Dal mio verziere/Dal mio Verziere/XI

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XI. Arrigo Boito

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XI.

Arrigo Boito.

Basterebbe il «Mefistofele,» credo, per fare il nome d’Arrigo Boito immortale: il «Mefistofele» dalla musica descrittiva, dalla parola melodiosa, il vero dramma musicale, l’unità profonda, indissolubile, sognata da Wagner. «Danse, Musique et Poésie forment la ronde de l’Art vivant» scrive Edouard Schuré in fronte ad un suo indimenticabile libro e il Boito nell’accolta armoniosa delle tre Muse sorelle è giunto a posare il piede vittorioso sul polo vergine dell’Ideale.

Ma non è di questo che volevo parlarvi, care amiche. Volevo scorrere con voi, oggi, qualcuno dei bizzarri canti del rubesto poeta al quale il Libro dei versi e la stupenda leggenda di Re Orso fruttarono già buona parte di gloria. Il Boito quantunque originalissimo fa parte di quella scuola che quando voi non eravate ancora arrivate al mondo chiamavano: dell’arte futura, e che ora, per la frettolosa [p. 241 modifica]evoluzione di questi ultimi anni, minaccia di appartenere all’arte del passato. Il Boito è sopratutto scultorio. Egli non può appagarsi, come tanti, d’idee, di larve, di fluttazioni e di miraggi; egli ha bisogno della forma definita, della materia, quasi, ha bisogno di foggiare, di plasmare, d’incarnare subito la sua ispirazione, di vedersela lì, sotto gli occhi, viva palpitante, umana. Quando scriveva quei due famosi versi che diventarono il catechismo del suo cenacolo:

                         E non trovando il Bello
                         Ci abbranchiamo all’Orrendo

io credo che il bello lo cercasse dove non poteva trovarlo, dov’è soggetto a guastarsi, a immiserirsi: negli aspetti, non nell’anima delle cose. È sempre più artista che poeta; più favoleggiatore che sognatore.

Anche le sue fantasie hanno tutte, direi, un piede in terra, si basano tutte sul reale, sul visibile; egli non idealizza il vero, ma umanizza la idealità.

Qualche volta, inoltre, una certa intonazione irrisoria, amara, scettica che traspare, ci ricorda il ghigno e le contorsioni diaboliche del suo Mefistofele. Anch’egli par preferire gli odori resinosi e le macabre fantasie nordiche ai fiori irrorati dal plenilunio, fra i quali non si raccapezza e la sua fibra s’indebolisce rischiando di dare nel banale o nel grottesco; mentre nelle dipinture del pauroso, del mostruoso, del sinistro, è maestro. È proprio il rovescio del Praga, suo fratello d’arte, il quale non è mai così efficace e commovente come quando attinge alla semplice verità.

Eccovi intanto, del Boito, un arguto madrigale scritto sotto la fotografia d’una signora: [p. 242 modifica]

Arte nata da un raggio e da un veleno
Su questo segno della tua potenza
  Mi si rivela appieno
  La tua duplice essenza.
O arcane curve, ombre soavi, tocchi
Luminosi, divine orme d’amore!
  Sento il raggio negli occhi
  E il veleno nel core.

Il nome d’uno sconosciuto, letto sull’arca antica d’un chiostro gli ispira fra le altre queste strofe animate, direi volentieri irrequiete, come una fiamma:

. . . . . .
Il nome tuo tre secoli
Passò ignorato e mero,
Solo il trovâr le biche
Dell’umili formiche
E la pupilla inquieta
D’un giovine poeta.

Ed eri forse un genio
A cui fallìa la gloria.
Un pazïente anonimo
Smascherator di storia.
Un creätor d’orrende
Romantiche leggende,
O del poema nero
Di Faust o d’Assuero.

Forse una ragna pendula
Fra due cippi romani
Ti rivelò il miracolo
Dei ponti americani,
Forse per l’aura bruna
Vedendo errar la luna
Divinasti l’incauta
Magìa dell’areonauta.

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Certo ti colse il torbido
Problema del futuro
Scavando i bei caratteri
Sovra l’antico muro;
Eri certo un poeta!
Eri certo un profeta!!
(O, idea vulgare e trista)
Eri forse un copista.

La padronanza e la disinvoltura dell’arte è sempre, come vedete, perfetta. Ma dove Arrigo Boito raggiunge una potenza meravigliosa è nella Fiaba di Re Orso. Vi s’incontrano accenti Shakesperiani. A voi, fanciulle, poco posso esporre di quella diabolica concezione, ma abbastanza spero per darvi un’idea della gagliarda originalità di tutto il lavoro. Udite:

V.

PAPIOL.

Per le bimbe, per i pargoli
Dalla fiaba impauriti,
Per i nonni fra le tenebre
Desti, pallidi, romiti,
Cangerò la tetra nenïa
In un verso allegro e matto,
Colla storia ed il ritratto
Del giullare Papïol.

Fu il buffon da una mandragora
Messo al mondo, e appena nato
Era al par d’un dito mignolo
Picciol, magro, affusolato;
Poi restò sempre rachitico
Fin ch’ei visse ed infermiccio,
E la crosta d’un pasticcio
Fu la culla di Papïol.

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Per cimiero ei porta un guscio
Di castagna o di lumaca,
Una pelle di lucertola
È sua calza ed è sua braca;
Gli filava una tarantola
Cinque corde al suo liuto;
E non v’ha giullar più astuto
Del gobbetto Papïol.

Tien la vespa il fine aculeo
Dentro il corpo alidorato,
Tal Papiolo entro la cintola
Tiene un ago avvelenato,
Con quell’ago ei fe cadavere
Più d’un Duca e più d’un Conte,
Per quell’ago sir Drogonte
Venne spento da Papïol,

Perchè un dì, presente il Principe,
Arse vivo uno scorpione.
Fu Papiolo eletto al titolo
D’uom di Corte e Centurione;
Sulla terra ancor non videsi
Un più gracile arfasatto.
Ecco i fasti ed il ritratto
Del giullare Papïol.

Bello non è vero? in quell’artificiosa rudezza popolare. Eccovi ora lo spunto d’un altro capitolo in cui traluce molto bene la personalità del poeta:

Cessato è il nembo; — va volando intorno
L’angiol del giorno — a spegnere le stelle
E le fiammelle — che brillano sui fari
Dei marinari. — L’esule chiesetta
Dell’alta vetta — già si fa men bruna

  E ancor la luna
  Splende sull’ermo
  Bianca ed immota.
  Come una nota
  Di canto fermo.
  . . . . . .

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Questo è un quadretto raro e strano in cui ancora una volta l’artista ha vinto il poeta.

In Re Orso colgo pure la vaghissima serenata «Ago ed Arpa» che par uscita veramente dalla bocca di un trovatore a’ bei tempi di Clemenza Isaura di Tolosa:

Io di Provenza tenero troviero
Vorrei cantarti nella mia loquela,
Chè più soave mi parrebbe e mero
L’inno amoroso che il mio spirto inciela,
Per te sui voli dell’idea cavalco,
Cacciando le colombe del pensier;
Tu fai di me, siccome fa col falco
Il falconier.
Tale m’alletta amoroso martòro
Che giorno e notte vo cantando e ploro
Tan m’abelis l’amoros pensaman
Que jorn et nuit jeu plore et vai chantan.
  . . . . . . .
Ier notte oravo, il mio fervor blandia
Quasi un soffiar di celestiale avena,
E mi si ruppe in cor l’Ave-Maria
Perchè appena fui giunto al gratia plena
Tu m’apparisti, angelicata donna,
Tutta piena di grazia e di virtù.
Certo salì la prece alla Madonna
Ed a Gesù.
Tale m’alletta amoroso martòro
Che giorno e notte vo cantando e ploro.
Tan m’abelis l’amoros pensaman
Que jorn et nuit jeu plore et vai chantan.

Ten vieni o Donna nel gentil paese
Dove vibran le cetre e le mandòle,
Dove nasce la vaga sirventese,
Dove si parla in rimate parole,
Ten vieni ed io ti guarderò, mio nume,
Dai mali, dalle lotte e dai viventi,

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Qual si ripara colla palma un lume
In mezzo ai venti.
Tale m’alletta amoroso martôro
Che giorno e notte vo cantando e ploro.
Tan m’abelis l’amoros pensaman
Que jorn et nuit jeu plore et vai chantan.


Tutta la gentilezza romanzesca, la poesia malinconica degli amori irrimediabilmente lontani, i soli amori, forse, degni del nome divino.

Quell’Avemmaria rotta in cuore dall’apparizione della dama, la tenera promessa di riparare Lei dai mali e dalle genti come una fiammella con la mano, sono immagini e ispirazioni che non possono essersi accese che nella mente di un contemporaneo di Rudello e di Bernardo di Ventadorn, venute attraverso i secoli, come un’emanazione, nella mente di Arrigo Boito che le ha tradotte in tutta la loro freschezza nativa.

Dopo questa, ogni altra cosa par sbiadita. Ma qualche fanciulla pensosa amerà forse ch’io le ripeta i gentili versi sulla conchiglia, che emergono come un fiore dall’alto e fragile stelo fra la fioritura d’Ero e Leandro; i versi che rappresentano fulgidamente la profetica virtù che le fanciulle, custodi di ogni poesia, amano tanto di attribuire alle cose inanimate, rinnovellando in forma blanda l’oracolo antico:

Conchiglia rosea
Del patrio lido
Piccolo nido,
Del vasto mar.
Dell’alma Venere
Culla e flottiglia
Rosea conchiglia.

In te ricircolano
Mille volute
Che fan che mormorino
Fin l’aure mute.
Tu canti e sfolgori
Coro fra i cori
Oro fra gli ori
Del sacro altar.

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Entro ti palpitano
Le nettunine
Ninfe che avvincolansi
D’aliga il crine
E tutti i zeffiri,
Pel cielo erranti
E tutti i canti
Del pescator.

Dimmi l’oracolo
Di mia fortuna,
Tu della duna
Eco e splendor.
Parla, la vergine
Cupida origlia,
Rosea conchiglia.

L’api che ronzano
Fra gli oleandri
Ne’ tuoi meandri
Odonsi ancor.
Un trillo eolio
In te bisbiglia
Rosea conchiglia.

Parla... e che? turbinano
Sconvolte l’onde!
Crollan.... rigurgitano...
Alte e profonde.
E sull’equorea
Terribil ira
Piomba la diva
Furia del tuon.

Orror profetico!
Rombo bïeco!
Terribil eco!
Ria visïon!
Fuggi! Ho una lagrima
Sulle mie ciglia
Tetra conchiglia!


E ora quelle fra voi che presto calcheranno la piccola orma sulla sabbia di qualche beato cantuccio di spiaggia italiana, non dimentichino di insudiciarsi la punta delle dita per strappare al tepido e bigio umidore delle labbra del mare una delle sue ruvide margherite. E non siano presagi di tempeste il risultato del responso capriccioso, ma sogni di pace nel ronzìo delle pecchie, nell’alitare dei zeffiri, nelle nenie dei pescatori. [p. 248 modifica]

Piccolo intermezzo in prosa.

«.... la connaissance du coeur humain conduit à l’indulgence et à la bonté.»

Flammarion.