Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XXVII

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Purgatorio
Canto ventisettesimo

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Purgatorio - Canto XXVI Purgatorio - Canto XXVIII
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C A N T O   X X V I I.




1Sì come quando i primi raggi vibra
     Là dove il suo Fattor il sangue sparse,
     Cadendo Ibero sotto l’alta Libra,1
4E l’onde in Gange di novo riarse,2
     Si stava il Sole; onde ’l giorno sen giva,
     Come l’Angel di Dio lieto ci apparse.
7Fuor de la fiamma stava in su la riva,
     E cantava: Beati mundo corde,
     In voce assai più che la nostra viva.
10Possa: Più non si va, se pria non morde,3
     Anime sante, il foco: intrate in esso,
     Et al cantar di là non siate sorde,
13Ci disse, come noi li fummo presso;4
     Per ch’io divenni tal, quando io lo intesi,
     Qual è colui che ne la fossa è messo.
16In su le man commesse mi protesi,5
     Guardando il fuoco, e immaginando forte
     Umani corpi già veduti accesi.

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19Volsersi verso me le buone scorte;
     E Virgilio mi disse: Filliuol mio,
     Qui può esser tormento; ma non morte.
22Ricordati, ricordati... se io6
     Sovr’esso Gerion ti guidai salvo,
     Che farò ora presso più a Dio?
25Crede per certo che, se dentro all’alvo
     Di questa fiamma stessi ben mille anni,
     Non ti potrebbe far di un capel calvo.
28E se tu credi forsi ch’io t’inganni,7
     Fatti ver lei, e fatti far credenza
     Co le tue mani al lembo de’tuoi panni.
31Pon giù omai, pon giù ogni temenza:
     Volgeti in qua, e vien meco siguro;8
     Et io pur fermo, e contra coscienza.
34Quand’ei mi vidde star pur fermo e duro,
     Turbato un poco, disse: Or vedi, fillio,
     Tra Beatrice e te è questo muro.
37Come al nome di Tisbe aperse il cillio
     Piramo in su la morte, e ragguardolla,
     Allor che ’l gelso diventò vermillio;
40Così la mia durezza fatta solla,
     Mi volsi al savio Duca udendo il nome,
     Che sempre ne la mente mi rampolla.9
43Ond’ei crollò la fronte, e disse: Come,
     Volenci star di qua? Indi sorrise,
     Com’al fanciul si fa che è giunto al pome.10

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46Poi dentro al fuoco inanzi mi si mise
     Pregando Stazio che venisse dietro,
     Che pria per lunga strada ci divise.
49Sì com fui dentro, in un bolliente vetro
     Gittato mi serei per rinfrescarmi:
     Tant’era ivi lo incendio senza metro.
52Lo dolce Padre mio, per confortarmi,
     Pur di Beatrice ragionando andava,
     Dicendo: Li occhi suoi già veder parmi.
55Guidavaci una voce che cantava
     Di là; e noi, attenti pur a lei,
     Venimmo infin là ove si montava.11
58Venite, benedicti patris mei,
     Sonò dentro ad un lume che lì era,
     Tal che mi vinse, e guardar nol potei.
61Lo Sol sen va, soggiunge, e vien la sera:
     Non v’arrestate; ma studiate ’l passo,
     Mentre che l’occidente non s’annera.
64Dritta sallia la via per entro ’l sasso
     Verso tal parte, ch’io tollieva i raggi
     Dinanzi a me del Sol ch’era già basso.
67E di poghi scallion levammo i saggi,
     Chè ’l Sol colcar, per l’ombra che si spense,12
     Senti’mi dietro et io e li mie’ Saggi.13
70E pria che in tutte le suo’ parti immense14
     Fusse orizonte fatto d’uno aspetto,
     E notte avesse tutte suo’ dispense,
73Ciascun di noi d’un grado fece letto:
     Chè la natura del monte ci affranse
     La possa del salir, più e ’l diletto.15

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76Quali si stanno ruminando manse
     Le capre, state rapide e proterve
     Sovra le cime, avanti che sian pranse,
79Tacite all’ombra, mentre che ’l Sol ferve,
     Guardate dal pastor che ’n su la verga
     Poggiato se, e lor di posa serve:1617
82E qual el mandrian, che fuor alberga
     Lungo ’l peculio, e quieto pernotta,
     Guardando perchè fiera nollo sperga;
85Tali eravamo tutti e tre allotta,18
     Io come capra, et ei come pastori,
     Fasciati quinci e quindi d’alta grotta.19
88Pogo potea parer lo Ciel di fuori;20
     Ma per quel pogo vedev’io le stelle
     Di lor solere e più chiare e maggiori.
91Sì ammirando, e rimirando quelle,21
     Mi prese il sonno, e ’l sogno che sovente,22
     Anti che ’l fatto sia, sa le novelle.
94Nell’ora, credo, che dell’oriente
     Prima raggiò nel monte Citerea,
     Che di foco d’amor par sempre ardente,
97Giovana e bella in sogno mi parea
     Donna veder andar per una landa
     Colliendo fiori, e cantando dicea:
100Sappia qualunqua il mio nome dimanda,
     Ch’io mi son Lia, e vo movendo intorno
     Le belle mani a farmi una ghirlanda.

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103Per piacermi a lo specchio qui m’adorno;
     Ma mia suora Rachel mai non si smaga
     Dal suo ammirallio, e siede tutto giorno.
106Ell’è coi suo’ belli occhi veder vaga,23
     Com’io de l’adornarmi co le mani:24
     Lei lo vedere, e me l’ornare appaga.25
109E già per li splendori antelucani,
     Che tanto ai peregrin surgen più grati,26
     Quanto tornando albergan men lontani,
112Le tenebre fuggian da tutti lati,
     E ’l sonno mio con esse; ond’io leva’mi,27
     Veggiendo i gran Maestri già levati.
115Quel dolce pomo, che per tanti rami28
     Cercando va la cura de’ mortali,
     Oggi porrà in pace le tuo’ fami.
118Virgilio verso me queste cotali
     Parole usò; e mai non funno strenne,
     Che fosser di piacer a queste eguali.
121Tanto voler sopra voler mi venne
     Dell’esser su, ch’a ogni passo poi
     Al volo mi sentia crescer le penne.
124Come la scala tutta sotto noi
     Fu corsa, e fummo sul grado superno,
     In me ficcò Virgilio li occhi suoi,
127E disse: Il temporal foco e l’eterno
     Veduto ài, fìllio, e se venuto in parte,
     Dov’io per me più oltre non discerno.

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130Tratto t’ò qui con ingegno e con arte:
     Lo tuo piacer omai prende per duce:
     Fuor se’ dell’erte vie, fuor se’ dell’arte.
133Vedi ’l Sol che in la fronte ti riluce;29
     Vedi l’erbetta, e’ fiori e li arbuscelli,
     Che qui la terra sol da sè produce.
136Mentre che vegnon lieti li occhi belli,
     Che lagrimando a te venir mi fenno,
     Seder ti puoi e poi andar tra elli.
139Non aspettar mio dir più, nè mio cenno:
     Libero, dritto, e sano è tuo arbitrio,30
     E fallo fora non fare a suo senno;
142Per ch’io te sopra te corono e mitrio.

  1. v. 3. C. M. l’altra Libra,
  2. v. 4. C. M. da nona riarse,
  3. v. 10. C. M. C. A. Poscia:
  4. v. 13. C. M. C. A. Ei disse,
  5. v. 16. C. A. mani commesse mi presi,
  6. v. 22. C. A. e se io
  7. v. 28. C. A. tu forse credi che
  8. v. 32. C. A. Volgiti in qua e vieni, entra sicuro;
  9. v. 42. C. A. Che nella mente sempre mi
  10. v. 45. C. A. è vinto al pome.
  11. v. 57. C. A. Venimmo fuor là dove si
  12. v. 68. C. A. corcar,
  13. v. 69. C. A. Sentimmo
  14. v. 70. C. A. Prima che
  15. v. 75. C. M. più che il diletto.
  16. v. 81. Se; è terza persona dall’infinito sere. E.
  17. v. 81. C. A. e lor poggiato serve:
  18. v. 85. C. A. eravam noi tutti
  19. v. 87. C. A. dalla grotta.
  20. v. 88. C. A. Poco pareva lì del Ciel
  21. v. 91. C. A. Sì ruminando,
  22. v. 92. C. A. e il sonno che
  23. v. 106 C. A. è de’ suoi begli
  24. v. 107. C. A. dell’adornarmi con le
  25. v. 108. C. A. Lei il vedere,
  26. v. 110. C. A. pellegrin surgon
  27. v. 113. Leva’mi; levaimi, ove l’i soppresso viene indicato dall’apostrofo, come in rife’mi Purg. c. xii v. 7, e in pente’mi c. xxii v. 44. E.
  28. v. 115. C. A. pome,
  29. v. 133. C. A. Vedi lo Sol che in fronte
  30. v. 140. C. A. diritto, sano

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C O M M E N T O


Sì come quando i primi raggi vibra ec. Questo è lo xxvii canto de la seconda cantica, nel quale lo nostro autore finge come passò la fiamma del fuoco, e sallitte suso nel paradiso terrestre. E dividesi principalmente in due parti, perchè pima finge come passò la fiamma, e come venne a la sallita del paradiso; ne la seconda finge come, venutane la sera, s’addormentò, e come ebbe in sul di’ una visione, e come svelliato giunse suso nel paradiso, e come Virgilio lo coronò poeta, et incominciasi quive: Quali si stanno ruminando ec. La prima che serà la prima lezione, si divide in cinque parti: imperò che prima descrive lo tempo e dimostra come ne venia la sera, e come uno angiulo gli apparve che li ammonitte che più su non s’andava sensa intrare nel fuoco, e com’elli sparitte; ne la seconda finge come Virgilio lo conforta, e come per lo conforto di Virgilio non si movea, et incominciasi quive: Volsersi verso me cc.; ne la tersa finge come Virgilio, vedendolo stare duro, l’allettonitte1 col nome di Beatrice, e come diventato per vedere Beatrice animoso e siguro di passare, s’inviò ne la fiamma di rieto a Virgilio, et [p. 642 modifica]incominciasi quive: Quand’ei mi vidde ec.; ne la quarta finge com’elli intrato ne la fiamma, sentitte grandissimo incendio, e come Virgilio lo confortava raccordandoli Beatrice, et una voce angelica ch’era di là sempre li confortava del passare ammonendo che ne venia la sera, e come iunseno a la montata del paradiso, et incominciasi quive: Sì com fui dentro, ec.; nella quinta finge come era fatta la sallita al paradiso, e come venutane la notte s’addormentonno in su la scala, et incominciasi quive: Dritta sallia ec. Diviso lo canto ne le parte principali e la lezione prima ne le suoe parti, ora è da vedere l’esposizione letterale, e l’allegorico intelletto o vero morale.

C. XXV11 — v. 1-18. In questi sei ternari lo nostro autore finge che ora era presso a la sera, quando l’angiulo apparve loro2 et invitolli e confortolli a montare suso al paradiso, notificando loro che pria si convenia passare la fiamma; unde finge che a lui intrasse grande paura, dicendo così che ’l Sole era in Ariete, et era3 in su la sera al nostro oriente dov’è lo fiume Gange, sicchè quive era allora lo4 incendio del Sole, e già li primi raggi dibatteano in verso Ierusalem; e di verso l’occidente nostro dov’è Ibero fiume, che è ne la Spagna, Libra che è uno segno opposito ad Ariete andava già inverso l’altro emisperio, nel quale finge l’autore ch’elli fusse all’ora; sicchè se Ariete nel suo emisperio incominciava a calare, nel quale era lo Sole, convenia che da la parte opposita incominciasse a5 calare Libra che arrecava la notte: imperò che è opposito segno ad Ariete. E com’è stato ditto di sopra, nell’altro emisperio è occidente quello che a noi è oriente, et è oriente quello che a noi è occidente. E dèsi incominciare l’ordine del dire così: il Sole Si stava; cioè ne l’emisperio di là quive, dove io Dante era allora, Sì come; sta, s’intende, quando vibra i primi raggi; cioè dibattendo percuote coi primi raggi la mattina, quando apparisce a noi nel nostro emisperio, Là dove; cioè in quello luogo dove, il suo Fattor; cioè lo nostro signore Gesù Cristo, che fece lo Sole e la Luna e tutta la mondana composizione, il sangue sparse; cioè quando fu crocifisso in su la croce, cioè in Ierusalem in sul monte da Calvaria, Cadendo Ibero; che è fiume in Ispagna e corre nel mare oceano da la nostra parte occidentale, sotto l’alta Libra; cioè sotto quel segno che si chiama Libra; nel quale segno era allora la notte; e dice alta; avendo respetto che6, come lo Sole che era allora in Ariete [p. 643 modifica]era anco alto di là dall’orizonte nostro orientale; così era di qua Libra ancora dall’orizonte occidentale, E l’onde in Gange: Gange è quil fiume che la santa Scrittura chiama7 Fison, che entra ne l’oceano in verso lo nostro oriente, e però si dè intendere8 Gange; cioè quil fiume cadendo, E l’onde; cioè del mare oceano orientale, riarse di novo: imperò che quive allora di nuovo lo Sole scaldava e riardeva lo mare oceano, nel quale cade Gange nel nostro oriente; e però ben seguita: Si stava il Sole; onde ’l giorno; cioè per la qual cosa lo giorno, sen giva; cioè se n’andava dall’emisperio nel quale io era allora, Come; cioè quando, l’Angel di Dio lieto ci apparse; cioè ci apparitte a me Dante et ai miei9 duttori. Fuor de la fiamma stava; cioè l’angiulo, in su la riva; unde noi andavamo, E cantava: Beati mundo corde; finge l’autore che l’angiulo, a conforto di quelli che sono purgati del vizio de la lussuria, cantasse quella parola che è scritta nell’Evangelio; cioè: Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt: imperò che Dante, purgato di tutti li setti peccati mortali, sallito nel paradiso terrestro, dovea vedere Cristo sì, come li mondi del cuore che vedranno Iddio, secondo che dice l’Evangelio, In voce assai più che la nostra viva: imperò che la voce angelica è più viva che l’umana. Possa Ci disse; cioè quello angiulo a noi di sopra nominato, come; cioè quando, noi li fummo presso; cioè al ditto angiulo: Più non si va; ecco quil che ci disse, Anime sante; cioè chiamando noi anime sante, se pria non morde il foco; cioè questa fiamma colui che vuole andare più su. intrate in esso; cioè nel fuoco, disse lo ditto angiulo a noi, Et al cantar di là non siate sorde; cioè siate attente ad udire quel canto, che udirete di là da la fiamma. Per ch’io; cioè per la qual cosa io Dante, divenni tal; cioè diventai sì fatto, quando io lo intesi; cioè ch’io dovea intrare ne la fiamma, e che mi vi convenia intrare s’io volea montare suso, Qual è colui; cioè sì morto e pallido per la paura, come è colui che è morto; e però dice, che; cioè lo quale, ne la fossa è messo; per sotterrare. In su le man commesse, cioè avvinghiate insieme, come fa l’omo per dolore, mi protesi; cioè mi stesi, dicendo nel mio animo: Or come v’entrerò io? Guardando il fuoco; come guarda l’omo la cosa, di che elli à paura, e immaginando forte; cioè pensando ne la mia imaginazione, Umani corpi già veduti accesi; li quali mi parea tutta via vedere, e così imaginava che dovesse diventare io, e però m’intrava paura.

C. XXVII — v. 19-33. In questi cinque ternari lo nostro autore [p. 644 modifica]finge come la sua guida; cioè Virgilio, lo confortò del passare la fiamma; e com’elli stava pure pertinace, dicendo cosi: Volsersi verso me; cioè Dante, le buone scorte; cioè Virgilio e Stazio, secondo la lettera; secondo l’allegoria, la ragione e lo intelletto, le quali du’ sono le milliori scorte che siano. E Virgilio mi disse; cioè a me Dante. Ecco che finge che parli Virgilio e non Stazio: imperò che la ragione dimostra che l’anima non può morire separata dal corpo: imperò che coniunta col corpo non muore, benchè si separi; ma ben può sostener tormento miraculosamente; la qual cosa anco dimostra la ragione, che tiene che Iddio è onnipotente. Filliuol mio; chiama Dante filliuolo: imperò che la sensualità è filliuola de la ragione quando obedisce la ragione, Qui può esser tormento; cioè in questa fiamma, ma non morte: imperò che l’anima non può morire; ma parlando di quelli del mondo, li quali denno intrare ne la fiamma de la contrizione volendosi liberare di tal peccato, è vera la10 smania che in tale ardore senteno dolore per l’afflizione che si danno, venendo da fervente carità de la virtù; ma non morte: imperò che di quinci si vince la morte eterna e guadagnasi la vita. Ricordati, ricordati...; questo colore si chiama conduplicazione, che si fa per cagione d’accrescere; e però per accrescere lo conforto, dice du’ volte che si ricordi, et argomenta da le cose passate, dicendo: se io; cioè Virgilio, Sovr’esso Gerion; questo Gerion è uno mostro, lo quale l’autore finse essere ne lo inferno, nel canto xvii, che significa la fraude, come quive convenientemente è esposto, in sul quale montò Virgilio in verso la coda e fece montare Dante in su le spalle, e desceseno in su quella fiera del cerchio vii ne lo viii, e non sensa grande misterio fece questa fizione sì, come quive appare; e però dice: ti guidai salvo; sicchè Gerion co la sua coda non ti potette pungere, che io stetti in mezzo e venniti allora di rieto sì, che la fraude non ti potesse nuocere descendendo a trattare d’essa; e così ora io t’anderò inanti e farò che questa fiamma non ti potrà nuocere; e questo dice allegoricamente: imperò che intrare a trattare de la lussuria è intrare ne la fiamma e ne l’arsura, e se la ragione non va inanti guidata da la grazia di Dio, ella incenderebbe la sensualità et arderebbe; ma la ragione, guidata da la Grazia Divina et aiutata, guida la sensualità senza morte; ma non senza pena: sente bene l’omo pene ne la battallia de la tentazione; ma non morte; cioè corrumpimento, se la ragione va inanti; et è in questo peccato bisogno che la ragione vada innanti: imperò che, se non osta ai princìpi, lo rimedio viene poi tardi, Che farò ora; io Virgilio: via mellio ti guiderò e più siguramente; ecco la ragione: presso più a Dio? Quanto [p. 645 modifica]l’omo è più presso a Dio11, tanto è l’omo più potente a resistere al peccato; e benchè secondo la lettera Dante sia più presso a Dio che non è stato infine a qui: imperò che è montato infine al vii girone del purgatorio sopra ’l quale è lo paradiso delitiarum, secondo la sua fizione; secondo l’allegoria anco si dè intendere che è più presso a Dio che non è stato infine a qui: imperò che è purgato di quelli peccati, de’ quali non era purgato quando fu ne lo inferno sopra Gerione; e quanto l’omo più è purgato dei peccati, tanto è più presso a Dio, e più fortezza à a resistere a le tentazione; e però ben finge che argomenti la ragione. Crede per certo; ora li dà fede di quello che à detto, dicendo: Crede; tu, Dante, per certo che, se dentro all’alvo; cioè dentro al ventre: alvo si chiama il ventre in Grammatica, Di questa fiamma stessi ben mille anni, Non ti potrebbe far di un capel calvo; cioè non ti potrebbe torre una minima parte d’onestà, secondo l’allegoria, essendo io tua guida co la grazia di Dio; e secondo la lettera, come ditto fu di sopra. E se tu credi; cioè tu, Dante, dice Virgilio, forsi ch’io t’inganni; ecco che la ragione dà l’esperienzia a la sensualità, quando la vede tarda a la credenzia; e però dice: Se tu non credi che sia vero quil ch’io t’abbo ditto, Fatti ver lei; cioè inverso la ditta fiamma, e fatti far credenza; cioè esperienzia la quale fa credere, Co le tue mani al lembo de’ tuoi panni. Secondo la lettera è verisimile; ma secondo l’allegoria intende che si faccia fare credenzia a le suoe membra, che sono lo vestimento dell’anima; e se la carne non riceve incentivo, nè arsione da tal fiamma quand’ella à tale guida, prova è che l’anima non se ne dè corrompere. Che santo Cerbone stesse in mezzo de le due vergini a dormire, e non sentisse incentivo di carne era ferma esperienzia che l’anima sua non potea da tale incendio essere offesa; e però conchiude: Pon giù omai, pon giù ogni temenza; cioè tu, Dante, dice Virgilio, Volgeti in qua; cioè in verso la fiamma, e vien meco; dice Virgilio, tu, Dante, siguro; non avendo paura de lo incendio, Et io; cioè Dante, non ostante lo conforto di Virgilio, pur fermo; cioè stava ne la mia paura, e contra coscienza; stava, s’intende: imperò che la coscienzia mi rimordea del non credere a la ragione assegnata, e niente di meno stava pur fermo ne la mia duressa.

C. XXVII — v. 34-48. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, lusingato da Virgilio, si misse a passare la fiamma, dicendo cosi: Quand’ei; cioè quando elli; cioè Virgilio, mi vidde; cioè vidde me Dante, star pur fermo e duro; cioè di non voler passare per la fiamma, Turbato un poco; cioè Virgilio: la ragione poco si [p. 646 modifica]turba; cioè dispregiando e cacciando il male, e moralmente tocca lo costume del savio che modestamente si corruccia, disse; a me Dante: Or; cioè ora: Or è interiezione esortativa, vedi, fillio; chiama Dante fillio perchè, come è ditto, la sensualità dè obedire’a la ragione, come lo filliuolo al padre, Tra Beatrice e te è questo muro; cioè questo mezzo di questa fiamma è come muro che ci conviene passare, se tu vuoi andare a vedere Beatrice. Questa Beatrice, la quale l’autore finge sè amare tanto ardentemente, et ella lui, come ditto è nel processo, significa la santa Teologia de la quale lo nostro autore s’inamorò infine che elli era fanciullo o vero garzone; e però finge che ella fusse giovanetta: imperò che puerilmente la studiava e la intendea; e poi finge che la12 santa donna morisse; cioè che, cresciuto lo intendimento a lui sicchè intendea già le cose grande, a lui venne meno lo desiderio di tale studio, e questo fu lo morire e partirsi di questo mondo: imperò che si partì de la fantasia sua occupata da beni ingannevili del mondo; ma non sì che sempre non sentisse ne la mente sua un grande desiderio di ritornare ad essa et amarla ferventissimamente et a lei accostarsi. Ma perchè ciò non13 potea fare irretito nei peccati, pensò prima d’arrecarsi in odio i vizi e li peccati, considerando la loro viltà e la pena che con seco arrecano; appresso di purgarsi d’essi co la penitenzia e poi ritornare a la santa Teologia et accostarsi a lei, considerando e contemplando le cose celesti quante ne mostra la santa Teologia, e questo non potea fare se prima non compieva la sua purgazione del peccato de la lussuria, come s’avea purgato delli altri; e però ben finge che Virgilio dica che tra Beatrice e lui era quil muro, e questo intelletto si dichiarerà mellio nel processo della cantica, et anco si vede in certe cansoni morali che l’autore compuose, ne le quali tratta di Beatrice. E questo vasti quanto a questa parte al presente, secondo l’allegoria; ma secondo la lettera l’autore nostro, volendo che questo suo libro sia repertorio di tutte le persone diffamate e di tutte le persone virtuose note a lui infine al suo tempo, àe nominato ne la prima cantica le persone diffamate, e ne la seconda e tersa le persone degne di loda sotto vari modi e diverse fizioni; e però come alla entrata14 del purgatorio fece menzione del buono Catone romano uticense, ponendolo a guardia de la intrata del purgatorio, intendendo altro per lui come sposto fu quive, così qui fa menzione di Beatrice e fingerà che la trovi nel paradiso delitiarum. E debbiamo intendere che, udendo le virtù di sì fatta donna, secondo la lettera, elli s’inamorasse de la fama sua ch’ella era stata nel 1100, [p. 647 modifica]sicchè mai nolla vidde, per la quale quello che ne intese è già statoditto. Ma per fare menzione di due donne virtuose che occorseno a la memoria sua, avendo nomi convenienti a la sua figurazione; cioè Beatrice e Matelda, dei quali lo primo si conviene a la Teologia che beatifica l’anima, e l’altro a la dottrina sua che è sua filliuola: imperò che Matelda significa Mathesis, laudem dans vel docens, che è conveniente nome a la pratica de la santa Chiesa, cioè dante o vero insegnante loda de la15 sentenzia di Iddio; la qual cosa fanno li atti pratici de la Chiesa; cioè dire l’officio, consecrare, batteggiare, confessare, predicare ec., àe finto che s’innamorasse de Beatrice, secondo la lettera. Questa fu madonna Beatrice filliuola dell’imperadore di Costantinopuli, la quale inamoratasi con uno barone italiano che era in sua corte, volendo contraere matrimonio con lui, pensando che lo imperadore non dovesse consentire, si partitteno di là, e venneno in Italia, e quive compietteno lo matrimonio. Saputo questo da lo imperadore, volseli rivocare a sè; ma non volendovi andare, mandò loro grandissimo tesoro e privilegi de le tenute che lo imperio avea di qua, sicchè compronno Brescia16 e Lombardia e molte altre città, e fu sì virtuosa la loro vita e la loro signoria, che molte città si sottopuoseno loro, e l’imperadori che venneno in Italia molte tenute concedetteno loro e molte città. E di costoro nacque la contessa Matelda, de la quale si dirà nel suo luogo, et ebbeno titulo di conti e di duci da l’imperadori preditti; e di questa Beatrice finge l’autore per la cagione preditta ch’elli s’inamorasse. Questa madonna Beatrice molti beni fece a le chiese in Italia per l’amore di Dio, come si dirà di sotto; moritte a Pisa la contessa Beatrice inanti al 1116, e sotterròsi ne la tomba che17 è ora ne la mura de la chiesa maggiore pisana inverso lo campanile. E però appare che questo innamoramento sia finto per la cagione preditta: imperò ch’ella fu inanti a l’autore per più di cento anni, e però ciò che ne dice si dè intendere allegoricamente; e questo pensieri m’abbo fatto per cagione solamente dei nomi. Se questa fu la intenzione dell’autore, nollo approvo, perchè nel testo non è parola che ’l provi, se non ne la tersa cantica18 xxxiii, nel quale finge che vedesse Beatrice sedere nel terso grado de’ beati con Rachele, secondo che anco dice nel secondo canto della prima cantica, dove dice: Che mi sedea con l’antica Rachele; ne le quali parole si comprende ch’elli li dà luogo in vita eterna, come all’altre anime beate; dunqua seguiterebbe che secondo la lettera intendesse de la ditta donna, benchè secondo [p. 648 modifica]l’allegoria abbia inteso de la Santa Scrittura. E per mostrare l’affezione ch’elli avea a Beatrice, arreca una similitudine d’una fizione poetica, che pone Ovidio nel libro iv Metamorfosi, di Piramo e di Tisbe, dei quali dice lo prefato autore che funno di Babilonia; et essendo fanciulli e vicini, sicchè abitavano in case contigue, si puoseno amore e crescendo creve l’amore, e diventò l’amore disonesto lo quale era incominciato con onestà, et aveano trovato che ’l muro di mezzo tra l’una casa e l’altra avea una fessura per la quale, quando non erano veduti, si parlavano insieme. E non potendo avere quello che desideravano, si dienno in posta d’andarsi via insieme, et ordinonno di uscire la sera de la città; e dienosi la posta di capitare a la sepoltura del re Nino ch’era fuora de la città presso ad una fonte, apo la quale era uno bello gelso, dicendo che chi prima iungesse, aspettasse l’uno l’altro. Avvenne caso che Tisbe andò prima al ditto luogo, e non trovandovi Piramo si puose sotto ’l gelso ad aspettare Piramo. Mentre che aspettava, venne una leonessa, per bere a la fonte, la quale avea ucciso certe bestie, sicchè avea sanguinoso lo suo19 cieffo. Tisbe vedendo da lunga a lume de la Luna questa leonessa, ebbe paura e fuggitte ad appiattarsi; e quando fuggì li cadde uno suo mantello ch’ella avea a spalle. La leonessa, trovato questo mantello, incominciò a morderlo e stracciarlo, e così lo tinse di sangue com’ella avea sanguinosa la bocca; e, lassatolo poi stare, andò a bere, et andòsi via. Venuto poi Piramo al ditto luogo, cercava per Tisbe; non trovandola, vedendo lo mantello suo, lo quale ricognove sanguinoso e stracciato sotto ’l gelso, credette che fiere salvatiche avesseno divorato Tisbe. Per la qual cosa attristandosi et addolorandosi, parendoli essere stato cagione de la sua morte ch’era troppo penato a venire, col proprio coltello si percosse per lo fianco; e, cavatoselo de la ferita, lo sangue20 sprillò suso a le gelse bianche e tinsele. Fatto questo, Tisbe rassigurata tornò al gelso per vedere se Piramo fusse venuto, et ella21 trova che ’l gelso, che avea prima le gelse bianche, l’avea mutate in nere per lo sangue di Piramo, che era ito a la radice et era22 sprillato in su, sicchè l’avea mutate di colore; unde ella temea d’avere smarrito lo luogo. Ma vedendo in terra uno corpo, sentendolo lamentare, che non era ancora morto, pensò quil che era; e corsa là incominciò a piangere e lamentarsi amaramente, a chiamare Piramo dicendo: Piramo, rispondemi: la tua Tisbe ti chiama. Udendo lo nome di Tisbe, Piramo aperse un poco li occhi e ragguardolla, e poi costretto da la morte li chiuse: unde Tisbe per dolore si gittò in sul proprio [p. 649 modifica]coltello di Piramo e sè uccise a lato a lui; unde poi li parenti trovato questo, li fenno insieme in uno sepolcro sotterrare. E però facendo l’autore similitudine di sè a Piramo, dice queste parole: Quando io ebbi udito nominare Beatrice, io mi volsi a fare ciò che volea Virgilio, come aperse li occhi Piramo quando uditte dire: La tua Tisbe chiama te, Piramo, rispondemi. E però dice: Come al nome di Tisbe; udito da Piramo, aperse il cillio Piramo in su la morte: cillio è la pelle che cuopre l’occhio dove sono le lappule, e chiamasi cillio perchè spesso si muove; in su la morte, dice per ch’era presso a morire, e ragguardolla; cioè lei, cioè et avvisò Tisbe, Allor che ’l gelso diventò vermillio; che prima le gelse facea bianche: questo è fizione poetica; ma l’altro tutto fu vero, et è istoria. Così; ecco che adatta la similitudine, la mia durezza fatta solla; cioè molle diventata, cioè poi che fu diventata molle al nome di Beatrice, come la duressa di Piramo che era in su la morte al nome di Tisbe, Mi volsi al savio Duca; cioè a Virgilio io Dante, udendo il nome; cioè di Beatrice, come si volse Piramo udendo il nome di Tisbe ad aprire l’occhio per vederla, Che sempre ne la mente mi rampolla; cioè lo qual nome di Beatrice sempre ne la mente mia si rinnuova: però che quanto più l’odo ricordare, tanto maggiore desiderio di lei mi cresce, Ond’ei; cioè onde elli, cioè Virgilio, crollò la fronte; cioè menò lo capo; e ponsi la parte per lo tutto, per quel colore di Retorica che si chiama intelletto, e disse: Come Volenci star di qua; e non passare? E questo finge l’autore che Virgilio dicesse, tentandolo. Indi sorrise; cioè di po’ le ditte parole fece bocca da ridere; come se23 dicesse: Or t’ò io pur iunto, Com’al fanciul si fa; cioè si sorride, che; cioè lo quale, è giunto al pome; chiama la madre lo fanciullino che li vuole lavare lo capo, elli non vi vuole andare; ella li mostra la mela o ’l fico, e dice: Vien per questo fico. Elli vinto del piacimento del pomo vi va; und’ella, sorridendo il prende, e dice: Or se’ tu iunto, e menalo dove vuole; e così dice che fece Virgilio a lui. Poi; cioè ditte le parole preditte, dentro al fuoco; cioè a la fiamma ditta di sopra, inanzi mi si mise; cioè inanti a me Dante, per guidarmi, Pregando Stazio che venisse dietro; acciò che io fusse in mezzo, e non mi lassasse tornare a rieto per ch’io volesse. Questo finge a denotare che la ragione guidava la sensualità, e lo intelletto la sollicitava a passare per lo incendio de la lussuria con contrizione del peccato commesso per sì fatto modo, che la sensualità compiesse la sua penitenzia sensa lesione. Che; cioè lo quale Stazio, pria; cioè prima, per lunga strada; cioè per lunga via, ci divise: imperò che tutta via infine a quive era ito Virgilio inanti, e poi Stazio, e poi seguitando Dante [p. 650 modifica]poi che Stazio s’adiunse a loro: imperò che per la materia passata era mistieri che la ragione e lo intelletto guidasseno la sensualità; ora in questa materia era bisogno che la ragione guidasse la sensualità, e lo intelletto la sollicitasse e confortasse ad uscirne fuora sensa offensione.

C. XXVII — v. 49-63. In questi cinque ternari finge lo nostro autore come elli si24 misse di rieto a Virgilio a passare la fiamma seguendo, poi Stazio, dicendo così: Sì com fui dentro; cioè altresì tosto come fui intrato ne la fiamma, in un bolliente vetro Gittato mi serei per rinfrescarmi; a dimostrare lo smisurato ardore di quella fiamma, dice che si serebbe gittato nel vetro bollente ne la fornace per rinfrescarsi, reputando quello fresco per rispetto di quella fiamma; et è qui superlativo colore retorico. Ecco che rende la ragione: Tant’era ivi; cioè in quella fiamma, lo incendio; cioè l’arsura, senza metro; cioè sensa misura. Lo dolce Padre mio; cioè Virgilio, per confortarmi; cioè me Dante, Pur di Beatrice; de la quale io era fortemente inamorato, ragionando andava; acciò che con quello desiderio mi facesse paziente de l’ardore: veramente a vincere lo incendio de la carne è salutifero rimedio parlare e ragionare de la santa Teologia, che ci fa inamorare di Dio e vincere ogni tentazione, Dicendo: Li occhi suoi già veder parmi. Finge che Virgilio per confortarlo dicesse fra l’altre cose: Già mi par vedere li occhi di Beatrice: li occhi di Beatrice sono le ragioni sottilissime et efficacissime e l’intelletti sottilissimi, che ànno avuto li Teologi in considerare e contemplare Iddio et insegnare a considerarlo e contemplarlo: e come li occhi sono la parte del corpo de la donna che è più attrattiva ad amare; così questa parte de la Teologia è quella che più tira l’omo ad amore di tale scienzia. Guidavaci; cioè noi tre, Virgilio, me e Stazio, una voce; cioè la voce de l’angiulo, che era di là da la fiamma a la scala che si monta, secondo la lettera; a la qual voce noi dirissavamo li nostri passi, che; cioè la quale, cantava Di là; cioè da lato de la ripa, e noi; cioè ditti di sopra, attenti pur a lei; cioè a quella voce, venimmo infin là ove si montava; cioè infin a la scala, per la qual si montava al paradiso terrestro. Venite, benedicti patris mei; questo è quello che finge che cantasse la ditta voce, che è scritto ne l’evangelio di s. Matteo dove si tratta de l’iudicio ne lo v capitolo; e questa è quella voce che finge che li guidasse tutti e tre, dove assai chiaramente mostra l’autore quel ch’ell’intese per Virgilio; cioè la sua ragione, e per Stazio lo suo intelletto, e per sè la sua sensualità; e l’udire di questa voce fu la considerazione ch’elli ebbe dell’ultima esaminazione che Cristo iustissimo iudice [p. 651 modifica]dè fare a la fine del seculo, e la remunerazione che farà a li eletti invitandoli a vita eterna e chiamandoli seco, dicendo: Venite, benedicti patris mei, possidere regnum quod paratum est ec.; la quale considerazione farebbe ogni uno portare ogni penitenzia pazientemente e con dolcezza, e campare d’ogni tentazione. E finge che la canti l’angiulo, che significa qui la grazia di Dio illuminante, che spira tali pensieri santi ne le menti umane, e però dice: Sonò dentro ad un lume; cioè uno angiulo, secondo la lettera; allegoricamente è esposto, che; cioè lo quale, ; cioè quive, era; cioè a la ditta scala, Tal; cioè sì fatto nel suo splendore, che mi vinse; cioè la mia vista delli occhi per lo grande splendore, e guardar nol potei; perchè la virtù visiva venne meno; questo è stato esposto di sopra assai volte. Lo Sol sen va, soggiunge; cioè questo angiulo, poi che à ditto le parole de l’Evangelio, ammonisce de la sollicitudine, dicendo che ’l di’ se ne va, e vien la sera; lo di’ è lo tempo de la grazia, quando noi siamo in questa vita dove c’è dato di potere meritare co le buone operazione, e la notte è lo tempo di po’ la morte: quando non sono di merito le nostre operazioni sono di sodisfacimento; ma non di merito l’opere dell’anime che sono in purgatorio, se non in quanto meritasseno per li atti meritori fatti prima ne la vita; e però àe finto l’autore che di notte non si possa montare da quelli del purgatorio; ma sì di di’: imperò che sono da non potere più crescere in merito; e però si dimostra che intese di quelli del mondo, che co la grazia di Dio possano crescere in virtù, e sensa essa non possano crescere. E perchè questa è l’ultima notte che Dante è albergato in purgatorio, secondo la sua fizione, debbiamo notare che quattro di’ e tre notti stette Dante a cercare lo purgatorio e lo paradiso terresto; lo primo di’ si dimostra nel canto che incomincia: Già era il Sol a l’orizonte giunto, canto ii; lo secondo si dimostra quando dice: La concubina di Titon antico, canto ix; lo terso di’ si dimostra quando dice: Su mi levai e tutti eran già pieni Dell’alto di’ i giron del santo monte, Et andavam col Sol nuovo ec., canto xix; lo quarto di’ si dimostra: E già per li splendori antelucani ec., et in altre parti di questo xxvii canto e nel xxviii; e questo ultimo di’ de quattro li vastò a vedere e cercare lo paradiso terresto; e de la notte di questo di’ non fa menzione, come appare nel processo, e però finge che, approssimandosi la tersa notte, si dimostra come l’angiulo li sollicita, dicendo: Non v’arrestate; ma studiate ’l passo; voi tre, che venite per sallire, Mentre che l’occidente non s’annera; e per questo dimostra che fusse in su la sera: imperò che quando lo Sole è compiuto d’ire sotto l’orizonte, allora s’abbuia l’occidente: imperò che, fatto sera et appiattato lo Sole, non potrebbeno montare, come è stato ditto di sopra nelli altri luoghi, dove s’è toccato de la notte. 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C. XXVII — v. 64-75. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come, uscito de la fiamma et iunto alla scala da montare al paradiso terresto, pochi scaloni montonno in su, che venutone la notte non potevano sallire, come è stato ditto di sopra, e però si puoseno a iacere in su li scaloni, Virgilio in su lo scalone di verso la parte suprema, e Dante in sul seguente, e Stazio in sull’altro di sotto a Dante, sicchè Dante era in mezzo; e però dice cusì: Dritta sallia la via; cioè la scala a montare in su al paradiso terresto, per entro ’l sasso; de la ripa, che era lo balso del paradiso ne la quale, essente di sasso, finge che fusse fatta a scarpello la via da montare suso, fatta a scaloni come l’altre, Verso tal parte; cioè in verso tal parte del monte era la ditta scala, ch’ella venia opposita all’occidente, unde seguitava ch’ella salliva in verso levante: e questa è verisimile et allegorica fizione, che sallire in paradiso sia sallire in verso levante, unde si manifesta lo Sole prima al mondo, che significa la grazia di Dio, ch’io; cioè che io Dante, tollieva i raggi del Sol Dinanzi a me: imperò che si facea ombra inanti, ch’era già basso; e per questo mostra ch’era presso a la sera. E di poghi scallion levammo i saggi; cioè di poghi scaloni avemmo esperienzia; cioè poghi ne montammo, perchè ne venne la notte; e però dice: Chè ’l Sol; cioè imperò che lo Sole, colcar; cioè andare giuso da l’emisperio e farsi sera; et ecco lo segno a che se n’avvidde, per l’ombra; cioè del mio corpo, che si spense; cioè che sparitte e nolla viddi più, Senti’mi dietro; cioè coricare lo Sole, et io; cioè Dante, e li mie’ Saggi; cioè e li miei Savi, che mi guidavano. E pria; cioè e prima, che; cioè che orizonte; questo è lo cerchio terminativo intorno de la nostra vista, mezzo tra l’uno emisperio e l’altro, Fusse fatto d’uno aspetto: cioè fusse fatto d’uno colore; cioè nero, o vero buio, in tutte le suo’ parti immense; cioè grandi e smisurate, E notte avesse tutte suo’ dispense; cioè e la notte avesse tutte le suoe parti, Ciascun di noi; cioè tre, d’un grado; cioè d’uno de li scaloni de la scala, fece letto; cioè vi si puose suso a dormire, inanti che ne venisse al tutto la notte; e rende la cagione: Chè; cioè imperò che, la natura del monte; la quale è che di notte non si possa sallire, ci affranse; cioè ci ruppe, o tolse, La possa; cioè la potenzia, del salir; cioè lo ditto monte, più; cioè più, che noi avessemo sallito allora, e ’l diletto; cioè ci tolse la possibilità del sallire più su, e lo diletto: imperò che a noi era diletto lo sallire, e non fatica: e questo finge, per confermare quello che finse infine dal principio; cioè che quanto si montava più su, tanto meno gravava e più dilettava. E qui finisce la prima lezione del xxvii canto, et incominciasi la seconda.

Quali si stanno ec. Questa è la seconda lezione del canto xxvii, ne la quale finge l’autore come, venutane la sera, s’addormentò in [p. 653 modifica]su la scala; e come ebbe una visione, e come svelliato sallitte suso nel paradiso; e come Virgilio lo licenziò e coronollo poeta. E dividesi tutta in quattro parti: imperò che prima fa due similitudini, a mostrare come addormentato fu guardato da du’ poeti; ne la seconda finge come in sul di’ elli ebbe una visione, et incominciasi quive: Sì ammirando ec.; ne la terza finge come svelliato, venutone lo di’, Virgilio lo sollicita del montare annunziandoli buone novelle, et incominciasi quive: E già per li splendori ec.; ne la quarta finge come, sallito su, Virgilio lo licenzia e coronalo poeta, et incominciasi quive: Come la scala ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizione litterale, allegorica e morale.

C. XXVII — v. 76-90. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, posti in su li scaloni, elli stava in mezzo tra du’ guardiani, Virgilio di sopra, e Stazio di sotto; e fa due similitudine, a mostrare com’elli era da loro guardato, prima del guardiano de le capre, e poi del guardiano de le pecore, dicendo così: Quali si stanno Le capre manse; cioè mansuete, ruminando; lo cibo che prima ànno preso, state; prima, rapide; cioè rapaci, quando si pascevano, e proterve; cioè disobedienti e nocive, Sovra le cime; cioè delli arbuscelli e de le spine e de le frasche de la selva: imperò che la capra molto volontieri tronca le cimette; potrebbesi anco intendere sovra le cime dei monti, avanti che sian pranse; cioè inanti che siano satolle, Tacite all’ombra; cioè si stanno poi lo merizo; e però dice: mentre che ’l Sol ferve; cioè mentre che ’l Sole è caldo, Guardate dal pastor; de le capre, s’intende, che ’n su la verga; cioè in su lo suo bastone, Poggiato; cioè appoggiato, se; cioè lo pastore, e lor; cioè le capre, di posa; cioè di riposo, serve; cioè che fa riposare loro, et elli anco si riposa, E qual el mandrian; cioè lo guardiano de la mandria de le pecore, che; cioè lo quale, fuor; cioè del pecorile, alberga, Lungo ’l peculio; cioè allato al pecorile, e quieto; cioè riposato, pernotta; cioè fa la guardia la notte, Guardando perchè fiera; cioè lupo, nè altra fiera salvatica, nollo sperga; cioè nollo sparga e mette in perdizione e distrugga. Tali eravamo tutti e tre; cioè Virgilio e Stazio et io Dante, allotta; cioè quando eravamo in su la scala, poi che fu fatto notte, Io come capra; cioè Dante era guardato come lo peculio, et era fatto riposare come capra, et ei; cioè Virgilio e Stazio, come pastori; che mi faceano posare et ellino anco si posavano, e guardavano me, come ’l pastore guarda lo peculio, Fasciati quinci; cioè dell’una banda, e quindi; cioè dall’altra, d’alta grotta; cioè da le pareti de la scala, che facea la grotta del monte molto alta; et à fatto queste du’ similitudini, l’una per mostrare lo riposo, e l’altra per mostrare la guardia. Pogo potea parer lo Ciel di fuori; cioè pogo potevamo del Cielo [p. 654 modifica]vedere fuora di quelle due pareti de la grotta: imperò ch’erano strette et alte su, sicchè pogo ne potea a noi apparere, Ma per quel pogo; cioè del Cielo, che n’apparia, vedev’io; cioè Dante, le stelle e più chiare e maggiori Di lor solere; cioè del loro usato: imperò ch’io era più presso al Cielo, e però le vedeva io maggiori. E per dare ad intendere la sua prossimansa al Cielo, però finse questo; e questa è l’ultima de le tre notti ch’elli finge che stesse nel purgatorio. A presso dimosterrà che si faccia di’, e col di’ quarto finge che cercasse lo paradiso terresto, e poi montasse ai cieli sempre col di’: imperò che da la Luna in su pogo fa ombra lo tondo de la terra, sì che sempre v’è di’.

C. XXVII — v. 91-108. In questi sei ternari lo nostro autore finge come s’addormentò, e nel sonno ebbe visione di quello che dovea vedere lo di’ quando fosse su montato, dicendo cosi: Sì ammirando; cioè meravilliandomi, come detto fu, di quelle stelle ch’io vedeva più chiare e maggiori ch’io non solea, e rimirando quelle; cioè stelle, rivedendole e ragguardandole da capo, Mi prese; cioè me Dante, il sonno: imperò ch’io m’addormentai, e ’l sogno; insieme col sonno: imperò ch’io sognai, che; cioè lo quale sogno, sovente; cioè spesso, sa le novelle; cioè arreca a la fantasia umana le cose, che di nuovo denno essere, Anti che ’l fatto sia; cioè inanti che sia l’effetto dimostra quello che dè essere; e descrive lo tempo, dicendo ch’era quando si leva la Diana stella, dicendo: Nell’ora, credo; io Dante, che dell’oriente; cioè ne la quale dall’oriente, Prima raggiò; cioè mandò prima raggio suo, nel monte; cioè del purgatorio, dove noi eravamo, Citerea; cioè lo pianeto che si chiama Venus in Grammatica et in vulgare stella Diana, che alcuno tempo dell’anno va inanti al Sole la mattina et allora si chiama Lucifer, et alcuno tempo la sera va di rieto al Sole et allora si chiama Hesperus, vei Vesper, come è stato ditto di sopra, e l’autore la chiama Citerea da Citero, monte nel quale ella è onorata; cioè Venus, come iddia, Che; cioè lo quale pianeta, par sempre ardente; cioè splendiente, quanto a la lettera, di foco d’amor; questo dice secondo li Astrologi che diceno che questo pianeto à a dare influenzia d’amore; e secondo allegorico intelletto finge che questa ora fusse, per mostrare che in lui dovea accendere amore de le virtù attive, e descrive lo sogno: Giovana e bella in sogno mi parea Donna veder andar per una landa; dice che li parea vedere andare per una via fiorita a modo d’uno bel prato una bella iovana, Colliendo fiori; per questa via25, ch’ella andava, e cantando dicea; e per questo dimostra che andava cantando: Sappia qualunqua il mio nome dimanda, Ch’io mi [p. 655 modifica]son Lia; ecco come finge che la donna, che collieva li fiori, si nominava e dicea che era Lia. Qui l’autore induce la istoria di Iacob, come ebbe per mollie due filliuole di Laban; cioè Lia e Rachele; e, per averle, servitte a Laban quattordici anni; cioè prima sette anni per aver Rachel, e Laban lo ingannò e diedeli Lia che era più sozza26 che Rachel, o volliamo dire meno bella; unde lamentandosi Iacob ch’era stato ingannato, disse Laban: Servemi27 altre sette anni e darotti anco Rachel; et elli lo servitte et ebbe Rachel, sì ch’elli ebbe amburo le suore per lo servigio di quattordici anni. E per questo figura la santa Teologia che Iacob, che s’interpetra supplantatore; cioè tollitore de la benedizione paterna al fratello, chi vuole acquistare la benedizione di Dio dèsi coniungere a la vita virtuosa, la quale è divisa in attiva e contemplativa, le quali sono significate per le due suore; l’attiva per Lia che è meno bella, e la contemplativa per Rachel che è più bella; e chi vuole conviene servire sette anni per l’attiva, operandosi ne le28 7 opere de la misericordia, sette anni per la contemplativa contemplando li sette doni dello Spirito Santo, li sette sacramenti de la Chiesa, le sette virtù, cardinali quattro e teologiche tre; e prima si dè l’omo esercitare ne la vita attiva, e poi ne la contemplativa. E però finge che ne la entrata del paradiso terresto trovasse una donna, la quale elli nomina Matelda, di là dal fiume Lete, come apparrà di sotto; ma ora finge ch’elli vedesse in sogno Lia, perchè Matelda, ch’elli porrà quive, figura Lia, per mostrare che poi ch’elli avea cacciato da sè ogni desiderio di peccato per considerazione de la viltà e de la pena del peccato, et appresso aveasi purgato di tutti peccati commessi, facendone conveniente penitenzia apparecchiandosi ora ad intrare ne la via de le virtù, vienli in pensieri prima d’incominciare da le virtù pratiche, e però finge che sognasse Lia, la quale sotto lo nome di Matelda fingerà che li occoresse nel suo cammino, quando incomincierà a trattare de la vita virtuosa, e però à posto qui questa fizione fingendo per lo sogno l’avvenimento del pensieri. Segue lo testo: e vo movendo intorno; cioè io Lia, Le belle mani a farmi una ghirlanda; poi ch’à manifestato lo suo nome, manifesta lo suo esercizio che sta tutto in operazione, e però dice che va movendo intorno le belle mani, che significano l’opere, li29 atti virtuosi li quali, come fiori vari, fanno corona di loda e di gloria a chi li collie e ponseli in capo; cioè in su lo suo intelletto. Per piacermi a lo specchio; cioè per avere complacenzia di me quando io mi [p. 656 modifica]specchierò; cioè quando io esaminerò e considererò ne la30 coscienzia, che è lo specchio d’ogni uno31, quali fiano l’opere mie, qui; cioè in questo prato di fiori, cioè in questa vita virtuosa piena di vari atti virtuosi, m’adorno; cioè adorno me d’essi fiori, cioè esempli et atti virtuosi, Ma mia suora Rachel mai non si smaga; cioè non si cessa e non si sepera, Dal suo ammirallio; cioè da la sua contemplazione mentale, e siede tutto giorno; cioè sempre si riposa e sta in quiete la vita contemplativa, a la quale non si viene se prima non precede l’attiva. Ell’è; cioè ella, cioè Rachel è, vaga veder; cioè di veder, coi suo’ belli occhi; cioè co la ragione e co lo intelletto, li quali sono acuti e belli e contemplativi, Com’io; cioè Lia sono vaga, de l’adornarmi co le mani; cioè coll’opere virtuose. Lei; cioè Rachel, appaga lo vedere; cioè lo considerare, e me; cioè Lia appaga, cioè contenta, l’ornare; cioè fare l’opere virtuose.

C. XXVII — v. 109-123. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, svelliato venuta già l’alba del di’ quarto, Virgilio confortandolo li predisse che tosto perverrebbe al sommo bene, lo quale ogni omo desidera; per la qual cosa fu fatto desiderosissimo del sallire, dicendo così: E già per li splendori antelucani; cioè per li splendori che vegnano innanti a la luce del Sole, inanti che esca fuora lo Sole, Che; cioè li quali splendori, tanto ai peregrin surgen più grati; cioè a coloro che sono in viaggio fuora di casa loro si levano più graziosi e piaceno più, quanto sono più presso a casa loro dove sperano tosto iungere; e però dice: Quanto tornando albergan; li pellegrini, men lontani; cioè meno dilungi da casa loro, Le tenebre; cioè de la notte, fuggian da tutti lati; cioè del cielo per li splendori preditti, E ’l sonno mio con esse; cioè fuggia insieme co le tenebre, cioè che venne lo chiarore, così mandò via lo sonno, ond’io; cioè Dante, leva’mi; da dormire di su lo scalone in piede, Veggiendo i gran Maestri; cioè Virgilio e Stazio, cioè la ragione e lo intelletto ch’era già disposta a procedere più alto, già levati; cioè di su li scaloni u’ s’erano posati, secondo la lettera. Virgilio usò queste cotali Parole verso me; cioè Dante. Ecco che induce Virgilio annunzianteli la sua felicità e beatitudine; e però che la ragione dimostra che, fuggiti li peccati e purgati co la penitenzia, si viene a beatitudine in questa vita per grazia, e di po’ la vita per gloria, e però finge ch’elli dica: Quel dolce pomo; cioè lo sommo bene, che; cioè lo quale, per tanti rami; cioè per tante vie e per tanti studi, Cercando va la cura de’ mortali; cioè la sollicitudine de li omini; unde Boezio: Bonum est quod tam diversis studiis homines32 putant, libro iii Philosophicæ Consol. — , Oggi porrà in pace le tuo’ fami: imperò che [p. 657 modifica]oggi serai sazio e refetto d’esso, sicchè ’l tuo desiderio serà quietato. e mai non funno strenne; cioè mancie, cioè annunziazioni primamente fatte la mattina, Che; cioè le quali, fosser di piacer a queste; che m’avea dato Virgilio, eguali; cioè pari; cioè non mi fu mai annunziato cosa che tanto mi piacesse. E questo finge: imperò che in questo quarto giorno vedrà la milizia celeste e lo nostro signore Iesu Cristo, come apparrà nell’altro canto seguente; e però dice che diventò via più desideroso del sallire, dicendo: Tanto voler; cioè tanto desiderio, sopra voler; cioè sopra lo desiderio ch’io avea prima, mi venne Dell’esser su; cioè nel paradiso terresto, ch’a ogni passo poi; ch’io facea, Al volo mi sentia crescer le penne; cioè le virtù le quali mi portavano in alto; cioè lo mio pensieri e la mia fantasia: imperò che sempre inalsava la materia e considerava cose più alte, come apparrà nel processo. Le penne sono le virtù co le quali la mente si leva in alto; unde Boezio nel quinto de libro preallegato dice: Sunt etenim pennæ volucres mihi, Quæ celsa conscendant poli, Quas sibi cum velox mens induit, Terras perosa despicit.

C. XXVII — v. 124-142. In questi sei ternari et uno versetto finge l’autore come montò suso al paradiso terresto; e come Virgilio lo licenzia e coronalo poeta, dicendo così: Come la scala tutta sotto noi Fu corsa; cioè la scala, che è dal settimo girone al paradiso terresto, fu tutta montata da noi tre ditti di sopra, e fummo sul grado superno; cioè di sopra a lo scalone, di sopra a tutti, In me; cioè Dante, ficcò: cioè fermò, Virgilio; lo quale m’avea guidato in fin qui, li occhi suoi; cioè guardòmi fisso. Allegoricamente la ragione significata per Virgilio fermò in verso la mia sensualità la discrezione del bene e del male che sono li occhi de la ragione, et indico33 che più inanti procedere nel processo non si può co la ragione: imperò che sono cose che si persuadeno co la fede; e però finge che dicesse quil che seguita. E disse; cioè a me Dante Virgilio: Il temporal foco; cioè quello del purgatorio, che dura a tempo, e l’eterno; cioè fuoco, cioè quello de lo inferno, che dura in perpetuo e mai non à fine, Veduto ài, fillio; cioè tu, Dante: imperò ch’io te l’ò mostrato, e guidatoti per entro, e se venuto in parte; cioè al paradiso terresto che è cosa che non si può provare per ragione, conviene credere per fede, Dov’io; cioè Virgilio, per me; cioè per lo mio cognoscere, più oltre non34 discerno; cioè non veggo, nè cognosco. Tratto t’ò qui; cioè infine a questo luogo, con ingegno e con arte: ingegno chiamano li autori lo naturale intendimento che [p. 658 modifica]lo omo à; et arte è quella che ammaestra l’omo con regule e con ammaestramenti; sicchè vuole dire: Io t’abbo tirato in fin qui tra per lo ingegno che ài avuto sottile e buono e disciplinevile e tra per l’arte che t’à ammaestrato, Lo tuo piacer; cioè la tua volontà, omai; cioè ingiummai, prende per duce; cioè pillia per guida, Fuor se’ dell’erte vie; cioè dell’alte e faticose vie, fuor se’ dell’arte; cioè de le vie strette de la poesi: imperò che ingiummai non si conviene parlare come poeta; ma come teologo. Vedi ’l Sol; secondo la lettera, perchè finge che già lo Sole fusse levato, che; cioè lo quale Sole, in la fronte ti riluce: imperò che secondo la lettera stava volto inverso l’oriente, sicchè il raggio li percotea la fronte; et allegoricamente dà ad intendere che la grazia di Dio riluce ne la fronte sua, la quale è demostrativa dell’onestà e de la disonestà; e per tanto vuol dire: Spenti sono in essa li segni dei peccati, per che tu se purgato d’essi, sicchè la grazia di Dio ti riluce ne la fronte dov’è lo segno dell’onestà. Vedi l’erbetta: imperò che quil solo finge che sia tutto pieno d’erbette fresche, e’ fiori; e similmente di fiori, e li arbuscelli: imperò che anco a significare lo luogo dilettevile convenia esservi li arbuscelli, Che; cioè li quali, qui; cioè in questo luogo, la terra sol da sè; cioè solamente da sè, sensa seme, produce; cioè genera e mette fuora; e questo, secondo la Bibbia, che dice che nel paradiso delitiarum erano tutte queste letizie, le quali la terra producea per virtù messa in essa da Dio. Et allegoricamente si può intendere che, quando l’omo è venuto a stato d’innocenzia, non produce, nè mette fuora se non erbe verdi; cioè atti onesti e pieni di viridità, di speransa, li quali produceno fiori, cioè esempli fioriti di virtù e di belli costumi, et arbuscelli, cioè opere, cioè sermoni pieni de la vera speransa che producono opere virtuose che sono li loro frutti. Mentre che vegnon lieti li occhi belli; cioè di Beatrice, li quali verranno ora lieti, perchè ti vedranno campato del periculo de la selva ne la quale fusti per smarrirti, allora ch’ella venne lagrimando a pregarmi ch’io ti soccorresse; e però dice: Che; cioè li quali occhi, lagrimando: però che piangevano per lo smarrimento tuo, a te venir mi fenno; cioè mosseno me sollicitamente a soccorrerti. Quali siano questi occhi fu sposto ne la prima cantica, nel secondo canto, che sono la ragione e lo intelletto dei santi omini, li quali come piangeno e dolliansi de lo errore dei peccatori; così si rallegrano de la conversione; e però ritorneranno a Dante lieti, perchè ora convertito è uscito per la purgazione de la immundizia dei peccati, sì come piangendo, mosseno Virgilio, per ch’era allora per perdersi al tutto Dante per lo suo inviluppamento ne la selva dei vizi. Quando Dante era involuto nei peccati, veniano a la ragione pratica di Dante li ditti de la s. Scrittura che si dolliano e riprendeno la [p. 659 modifica]sensualità dei peccati commessi, li quali funno composti dai santi dottori, la ragione e lo intelletto dei quali piangea e doleansi quando li componea, e li errori umani considerava; e però dice che lagrimando mosseno Virgilio. Ora dice che verranno perchè, purgato e scito d’errore, li ditti de la santa Scrittura, lieti perduttivi a la beatitudine li quali funno composti de la ragione e da lo intelletto dei santi dottori, li quali esultavano et iubilavano quando li componeano, parendo loro sempre essere al fatto. Seder ti puoi; cioè tu, Dante, riposarti infin che viene Beatrice; cioè lo testo de la santa Scrittura che vi metterà in contemplazione de la vita beata, e poi andar tra elli; cioè tra quelle erbette, fiori et arbuscelli, operando e considerando quelli. Non aspettar; tu, Dante, dice Virgilio; ecco che lo licenzia, mio dir più: imperò ch’io non ti dirò più nulla, ch’io non ci vallio più, nè mio cenno; cioè nè mia demostrazione. Libero è tuo arbitrio; cioè la tua volontà da la servitù del peccato, perchè se’ purgato, dritto; perchè ài dirissato la tua speransa a Dio, e non ti curi più de le felicitadi et avversitadi mondane, e sano; perchè è sanata in te ogni concupiscenzia, et ogni fomite de l’originale peccato. E fallo fora; cioè fallensa sarebbe, non fare a suo senno; cioè de la tua volontà e tuo arbitrio, poi ch’ella è sanata, dirissata e liberata, Per ch’io; cioè per la qual cosa io Virgilio, te; cioè Dante, sopra35 te; cioè a la fidansa di te medesimo, corono; di laurea, come poeta: imperò che per te se’ sofficente a fingere, e mitrio; come vescovo e guidatore dell’anima tua a l’eterna salute: imperò che la tua sensualità co la ragione superiore serà atta a seguitare Beatrice; cioè li testi de la santa Scrittura, che ti mosterrà le cose divine che la ragione pratica et inferiore non può comprendere. E qui finisce il xxvii canto, et incominciasi il xxviii.

___________

Note

  1. C. M. duro, l’alleccornitte
  2. C. M. loro, e giunto lì confortòli
  3. C. M. era in sul calare al nostro
  4. C. M. lo meridiano del Sole,
  5. C. M. a salire
  6. C. M. che ’l Sole a l’entrata di Libra pareggia lo di’ con la notte, e poi cresceno le notti; così a l’entrata d’Ariete pareggia la notte col di’ et incominciano a crescere li di’. E perchè Libra si dice da librando, che pareggia; così si può chiamare anco Ariete Libra da librando: imperocchè anco Ariete pareggia, e così sono due Libre, l’una Ariete e l’altra Libra. E quando è lo maggiore caldo che sia in tutto lo di’, e
  7. C. M. Geon,
  8. C. M. intendere, E l’onde in Gange; cioè in quel fiume cadendo sotto l’una Libra; cioè sotto Ariete, riarse da nona: imperocchè quine allora dalla nona il Sole è al cerchio meridiano; e però ben seguita:
  9. C. M. conduttori.
  10. C. M. la sentenzia che in tale
  11. Emenda secondo il Magl. da — tanto — a Dio. E.
  12. C. M. la suprascritta donna
  13. Col Magliab. si è corretto da — potea — fino — la loro viltà. E.
  14. C. M. intrata
  15. C. M. della scienzia di Dio;
  16. C. M. Brescia in Lombardia
  17. Quest’arca sepolcrale insieme con le altre fu insino dal 1810 trasportata nel Campo Santo urbano. E.
  18. Da — xxxii — a — dove dice — racconciato, secondo il Magliab. E.
  19. C. M. lo suo ciaffo, o vero muso.
  20. C. M. isbrillò
  21. C. M. trovò
  22. C. M. isbrillato
  23. C. M. dicesse: Io ora t’ò pur giunto,
  24. Misse; voce del perfetto, nata dall’antico passato dei Latini missi. E.
  25. Per questa via, per ch’ella andava; vaga ellissi di nostra lingua. E.
  26. Sozzo, nel trecento equivaleva a brutto, deforme. E.
  27. Altre; per desinenza uniforme, come cruciate, parecchie ec. E. C. M. altri
  28. C. M. nelle opere
  29. C. M. l’operare li atti
  30. C. M. nella mia
  31. C. M. uno la coscienzia, quali siano
  32. petunt,
  33. Indico; indicò, perfetto adoperato senza accento, come abbiamo visto in questo volume stesso pag. 588 dispiego. E.
  34. Più oltre non discerno: perocchè gli occhi umani sono appannati al mero intelligibile. Così Vinc. Gioberti E.
  35. Il Gradenico leggendo: te sopra me corono e mitrio, commenta: Perchè tu se’ sopra di me e più vedi che io non feci, imperò io te incorono de la corona e mitria poetica sopra ogni mia scienzia, poetria et arte. E.
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