Cesare/XI

Da Wikisource.
XI

../X ../XII IncludiIntestazione 23 marzo 2021 75% Da definire

X XII

[p. 128 modifica]

XI.

Emilia intanto aveva visto e sentito tutto.

Pazza di dolore e d’orgoglio offeso, correva senza saper dove, tanto per fuggire: andando così alla cieca il caso la portò improvvisamente davanti alla scuderia. Era dominata da un desiderio invincibile di andar lontano, di abbandonare per sempre quei luoghi ch’erano stati testimoni della sua umiliazione.

La cosa le pareva così mostruosa che a momenti non poteva persuadersi che fosse vera.

Ma i suoi occhi vedevano ancora l’odiata immagine d’un fatto che la sua mente e il suo cuore non volevano accettare siccome un fatto.

Nella scuderia trovò Gianni, quel giovane [p. 129 modifica]contadino di cui suo zio le aveva detto che sarebbe morto volentieri per un’ora dell’amor suo.

Vedendolo l’Emilia, che in quello stato di esaltazione aveva una singolare rapidità di pensiero, se ne rammentò subito, un po’ anche per il contrasto che c’era tra questo ricordo e l’umiliazione che il suo amor proprio di donna aveva sofferto: e un sorriso amaro le increspò le labbra.

— Sellami un cavallo, disse, voglio partire; fa presto.

Il giovane s’affrettò a obbedirla.

— Se la signorina comanda che l’accompagni sono ai suoi ordini, disse timidamente.

— Sì, accompagnami; non posso andar sola: ma spicciati che non venga mio zio.

Emilia saltò sul leggiadro animale avvezzo a portarla e a ricevere le sue carezze; ma quella sera lei non avrebbe avuto una carezza nè anche per sua mamma se le si fosse presentata davanti. Avrebbe voluto distruggere l’universo.

Tutto era spezzato nell’anima sua: la speranza era un sogno, la fede un’ironia: l’amore un inganno. Non voleva più che odiare e disprezzare: gli uomini non meritavano altro. In quel primo impeto sentiva più la collera che il dolore: l’offesa era [p. 130 modifica]terribile: quell’impressione fulminante l’aveva come irrigidita. E la tenerezza, il rimpianto non avevano ancora avuto il tempo di rammollir la sua fibra.

Una febbre ardente le faceva battere i polsi: lagrime infocate che non potevano scorrere bruciavano le sue palpebre.

Tradita, dimenticata, derisa: quest’era il premio che le toccava dopo aver tanto amato.

Non pareva più lei: imprecava, malediceva cielo e terra.

Ma la terra le mandava incontro come un sorriso di scherno, i dolci profumi della sua vegetazione in fiore: il cielo pioveva sulla sua fronte i mille raggi dei suoi astri.

No, la natura non si commoveva alle sue maledizioni, come non la avrebbero commossa le sue lodi più fervide.

Immutabile e eterna essa le schiudeva il tesoro de’ suoi splendori, a lei tradita, come alla sua rivale felice.

Ma lei avrebbe voluto versare un oceano di fiele sulla terra che le pareva beffardamente festiva, un oceano nero che salisse fino alle più eccelse sommità dèi cielo.

Impotente collera, e vana. Ella non poteva che avvelenar sè stessa. [p. 131 modifica]

Veramente?

Ohibò!

Un’altra vendetta le restava: insensata, inutile, ma che pur le pareva dover calmare l’animo traboccante d’odio: poteva, come la vipera, mordere il passeggero inocuo e ignaro del suo veleno.

Era bella, e sapeva d’esserlo: era morta nell’anima, splendida di giovinezza al di fuori.

Molte cose poteva.

Tutta assorta in questi pensieri funesti, Emilia non apriva bocca.

Avevano già fatta tutta la discesa in silenzio. Il servo non osava dire una parola che turbasse le riflessioni della sua signora.

La valle era tutta coperta dalle tenebre: ma la luna illuminava bizzarramente le roccia bianche di Castel Venere.

— Strana leggenda! pensava la fanciulla levando gli occhi a quell’altezza. Forse, la donna che abitò lassù aveva una vendetta a compiere.

E le ciniche insinuazioni del suo vecchio parente tornavano alla sua memoria, senza farle ribrezzo come una volta.

— Potrei sposare il signor Arturo, pensò. E perchò no? È ricco molto, e sufficientemente bestia, come dice mio zio. Sarebbe un buon marito. [p. 132 modifica]

Un riso amaro deformò per un momento la sovrana armonia del suo volto.

Un usignuolo cominciò a cantare, invitando forse la diletta compagna a tessere il nido: ma il suo canto non destò più nella giovinetta il pensiero che le qualità vantate dal suo tutore erano qualità negative, e che gli uccellini sceglievano i loro compagni probabilmente con altro criterio.

No. Nè il mormorio del ruscello che scendeva lento lento fin nei più ombrosi recessi della valle, nè l’onda molle che lambiva amorosamente le larghe pietre dei pilastri e luccicava come argento liquido, nè il profumo malinconico della ginestra, la facevano più pensare a ciò che avrebbe detto la sua povera mamma morta di cui ignorava perfin la tomba.

Tutto era soggettivo, e dove il cuore innamorato aveva letto: amore e vita: il suo cuore ricolmo di odio, leggeva: fango e morte.

— Gianni! chiamò la fanciulla volgendosi verso il giovane contadino.

— Eccomi, padrona.

— Accostati, ho qualche cosa a dirti.

Gianni obbedì. I suoi occhi azzurri non osavano fissarsi su quel viso superbo e irato: ma egli la vedeva anche senza guardarla. [p. 133 modifica]

— Sei tu felice, Gianni? cominciò Emilia.

— Felice! La felicità non è fatta per un povero contadino come me. Una volta...

— Una volta?

— Quando portavo i quattrini della settimana a mia mamma e la mi diceva: — Bravo figliuolo... ero tutto felice; ora....

— Non ce l’hai più la mamma, ora?

— Sì, ma non basta più a farmi felice!

Emilia restò un momento sopra pensiero, poi ripigliò:

— Hai mai amato, Gianni.

— Padrona....

— Dunque?

— Come si fa a non amare a questo mondo dove il signor Iddio ha messo tante... belle cose?

— Ah! ami la bellezza!

— Dio l’ha creata a posta, padrona: ma i poveretti come me non possono che adorarla da lontano.

— E, dov’è la bellezza che tu adori così?

— Oh padrona, è... è da per tutto ma più nel mio cuore.

— Nel tuo cuore? Chi ti ha insegnato a rispondere con tanta furberia, senza tradire il tuo segreto, dì? [p. 134 modifica]

— Non so, padrona.

— Ah, Gianni, non mi far degl’indovinelli!

Ma dimmi piuttosto, perchè parli sempre senza alzare il capo, sono tanto brutta io che hai paura a guardarmi?

— Ah! signora, signora tutta la bellezza che Dio ha dato al cielo e alla terra....

— Ebbene? perchè t’arresti?

— Signora, abbia compassione: non rida di me, io non so parlare, non ho imparato sui libri.

— Già, al solito, voi altri siete tutto innocenza, tutto candore! Ma vi sono anche tra voi gli scaltri, o meglio forse le scaltre, che sanno giovarsi di quest’apparenza bugiarda per giungere ai loro fini!...

Gianni chinò il capo in silenzio.

Emilia, tornando a sprofondarsi nei suoi tristi pensieri, non badò più a lui per qualche tempo. Non si sentiva che il passo dei cavalli a il rumore delle onde.

A un tratto, come se se ne fosse rissovenuta improvvisamente, sospinta forse dall’acre bisogno di tormentar qualcheduno per dare sfogo al suo proprio dolore, lei si volse un’altra volta al giovane, e gli fece questa domanda: [p. 135 modifica]

— Dimmi, è vero quello che hai detto un giorno?

— Che ho detto? esclamò Gianni trasalendo.

— L’anno passato quando mi incontrasti sulla strada e mi desti quella cassetta... dopo dicesti qualche cosa sul conto mio: non te ne ricordi?

— Ah! padroncina mia! Signorina, per carità, mi perdoni!

— E chi ti dice ch’io sia in collera?

Gianni non rispose: la fronte chinata e pallida, tremante da capo a piedi, sentiva una mano di ferro che gli stringeva la gola, e un sudore diaccio intridergli i capelli.

— Perchè non mi rispondi? Cos’hai? ridomandò la fanciulla.

I cavalli andavano al passo.

Ella aveva avvicinato tanto il suo a quello di lui, chè, parlando, il suo alito gli sfiorava il viso.

Egli alzò lo sguardo al cielo.

Gli pareva che tutto gli sorridesse, che tutto gli parlasse d’amore.

Gianni non era proprio un ignorante: aveva anche lui la sua piccola letteratura, specialmente aveva letto delle poesie amorose e aveva sentito raccontar delle fiabe. Tutto ciò si moveva confusamente nella sua immaginazione, ma con molta vivacità. [p. 136 modifica]

Pensava a que’ principi bellissimi e nobilissimi condannati a vivere sotto umili apparenze da qualche mago invidioso fino al giorno che la bella predestinata venisse a levarli dal loro stato pronunciando la magica parola che tutto trasforma, cui ogni altro incanto si deve piegare.

— Se fosse questo! pensava in cuor suo.

Gli avevano detto, è vero, che queste eran fole; che non erano mai esistite; o almeno che ciò non accadeva più a’ nostri tempi.

Ma chi lo sapeva? Che prove ci erano in contrario? pensava ancora Gianni da sè, straordinariamente esaltato dal fascino di quel momento.

Sotto quel bel cielo tutto splendore e armonia, su quella terra tutta fiori, vicina a quel mare voluttuoso che non si stancava di baciar la riva, in mezzo a quel silenzio e a quel mistero, Gianni trovava molto semplice che le fate regnassero ancora.

E se creature più perfette e più potenti delle umane vivevano sulla terra, Emilia doveva essere una di quelle.

Solo che avesse voluto pronunciare la parola magica, Gianni era sicuro che avrebbe sciolto l’incantesimo che lo condannava ad essere un contadino rozzo e ignorante. Sentiva che lo avrebbe trasformato per sempre. [p. 137 modifica]

— O dolce fata! Pronuncia la parola che mi farà degno di te, e io t’amerò in eterno! — andava mormorando tra sè.

— O dunque, non me lo vuoi dire? esclamò Emilia impazientita di quel suo silenzio.

Gianni si riscosse tutto a codesta escita.

— È vero, o non è vero che vorresti dannarti in eterno purchè io ti concedessi solo un’ora d’amore? Ti sembro davvero tanto bella?...

— Bella come Iddio! esclamò il giovine.

— E sapresti amare così, tu? mormorò Emilia vicinissima a lui.

Gianni non rispose. Pazzo, fuori di sè, non sentiva più che un desiderio, una bramosia ardente che offuscava la sua ragione. Con un moto più rapido del pensiero fermò il cavallo. Quello d’Emilia imitò sull’istante il compagno e rimase fermo anche lui.

Allora il giovane che non poteva parlare per via dell’emozione, gettò le braccia al collo alla bella sirena che lo aveva stregato e si diè a baciarla con tanto impeto, con tanta furia che per il primo momento Emilia rimase come insensata.

Ma ben presto l’orgoglio offeso e lo sdegno la fecero tornare in sè, risvegliando il suo naturale imperioso. [p. 138 modifica]

Con tutta la forza di cui era capace essa lo respinse, e, forse istintivamente adoperò la frusta che teneva nella mano destra. Il giovane la sentì sulle spalle e sul viso.... invece dei baci che sognava. Si svegliò.

In quel momento le passioni più feroci ruggivano dentro al suo petto; poco mancò ch’ei non dimenticasse non solo il rispetto che doveva alla signorina, ma perfino ogni senso di umanità.

Ma Emilia era forte e coraggiosa e aveva già dato di sprone al cavallo; e in lui stesso più della collera poteva l’angoscia che gli spezzava il cuore. Le sue palme si sciolsero, curvò la testa sul petto, una inesprimibile debolezza lo vinse. Intanto il cavallo che voleva tener dietro al compagno prese uno slancio e gettò in mezzo alla strada il suo disgraziato cavalcatore.

Povero Gianni! aveva sperato ch’ella pronunciasse la parola divina, e che fosse una parola d’amore.

Invece ella aveva riso di lui e lo aveva trattato come l’infimo dei suoi servi.

Ah, le fiabe non erano altro che fiabe!

O era passato il tempo. Le fate benefiche non esistevano più: non trasformavano più i poveri contadini in principi ideali. [p. 139 modifica]

Non vivevano più altro che donne crudeli, le quali li precipitavano sempre più basso, nel fango.

E lui giaceva davvero in mezzo al fango e alla polvere della strada. Tra per lo sbalordimento della caduta e lo spasimo che provava nel corpo e nell’anima, non era capace di muoversi.

Emilia intanto andava avanti. Il cavallo di Gianni appena si fu accorto che l’uomo, che certo stimava essere il suo padrone e che amava per lunga dimestichezza, era caduto, s’arrestò di botto e nitrì. Questo nitrito fece voltar l’Emilia che s’arrestò e gridò, senza collera:

— Torna a Salvori, e non darti pensiero di nulla: ho dimenticato. Ma ho bisogno d’esser sola. Via, non t’accasciare! Porta questo a tua madre, e consolati.

Gianni senti un corpo grave che venne a battergli sulla fronte con suono metallico; era un borsellino con alcune monete d’oro ch’Emilia portava sempre in tasca per vezzo.

Certo ella non intendeva offenderlo con questo; a mente calma e con le idee che aveva, ella non poteva persuadersi ch’egli fosse altro che un servo, naturalmente pauroso e avido di denaro. Per lui invece fu più che un’offesa; fu l’ultimo colpo di [p. 140 modifica]baionetta che finisce il soldato ferito a morte. Un singhiozzo che pareva un ruggito escì dal suo petto, e una terribile imprecazione. Ma la bella amazzone cui era forse diretta, non poteva sentirla e non ci pensava. Oramai era lontana. Anche a lei la disperazione spezzava il cuore; e era una disperazione cupa e feroce che la spingeva a cercare un sollievo nel male che faceva agli altri.