Dal mio verziere/Dal mio Verziere/XII

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XII. Giosuè Carducci

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Dal mio Verziere - XI

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XII.

Giosuè Carducci.

Onoriamo l’altissimo poeta, il nostro Carducci — una gloria vivente d’Italia.1 Dopo, direte addio al mio verziere e ho caro che nelle vostre menti giovinette rimanga più a lungo l’immagine sua. Voi dovete essere, lo ripeto, fanciulle, le vestali dell’ideale, le custodi dei sentimenti grandi e buoni, è a voi di ricordare che ancora al mondo ne rimane la diva scintilla: a voi di ridestare i già spenti, di bandire crociate contro gli apostata dei primi obblighi sacri delle giovinezze studiose:

la riverenza e la gratitudine. In ogni tempo e in ogni luogo la superiorità dello spirito o del cuore si pagò e si paga assai cara; è intorno alle roccie titaniche che i flutti si frangono con più sonante rimescolìo — sulle basse scogliere l’onda passa tranquilla, obliosa, irridendo. La vita dei grandi è travagliata, infelice — ma quante amarezze che la gloria non lenì, raddolcirono bianche mani femminili null’altro che col posarsi su di una fronte! Ricordatelo, voi, che siete la primavera che promette e l’avvenire che si sogna.

Lasciando da parte, dunque, le opere più note del poeta, — che a scuola o a casa persone assai più valenti di me vi hanno commentato — rivolgeremo [p. 249 modifica]la nostra attenzione alle creazioni minori, nelle quali pure le qualità adamantine del padre rifulgono in tutta la lor classica purezza. Io ho un po’ di manìa per le opere minori in genere, che non di rado preferisco alle altre perchè, mentre serbano l’aria di famiglia, hanno quasi sempre un abbandono più ingenuo e più grazioso. Sono belle bimbe vestite da casa al confronto delle sorelle già al vertice della giovinezza rigogliosa, abbigliate per una comparsa ufficiale nel mondo.

C’è il fàscino dell’inesplorato, del romito e della brevità come nelle scorciatoie in confronto alle vie maestre — l’attrattiva d’un salottino intimo e abitato, in paragone ad un salone per i ricevimenti di parata — la promessa vaga di una quantità di piccoli incidenti impreveduti, di cento piccole meraviglie inattese, di mille suggestioni insperate — come in un’escursione a piedi invece di un viaggio in ferrovia. E così potrei moltiplicarvi gli esempi all’infinito. Ma già voi mi avete intesa a volo. L’anima del poeta pare riguardare in sè stessa senz’altra cura che di meriggiare, e di questo riposo viene a noi pure un refrigerio soave.

Se è addolorato, il suo dolore è dimesso — se gaio, la sua gaiezza è infantile. Così è il Canzoniere che mi rivela più lucidamente lo spirito di Dante, il Rinaldo che rende la freschezza d’immaginazione del Tasso intorpidita nella sua celebre Gerusalemme: e uno dei più schietti modelli di poesia italiana ci viene offerto da una produzione tutta intima della quale l’autore — il Petrarca — quasi si vergognava.

Ma qui regna Carducci. Parliamo di lui.

Si può ammirarlo, il Carducci, con più o meno entusiasmo, ma il suo ingegno non si può discutere. È classico, determinato, possente, qualche volta for[p. 250 modifica]midabile: — efficacemente sintetico sempre — condizione essenzialissima per una forte vitalità poetica. Come da un terso blocco di marmo pario, egli cava dalla sua mente ogni sorta di capolavori, che il sole dell’arte illumina e riscalda. Monumenti colossali e statuette da salotto — gruppi armoniosi e bassorilievi purissimi — arche d’una divina sobrietà trecentista su cui il simulacro del guerriero, come stanco, riposa colle mani in croce tutto armato, e guglie aguzze di qualche magnifico edificio che sfida il tempo. Qualche volta non ne ricava che una lapide nuda, fredda, ma ci scolpisce su qualche parola che infiamma. Quando narra di storia, diletta come se ci facesse passare dinanzi agli occhi una serie di quadri dei floridi pittori veneti del cinquecento — quando fantastica, ci trasporta sulla poderosa ala d’aquila fino al sole — quando ricorda o rimpiange, ha l’abbandono pieno di pietà d’una querce abbattuta — d’un rudero invaso d’edera — di qualche cosa di grande e di già vittorioso piegato e vinto.

Ma meglio che le mie sbiadite parole vi cesellerà egli medesimo l’immagine propria. Tolgo molto dalle Rime Nuove, raccolta de’ suoi versi che io preferisco.

Ecco come questo spirito di titano intende il poeta:

. . . . . . .
Il poeta è un grande artiere,
Che a ’l mestiere
Fece i muscoli d’acciaio:
Capo ha fier, collo robusto.
Nudo il busto,
Duro il braccio e l’occhio gaio.

Non appena l’augel pìa
E giulìa
Ride l’alba e la collina,

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Ei co ’l mantice ridesta
Fiamma e festa
E lavor ne la fucina;

E la fiamma guizza e brilla
E sfavilla
E rosseggia balda audace,
E poi sibila e poi rugge
E poi fugge
Scoppiettando da la brace.

Che sia ciò non lo so io;
Lo sa Dio
Che sorride a ’l grande artiero.
Ne le fiamme così ardenti
Gli elementi
De l’amore e de ’l pensiero

Egli getta, e le memorie
E le glorie
De’ suoi padri e di sua gente.
Il passato e l’avvenire
A finire
Va ne ’l masso incandescente.

Ei l’afferra, e poi de ’l maglio
Co ’l travaglio
Ei lo doma su l’incude.
Picchia e canta. Il sole ascende,
E risplende
Su la fronte e l’opra rude.

Picchia. E per la libertade
Ecco spade,
Ecco scudi di fortezza:
Ecco serti di vittoria
Per la gloria,
E diademi a la bellezza.

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Picchia. Ed ecco istoriati
A i penati
Tabernacoli ed a ’l rito:
Ecco tripodi ed altari,
Ecco rari
Fregi e vasi pe ’l convito.

Per sè il pover manuale
Fa uno strale
D’oro, e il lancia contro ’l sole:
Guarda come in alto ascenda
E risplenda,
Guarda e gode e più non vuole.


Oh così, così mie fanciulle, erano i bardi dell’età passata — così confidiamo che siano quelli dell’avvenire! Avete sentito che gagliardìa d’ispirazione e di tocco, che nitidezza di espressione — come il Carducci è padrone della lingua, del verso, della rima, come è poeta in essenza e artefice nella manifestazione? Oh sì, il rude artiero che doma la materia e col robusto braccio foggia cose sì gentili baciato dal sole levante è lui — ahimè, forse solo.

Il Carducci ha radicato e vigile l’amore della sua terra al cui pensiero fra il tempestar delle passioni spesso ricorre come a un ritornello blando e addormiente. Questo sonetto è una particella viva di cuore:

TRAVERSANDO LA MAREMMA PISANA.

Dolce paese, onde portai conforme
L’abito fiero e lo sdegnoso canto
E il petto ov’odio e amor mai non s’addorme.
Pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto.

Ben riconosco in te le usate forme
Con gli occhi incerti tra ’l sorriso e il pianto,
E in quelle seguo de’ miei sogni l’orme
Erranti dietro il giovanile incanto.

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Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano;
E sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
E dimani cadrò. Ma di lontano

Pace dicono a ’l cuor le tue colline
Con le nebbie sfumanti è il verde piano
Ridente ne le pioggie mattutine.

Eccovi, giovinette, una Mattinata tutta giovine, tutta rugiadosa. Mi piace trascriverla perchè è uno stupore di bellezza, poi perchè la mia anima ode insieme a quelle parole l’eco d’un’armonia e d’una voce ora mute per sempre....

Batte alla tua finestra, e dice, il sole:
Levati, bella, ch’è tempo d’amare.
Io ti reco i desir de le vïole
E gl’inni delle rose a ’l risvegliare.
Da ’l mio splendido regno a farti omaggio
Io ti meno valletti aprile e maggio
E il giovin anno che la fuga affrena
Su ’l fior de la tua vaga età serena.

Batte a la tua finestra, e dice, il vento:
Per monti e piani ho viaggiato tanto!
Sol uno de la terra oggi è il concento,
E de’ vivi e de’ morti un solo è il canto,
De’ nidi a i verdi boschi ecco il richiamo:
— Il tempo torna: amiamo, amiamo, amiamo —
E il sospir de le tombe rinfiorate:
— Il tempo passa: amate, amate, amate. —

Batte a ’l tuo cor, ch’è un bel giardino in fiore,
Il mio pensiero, e dice: Si può entrare?
Io sono un triste antico vïatore
E sono stanco e vorrei riposare,
Vorrei posar tra questi lieti mai
Un ben sognando che non fu ancor mai:
Vorrei posar in questa gioia pia
Sognando un bene che giammai non fia.

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Come questa perfezione di leggiadria sfavillava nei tuoi canti, povero e caro ragazzo! Come mi fa male, ora, il ricordo di quell’accento quasi nostalgico con cui pronunziavi le parole sovrumane... con cui dicevi di voler riposare sognando un bene che nel nostro mondo non c’è...

Fanciulle mie, siamo oramai alle soglie del verziere, perdonatemi questo ultimo indugio. Vedete, si delinea già come un miraggio una vignetta delicatissima:

La stagione lieta e l’abito gentile
Ancor sorride a la memoria in cima
E il verde colle ov’io la vidi prima.
Brillava a l’aere e a l’acque il novo aprile,
Piegavan sotto il fiato di ponente
Le fronde a tremolar soavemente.

Ed ella per la tenera foresta
Bionda cantava a ’l sole in bianca vesta.

Ecco in otto versi la manifestazione più ampia e più profonda della primavera.

Ora udite come parla Giosuè Carducci del mio paese. Dovreste saperla tutte a memoria la seguente poesia, forti fanciulle che guardate cogli occhi bruni e fieri riflettersi le stelle nel piccolo Reno: piccolo d’onde e di valor gigante; il Monti dice.

Il Carducci si rivolge a Severino Ferrari — un simpatico poeta celebratore della sua nativa campagna emiliana:

O Severino, de’ tuoi canti il nido,
Il covo de’ tuoi sogni io ben lo so,
Ondeggiante di canape è l’infido
Piano che sfugge a ’l curvo Reno e al Pò.

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Da gli scopeti de la bassa landa
Pigro il pizzaccherin si drizza a volo:
Con gli strilli di chi mercè dimanda
Levasi de le arzàgole lo stuolo,

Stampando l’ombra su per l’acqua lenta
Ove l’anguilla maturando sta.
Oh desìo di canzoni, oh sonnolenta
Smania di sogni ne l’immensità!

Oh largo su gli alti argini del fiume
Risplender rosso de l’estiva sera!
Oh palpitante de la luna a ’l lume
Tenero verdeggiar di primavera!

Quando i pioppi contemplano le stelle
Innamorati con lungo sospir,
Ed un lontano suon di romanelle
Viene da’ canapai lento a morir!

Allor che agosto cada, o Severino,
E chiamin l’acqua le rane canore,
Noi tornerem poeti all’Alberino,
Tutti solinghi in bei pensier d’amore.

Ed a’ tuoi pioppi ne le notti chete
Noi chiederem con desiosa fè:
O alti pioppi che tutto vedete
Ditene dunque: Biancofiore ov’è?

Siede in riva a un bel fiume? o il colle varca
Tessendo a ’l capo un cerchio agil di fiori?
O dentro una sestina de ’l Petrarca
Beata ride i nostri vani amori?


Anch’io saluto ancora una volta passando, la vostra immagine, o alti pioppi che tutto vedete — che vi incurvaste, giganti benigni, alla mia debole [p. 256 modifica]infanzia; — alti pioppi dalla rude base frondosa nell’ombra, dalla cima esile intrisa di luce, come un grandioso sogno umanitario!

Quando l’anima è di poeta, da ogni più insignificante episodio, da ogni più arida pagina di storia sbocciano fiori. Il comune rustico per andamento di verso, per l’elegante semplicità quasi ingenua che vi spira dentro e che si modella meravigliosamente all’idea, per efficacia di rappresentazione, è una gemma. Un simbolista direbbe: uno smeraldo.

O che tra faggi e abeti erma su i campi
Smeraldini la fredda ombra si stampi
A ’l sole de ’l mattin puro e leggero,
O che foscheggi immobile ne ’l giorno
Morente su le sparse ville intorno
A la chiesa che prega o a ’l cimitero

Che tace, o noci de la Carnia, addio!
Erra tra i vostri rami il pensier mio
Sognando l’ombre d’un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
Diavoli goffi con bizzarre streghe,
Ma de ’l comun la rustica virtù

Accampata a l’opaca ampia frescura
Veggo ne la stagion de la pastura
Dopo la messa il giorno de la festa.
Il Consol dice, e poste ha pria le mani
Sopra i santi segnacoli cristiani:
— Ecco, io parto fra voi quella foresta

D’abeti e pini ove a ’l confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
E la belante a quelle cime là.
E voi, se l’unno o se lo slavo invade
Eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade,
Morrete per la nostra libertà. —

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Un fremito d’orgoglio empiva i petti,
Ergea le bionde teste, e de gli eletti
In su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
Invocavano la Madre alma de’ cieli.
Con la man tesa il Console seguiva:

— Questo, a ’l nome di Cristo e di Maria,
Ordino e voglio che ne ’l popol sia,
A man levate il popol dicea: Sì.
E le rosse giovenche di su ’l prato
Vedean passare il piccolo senato,
Brillando su gli abeti il mezzodì.

Termino con un sonetto giovanile non molto conosciuto, credo. È classicamente severo, è mesto, eloquente. S’indirizza in fine alla giovinezza — così amo ripeterlo associandovi nel mio pensiero a una memoria cara mentre la vita che ancora per voi non è che un dolce ritmo di danza vi attira fuori dal mio verziere. Io ci rimango a far l’ortolana, faticosamente, placidamente:

Se affetto altro mortal per te si cura,
Spirto gentil cui diamo il rito pio,
Pon dal ciel mente a questa vita oscura
Che già ti piacque e al bel nido natìo.

Vedi la patria come sua sventura
Di tua candida vita il fato rio
Piangere, e ’l fior degli anni tuoi cui dura
Preme l’ombra di morte e il freddo oblìo.

Quindi ne impetra tu che a te simile
Dritta all’oprar, modesta alla parola,
Cresca la bella gioventù virìle:

E senta come a fatti egregi è scola
Anco una tomba cui pietà civile
E largo pianto popolar consola.


Note

  1. Quando fu scritto questo capitolo l’illustre poeta viveva ancora.