D'una sconfitta nel Vicentino

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Niccolò Tommaseo

Indice:Archivio storico italiano, serie 3, volume 12 (1870).djvu Archivio storico italiano 1870/Vicenza/Divina Commedia D'una sconfitta nel Vicentino Intestazione 12 febbraio 2018 75% Da definire

Questo testo fa parte della rivista Archivio storico italiano, serie 3, volume 12 (1870)
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VARIETÀ





D’una sconfitta nel Vicentino rammentata nel ix canto del Paradiso di Dante. - Lettere due di N. Tommaseo al ch. signor Fedele Lampertico.


I.


Debbo da gran tempo risposta alla domanda di Lei sul palude di Dante; ma io non potevo dire a Lei cose ch’Ella non abbia già pensate da sè, o dal sig. prof. Zanella potute sentire al bisogno. Io per me credo più o meno comuni a tutte le regioni d’Italia in antico, entrambe le forme la palude e il palude; come cera, cero, sede, seggio; anima, animo. Io non credo che Dante andasse nel suo esilio raccattando vocaboli; ma che talvolta, per meglio ritrarre le particolarità delle persone e de’ fatti, adoprasse locuzioni proprie a tale o tal dialetto, com’usa voci latine, e come fa dire a Pluto satàn aleppe. Se non fosse Gasparo Gozzi e la innata bontà del dialetto veneto, cioè della schiatta, direi che sul Veneto pesa una filologica maledizione. Al Trissino o Dressen, inventore dell’omega italiano, al Bembo legislatore della lingua, adesso monsignor Giullari aggiunge un Ghedino, veneto vissuto a’ tempi di Francesco Petrarca, legislatore anch’egli della pedanterìa, e del qual pure leggesi qualche verso non infelice in un codice che contiene i componimenti di Francesco Vannozzo, trivigiano, amico al Petrarca; del quale Vannozzo io nel milleottocenvensei pubblicai due canzoni in Padova, e poi in Firenze qualche sonetto. Da ultimo, comparirono, [p. 175 modifica]richiamandosi l’un l’altro col suono come sogliono i contrapposti, l’abate Antonio Cesari e l’abate Melchior Cesarotti.

Che in Toscana stesso più forme a un tempo potessero vivere della voce medesima; la prova è che d’assai voci più forme tuttavia vivono. I ben parlanti e l’umile popolo dicono può, ma parecchi puote; e io ho sentito: non si puote egli? E per potrebbe, come in antico dicevano, io sentii poterrebbe, a distinguere potere da potare, che pur troppo confòndonsi, come prova la scure, simbolo del potere sovrano. Non però vorrei dire che a caso, là dove Dante tocca delle pigre acque infernali nel terzo e nel settimo e nell’undecimo, usi il femminile, per riverenza al linguaggio del latino maestro; e il maschile allorchè fa parlare Italiani. Il moderno padule toscano non può derivare da’ Veneti; e la desinenza aurea del genitivo latino paludum, e il paludus di Varrone aggettivo, spiegano la commutazione de’ generi. Ha dato nell’occhio a’ critici in Orazio la seconda fatta breve, sterilisque diu palus aptaque remis; e, per correggere il verso fallato, altri lesse sterilisque palus pulsataque remis, inelegante, altri palus prius, che offende l’orecchio ben peggio di una lunga abbreviata. Palus opta remis, è come altrove in Orazio non est aptus equis Ithacae locus; e la quantità mutata è come in Virgilio l’allungare della seconda di puer, e in Orazio di velit, e tali altre molte. L’origine incerta del vocabolo, che mal si deriva dalla dea Pale, o da palam perchè l’acqua impaludando si stende, o da, paululum perchè poco profonda; concede a me sospettare che padule non sia una volgare metàtesi de’ tempi bassi, ma più antico e nobile di palude; come più antico del romano attore e del comico è l’etrusco istrione, vivo tuttavia in quel di Lucca. Siccome nel decimo di Virgilio stagni di Nereo il mare fondo, e nell’ottavo è alto lago la più riposta parte del fiume, nè della pestilenza cantata nel terzo delle Georgiche Corrupit lacus può intendersi de’ laghi solo; e siccome vada valeva non solo i luoghi agevolmente guadabili ma i tratti del mare vastissimi; così vo io figurandomi che le antiche nereidi e il greco moderno nerà, lacus e aqua, vadum e il settentrionale watter e l’illirico voda siano voci sorelle; e padule abbia che fare con Padus, detto dagl’italiani antichi Bodinco, onde Bodincomagum la [p. 176 modifica]città di Casale, e il Bondeno odierno. Altri codici infatti leggono Bondico, e un iscrizione Bondicomagensis; Polibio Bodenkos; e i Liguri da cui venne il nome a detta di Plinio(forse da intendere, come etimologizza Platone, dolcemente parlanti, cioè di maggiore coltura) dicevano Bodinco e Bodingo, desinenza italica insieme e settentrionale, vivente in Pastrengo e Marengo; desinenza significante non negazione, come il Menagio sognava, sibbene derivazione. Lo Scaligero fa venire Pado dal siriaco pad, campo, come Polesine da pianura, polje agli Slavi, di dove Polonia: Plinio, senza approvare, rammenta che Metrodòro lo derivava da padi nome dato da’ Celti alle piante resinose che crescono alle sorgenti. Il Menagio nelle origini greche, opera ch’egli stima curiosa assai, e lo credo, deriva pado da bathos, fondo, e almanacca col germanico bodem, il fondo, e ci attacca il bothros; e dagli Italiani botro e borro potrebbe scendere nella fossa, giacchè Dante chiama la valle d’Arno sventurata fossa: nè il coraggio gli manca a far venire da bathos anche puteus, per il commutarsi della b in p come cuppa da kubba; al qual proposito cita il bicchiere fondo d’Anacreonte. Ma se il dottissimo de’ Romani Varrone spiegava puteus, a quo simi potest; diventano scusabili tutti gli abbacamenti dell’abate Menagio; scusabile il render ragione di pontos con questo che sul mare non è tanto facile gettare ponti, o con pnèo affogare, o con pònos travaglio. Altri potrebbe in pado sentire il cadere dell’acqua corrente, come nel sedicesimo dell’Inferno ha Dante stesso, e Virgilio: illa cadens raucum per laevia murmur Saxa ciet; e pade val cade appunto agli Slavi. Ma io vo’ notare piuttosto una consonanza che non direi casuale tra jerdan, il Giordano agli Ebrei, e l’Eridano il re de’ fiumi; l’Eridano che Virgilio facendo dagli Elisi scorrere sopra la terra, par voglia intendere qualcosa più del fiume che scende a trovar pace nel mare Adriatico co’ suoi seguaci: fortunato che trova in Italia seguaci.

Io non leggo Padua in Catullo; ma sento Padua in Patavium, come in Àdria Àthesis. Ripensando che il virgiliano Padusa è interpetrato per il Po d’Argenta, canale dal Po a Ravenna; ra’ induco a credere che segnatamente dicendo il palude, intendessero non tanto l’acqua che impaluda, quanto [p. 177 modifica]il luogo e gli stessi dintorni. Non ho tempo a vedere nel latino quello che il Crescenzio traduce un palude ovvero fossa - acqua paludate ovvero delle fossora - un palude o fossa di letame: ma quando Plinio saporem salicum redolent Patavinorum in palustribus vindemìae, intende quello che in qualche dialetto veneto i palui e i palù, e in qualche toscano la Padula, nomignolo di podere che dà vino e altre rendite. Così Columella palustris sed herbidus ager; e Cicerone arenam aut paludem emere; e nella Volgata paludes incensae igni che non si può certo intendere dell’acque bruciate: e io mi rammento che circa cinquantasette anni fa quand’ero nel collegio di Spalato, dove studiò per qualche tempo Ugo Foscolo, che uno tra i passeggi di quegli ameni dintorni era detto i palui; nè ci si sguazzava com’anatre, nè, per verità, come cigni.

Non so com’Ella dichiari il verso che Padova al palude Cangerà l’acqua che Vicenza bagna; ma così arzigogolando, e aspettando d’esser corretto de’ miei spropositi, intendo non già che Padova colorasse in rosso l’acqua del fiume insino a Vicenza, ma che verso quel luogo dov’era il canale spargessesi sangue. Acqua per fiume, ecco di que’ modi semplici che piacciono a Dante, ne’ quali egli attinge la poesia, senza pescare nelle fossora de’ dialetti la lingua coll’amo della sua filologia, alquanto ottuso per vero; e che rammenterebbe la definizione da un francese data di quella sorta pesca: una canna che ha un amo dall’una e ha un imbecille dall’altra parte; o rammenterebbe la pesca della regina Cleopatra, che mandava sott’acqua chi le appiccasse un bel pesce al suo amo per farsene vanto, di che Antonio accortosi, le fece attaccare un gran pesce salato, la più salsa di tutte le sue facezie.

La regina Cleopatra mi rammenta la prima tragedia dell’Alfieri; e mi fa ripensare come l’amico di quell’altra Cleopatra prosaica che fu la contessa d’Albany, fosse in tutte le sue tragedie, anche in quelle che più comportavano e richiedevano lucentezza d’immagini e abbondanza d’affetto, una terra senz’acqua; come nulla sia in quelle di somigliante alla poetica esclamazione d’Euripide nella Fedra. Bello pure nel Saul, la più poetica delle Alfieriane: Stanco, assetato in riva Del fiumicel natio. Siede il campion di Dio.... Sua dolce e cara [p. 178 modifica]prole. Per porgergli ristoro. Bel suo affanno si duole.... E qual si lagna Ch’altri . più ch’ella, faccia. Io misuro la poesia dal più meno ch’è in lei d’acque limpide e armoniose, e che possono rendere il verde e i fiori e le stelle. Senz’acqua non c’è forse canto di Dante; ce n’è più nel Petrarca che nell’Ariosto: l’Ariosto ne fa zampilli da giardino, o ne fa limonate. Nel povero Tasso non vede Ella Erminia Del bel Giordano alle chiare acque? E quel di Dante De’ ruscelletti che pe’verdi colli Bel Casentino discendono in Arno, e portano con freschezza erbe molli e aura mite; ruscelletti de’ quali l’immagine fa al dannato la sete più affannosa, non Le pare egli dappiù che un’imitazione nel Tasso là dove canta, che l’immagine loro Li asciuga e scalda e nel pensier ribolle? Il Manzoni nell’acque mi suona poeta - Dalle magioni eteree Sgorga una fonte e scende, E nel burron de’ triboli Vivida si distende - Quai monti mai, quali acque Non l’udirò invocar? - Oh Mosa errante! - Come rugiada al cespite - Come sul capo al naufrago - e i fiumi d’Italia che si confondono a simboleggiare.... Ahi!, confusione o unità? E nel romanzo l’addio che dà Lucia, dipartendosi sul lago, alla casetta sua fida! E l’esultare di Renzo nel dubbio degli errori notturni al conoscersi presso il fiume, dal sentirne l’amico rumore! E la pioggia estiva che purga l’aria e la terra, e a lui rinnovella la vita!

Ma io secco Lei amarissimamente con le mie acque. Quando face vasi a un ingegnoso magistrato il processo, e taluno prevedeva che l’Austria gli toglierebbe le acque consorziali, gli toglieranno, soggiunsi io, tutte le acque. Ella faccia il simile; e m’interdica.


Lettera II.


Il suo lavoro intorno all’acqua che bagna Vicenza è notabile per quel senno che è negato all’erudizione arida, quale suol essere quella nelle teste secche, arida nella accattata abbondanza. Non saprei accettare l’origine che dànno a Vanzo frequente nome di luogo nel Veneto, confondendo i banchi di sabbia e i saltus bantinos d’Orazio, che sono etimologicamente e geograficamente altra cosa. Nè Vanzo e Vado farei [p. 179 modifica]della stessa famiglia; ma chiaro mi pare che la sia aferesi di avanzo, come postema per apostema, e lodola per allodola; e Dante anch’egli (senza accattarlo da’ Veneti) cantò lodoletta. Vanzo è dunque terreno che avanza dalle acque, che sulle acque avanza, per cui l’uomo e le umane culture possono venire avanzando. Dante stesso del luogo per cui si può andare da’ fianchi del monte: Quanto, per via, di fuor del monte avanza. E siccome il Poeta con bella figura S’appressa un sasso che dalla gran cerchia Si muove e varca tutti i vallon’ feri, Salvo che questo è rotto, e noi coverchia; così potrebbesi spiegare che il suolo non soverchiato dalle acque, cammina esso stesso avanzandosi per entro a quelle: come in Orazio Locus.... planis porrectus spatiis; alla qual locuzione dell’aureo corrisponde quella di Guglielmo Brettone nella Filippeide Paliciumque triplex.... Usque sub extremas protensum fluminis oras. Potrebbe altresì dichiararsi con altra immagine figurata e di comune uso, avanzo in senso d’acquisto, come la accessione de’ giureconsulti, ch’è un modo onde le proprietà hanno incremento. E quel che avanza o si fa per arte e fatica avanzare dalle acque, è acquisto e vantaggio; e acquisto mi si dice in Romagna esser nomignolo, come tra’ Veneti Vanzo; e il Torricelli approssima le due voci: Quegli acquisti verrebbero ad avere pochissimo vantaggio che li assicurasse sopra l’acqua. E il Targioni: Non solamente si perdono i moderni acquisti, ma si rendono sterili e paludosi i terreni vecchi, i quali dovevano essere sani di lor natura.

Ella dice Acheronte chiamato dal Poeta Palude perchè le acque sue livide, e perchè la palude stigia si fa di lui; ma laddove lo chiama Dante cosi, non è Stige: e io direi che a quel modo e’ lo nominasse, perchè acqua di corso tardo e da parere stagnante; così lo nominasse appunto come rammenta Caronte, ridicendo con le figure simboliche insieme i vocaboli del maestro, e per scienza o per istinto sentendo come quelle voci scambiassersi e nell’antichissima origine italica e nell’uso latino. Vuole il Salvini che la gora derivi da le acque, le aquora come le pratora (e le prata che tuttavia dicesi nella montagna di Pistoia), e come nel Crescenzio le fossora. Ma se le norme analogiche e prosodiche non consentono tale [p. 180 modifica]derivazione; io ritornerei sulla mia congettura che acqua e laco siano nella fonte il liquore medesimo, come vado e voda; e rammentando il gorello del Targioni, fossetto in cui scorre l’acqua, e la gora del mare nell’antico volgarizzamento di Livio, soggiungerei che la radice or, o piuttosto la semplice r dominante con varie vocali ne’ nomi delle acque, anche qui denoti acqua in genere, corrente o no: perchè sempre in ogni liquido supponesi un moto, e ne’ solidi stessi più immobili lo pone per sua propria natura la nostra mente.

Con la temperanza, ch’è virtù e accorgimento dei dotti davvero, Ella concede che Dante in quel luogo accennasse non sola una disfatta punitrice de’ popoli alla legge fraterna ribelli. Nondimeno se si potesse dalla esatta osservazione dei luoghi raccogliere quale la rotta più prossima al sito dove il padule aveva sfogo di fossi, e dove l’arte più s’ingegnava di medicar la natura, confesso che il vaticinio mi parrebbe più confarsi allo storico poetare di Dante. Alle molte citazioni che illustrano la potente parola del cangiar l’acqua per sangue, (portento di provvidente giustizia, com’è continuo miracolo di misericordia provvidente il farsi vino dell’acqua stillante dalla vite in virtù di quel sole che splende sui buoni e sui tristi, sugl’imbecilli astutissimi della corte e sui deboli semplici della plebe); a quelle citazioni potrebbesi aggiungere il Ricciardetto Fan correre di sangue un’ampia gora (dove pur la gora è corrente); e il Petrarca Tutte vestite a brun le donne Perse E tinto in rosso il mar di Salamina. Al fiume colorato in rosso risponde una locuzione d’Orazio che, se in lui non leggessi, io ignorante non direi aurea: Qui gurges aut quae flumina lùgubris Ignara belli? quod mare dauniae non decoloravere caedes? Que caret ora cruore nostro?; dove l’amplificazione oltre alle solite dello scrittore, quand’anco l’ode non fosse nel primo libro, la dimostrerebbe delle più giovanili; e lo dimostra quel chiamare dauniae le stragi romane, quel ricordare la natale sua terra.

Dell’abbreviare, come Orazio fa, la seconda di Palus, altri potrebbe vedere una traccia nel nomignolo di Palusello. Io credo che Dante dicendo Val di Pado, non latineggiasse costrettovi dalla rima e dall’imperatore Corrado, che creò cavaliere il suo arcibisnonno, ma si servisse d’un vocabolo [p. 181 modifica]non inusitato a’ suoi tempi. Nell’altra mia Le toccavo della Padusa virgiliana. Ora leggo nel Dizionario Torinese parole che non saprei dire di che autore siano, date dal signor Conti Veneto (nelle cui giunte, come in tante altre parti di quel Dizionario, io non ho merito); tra le giunte del sig. Conti, leggo questa che a me qui fa giuoco. Aleo. Ripar. Somm. 9. Alvei vecchi e abbandonati che si veggono nel territorio di Cento, e le ville che sono nel corpo dell’interrita padusa fatte dalle alluvioni ch’egli fece in questa palude, le quali dal suo nome sono dette il corpo di Reno, Renazzo, il dorso di Reno, e simili. Quest’ultimo nome rammenta a me il Virgiliano dorsum immane mari summo, e il Dossoduro, un de’ rioni di Venezia primieramente abitato. Un’elegante moneta che dicono disegnata dal Caradosso, rivale di Benvenuto Cellini, uscita della zecca milanese nel tempo di Carlo V, porta un’Igea che dà mangiare a una serpe, come nell’antiche medaglie; e a manca un Fiume coll’urna, e nell’esergo Padus Mediolani; sul qual testone d’argento il sig. Cav. Morbio possessore, interrogato da me, cortesemente risponde accennarvisi alla ideata congiunzione del Po col Ticino per via del naviglio, molto più tardi compiuta. Così (dic’egli ingegnosamente) per iperbole chiamansi tuttavia Bagni del Ticino quei de’ sobborghi di Milano, lontani molto dal fiume, derivato per via del naviglio. Io direi che e naviglio e padus come Acquacheta e tanti altri, in origine nomi comuni, siano diventati col tempo geografici; ch’è la storia di tutti i nomi proprii, confermante anch’essa il principio rosminiano.

Che se non si vuole in Medoaco e in Bachiglione riconoscere una radice comune con aqua e con lacus (Bachiglione potrebbe raddoppiare la sua consonante, come Bacco l’ha scempia nel XX dell’Inferno di Dante), sia lecito scorgere più affinità che tra l’uomo e la scimmia, tra Vado e Adige e Adria. Il nome d’Adria collega i Veneti cogli Etruschi, fa nella regione storica quello che nella terrestre il Canale del Mezzodì, e il taglio degl’istmi di Suez e di Pànama. E l’affinità vetustissima delle due genti dichiara perchè tutta la politica veramente italiana a’ Toscani e a’ Veneti si riduca, a’ Toscani e a’ Veneti l’arte più riccamente italiana; perchè, se ai Toscani in Dante e nel Petrarca le corone poetiche, [p. 182 modifica]a’ Veneti l’onore della sacra e della civile eloquenza, ne’ predicatori delle leghe politiche e delle paci, nella facondia senatoria e forense della repubblica, ne’ sermoni di parecchi predicatori dal secol passato a’ di nostri insino al Bricito e a Giuseppe Barbieri: ai quali, pur detraendo delle lodi concesse, rimane tanto che le altre parti d’Italia niente possono contrapporre di meglio. Ferrara è l’anello tra le due genti; Ferrara che ha pure una scuola d’arte, e scuola elegante; Ferrara che diede un fiume di facondia poetica nell’Ariosto, e cascatelle di prosa nel Bartoli, e l’unico oratore italiano, padovano d’origine, frate Girolamo Savonarola.

All’occhio acuto di Lei non sfuggì la parola genti crude al dovere; una di quelle tante nelle quali il Poeta, abbominatore de’ lazzi sorbi; non si dimostra per verità dolce fico. Egli potrebbe rispondere che la sua pietate acerba deve a noi sentire d’amaro, la sua parola brusca essere a molti sapore di forte agrume: e bisogna scusarlo, e compiangerlo che il sale del pane altrui gli amareggiasse la bocca. Genti crude al dovere è dichiarato dalla gente acerba a conversione e da colui che giace dispettoso e torto Sì che la pioggia non par che ’l maturi. Per pioggia di fuoco non maturano le anime degli empi superbi; ma anco l’acqua piovana continua converte in bozzacchioni le susine, e fa che si perdano i fiori dell’umano volere. Rammento d’Ovidio Jam matura viro jam plenis nubilis annis: in altro senso, Manto indovina è da Dante chiamata vergine cruda: ma Orazio con immagine simile all’ovidiana tolle cupidinem Immitis uvae; mox tibi lividos Distinguet autumnus racemos Purpureo varius colore. Altrove Orazio ha la stessa parola di Dante, in altra accezione che le mamme acerbe e crude dell’italiano Poeta: Quae velut latis equa trima campis, Ludit exsultim metuitque tangi, Nuptiarum expers et adhuc protervo Cruda marito. Questo mi rammenta lo strano Regalmente proterva della donna beata e bella dall’angelica voce e dalla favella soave; e la più strana immagine ancora, dell’Italia assomigliata a cavalla, a cui l’imperatore Giustiniano aveva indarno racconciato il freno, e la gente che dovrebbe esser devota non lascia Cesare seder sulla sella; l’Italia, fiera fatta fella per non esser corretta, dagli sproni indomita e selvaggia [p. 183 modifica]cavalla, alla quale l’imperatore Tedesco dovrebbe inforcare gli arcioni, e venire almeno a vedere la pressura e le magagne de’ suoi gentili, dico, i gentiluomini d’Alberto Tedesco. Dio perdoni al Tedesco, e a’ suoi gentiluomini, e ai professori che inforcano tedescamente gli arcioni dell’Italia, speriamo, non docile a inasinire1.

Ella rammenti, di grazia, la mia stima al sig. prof. Zanella; e, se crede che li gradiscano, dia i miei saluti al sig. Stecchini e alla famiglia Cabianca.

Luglio del 1870.

N. Tommaseo.          



Note

  1. A queste due lettere il dotto sig. Lampertico rispondeva: «Godo moltissimo che in sostanza e, salvo quel riscontro coi saltus bantini, raffermi il significato di vanzo siccome terreno che avanza dalle acque. Cosi mi fossero le sue lettere venute in tempo da giovarmi delle nuove illustrazioni di cui Ella arricchisce non pur gli umili vanzi, ma ben anco il palude e, parola per parola, tutto il verso dell’Allighieri! Quanto al luogo della battaglia, già parmi che, se vuoisi davvero stabilire l’allusione ad un fatto solo, si debba intendere quello del 1312, siccome appunto avvenuto alle seccaje di Longare. Del resto, se si volesse profetizzare le battaglie di Vicenza nel 1848, non potrebresi dir, per esempio, le battaglie de’ Berici colli, senza per questo riferirsi all’ultima, ma certo intendendosi tutte, anche la prima, pur combattutasi al piano, ma in somma anch’essa nella città di Berga?» — Senza voler contraddire a chi tanto ne sa, e è in casa propria; oserei pur pregare che pongasi mente a quella locuzione così determinata al palude.