nascita, ma non molto ricca, che viveva coi suoi parenti in un villaggio vicino, entrò in un convento e si consacrò a Dio, intorno a quel tempo. Ma le fanciulle nobili e poco provviste di beni, che prendevano il velo, erano ancora assai frequenti in quegli anni, per cui nessuno vi badò.

Il fratello maggiore intanto aveva fatto tutto quanto [p. 55 modifica]stimava suo dovere di fare. Aveva preso moglie, conformandosi in tutte alle tradizioni de’ suoi antenati.

Ma appena accomodata la faccenda dell’erede, quel brav’uomo aveva voluto escire dalle pastoie del matrimonio; ma senza scandali e senza scene. Tradizione anche questa.

Sotto pretesto dell’aria e di poca salute la nobile donna cui aveva affidato l’alta missione d’aiutarlo a propagare la sua stirpe, era andata ad abitare un paesello poco distante dalle sue terre. Il figliuolo comune, passava l’estate col padre, l’inverno colla madre. Del resto il conte era un perfetto cavaliere verso sua moglie; l’andava a trovare tutte le domeniche, e tanto a Natale che a Pasqua, pranzavano sempre insieme. La gentil donna passava il tempo a fare molto carità, a ricever visite d’ogni classe di persone, a dar delle feste e a colmar di carrezze, il suo figlioletto. Finchè, un bel giorno, morì, e un funerale di primo rango, non meno che una bella epigrafe sulla sua tomba nella cappella riservata della famiglia, attestarono al mondo la tenera affezione del marito, e la vita esemplare e felice che aveva vissuto al suo fianco.

Altri anni passarono. L’erede adorato andò all’università. [p. 56 modifica]

Questo giovane conte, che doveva essere il padre di Cesare, non somigliava punto al sup proprio padre. Era buono, dolce di cuore e niente ambizioso il povero conte Carlo. Suo padre lo lasciò dunque per sette o otto anni in città perchè si svagasse. Finalmente, allorchè pensò ch’egli avesse raggiunta l’età in cui doveva a sua volta provvedere agli eredi; lo richiamò.

Moglie e buoi de’ paesi tuoi, dice il proverbio; il vecchio conte riconosceva tutta la saggezza di questo detto, e le donne di città gli facevano paura. Però, egli aveva già da lungo tempo messóo gli occhi sopra una brava ragazza, la quale aveva inoltre la qualità essenziale di essere molto ricca e unica erede d’un suo confinante. Questa doveva essere la moglie del conte Carlo.

Per uno di que’ miracoli, che accadono una volta in cent’anni, gli occhi del padre e gli occhi del figlio si erano incontrati sul medesimo oggetto. I due giovani si amavano; ma sia per timidezza, o per una conoscenza troppo precisa del carattere del vecchio, tennero il loro amore nascosto fino all’ultimo, e finsero d’accettare con tutta la passività dell’obbedienza un comando che li rendeva tanto felici. Se il vecchio lo avesse saputo sarebbe stato [p. 57 modifica]capace di mandare a monte il matrimonio, magari a rischio di rimetterci de’ buoni chilometri di boschi e di vigne.

Disgraziatamente la cosa non poteva rimaner celata in eterno; anzi, una volta maritati, il conte Carlo e la contessa Ottavia non si curarono più di nascondere i loro sentimenti.

Il vecchio cominciò a essere inquieto. Ma si consolava ancora pensando che quelle tenerezze amorose erano semplice effetto della luna di miele, e d’un sangue giovane e ben nudrito.

— Prima non s’amavano certo, diceva da sè per far tacere il proprio turbamento; è un matrimonio che ho fatto io per forza di calcolo; possibile che il diavolo ci abbia messo la coda e che s’amino per davvero! —

Cesare nacque, e i due sposi s’amarono più di prima. Era una delizia a vederli. La signora Ottavia allattava il suo bimbo da sè; e Carlo raddoppiava di tenerezza e di cure.

Il conte, divenuto nonno oramai, pazientò ancora per qualche mese: era l’ebbrezza delle gioie paterne che esaltava il cuore del suo figliuolo, e bisognava lasciarla sfogare, dacchè la natura gli aveva fatto questo brutto tiro di dare a lui, uomo pratico e positivo, un figliuolo romantico e portato all’idillio. [p. 58 modifica]

Ma finalmente gli parve di non poter più star zitto, in coscienza. Il bimbo era divezzato, e il pericolo eminente. Allora egli parlò sul serio a Carlo dei suoi doveri di nobile; degl’imbarazzi che la nascita d’altri figli potrebbe recargli un giorno; dell’inutilità d’aver sposata una donna ricca, se i beni stabili accresciuti con tante cure, dovevano correre il rischio d’essere frazionati: e di molte altre cose parlò, e diede consigli, che bisognava proprio esser cieco per non vedere quale tesoro di prudenza contenessero. Ma tutto invano. Il conte Carlo sentiva d’amare ogni giorno più la sua dolce compagna, e si sapeva assai ricco da provvedere decorosamente, non solo a due, ma anche a dieci figliuoli.

Così, in forza di quest’amore Cesare, ch’era il primogenito, ebbe due fratelli e cinque sorelle.

Il conte nonno sudava freddo. Quella fecondità gli gonfiava il fegato: quel disprezzo così sfacciato della sua volontà gli avvelenava la vita.

— Maledetta chioccia! brontolava fra i denti a ogni nuovo germoglio del suo vecchio stipite.

Ma le ombre degli avi ch’egli invocava nelle sue angoscio si mossero finalmente a pietà del suo stato.

I due maschi minori morirono e anche il padre gli tenne dietro. [p. 59 modifica]

Non dirò che il conte nonno ne fosso contento r ma, cosa volete! irritato oramai per la disobbedienza di Carlo, e ridotto a veder cadere a una a una le più care speranze, bisogna confessare che la morte di quelle tre creature lo sollevò di un peso enorme, e che ciò gli rese assai meno amara la perdita.

Drizzò la fronte allorchè si vide nuovamente padrone assoluto in casa sua, e il timore di dover dividere le sue terre cessò dal tormentarlo.

— Questo pensiero m’avrebbe condotto innanzi tempo al sepolcro, diceva sospirando nè suoi soliloqui.

Una collera cieca lo prese quando seppe che Cesare era andato in Sicilia. Lui, l’unico erede di tanto ben d’iddio andare a rischiar la vita per una causa straniera alla sua famiglia? Meno male se si fosse ammogliato prima e avesse assicurato un rampollo; ma così, c’era di che schiantare!

Immaginate, la disperazione di questo vecchio quando sentì che Cesare era morto.

E quella sfacciatella d’Emilia che aveva il coraggio di venir là a dire ch’era partito per colpa sua, e che s’ella lo avesse voluto sposare non sarebbe morto!

Tutto era perduto: i beni stabili si sarebbero dovuti dividere un giorno tra cinque figlie: e osavano muoversi intorno a lui, osavano respirare!