Chi l'ha detto?/Parte prima/21

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§ 21. Costanza, fermezza, perseveranza

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§ 21. Costanza, fermezza, perseveranza
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§ 21.



Costanza, fermezza, perseveranza





La più semplice impresa che possa adottare un uomo fermo nei suoi voleri, è il

327.   Non commovebitur.1

ch’era la epigrafe del famoso giornale ultramontano La Voce della Verità (i liberali solevano invece chiamarlo L’Urlo della Menzogna) pubblicato in Modena dal 5 luglio 1831 in avanti. Il motto era tolto da una medaglia fatta coniare a Vienna (incisa da Lang) dalla Corte di Absburgo a onorare la fermezza del duca Francesco IV nella sua fedeltà all’Austria, e divenne il motto del partito duchista. Era certamente una reminiscenza biblica, ma molti sono i luoghi delle Sacre Carte, come ben s’intende, dove sono ripetute queste due parole, per es. il Salmo XLV, vers. 6: Deus in medio eius non commovebitur, e il Salmo CXI, vers. 6: Quia in æternum non commovebitur.

Qual migliore pittura dell’uomo che ha adottato tale impresa a guida delle azioni sue, che la strofa oraziana:

328.   Justum et tenacem propositi virum,
Non civium ardor prava jubentium,
Non vultus instantis tyranni
               Mente quatit solida.2

[p. 92 modifica]E l’uomo che al pari del Petrarca può fieramente dire di sé:

329.   Sarò qual fui, vivrò com’io son visso.

(Sonetto in morte di M. Laura, num. XCV, secondo il Marsand, comincia: Ponmi ove’l Sole occide i fiori e l’erba; ed. Mestica, num. CXIII).

potrà anche sfidare le avversità della fortuna, facendosi contro di esse

330.   De la costanza sua scudo ed usbergo.

come canta il Parini nell’ode La caduta, str. 14:

E se i duri mortali
A lui voltano il tergo,
Ei si fa, contro ai mali,
De la costanza suo scudo ed usbergo.

Odasi invece il gran tragico inglese, Guglielmo Shakespeare, che nel Macbeth (atto I, sc. 3) dice a conforto di chi soffre:

331.                       Come what come may,
Time and the hour runs through the roughest day.3

La perseveranza nell’affaticarsi dietro a uno scopo purchessia è consigliata dal comune dettato:

332.   Gutta cavat lapidem.4

che aveva valore proverbiale anche presso i latini, quindi lo si ritrova in Ovidio, Ex Ponto, IV, 10, 5 e De arte amandi, I, 476; in Lucrezio, I, 314 e IV, 1281; in Tibullo, I, 4, 18; in Seneca, Nat. Quæst., IV, 3, e anche altrove. La bassa latinità allungò, annacquò e commentò il dettato così:

Gutta cavat lapidem, non vi sed sæpe cadendo.

Si faccia attenzione a non tradurre questo adagio latino, come voleva tradurlo «foneticamente» un ammalato di calcoli il quale [p. 93 modifica]confidava di guarire acquistando la gotta, poiché gutta cavat lapidem, la gotta cava la pietra!

In tempi più barbari dei nostri si fece di questo proverbio una crudele applicazione, traendone un supplizio dolorosissimo, di cui non mancano esempi storici. In una stanza ad uso di prigione nell’antico castello dei conti Guidi a Castel S. Niccolò nel Casentino si osserva ancora una nicchia praticata nella grossezza del muro, che ha nella parte superiore un’apertura rotonda a guisa di una pentola capovolta, con sopra un piccolo foro e davanti un finestrino. Una tradizione molto accreditata vuole che questa angusta cripta fosse un raffinato strumento di tortura, che si sarebbe adoperato chiudendovi il paziente dopo averne introdotta la testa in quella specie di canga, per obbligare la persona a una perfetta immobilità, mentre dall’alto e per il foro indicato dovea di tanto in tanto cadergli sul capo una goccia d’acqua (Beni, Guida illustr. del Casentino, Firenze, 1889, pag. 216).

La perseveranza nel lavoro è bene espressa dalla classica sentenza (che fu detta per Cesare):

333.   Nil actum credens, quum quid superesset agendum.5

334.   Per angusta ad augusta.6

era il motto del Margravio Ernesto di Brandeburgo (morto nel 1642). I frequentatori del teatro lirico l’hanno udito spesso nell’Ernani (atto III, sc. 3 e 4) ove il buon Piave lo introdusse come parola d’ordine dei congiurati contro Carlo V traendolo dal dramma omonimo, Hernani, di Victor Hugo (a. IV), donde egli tolse l’argomento del suo libretto.

Una forma più modesta della fermezza nel sopportare le traversie e le molestie spicciole, è la pazienza che un famoso romanziere bistrattava dicendo: [p. 94 modifica]

335.   La pazienza è cosa dura, e conviene meglio alla groppa del somiero che all’anima dell’uomo.

La fermezza era virtù romana per eccellenza; e come Orazio raccomanda di non turbarsi innanzi al pericolo,

336.   Aequam memento rebus in arduis
Servare mentem.7

così Virgilio consiglia di sfidare arditamente le male arti dei tristi:

337.   Tu ne cede malis, sed contra audentior ito.8

e di sopportare le presenti avversità confidando in un domani migliore:

338.   Durate, et vosmet rebus servate secundis.9

e di non lasciarsi smuovere dalle gravi e savie risoluzioni per le preghiere e le lagrime altrui:

339.   Mens immota manet, lachrimæ volvuntur inanes.10

Anche Ovidio, ricordando avversità peggiori, incoraggia a sopportare le presenti:

340.   Perfer et obdura: multo graviora tulisti.11

(Trist., lib. V, el. XI, v. 7).
[p. 95 modifica]mentre pari consiglio, in senso cristiano, rivolge un aureo libro:

341.   Certa viriliter, substine patienter.12

(Imitazione di Cristo, lib. III, cap. 19, v. 16).

Non mancano frasi che ricordino storici esempi di fermezza. Il più antico è il notissimo

342.   Batti ma ascolta.

Narra Plutarco nella Vita di Temistocle (§ XI) che a’ tempi della invasione di Serse in Grecia, essendo sorta disputa fra Euribiade ammiraglio di Sparta, e Temistocle capitano degli Ateniesi, chè il primo voleva che i Greci si ritirassero all’istmo, l’altro voleva apprestarsi a battaglia di mare, «alzando Euribiade il bastone in atto di voler batterlo, disse Temistocle: Batti pure e ascoltami. Euribiade maravigliato di cotanta mansuetudine, gli concesse che a suo talento dicesse.» Così la versione italiana di Marcello Adriani il giovane: nel testo greco la risposta di Temistocle suona: Πάταξον μέν, ἄκουσον δέ.

Erodoto nel lib. VIII delle Istorie (cap. 60) riproduce in un discorso di Temistocle tutte le ragioni che questi fece valere per persuadere Euribiade a non lasciare con la flotta lo stretto di Salamina, dove si trovavano, e dove, com’è noto, la vittoria arrise alle greche navi.

Ugualmente celebre è il

343.   Delenda Carthago!13

che ricorda la frase con la quale, secondo gli storici romani (Plutarco, Vita di Catone seniore, § 27; Servius, in Virgil., ad lib. IV, v. 683; Tito Livio, lib. XLIX: Valerio Massimo, De dictis memor., lib. VIII, cap. 15, § 2, ecc.), M. Porcio Catone censore, dopo aver veduto la floridezza riacquistata da Cartagine dopo la seconda guerra punica, chiudeva ogni suo discorso in Senato, qualunque ne fosse l’argomento, invocando la distruzione di Cartagine:

Ceterum censeo Carthaginem esse delendam.

[p. 96 modifica]Perciò i tedeschi abbreviano la citazione dicendo semplicemente: Ceterum censeo, mentre noi, e con noi i francesi ed inglesi, diciamo soltanto Delenda Carthago.

Uno storico romano, Tito Livio, ci ha pure conservata la frase

344.   Hic manebimus optime.14

che ha una storia interessante. Narra Tito Livio (lib. V, cap. 55) che nell’anno av. Cr. 390, dopo che i Galli avevano incendiata Roma, e molti fra i Senatori volevano abbandonare la vecchia città per portarsi a Veio, Camillo con splendida orazione li aveva quasi persuasi a restare dove erano. «Sed rem dubiam decrevit vox opportune emissa, quod, cum senatus post paulo de his rebus in curia Hostilia haberetur, cohortesque ex præsidiis revertentes forte agmine forum transirent, centurio in comitio exclamavit “Signifer, statue signum, hic manebimus optime.” Qua voce audita et senatus accipere se omen ex curia egressus conclamavit, et plebs circumfusa adprobavit.» — Il motto sepolto nelle antiche storie, fu richiamato a novella vita come fatidico augurio per la Terza Roma da Quintino Sella. «Volle (il Sella) che sulle pendici del Viminale, lungo la via percorsa dalle nostre schiere trionfanti il giorno in cui Roma fu resa all’Italia, s’inalzasse il Palazzo delle Finanze e qual simbolo dell’atto compiuto dal popolo italiano vi fosse posta la statua di un legionario romano che pianta in terra la lancia, con la scritta: Signifer ecc.» Così il Guiccioli nel suo libro su Quintino Sella, vol. I (Rovigo, 1887), pag. 355; che è anche preceduto dal ritratto del Sella medesimo sotto al quale sono riprodotte in facsimile le parole del legionario romano scritte di pugno del Sella nel 1871. Il monumento che doveva sorgere nel cortile centrale del palazzo, non fu mai posto.

Il motto:

345.   Fortiter in re, suaviter in modo.15

che si cita come regola di condotta della Compagnia di Gesù, ha veramente le sue origini nelle parole del quarto Generale dei [p. 97 modifica]Gesuiti, Claudio Acquaviva, il quale nel suo famoso libretto: Industriæ ad curandos animæ morbos (Florentiæ, 1600 e molte altre edizioni successive) dice: «Fortes in fine consequendo et suaves in modo et ratione assequendi simus» (verso la fine del cap. 2: De suavitate et efficacia in gubernatione coniungendis). È chiara la reminiscenza biblica del libro della Sapienza (cap. VIII, v. 1): «Attingit ergo a fine usque ad finem fortiter et disponit omnia suaviter.»

Non molti anni più tardi c’imbattiamo nel famoso:

346.   Eppur si muove!

che la leggenda voleva detto da Galileo quando, dopo aver letto in ginocchio l’abiura delle sue dottrine cosmografiche innanzi agli Inquisitori, sorse vacillando in piedi (22 giugno 1633). Ma di queste parole non si trova traccia negli scrittori del secolo XVII, comparendo soltanto in quelli della fine del settecento. Lo scrittore più antico che ne faccia menzione, finora conosciuto, è il Baretti nella Italian Library, London, 1757, pag. 52: non si conoscono finora autorità più antiche a stampa. Tuttavia è probabile, come ritiene il prof. Antonio Favaro, di cui è nota la profonda conoscenza di quanto riguarda la persona e gli studi di Galileo, che la leggenda, orale o scritta, risalga alla prima metà del secolo XVII, cioè sia di poco posteriore all’anno 1633: ed a ciò lo conforta, con altre ragioni, la scoperta di un quadro, firmato dal Murillo, e che può realmente assegnarsi a lui e con la data, a quanto sembra, del 1645, nel quale il motto famoso è ripetuto (ved. un articolo del Favaro nel Giornale d’Italia, del 12 luglio 1911). L’Eppur si muove ha già una piccola bibliografia, ma tutti coloro che se ne occuparono, furono concordi nel negarne la autenticità. Il primo che abbia formulato pubblicamente i suoi dubbi a tale proposito fu il dott. E. Heis, professore all’Accademia di Münster, con una nota inserita negli Annales de la Société scientifique de Bruxelles, 1876. Omettendo gli scrittori sulla vita di Galileo in generale, e sul suo processo in particolare, che quasi tutti si occuparono della questione, citerò soltanto un articoletto del compianto A. Bertolotti nel giornale popolare Il Mendico di Mantova, del 1º settembre 1866; un altro articolo nell’Intermédiaire des chercheurs et des curieux (année XXII, 1889, col. 78-80), e la risposta di Gilberto Govi nello [p. 98 modifica]stesso periodico (col. 168-171); la Zeitschrift für Mathematik und Physik (historisch-literarische Abtheilung), nel I fasc. del 1897 e finalmente vari articoli del dotto e cortese prof. Antonio Favaro; il quale, a mia richiesta, ripetevami non esservi dubbio alcuno per lui che quella frase sia assolutamente apocrifa. Galileo non potè in nessun modo tornare ad affermare la sua opinione dopo aver pronunziata l’abiura nella quale fra altre cose prometteva solennemente di denunziare al S. Offizio chiunque egli sapesse che quella opinione avesse sostenuto. Lo stesso esemplare del famoso Dialogo sopra i due massimi sistemi ch’egli postillò e nel quale trovansi ripetute invettive contro la insipienza dei suoi giudici, esemplare presentemente posseduto dalla Biblioteca del Seminario di Padova, e dal medesimo prof. Favaro illustrato nelle Memorie dell’Accademia delle Scienze di Modena, to. XIX, 1879, non serba traccia alcuna dell’Eppur si muove, il quale, ripetiamolo, non deve essere mai uscito dalle labbra di Galileo nè alla presenza del Sacro Tribunale nè dopo. Ma forse egli disse innanzi ai suoi giudici qualcosa di simile, donde potesse sorgere l’equivoco? Non ci consta; anzi molto probabilmente, dopo pronunziata l’abiura, egli null’altro soggiunse, e se qualche parola uscì dal suo labbro, sarà stata di ringraziamento per la mitezza della condanna, indirizzata ai Cardinali, taluno dei quali (come il Bentivoglio) era stato suo scolare: precisamente come in Austria, nei felici tempi del bastone, era d’obbligo che il bastonato ringraziasse chi gli aveva applicata la pena!

Nei tempi nostri avremo da ammirare l’eroico

347.   J’y suis et j’y reste.16

del generale Mac Mahon, risposta data da lui l’8 settembre 1855 all’ufficiale inglese Michael Biddulph durante la guerra di Crimea, dopo aver occupato la torre di Malakoff dove le truppe erano esposte al fuoco micidiale dei Russi. Qualcuno volle contestargli il merito della risposta, eroica e semplice: ma la testimonianza della persona stessa cui le parole furono dirette, venne a confortare la tradizione (Interm. des cherch. et des cur., 30 mai 1908, col. 800; 10 juin 1908, [p. 99 modifica]col. 848) nonchè quella del generale Lebrun, testimonio auricolare (Souvenirs des guerres de Crimée et d’Italie, Paris, 1889, a pag. 158). Essa ricorda il nostro Ci siamo e ci resteremo, del quale avremo luogo a parlare più avanti.

Faremo invece memoria di un altro motto illustrato da Casa Savoia, cioè il

348.   Sempre avanti Savoia!

motto antico e tradizionale di quella augusta famiglia. Un dotto collaboratore dell’Intermédiaire des chercheurs et des curieux che si cela sotto lo pseudonimo di Sabaudus, così scriveva in quel giornale, num. del 10 août 1904, col. 177-178: «Froissart nous appelait déjà: les toujours avant Savoyens; ce qui.... semble démontrer l’ancienneté du cri national: En avant, Savoyards! Sempre avanti Savoia! qui a retenti en Crimée, en Italie, à Béthancourt, en 1871, dans la bouche du marquis A. Costa de Beauregard et qui est resté la devise de la reine douairière Marguerite de Savoie.» Infatti esso divenne popolare ai giorni nostri specialmente in grazia di un episodio relativo alla Regina Madre e che non sarà inutile di ricordare.

In occasione del viaggio che i Sovrani d’Italia, Umberto I e Margherita, da poco saliti al trono, fecero in Sicilia, ecco che cosa narrava il Fanfulla, giornale romano di solito ben informato delle cose di corte, nel numero del 9 gennaio 1881: «L’ammiraglio Fincati avea telegrafato all’ammiraglio Acton, in viaggio da Roma a Napoli con la famiglia reale [il 3 gennaio 1881], lo stato del mare. Il dispaccio raggiunse il treno a Sparanise, e diceva che il vapore venuto da Palermo a Napoli annunziava di aver trovato mare cattivo e oscurità di ciclo che obbligava a procedere con precauzioni. Il tempo grosso cresceva. La Roma era ormeggiata, pronta a salpare se ordini sovrani lo richiedevano, ma il mare impediva l’imbarco fuori del porto. I semafori segnalavano lo stesso cattivo tempo in cielo e in mare: l’ammiraglio Fincati aspettava ordini. Questo il dispaccio.

«L’ammiraglio Acton era in piedi nel vagone quando leggeva il telegramma, e stava a guardare il foglio titubante, preoccupato per la responsabilità di trasportare la Regina con un tempo capace di far danno alla sua salute. La Regina gli disse: [p. 100 modifica]

— «Ammiraglio, che notizie ha ricevuto?

— «Maestà.... È lo stato del mare (e stava per riporre il foglio onde comunicarlo poi al Re).

«La Regina stese la mano.

«Non c’era da esitare. L’ammiraglio consegnò il telegramma.

«Alle prime righe la Regina vide di che si trattava e abbassò il telegramma per permettere al Principino, che le sedeva vicino, di seguirne la lettura insieme a lei.

«Quando Sua Maestà s’accorse che il fanciullo aveva letto, prese una matita e sul bracciolo del seggiolone, sotto gli occhi stessi del Principe, scrisse; fece leggere in silenzio ciò che aveva scritto e rese il telegramma al ministro. Questi lo prese e vide le seguenti parole scritte così:

«Sempre avanti Savoia!!!

«L’ammiraglio s’inchinò e pregò la Regina di autorizzarlo a serbare quell’autografo come prova della fermezza d’animo di Sua Maestà. E il viaggio restò deciso malgrado le notizie.

«L’esito ha dato ragione alla intrepida Regina e al valente marinaro.» Il Fanfulla del 15 marzo 1881 pubblicava il facsimile dell’intiero telegramma comprese le belle parole della Regina Margherita.

In Germania troviamo un’altra frase caratteristica:

349.   Nach Canossa gehen wir nicht.17

frase detta nel Reichstag tedesco dal Principe di Bismarck il 14 maggio 1872, alludendo al conflitto dell’Impero col Vaticano. È quasi superfluo di ricordare che Canossa, castello presso Reggio Emilia, fu il teatro della umiliazione di Enrico IV dinanzi al pontefice Gregorio VII (1077). I giornali napoletani dell’ottobre 1894, narrando i particolari di un colloquio fra Emilio Castelar e il Sindaco di Napoli, dissero che Castelar rivendicò a sè medesimo l’origine di questa frase bismarckiana. Egli, essendo presidente della Repubblica di Spagna, e dovendosi provvedere ad alcuni vescovati vacanti, si mise d’accordo col Papa per le nomine, Bismarck scrivendogli gliene mosse rimprovero, e Castelar rispose [p. 101 modifica]che egli, oltre ad esser cattolico per sentimento, doveva come capo del popolo spagnuolo tener conto della religione dominante nella nazione, e finiva la lettera dicendo: Voi pure andrete a Canossa. Poco tempo dopo, Bismarck, allora preoccupato dal Kulturkampf, volendo esprimere il suo pensiero, si ricordò della frase di Castelar, e disse: Noi non andremo a Canossa (vedi il Mattino di Napoli, 24-25 ottobre 1894). Va osservato però che Castelar fu presidente della Repubblica di Spagna dal 9 settembre 1873 al 2 gennaio 1874, cioè assai dopo che Bismarck aveva pronunciato la celebre frase.

  1. 327.   Non si commoverà.
  2. 328.   L’uomo giusto e tenace di propositi non riusciranno a smuovere dal suo fermo pensiero nè il malo furore di prepotenti cittadini nè il fiero viso di minaccioso tiranno.
  3. 331.   Avvenga che può, anche nel dì più burrascoso le ore e il tempo trascorrono.
  4. 332.   La gocciola scava la pietra.
  5. 333.   Parendogli nulla aver fatto se qualcosa ancora restasse a fare.
  6. 334.   Per vie anguste ad eccelsi luoghi.
  7. 336.   Ricordati di serbare nei gravi frangenti mente serena.
  8. 337.   Non cedere dinanzi ai malvagi, ma opponiti a loro arditamente.
  9. 338.   Perseverate, e serbatevi a migliore avvenire.
  10. 339.   Resta immutato nel suo pensiero, e lascia scorrere inutilmente le lacrime.
  11. 340.   Sopporta e persevera; cose molto più gravi sopportasti.
  12. 341.   Combatti virilmente e sopporta pazientemente.
  13. 343.   Cartagine ha da essere distrutta.
  14. 344.   Qui resteremo benissimo.
  15. 345.   Agire fortemente con modi soavi.
  16. 347.   Ci sono e ci resto.
  17. 349.   Noi non andremo a Canossa.