Che cosa è l'amore?/X

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X - Giacominus Giacomini

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IX XI

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GIACOMINUS GIACOMINI.

Quella volta la mamma, per quanto pietosa, non potè nascondere il grave fallo di Giacomino: il babbo venne, seppe, e quella sera grandinò.

Una grandine alla vigilia di Natale?

Sì, una grandine di busse, ma non sui campi: bensì sulla persona di Giacomo Giommi, ovvero Giacominus Giacomini, come lo chiamavano beffardamente i compagni di scuola, figlio legittimo ed unico del signor cav. Antonio e della signora Palmira, scolaro ginnasiale scioperatissimo.

La signora Palmira conosceva del non egregio suo Giacomino tutte le prodezze: dalla vendita della grammatica latina per acquistare il diritto di copiare i problemi, alle lezioni marinate con superba disinvoltura; sapeva perchè diminuiva lo zucchero ed aumentava in modo anormale la lista del calzolaio e del sarto. Il padre, cav. Antonio, ignorava tutte queste cose: prima perchè nessuno gli diceva niente, secondo perchè dalle sette del mattino — ora in cui si levava — a mezzanotte e anche all’una talvolta — ora in cui rincasava non compariva nel domestico [p. 120 modifica]focolare che per le due ore del pranzo. Però se ignorava l’analisi, intuiva la sintesi:

— Quel ragazzo non ha voglia di far niente di bene!

— Ha ingegno, e farà bene — risponde la signora Palmira che più si avvicinava alle nozze d’argento e meno veniva dividendo le idee del marito.

— Ingegno a dir le bugie, ingegno a sgraffignare se trova, ingegno ad inventare tutte le scuse per faticare meno che si può e godersela più che può. Credete che io non me ne accorga?

— E anche in ciò si richiede ingegno — rispondeva la signora Palmira, la quale si riserbava almeno il diritto di parlare sempre per ultima.

Chi possedeva l’analisi e la sintesi sul conto di Giacomino era la donna di servizio: ella sapeva tutti i progressi fatti da lui nel folklore delle ingiurie plebee ad una umile fantesca: da servaccia, sguattera sino a certe parole che offendevano la dignità del sesso. Ella aveva anche imparato la differenza che passa tra l’impressione di una scarpa coi chiodi e un’altra senza chiodi: i modi con cui Giacomino comandava potevano ricordare un linguaggio non più ammesso dalla democrazia. Vero è che, quanto a termini ingiuriosi, la domestica disponeva di un vocabolario ricchissimo. In questi casi Giacomino, leso nel suo onore, riferiva alla mamma.

La mamma allora interveniva come giudice e [p. 121 modifica]diceva: «Mettiamo bene le cose a posto. Tu sei la serva e lui è il padroncino, tu sei una donna fatta e lui è un bambino ancora ingenuo.»

«Per me l’è un barabba!» diceva con profonda convinzione la donna, e allora Giacomino assisteva ad un’altra varietà di diverbio, quello fra la donna di servizio e la mamma: diverbio molto più clamoroso e lungo perchè la donna di servizio si credeva in diritto di pretendere per sè l’ultima parola.

Dunque quella antivigilia di Natale la signora Palmira aveva dovuto recarsi alla direzione del Ginnasio, chiamatavi d’urgenza da un laconico biglietto del signor Direttore.

Veramente il biglietto era per il padre e non per lei.

Il signor Direttore, anzitutto rilevata questa sostituzione, accolse la signora Palmira con un contegno così solenne ed enigmatico che la detta signora perdette la sua abituale sicurezza.

— Abbia ad ogni modo la bontà di accomodarsi.

«Non avrà mica ammazzato qualcuno!» pensò la signora Palmira.

Il signor Direttore torna a sedere sul suo seggiolone: preme il bottone elettrico: compare il bidello: ordine di far comparire Giacomino Giommi, e Giacomino compare.

«Povero figlio mio — palpitò la signora Palmira come lo vide con un aspetto così compunto [p. 122 modifica]come mai gli era accaduto — questa volta ne hai fatto una grossa!»

Il Direttore con una crudele lentezza estrasse un foglietto e lo presentò alla signora.

— È questo — domandò — il carattere del suo signor consorte?

— Veramente... — disse la signora.

— Questo è un falso; ieri il suo signor figliuolo ha presentata questa giustificazione. Del resto guardi — e col dito fulminò lo scolaro — habemus confitentem reum! — Per tutto questo ed altro io desidero la presenza del padre.

— Ma... — obbiettò la signora Palmira.

— Assolutamente: intanto la avverto che il suo figliuolo, per deliberato consiglio dei professori, è sospeso dalle lezioni. Questo come preavviso: il resto verrà poi!

Il signor Direttore fece capire che non aveva altro da esporre, almeno a lei, signora Palmira.

La signora Palmira inchinò, uscì, con Giacomino dietro.

«Si può essere più imbecilli? E si può essere più villani con una signora? Un falso! a quell’età!» e rideva verde: tuttavia come giunse a casa, ordinò con un cenno al rampollo di seguirla. La signora elevò il tu alla potenza del lei.

— Ha inteso, bel signorino?

— È stato Finotti...! — rispose Giacomino con un tono che non avrebbe per nulla indicato quel nobile sentimento «che fa l’uom di perdon [p. 123 modifica]talvolta degno»: indi dirotto pianto, ma di rabbia.

— Finotti a far che? a scriver la lettera?

— No, a dirmi come si doveva fare la scusa. La fanno tutti, mica io soltanto! Il direttore l’ha su con me, e mi castiga solamente me — così rispose Giacomino.

— Va bene: lei vada intanto nella sua stanza.

Giacomino non domandava di meglio e si rifugiò nella sua stanza dove tutto serbava traccia delle sue imprese: la tappezzeria stracciata per ornare il palazzo della regina nel teatrino dei burattini: le sedie adattate a biciclette e ad automobile: il lume meccanicamente contorto per costituire il fanale della detta automobile: le quali cose insieme a molte altre, se davano alla stanza un disordinatissimo aspetto, provavano le disposizioni congenite del giovanetto alla meccanica.

Ma quel triste vespero Giacomino entrò assai turbato nella sua stanza: il gatto che lo vide — al rumor della porta aveva levato la pupilla dal suo vigile sonno — come saetta fuggì: negli esperimenti meccanici di Giacomino, o nelle rappresentazioni dei burattini, egli — onesto micio — era forzato a fare delle parti repugnanti alla sua indole tranquilla.

*

*  *

Proprio in quell’ora il signor cav. Antonio tornava a casa. [p. 124 modifica]

L’abitudine nei paterfamilias è così forte che essi ricasano anche quando la dimora non è più asilo di pace.

Il signor Antonio era bensì cavaliere per ragione del suo grado ufficiale, ma viceversa doveva sgobbare come un somiere. Giacchè se lo stipendio governativo era sufficiente per una famiglia di abitudini modeste, diveniva inadatto a sopperire al treno di casa quale era imposto dall’esempio delle altre famiglie e dalla filosofia della signora Palmira, la quale soleva dire: «Si vive una volta sola e perchè ci dovremo privare di qualche piccolo benessere?» Per soddisfare questo piccolo benessere, il cav. Antonio doveva «arrotondare» il suo stipendio.

Questa necessità dell’arrotondare degli stipendi spesso rappresenta uno sgonfiamento del denaro pubblico, e qualche volta ha il suo epilogo nelle aule dei tribunali. Ma è proprio vero che il signor Antonio arrotondava onestamente, cioè lavorando di più col tenere alcune amministrazioni private.

Però con questa vita da bue lavoratore portare il titolo di cavaliere, è una ironia! Ma il cavalier Antonio non si accorgeva oramai più di questa ironia: il mondo era divenuto per lui un immenso cartafaccio con colonne di numeri lunghe lunghe da sommare, e non finivano mai, e non lo avrebbero mai abbandonato: lui sì avrebbe abbandonate le formiche delle cifre il dì della [p. 125 modifica]morte, ed esse — le cifre — sarebbero state prese sotto tutela da qualche altro: ma suo figliuolo — Giacomino — sarebbe divenuto non un impiegato, ma un libero professionista! ed ecco perchè Giacomino era entrato in Ginnasio e nella casa del cav. Antonio era entrato Rosa Rosae, genitivo e dativo, Fedro e la grammatica dello Schultz: arnesi di pensieri, dei quali il più domestico e perito era, a tutto dire, Giacominus ipse!

Il povero signor Antonio si confortava di respirare la libertà futura che avrebbe goduta il suo figliuolo, dottore, ingegnere, avvocato! Di altre soddisfazioni non ne aveva. Il thè che la sua signora offriva alle amiche nel giorno di ricevimento, aveva per lui un sapore di amarezza stantìa: e quanto al buon gusto della sua signora nel vestire egli era forse il solo a non apprezzarne tutta la finezza. Tuttavia anche lui aveva le sue oasi, rappresentate dalle rare e necessarie vacanze, e fra queste la più dilettosa e lunga era quella del Natale. «Tre giorni di pace in casa!» — pensava il signor Antonio rincasando — e passando dal pasticcere ha ordinato un dolce di vaste proporzioni: dal pollivendolo un tacchino, due capponi e tre dozzine di uova, dal droghiere, marsala e liquori. Con queste liete disposizioni di spirito il cav. Antonio entra nel lare domestico.

— Oimè! cos’è quest’aria di mistero? Perchè tutti si rimpiattano? dove è Giacomino? [p. 126 modifica]

*

*  *

La signora deve pur raccontare.

Il volto del cav. Antonio si offusca: insolitamente balena e lampeggia. La signora Palmira non ha mai assistito ad una burrasca di suo marito più improvvisa di quella. «Oh! come diventano neurastenici questi uomini! e poi chiamano isteriche, noi, donne!»

Il cav. Antonio entra nella stanza di Giacomino.

Giacomino lo sbircia.

Svelto come uno scoiattolo, ha presentito la caccia e la tempesta. Cerca di fuggire, ma la porta è chiusa.

Caccia, nella stanza, all’uomo, anzi a Giacomino!

Giacomino salta sul letto, s’appiatta, s’arrampica. Ma il terrore di quell’uomo che non ha mai visto così adirato, paralizza la velocità delle sue gambe.

Giacomino, infine, come un volgare malfattore, è preso da quell’uomo e per qualche tempo una grandine di pugni cade su di lui senza riguardo ad una parte piuttosto che ad un’altra della sua persona.

Finalmente la grandine cessò.

Al molto rumore di grida e di mobili smossi è successa una gran calma.

Il bruciore dei pugni passò in breve. [p. 127 modifica]Giacomino mette fuori la punta di un occhio: sbircia, e torna ancora a nascondere la testa fra le braccia. Sì, perchè quell’uomo è ancor lì, anzi era lui — quell’uomo — che faceva quel curioso rumore — e non sapeva prima quello che fosse — col fiato. Giacomino non si muoveva perchè aspettava che quell’uomo andasse via; e torna a sbirciare con la coda dell’occhio: guarda meglio, e lo vede finalmente alzarsi, e andar via.

Ma dietro la porta chiusa c’era la mamma che invano aveva forzato di aprire. E come i due si incontrarono, si appiccicarono: e Giacomino sentì che si dicevano fra loro quelle brutte parole che a lui erano interdette e per cui — per l’appunto — la serva lo chiamava barabba.

Ma il babbo, a differenza della mamma e della serva, non ci doveva tenere al diritto della parola per ultimo, perchè poco dopo fu un gran silenzio e non si mosse più nulla.

Però qualche piccola, impercettibile cosa si mosse. Dove? Dentro di Giacomino.

La mamma aveva detto che lui, quell’uomo, lo voleva ammazzare con tante busse, ma Giacomino non ne sentiva più nemmeno l’indolitura.

I pugni che pigliava talvolta, come incerto delle sue monellerie, da qualche condiscepolo, più robusto ed anziano, lasciavano un’impressione molto, oh molto più durevole. Eppure il babbo è molto più grosso di coloro!

E allora perchè? Perchè ha meno forza? E [p. 128 modifica]perchè ha meno forza? perchè ha la barba quasi bianca? Sono i vecchi che hanno la barba quasi bianca. Dunque il babbo è vecchio!

*

*  *

In quel punto la stanza si illuminò ma nessuno aveva portato il lume: era la lampada nella strada e la stanza appariva chiara, più chiara che mai, perchè oltre alla luce della lampada c’era la luce del tramonto, un tramonto di una luminosità trasparente e grande come suole d’inverno talvolta, con dei riflessi azzurrini.

Le altre volte che Giacomino era stato messo agli arresti di rigore nella sua stanza, come si era fatto certo di esser ben solo, obliava il suo fallo, obliava il rimprovero, obliava la lieve percossa ricevuta, e levati alcuni ferri dal comodino, si sfogava esercitando l’arte del meccanico con ingiuria dei mobili, ovvero insegnava la parte di elefante al gattuccio quando doveva comparire su la scena dei burattini. Così operando, tutto facilmente obliava.

Ma quella sera i mobili godettero della loro pace, e il micio — prudente — non c’era. In vece Giacomino pensò.

Che cosa pensasse, non è facile a dire: ma qualche cosa pensò: non alla mancanza della scuola, oh no davvero! [p. 129 modifica]

Ma il babbo, quell’uomo che vedeva così di rado; quell’uomo che per aver dato pochi pugni leggeri leggeri, tirava il fiato sul letto, poco fa; quell’uomo che la mattina si alzava col lume, e via; che la sera col boccone ancora in bocca, pioggia o bel tempo, inverno o estate, neve o afa, si alzava e via; quell’uomo che poco fa aveva detto «vergogna!» gli stava davanti: penosamente davanti.

Oh, bella! anche il direttore aveva fatto la voce terribile e aveva detto a Giacomino «vergogna!» eppure quella stessa parola «vergogna!» detta dal babbo gli faceva un altro effetto: gli faceva un’impressione più dolorosa che i pugni che aveva presi.

Giacomino voleva un gran bene alla sua mamma, mentre col babbo non aveva avuto mai gran relazione. Se ne riconosceva l’autorità, ciò era per il fatto che doveva dire «buon giorno, buona sera», per il fatto che era lui che metteva fuori i denari, era lui che per fare certe spese tirava fuori dal portafogli certi biglietti grossi che Giacomino avrebbe mutato così volentieri in tanti dolciumi; era lui, sempre lui.

Se non che la gran differenza tra prima e adesso era questa: prima gli pareva una cosa naturale che tutto ciò dovesse avvenire per parte del babbo, nel modo medesimo che è naturale che colui il quale ha sete va al caffè e ordina il gelato: chi ha fame va al ristorante e ordina un bel [p. 130 modifica]piatto di maccheroni: chi ha freddo va presso alla stufa: chi vuol fare un viaggio monta in treno: chi vuol vivere in montagna, prende in affitto una villetta sui monti nel tempo dell’estate, ecc. Ora tutte queste cose così naturali e così semplici, anzi così abituali, erano abituali semplici e naturali perchè c’era quell’uomo che vi pensava: quell’uomo che si alzava al mattino col lume, che la sera andava via col boccone in bocca, che poco fa ansimava per aver dato a lui Giacomino, due piccoli pugni, che avea detto «vergogna!» e avea la barba quasi bianca.

*

*  *

Congiunte queste due cose che prima erano disgiunte, Giacomino capì che aveva fatto male, molto male! Male a far la firma falsa? No. Ma se lo fanno tutti! Male a fare una cosa che dava dispiacere al babbo.

E siccome questo dispiacere che dava dispiacere al babbo, dava anche un certo non so che a Giacomino che gli faceva venire la voglia di piangere, così Giacomino si mosse in punta di piedi alla ricerca del babbo. Giacomino sa camminare, quando vuole, con la prudenza di un pellirosso: esce di stanza, fiuta e, naturalmente, s’avanza verso il tinello. No, il babbo e la mamma non pranzano, come credeva. La tavola è bensì [p. 131 modifica]apparecchiata, anzi c’è in mezzo la zuppiera. Ma nessuno dei due l’ha toccata.

Le posate sono al loro posto: sul canterano sono gli involti intatti dei doni di Natale.

Giacomino sbircia: la mamma, seduta su la poltrona, legge il giornale.

E il babbo?

È andato via anche quella sera che è l'antivigilia del Natale? Io non saprei proprio dire se Giacomino ebbe la visione dolorosa di tante belle serate con dolci, castagne, panna levata e cialdoni, forse anche con teatro, andate maledettamente a male per colpa del direttore; certo ebbe il sentimento che nessuno più del babbo soffriva per la sua mancanza.

*

*  *

C’era il lume nella stanza da letto. Giacomino spinse l’uscio. È il babbo che va a letto.

Giacomino non si ricorda più — perchè adesso è diventato un giovanotto serio e bravo — non si ricorda più quello che disse, però si ricorda che il babbo, quando lo vide con quelle disposizioni, fu molto buono con lui: lo perdonò subito subito e diceva: — Non mi darai più dispiaceri, vero? — e lui Giacomino rispondeva di no! con una convinzione insolita, e il babbo non gli diede nessun bacio, ma con la mano gli toccava i [p. 132 modifica]capelli, e ciò gli faceva un gran piacere, e quando il babbo gli disse: «Adesso va a mangiare, che avrai fame!» Giacomino non andò a mangiare, ma prima andò nella sua stanza e acceso certo suo candeliere, cominciò a scrivere una lettera al babbo. La lettera fu tanto lunga che nessun compito raggiunse mai, a memoria di Giacomino, una così spontanea prolissità.

Scritta la lettera, Giacomino la collocò in luogo tale che il babbo al mattino la scorse prima di ogni altra cosa.

Di fatto il babbo la scorse, la aprì, la lesse e riconobbe che il suo Giacomino ha cominciato a pensare. Ah, se il signor Antonio sapesse il latino, come si rallegrerebbe ripetendo il motto di Cartesio: cogito ergo sum, cioè non più Giacomino birichino, ma homo sum!