Della coltivazione/Libro III

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Libro III. Lavori di autunno

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Libro III. Lavori di autunno
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Or ne vien la stagion, Bacco e Pomona,
Ch’al nostro faticar larga mercede
Rende in nome di voi, né lassa indietro,
Sacra Minerva, il tuo che tolse il pregio
5Al gran Padre del mar, fratel di Giove.
O valoroso Dio, di Tebe onore,
Vien’ meco a dimorar; ch’oggi le tempie
Cinto dell’arbor tuo, del tuo buon frutto
Dentro bagnato e fuor, a cantar vegno
10Il tuo santo valor che non ha pare.

E Voi, sommo splendor dei franchi regi,
Sostenete il mio dir: che senza voi
Non potrebbe alto gir; e ’ndarno f"ra
Tutto il vostro favor, Pomona e Bacco.
15Voi mi potete sol menar al porto,
Francesco invitto, per questa onda sacra
Che per lo addietro ancor non ebbe incarco
D’altro legno toscano; e primo ardisco
Pur col

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vostro favor dar vele ai venti.
20Non mi vedrete andar con larghi giri
Traviando sovente a mio diporto
Per lidi ameni ove più frondi e fiori
Si ritrovan talor, che frutti ascosi;
Ma per dritto sentier mostrando aperto
25I tempi e ’l buon oprar del pio cultore.

Poiché ’l Delio Pastor coi raggi ardenti
Del suo fero Leon scaldando i velli
Già s’avvicina ove la donna Astrea
Con vergogna e desir l’attende in seno;
30Guarde il vendemmiator, che l’alma vite
Di porporino ammanto e d’ambra e d’oro
Veste i suoi figli che maturi ha in grembo.
Truove i saldi odorati e freschi vasi
Ch’esser ricetto denno al suo liquore;
35E si ricordi ben, che nullo oltraggio
Al gran padre Leneo si fa maggiore,
Che dargli albergo ove si senta offeso:
Ché nol puote obliar per tempo mai.
Non per altra cagion Penteo e Licurgo
40(Chi ben ricerca il ver) furon da lui
Per sì crudo sentier condotti a morte.
I più son quei che dalle irsute braccia
Dell’alpestre castagno il nido fanno,
In cui l’alto vigor più lieto e puro,
45E più lunga stagion conserva intero.

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Molti ne vidi ancor, ch’ebbero in pregio
La querce annosa, ed hanno avuto in grado
Quel salvatico odor che porta seco.
Poi chi il passo affatica in bosco o monte
50Per altro arbor trovar, che questo o quello;
O che ’l furor di Bacco intorno il mena,
O che necessità l’indusse al peggio.
Or qualunque si vogli, esser non deve
Di grandezza soverchia il nobil vaso;
55Perché rendendo a noi di giorno in giorno
Il prezïoso vin, sì lungo è il tempo
Dato al suo travagliar, che ’l spirto e ’l meglio,
Prima ch’al mezzo sia, mancato è tale,
Che non simiglia più quel ch’era avanti:
60Né così picciol sia, che tu ne veggia
Colla famiglia tua solo in un giorno
Il principio e la fin che dànno il peggio:
Sia il corso suo per quanto compie un giro
D’Endimione in ciel la vaga amica.
65Guarde il saggio villan, che ’l vaso antico
(Ch’io mi stimo il miglior) non sia restato
Gran tempo in sete; che l’asciutto e ’l secco
Troppo offende colui che l’India adora:
Non di corrotto vin sia stato ostello;
70Che ’l nuovo abitator faria cotale.
Non voglia esser alcun di tanto avaro,
Che ’l generoso umor, quantunque passe

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Di pregio e di sapor Metimna e Rodo,
Tutto tragga di fuor; ma dentro lasce
75Picciola parte almen, che in vita tenga
L’umido spirital e ’l sacro odore
Nel buon ricetto a chi verrà dappoi:
E se questo non fai, ché indarno spendi
Tanti affanni e sudor d’un anno intero
80A potar, a zappar, a sfrondar viti?
Che quando hai tutto poscia in un raccolto,
Altro non truovi aver, che scorno e danno.
Or de la bassa cella in questo tempo
Tiri le botti fuor; riguarde intorno
85S’elle sien cinte ben, s’alla lor fede
Ben commetter si può sì nobil pegno:
Poi dentro le apra, e con perfetta cura
Purghi e forbisca pur con legno o ferro;
E se l’acqua talor venisse ad uopo,
90Lo poria far ancor; ma non sia pigro
In asciugarle ben, che non vi resti
Sola una stilla in piè, ché troppo nuoce.
Indi agli altri instrumenti, ai vasi, ai tini,
Ch’alla vendemmia sua dovuti sono,
95Non men cura convien, ch’a quelle istesse;
E così presti sien, che tutti il tempo
Aspettino a venir, no ’l tempo loro.
Poi vada intorno pur sera e mattina;
Guardi ben l’uve sue, se giunte sono
100

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Alla perfetta età che in lor s’attende:
Non l’inganne il desir: ché chi s’avanza,
Nell’acerba stagion non ha d’intorno
I Satiri e Silen per fargli onore;
E chi troppo s’indugia, il vin ritrova
105Di sì oscuro color, sì infermo e frale,
Che già il marzo o l’april lo mena a morte.
Molti modi ci son, per cui si scerne
Quella maturità che ’l tutto vale.
Non dar fede al guardar: ch’assai ne vedi
110Tutte aurate di fuor, tutte vermiglie,
Che poi dentro al parer contrarie sono.
Altri gustando alla dolcezza crede,
Perché non può fallir. Altri premendo
Sola un’uva con man, s’uscir ne veggia
115Il gran ch’ivi dimora, asciutto intorno,
D’ogni pasta e liquor purgato, chiama
Della vendemmia sua venuta l’ora;
E tanto più, se quel medesmo appare
O d’oscuro color del tutto, o fosco.
120Altri dove più strette veggia insieme
Sopra un raspo molte uve, una ne tragge:
Poscia il secondo dì tornando, prova
S’ell’entri ancor in quel medesmo loco,
Il qual se truova allor ristretto alquanto
125Da le sorelle sue crescenti pure,
Lascia il tempo passar; ma s’egli scorge

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Maggior la forma, o quella istessa ch’era,
E gli mostre segnal che tutte insieme
Han dato al corso fin, né van più avanti,
130Del caro vendemmiar s’accinge all’opra.
Già veduto il villan per mille pruove
Giunto il tempo fedel che non l’inganni,
Pria dell’uve miglior ghirlanda faccia
Al buon Padre del vin, preghi porgendo
135Ch’opri col suo favor, che ’l sommo Giove
Tenga per qualche dì le piogge a freno,
E renda il suo liquor soave e largo;
Poi la famiglia sua con ceste e corbe
E con altri suoi vasi innanzi sproni
140A le vigne spogliar dei frutti suoi.
Coglia dell’uve l’un, l’altro le porti;
Chi le metta nel tin; chi torni appresso,
Scarco, a sollecitar chi pigro fusse:
Come talor, poiché le schiere armate
145Entrate son fra le nimiche mura
Dopo assai contrastar; che ’l mal vicino
Con sollecito passo innanzi e ’ndietro
Si vede carco andar di quelle spoglie
Che chi alberga lontan portar non puote.
150Ma perché solo un dì non può compire
Tutto il tuo vendemmiar, guardisi bene
Di dar principio a quella parte dove
Scalda il mezzo del dì; quinci all’occaso;

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Nell’orïente poi: tal ch’all’estremo
155Restin quella a portar che preme Arturo.
Guardi che dentro al tin non caggia ascoso
Pampino o ramuscel, né guasta sia
O per pioggia o per verme una uva sola.
Poi, chi premer le dee, purgato e mondo
160Prima i piedi e le man, lodi cantando
Lieto al vinoso Dio, sovr’esso ascenda:
Nudo le gambe sia; nel resto cinto
Tal, che per faticar sudor non stille:
Non si parta indi mai, se pria non veggia
165L’opra ch’ei prende a far condotta al fine;
Che l’entrar e l’uscir sovente, nuoce:
Non prenda cibo o vin, quanto ivi stia;
Ch’ogni cosa che caggia, apporta danno:
Poi calcando leggier, soave e piano,
170L’onorato liquor di fuori spanda
Dentro a quel vaso che di sotto accoglie;
Che ’l buon frutto di Bacco, aspro e cruccioso
Sempre viene a colui che troppo il preme.
Chi più brama il color che l’ambra e l’auro
175Rappresenti nel vin fumoso altero,
Per far più lieti i cor, per mostrar segno
Di dolcezza e d’onor nei festi giorni;
Intra i candidi raspi un sol non lasce
Di porporina gonna, e d’un sol punto,
180Come il mosto sia fuor, non doni tempo,

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Ma il metta in vaso ove poi resti sempre:
E chi mischia i color, si truova i vini
Sembianti al sol quando si leva il giorno,
Ch’una nube sottil gli adombre il crino.
185Chi più brama il vermiglio acceso in vista
Di quel chiaro splendor che fiamma appare,
Come il gallo terren produce; il quale
Di soave sapor congiunto insieme
Con la grazia e l’odor, tutti altri avanza,
190Poiché l’uva spogliò la bruna scorza,
Non sia riposto allor; ritrovi pace
Dal buon vendemmiator un giorno solo:
E chi men ne darà, ben fumo e foco
Troverà nel suo ber; ma meno assai
195Sanitade e bontade: il troppo indugio
Cresce il fosco color, le forze scema.
Chi brama il dolce aver, raccoglia insieme
Quei frutti sol che più maturi senta;
E così colti poi, venti ore almeno
200Gli lasci star pria che gli renda al tino.
Alcun vid’io, che con più ingegno ed arte
(Come il tosco villan che dotto intende
Al dorato suo vin, la cui dolcezza
Tutte altre abbatte, che trebbiano appella)
205Quand’al perfetto vin matura l’uva
Sente venir, non la disparte ancora
Dal materno suo ventre; anzi torcendo

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Il picciol ramuscel che ’l raspo tiene,
Lo tronca in tanto che venir non possa
210Più nutritivo umore a dargli forza;
Me’ il coglie avanti ch’appassito alquanto
Il natural vigor vede dal sole.
Poiché riposto è il vin, poiché la fine
Felice al vendemmiar donata ha il cielo,
215Sol resta il riguardar mattino e sera
Ciascun suo vaso; e se mancato il vede
Dal focoso bollir che assai consuma,
Prenda il medesmo vin d’un’altra parte,
E ’l riempia sovente: e chi nol cura,
220Sol si doglia di sé; ché nulla cosa
Può medicar il vin che resta scemo.
Indi che ’l sol la venenata coda
Tocca dello Scorpion, già truova posa
Il bollente vapor: tu chiama allora
225E l’amico e ’l vicin, che venghin teco
Nel cavo albergo; e con dolcezza e riso,
Di quanti ivi son vasi, ad uno ad uno
Gustar conviensi: e vadan lunge allora
I severi censor, quei ch’han vergogna
230D’errar talvolta; che in quel giorno è lode
D’aver tremante il piè, la lingua avvinta,
Lieto il pensier, e non saper soletto,
Senza molto cercar, trovar l’albergo.
Divisando ivi allor, di tempo in tempo
235Lasce

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i segni a ciascun: il dolce al verno;
Il leggiadro all’april: quel chiaro e leve,
Quando più scalda il ciel; quel ch’ha più forza,
Perché il frigido umor dei frutti tempre
Col possente sapor, doni all’agosto.

240O famoso guerrier, di Giove figlio,
Il cui divino onor dispiacque tanto
Alla fera Giunon, ch’a morte acerba
Semele indusse allor, con nuovi inganni,
Che dell’incarco tuo gravida andava;
245Ben si conobbe, il dì, come dovea
Il mondo empier di sé l’altero nome,
Quando il gran padre tuo, di lampi e tuoni
E di folgor vestito, e nubi cinto;
Non potendo fallir le sue promesse,
250Lagrimando di duol tua madre ancise:
Che, non maturo il parto, uscisti fuore
Del fulminato ventre; e ’l buon parente
In sé stesso ti pose, e tenne tanto,
Ché già il decimo mese aggiunse alfine.
255Così due volte nato, alla sorella
Ti pose in man dell’infelice madre:
Poi le Ninfe di Nissa ascosamente
Nutrici avesti nel sacrato speco:
Ivi crescendo poi d’anni e d’onore,
260Gl’Ircan, gli Arabi, i Persi, i Battri e gl’Indi
Sentir quel che potea quell’alto germe

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Che ci venne da Giove e nacque in Tebe;
Ma i superbi trionfi, i regni e l’oro,
Tanto onor, tanta gloria e tante lodi
265Ch’indi traesti allor, furon mortali:
Ma l’eterna memoria, il divin nome,
L’esser chiamato Dio, gl’incensi, i voti,
Il tirso, i sacrifici, il becco anciso,
I Satiri, i Silen ti sono intorno,
270Perché mostrasti a noi quel sacro frutto,
Quel sacro frutto che ciascuno avanza
Quanto il poter divin terrena cosa.
Se tu fussi tra lor venuto allora
Quando furo a quistion Nettuno e Palla,
275Non mi contrasti alcun che dal tuo solo
La dottissima Atene il nome avrebbe.
Chi potrebbe agguagliar con mille voci
L’infinita virtù ch’apporta seco
Il soave arbor tuo? ché di lui privo,
280Quasi vedovo e sol saria ciascuno.

La natura dell’uom, più saldo e vero
Non ha sostegno alcun, se questo prenda
Con misura e ragion tra ’l molto e ’l poco.
Quando più giri il ciel ventoso e fosco,
285Ch’Apollo è in bando, e le fontane e i fiumi
Son legati dal giel, e i monti intorno
Mostran canuto il pel, uccello e fera
Non si vede apparir, ché stanno ascosi;

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Chi fa il buon viator sicuro e lieto
290L’alte nevi stampar, calcar i ghiacci,
Se non questo liquor, ch’ardente e vivo,
Di più d’un lustro antico, e non offeso
Dall’onde d’Acheloo, nel più gran verno
Può in mezzo l’Apennin portar aprile?
295Poi quando a noi la rondinella riede,
Che vigor, che dolcezza a i corpi e l’alme
Dona il soave vin ch’alle chiare onde
Del rivo cristallin sia fatto sposo!
Non ci porta ei ne’ cor Ciprigna e Flora?
300Poiché Febo montando al punto arriva
Onde le piagge e i colli in fiamma e ’n foco
Torna coi raggi suoi, ch’appena ardisce
Trar la testa di fuor pur il lacerto;
Che dolce compagnia, che bel ristoro
305Si ritrova egli in quel leggiadro e chiaro,
Senza fumo e calor che il fresco e l’acqua
Fa di noi penetrar là dove questa
Gir non può sola, o più sudore apporta!
Indi che ’l tempo vien ch’ogni arbor mostra
310Spiegate al ciel le vaghe sue ricchezze,
Nel tardo autunno, che quel ramo appare
Carco d’oro più fin, quell’altro d’ostro;
Che dir si può di lui che solo ha forza
D’ammorzar il venen che i pomi han seco?

315Or, chi poria contar l’altre virtudi?

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Che tante in esso son, che ben lo puote
La natura dell’uom chiamar germano.
Nella tenera età crescente ancora,
Che di caldo e d’umor soverchio abbonda;
320Quando temprato sia, non solo apporta
Nutrimento miglior, ma in vece viene
Di medicina ancor, ch’asciughi alquanto,
E ’l calor fanciullesco infermo e frale
Col suo sommo valor sostenga e ’nformi.
325Nella perfetta età, colonna e scudo
Del natural vigore è questo solo.
E degli ultimi dì, che deggio io dire?
Ch’è sì chiaro a ciascun, che ’l mondo canta
Ch’alla debil vecchiezza il vin mantiene,
330Solo, il caldo, l’umor, le forze e l’alma,
E la toglie al sepolcro e ’n vita serba.
Già le membra e ’l poter del seme umano
Per ciascuna stagion, per ogni etade
Non pur nutre, sostien, conforta, accresce;
335Ma l’ingegno, il discorso, e l’altre parti
Che dell’animo son, risveglia, e rende,
Se moderato vien, più agute e pronte.
Questo spoglia il timor, riveste ardire;
Porta in alto i pensier, pigrizia scaccia,
340Né gli può cosa vil restare in seno:
Questo ci mostra in ciel le stelle e i poli,
I cerchi e gli animai che van d’intorno,

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Il viaggio del Sole, e le fatiche
De la sorella sua, degli altri i passi,
345I dolor d’Orïon, del Can la rabbia,
Di Calisto e Cefeo l’eterna sete:
Questo ci mostra pian talora il monte
Di Pierio, di Pimplia e d’Elicona;
E ci conduce ove le Muse e Febo
350Ci fan dir cose a maraviglia altere.
Chiara tromba sovrana, il cui gran suono
Di così raro onor il mondo ingombra,
Che mille altre cittadi, e Smirna e Rodo
Sol per gloria acquistar ti chiaman figlio;
355Tu ’l puoi saver, che lui compagno avesti
Per far l’onde Sigee sanguigne e ’l Xanto,
E far troppo aspettar la casta sposa.
Or non sa il mondo omai, non è palese
Che questa è la cagion che l’edra antica,
360Perché al padre Leneo le tempie cinge,
Al santo poetar ghirlanda sia?

E tu, stolto cultor, vergogna avrai
Di spender quanto puoi tempo e sudore
In condurlo perfetto al punto estremo?

365Ma tempo è di chiamar la pia consorte,
E farle sovvenir che questo frutto
Non ci dà solo il vin; ma molti ancora,
Per chi gli sa trovar, profitti apporta.
Ben misuri fra sé quanta sia lode
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Al donnesco valor, in mezzo il verno
E nel mezzo d’aprile alle compagne
Nel più solenne di portar dell’uve
Così intere, gentil, sì chiare e fresche,
Ch’al settembre più bel farian vergogna.
375Venga ora adunque, e candide e vermiglie
Ne prenda, come vuol; ma non acerbe,
Né ben mature ancor: riguardi al sole,
Che trasparenti sien; ch’al toccar senta
Certa giocondità callosa e dura.
380Sia grosso e vivo il gran; ma sia contesto
Raro sul raspo sì, che poi non possa
L’uno all’altro, premendo, oltraggio fare.
Chi le riscalda al sol; ciò presso al foco,
Per poco spazio pur: chi dentro al mosto,
385Quando più ardente sia, le attuffa alquanto;
Chi nell’acque bollenti, acciò che indure
La scorza a contrastar al tempo e al gielo:
Ma più saggia è colei che queste coglie,
Pria che le tocche il sol, avanti al giorno;
390E che senz’altro far le appende in loco
Sempre oscuro, serrato, asciutto e freddo,
Rare intra lor, che non vi nasca offesa.
Prendane d’altre poi mature e dolci:
Parte ne secchi al sole e parte al forno
395(Che l’uno e l’altro è buon) divise e ’ntere,
Per far più adorne le seconde mense.

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Altre ne prenda poi di più vermiglie,
E dentro al mosto le disfaccia al foco;
Poi le braccia nudando sciolte e snelle,
400Sopra un drappo di lin che pur allora
Tragga de’ suoi tesor con mille odori,
Le versi e stenda, e colle man premendo,
Le faccia indi passar dentro un bel vaso
Ben purgato, e di terra; e ’l serbi poi
405Per addolcirne i cibi al stanco sposo,
Quando il gusto talor si truove in bando.
Io potrei dir ancor mille altri beni
Che l’industria d’altrui può trar da Bacco:
Ma sopra gli arbor già maturi i frutti
410Veggio aspettarme; e s’io tardassi ancora,
O degli ingordi uccei sarebber preda,
O, dal mondo negletti, a terra sparti.

Pria ch’a quanti ne sono, addrizze il guardo
Il saggio abitator dei campi, al fico,
415Che ’l più tosto vien meno, e più dolce esca
Nasce a mille animali, ed ha mestiero
Di riseccarse al sol mentre ha più forza.
Tessa adunque il villan più canne insieme;
Poi sopra quattro più le ponga assise
420Alte sì, ch’il terren non possa a quelle
Col suo frigido umor donar impaccio;
Cui, di capanna in guisa ove il pastore
Fugge al fosco dicembre i venti e l’acque,

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O di paglia o di fien coverchio faccia;
425Poscia all’un de’ suoi quadri, o tronco o ramo
Adatte in modo tal, robusto e grave,
Ch’aprir possa o serrar come a lui piace,
E quando uopo gli sia, menarlo in giro:
E si dee fabbricar dove non possa
430Torgli il lume del sol muraglia o pianta:
Poi colti e freschi all’apparir del giorno,
Gli ponga ivi distesi; ma non sieno
O soverchio maturi, o troppo acerbi;
E come volge Apollo, ed esso volga
435Spesso il coverchio, perché renda a quelli
Col suo riverberar più caldi i raggi:
Indi che parte il sol, chiuder si denno,
E così quando vien pruina o pioggia;
Ch’ogni umor ch’ivi scenda, è lor dannoso.
440Poiché appassiti fieno, in cesta o in vaso
Ben calcati tra lor serrar conviense;
E ’n secchissima parte alfin riposti,
Per gran tempo gli avrai compagni fidi.
Altri ne vidi aver sì grasso e bello
445Questo frutto gentil, ch’al terzo giorno
Ch’egli è posto al calor, diviso l’hanno,
E rimesso a seccar col ventre in alto:
Poscia al vespro che vien, raggiunti insieme,
Pur gli scaldano ancor; quinci in canestri,
450Come gli altri fra noi, gli dànno albergo.

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Or si volga alle prune, e prenda quelle
Ch’han servata la fede ai rami loro
Fin nell’agosto; e le maggiori aperte,
E tratto l’osso fuor, al forno e al sole
455Le metta a dimorar compagne all’uve:
Le più dolci e minor si ponno intere,
Sol bagnate, se puoi, tra le salse onde,
Parimente trattar; che poi saranno
Medicina agl’infermi, e cibo ai sani.

460Or con queste ne vien quel caro pome
Vago odorato, che di Persia ha il nome;
Ch’asciutto essendo alla medesma forma,
Di soave sapor la mensa ingombra:
E chi calda in quei dì stillasse pece
465Nell’umbilico suo; molti hanno detto
Ch’ei si può mantener maturo e fresco,
Dentro un vaso di terra, in lunghi giorni.

Il fido pero e ’l mél con maggior cura
Visitar si convien, perch’i suoi frutti
470Ne tengan compagnia tanto che torni
Nuova prole di lor per nostra gioia.
Guardi ch’il giorno sia sereno e queto,
E del ratto suo corso al fin la luna,
Dei suoi raggi spogliata al primo ottobre:
475Cogliale tutte allor; che ’l tempo il chiama.
Non con pietra o baston le batta in alto,
Né dal suo ramo scossa in terra caggia:

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Sormontando ei lassù, con man le prenda
Quando mature son; che tel dimostra
480Il suo di sé lasciar vedovi i rami
Senza molto soffiar di Borea, o vedi
Il suo seme imbrunir: portale in loco
Che sia privo d’umor, sia freddo e cieco;
E sopra paglia o fien lor faccia il letto.
485Altri dentro un vasel pon le più care,
Che di pietra o di creta o di sabbione
Ben ricoperto sia; poi le sotterra,
Sotto all’aperto ciel, dentro all’arena.
L’altre debili e frai servar si ponno,
490Come il persico ancor, divise e secche.

Cerchi il cotogno poi, che tanta porta
Sanitade e dolcezza al viver nostro:
Il dorato color che lunge splende,
E ’l soave sentor che largo sparge,
495La sua maturità palese fanno.
Guardi il buon coglitor, che non l’offenda;
Ch’ogni percossa in lui divien mortale.
Ove sia freddo il ciel, chi sol l’appenda
Dal suo gambo sottil con picciol filo,
500In qualche chiuso loco, a legno o ferro,
Gli potrà vita dar d’un anno intero:
Molti albergo gli dan tra verdi fronde
Di latteggiante fico; altri nel mele
Le più mature pone, altri nel vino,
505

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Altri nel mosto ancora, al qual prestando
Del suo cortese odor, lo fa più caro.

Tosto poi che spogliando il bel granato,
Dentro vede i rubin vermigli e vaghi
Fiammeggiar tutti a guisa di piropo,
510Porti sotto al suo tetto; e ’l saldo piede
Bene avvolto di pece appenda in alto.
Quell’a cui più ne cal, lo bagna alquanto
Nell’umor di Nettuno; indi a tre giorni
Lo riporta a seccar a l’ombra e ’l sole
515La notte e ’l dì: poi, dove gli altri, ha seggio:
Ma quando l’ora vien, ch’estiva sete,
O che infermo calor che febbre adduce,
Vuol con esso temprar; non molto avanti
Lo torna a macerar fra le dolci acque.
520Chi lo copre d’argilla, e chi lo pone
Sopra l’arene sollevato in tanto,
Ch’attraendo l’umor, non tocchin lui;
Chi sovra l’onde, e ’n quella istessa forma,
Dentro un vasel che in nulla parte spiri:
525Chi fra ’l rude orzo lo nasconde in guisa,
Che non possa toccar chi gli è compagno.

Or, quantunque vulgar, non dee schernirse
La nespola real, né l’aspra sorba;
Che l’una e l’altra pur talvolta dona,
530Come al gusto sapor, salute al ventre.
Deggionsi tutte c"rre acerbe ancora

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Sul mezzogiorno, e che sia chiaro il cielo,
E ch’alcuna di lor di pioggia o nebbia
Non senta offesa: e dentro a chiuse corbe,
535E tra la paglia e ’l fien, e in alto appese
Servar si ponno: e chi l’attuffa in prima
Infra l’onde con sal, lor cresce i giorni,
Come anco il mèl che le mantien mature.
Né la giuggiola ignobil lasci in bando,
540Che pur nel verno poi rimedio apporta
Quando il gelato umor n’astringe il petto.

Già torne il passo, e con più larga spene,
Al mandorlo giocondo, al noce ombroso,
Alla calda avellana, che sciogliendo
545La sua gonna di fuor, ti fanno aperta
La lor maturità ch’è giunta a riva.
Prendale adunque allor, e d’ogni ’ntorno
Del primiero suo vel le renda nude:
E se ’l contenderan, tra folta paglia
550Stien sepolte due giorni; e per sé stesse
Le vedrai dispogliar l’antico manto:
Quinci con acqua e sal purgate e monde
La dura scorza sua, candide e ferme
Doppiamente verran; poi secche in tutto,
555Dureran quanto vuol chi in guardia l’ave.
Scerna la noce sol, che verme o tarlo
S’han fatto albergo; e ne farà liquore,
Ch’intr’alla sposa sua, tra le sue figlie

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Possa al verno vegliar, donando il cibo
560Alla lucerna sua, mentre elle al fuoco
Alla r¢cca talor traggon la chioma,
O van tessendo chi le scaldi e copra:
Metta l’altre miglior sotto l’arena
Tra l’aride sue frondi, o dentro all’arche
565Fatte del suo troncon: altri ha credenza
Che l’ donar lor tra le cipolle ostello,
Possa far i suoi dì più lunghi e lieti.

Qui l’altissimo pin nel ciel dimostra
Il durissimo frutto esser perfetto,
570Saettandone a terra or questo o quello
Con periglio e timor di chi sta presso.
Questo, c"r si conviene innanzi alquanto
Che i legnosi suoi scogli aprendo il seno
Lassin gir i figliuoi per l’erba errando,
575I quali han brevi i dì: pur chi gli chiude
Dentro un vaso di terra, e ’n terra avvolti,
Può per un anno almen di quei talvolta
Confortar e nutrir gli spirti e i membri.

Della rozza castagna il tempo arriva,
580Che si conosce anch’ei quando dai rami
Lo spinoso suo albergo in basso cade.
Quelle che di sua man battendo scuote
Dall’arbore il villan, veder potranno,
Verdi poste in sabbion, vicino il marzo:
585L’altre che già mature han preso ardire

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D’uscir del nido suo, scampar non sanno
Un mezzo mese pur; onde conviene
Seccarle al fumo; e lungo tempo appresso
Saranno ésca a colui cui manca il pane.

590Né il sacro arbor d’Ammon negletto vada,
La quercia annosa che in quei tempi primi
Nutrì senza sudor gli antichi padri.
Quando sotto al troncon le ghiande sparge,
Prendansi tutte allora; e secche al sole,
595Faranno al verno poi sì grassi e gravi
Gl’ingordi porci suoi, che fien la dote
Della figlia maggior che brama e tace.

Il sempre verde ulivo ancor non ave
Ben nel maturo fin condotto il frutto;
600Onde c"r non si può: ma in simil giorni
Quanto questo di sopra i rami spande,
Tanto sotto convien purgar intorno
Da sterpi e sassi, perché poi cadendo
Per pioggia o vento l’onorata uliva,
605Resti in occhio al villan; ché troppo è cara.

Or ch’ha dentro al suo tetto il buon cultore
Salvi condotti omai tanti bei frutti;
E son carche le travi, e l’arche piene
Colmi i vasi, i canestri, i tin, le botti,
610Talché gli avanza nell’albergo appena
Loco ove possa star la mensa e ’l letto;
Renda grazie a Colui la cui pietade
Gli dà

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soverchio quel ch’a molti manca:
Poi si volga a pensar che l’anno appresso
615S’altro tanto ne vuol, non gli bisogna
Passar tutto sedendo in ozio il tempo;
Ma che l’opra e ’l sudor l’han fatto tale.
Torni alla vigna sua, non le sia ingrato
Del prezïoso vin ch’ei n’ha ricolto;
620E nel tempo avvenir l’avrà più larga.
Come sia il mezzo ottobre, zappi e smuova
La terra in giro, e le radici scopra
Della vite gentil; e quante truova
Picciole barbe in lei, che non più addentro
625D’un piede e mezzo sien, col ferro ardito
Le taglie e spenga; perché queste, ingorde,
Furando il cibo alle profonde e vere,
Le fan perire alfin, onde ne resta
La vigna alfin colle radici in alto,
630Ch’or dal freddo comprese, or nell’estate
Dalla sete e dal caldo, a morte vanno.
Ma guardisi al segar, che non arrive
Dentro al materno ventre la sua piaga:
Ch’indi rinascon poi con maggior forza;
635O penetrando il giel le parti interne,
Del calor natural la vite spoglia.
Dunque dal suo pedal d’un dito almeno
Lontan l’incida: e non ritornan poi,
E ponno esso guardar da mille offese.
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Or se ’l paese tuo difeso giace
Dal furor d’aquilon, né ghiaccio o neve
Soverchio il preme; puoi lasciar la terra
Gran tempo aperta: ma se il verno ha forza,
Dopo il novembre almen, quei picciol fossi
645Ch’eran cavati intorno, adegua e chiudi:
E dove di gran giel sospetto fusse,
Lo sterco colombin, l’antica orina
Sopr’esse infusa, le mantiene in vita.
Mentre novella ancor cresce la vigna,
650Far si conviene infino al quinto ottobre
Ogni anno, e non fallir: nel resto poi,
Del terzo autunno può bastar un’opra;
Ché l’invecchiata scorza a tale è giunta,
Che partorir non può così sovente,
655Come prima solea, nuove radici.
Le propaggini poi, che poste in arco
Fur molto avanti, e dalle care madri
Han nutrimento ancora; in questi giorni
Tagliar si den, perché al più freddo cielo
660Prendan forza e vigor; e bene addentro
Cavar la terra lor, che ben profonde
Faccian le barbe, e non vicine al sole.
Altresì ci convien quelli arbor tutti
Rivisitar, che n’han dei pomi loro
665Fatto ricco l’altrier l’amico albergo:
Scopri il basso lor piede, e tutto poscia

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L’inghirlanda, ove puoi, di grasso fimo,
Perché scorrendo poi di giorno in giorno
L’umor del verno lo traporte addentro,
670E lo scaldi e nodrisca, onde divegna
Più giovin la virtude, e lieti e freschi,
Più soavi e maggior ti porti i frutti.
Ma s’egli è che ’l terren simigli a sabbia,
Della più grassa creta ivi entro spargi,
675Se pur cretoso sia, la sabbia adopra:
Che l’una all’altra vien cortese aita;
E maggior s’hanno amor, ch’al fimo istesso.
Non si deve or lassar la canna indietro,
Ch’esser sostegno possa al tempo poi
680Alla pianta novella, all’umil vite;
Ch’or vien matura: e dalle sue radici
Tagliar conviensi dolcemente pure
Sì, che quel che riman, non senta offesa.
Né, dopo questo, ancor riposo done
685Agli agresti instrumenti il buon cultore;
Perché l’autunno sol più d’opre ingombra,
Che non fa quasi poi dell’anno il resto.
Non men che a primavera, e spesso meglio,
Si puon tutti piantar per questi tempi
690Arbusti, arbori, frutti, e vigne insieme.
Prenda pure il magliuol, prenda il piantone,
Prenda ogni ramuscel, prenda ogni tronco;
E con modo e ragion elegga il seggio

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Dentro al terren che più conface a loro:
695E la Libra e l’Astrea vedrà per pruova,
Ch’ai duo Pesci e ’l Monton non cede in questo.
Ove più scalda il sole, ove è più secca
La piaggia e ’l monticel, tale stagione
Vie più giova al piantar, che l’altra prima,
700Perché il verno ne vien, che sopra stringe
Il ghiacciato terren che sotto scalda;
E ’l sovente cader di piogge e nevi
Gli dona tanto umor, che dentro forma
Salde radici; e come torna aprile,
705Vien pullulando, e tal vigore ha preso
Per sì lungo riposo, ch’ei non teme
L’aspra sete e ’l sudor di Sirio ardente.
Nell’istessa stagion si puote ancora
Disramar e potar le vigne e i frutti,
710E dar forma a ciascun; riguardo avendo,
Ch’ove è più forte il giel, s’avanzin l’opre;
Ritardando il lavoro, ove più scalde
Il pio raggio solar, quasi al novembre.

Or, quantunque le vigne e l’altre piante
715Per la soavità dei frutti suoi
Ci abbian fatto parlar sì lungamente
Della cultura lor, porre in oblio
Non si devrien però le biade e i campi,
Sendo il tempo miglior, ch’accresce e scema
720La mercede a ciascun secondo i merti.

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Non molto innanzi che la Libra adegue
Colla vigilia il sonno, il buon villano
Il ben c¢lto letame apporte ai campi:
Ché pur allor la terza volta deve
725Dar traversa la riga, acciò che poi
Prendan più volentier la sua sementa.
Sulla piaggia e sul colle, spesso e largo;
Nella valle e nel pian, più raro almeno
Delle tre parti l’una, il fimo spanda;
730Men nel secco terren, che nell’acquoso:
Che l’uno il freddo giel che l’onda reca,
Col temprato calor risolve e scalda;
L’altro asciutto per sé, nel troppo avvampa,
E nel poco o mezzan ristoro prende:
735Pongal di spazio par sopra i suoi campi
Diviso in monticelli, e sol ne sparga
Quanto ne può covrir quel giorno arando.
Il molto erboso pian ch’ha troppo umore,
Come arriva il settembre, il primo sia
740Che sopra il dorso suo porti l’aratro:
L’aperta piaggia poi, che lieta e grassa
E verdeggiante appar, lo segua appresso:
Il magro collicel ch’a mezza estate
Per non aver vigor trovò perdono,
745Or la volta seconda il ferro senta,
Perché più non ne vuol, ma dolce e leve.
Or è il tempo miglior, quando si deggia

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Raffondar e mondar le fosse e i rivi
Per far largo cammino alle folte acque
750Che ci menan dappoi Vulturno ed Ostro.
Or è il tempo a stirpar gli stecchi e i pruni,
E l’altre erbe noiose, a chi volesse
Di selvaggio terren far lieti c¢lti.

Già bisogna lassar tutto altro indietro,
755E volgere il pensier (ché troppo importa)
Alla sementa sua; né passe il giorno.
Truove il saggio cultor quel grano allora,
Che non varchi l’età d’un anno intero;
Ma nel passato agosto eletto in seme:
760Guardi ch’umor non senta, e sia purgato
D’ogni lordura in tutto; e sia lontano
L’orzo, l’avena, e lo spietato loglio:
Rosso dentro e di fuor, duro, pesante,
Lungo, e ’nciso nel mezzo, che ’l ritondo
765Non ha tanto vigor, ne tanto vale:
Spesso il rinnuovi ancor; che quello istesso
Che nel passato ottobre era perfetto,
Va la virtù perdendo, e d’ora in ora
Si vien cangiando tal (ché così vuole
770La volubil natura), che si face
Altro ch’esser solea negli anni addietro:
E piuttosto addiviene ove più abbonde
L’umido nel terren, che in secco loco.
Molti vid’io cultor che ’l suo frumento
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Dentro una lorda pelle avvolto un tempo
Tennero innanzi; e seminando poi,
Ebber del frutto suo più larga speme:
Altri, per dar rimedio al verme iniquo
Che le tenere barbe (ahi crudo e fero!)
780Appena nate ancor sotterra rode
Della sementa sua, la notte avanti
L’han tenuto fra l’onde ove sia infuso
Del gelato liquor del semprevivo,
O del torto cocomer che dell’angue
785La lunghezza, la forma e ’l nome ha seco.
Or quando puoi veder verso il mattino
Le figliuole d’Atlante, e la ghirlanda
Della sposa di Bacco, in occidente
Attuffarse nell’onde; allora è il tempo
790Che commetta al terreno i tuoi tesori:
E chi prima il farà, vedrà dappoi
Paglia e strame tornar la sua ricolta.
Pur sotto al freddo ciel, vicino all’alpi
Ove spinge aquilon le prime nevi,
795O nel magro terren dall’acque oppresso,
Si convien prima assai, mentre la terra
Si truova asciutta ancor, mentre le nubi
Stanno pendenti ancor; affin che avanti
Che le pruine e ’l giel le faccian guerra,
800Possan sotto formar larghe radici.
Guardi ben, che la figlia di Latona,

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Dipartendo dal Sol, chiarezza acquisti
In giovinetta età ch’a primavera
Di dolcezza e virtù si risimiglia:
805Quinci divoto a Cerere porgendo
Vittime, sacrifici, incensi e voti,
L’alto Lume del ciel, Flora e Rubigo
Preghi, ch’aiutin quei, questa non noccia:
Poi con buono sperar, e lieto in vista,
810Dia principio felice ai suoi desiri.

Chi possedesse il pian che dritto guarde
L’alto punto d’Apollo, aprico e trito,
Quel beato saria: ché bench’il colle
Renda più forte il gran, ne torna alfine
815Tanto poco al villan, che ’l figlio plora.
Ov’è grasso il terren, men seme spanda;
Nel più magro e sottil, più sia cortese:
Getti più raro il gran quel ch’è primaio,
O che nel seminar piovoso ha il cielo;
820Più spesso e folto, chi più tardo indugia,
O che ’l tempo seren incontra a sorte.
Poi coll’aratro in man solcando muova
Il ricco campicel dei nuovi semi;
Dietro a cui seguan poi la sposa e i figli
825Che colle marre in man ricuoprin sotto
Quel gran ch’appare, e l’indurate zolle
Rompin premendo: ché ove sia più trito
Da costoro il terren, più lieto viene.

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Ponghin cura tra lor, che ’l dritto solco
830Sia ben purgato sì, che nessun truove
La piovuta acqua in lui ritegno o impaccio:
Che se in esso riman facendo il nido,
Nel primo germinar ancide il grano.
In sì fatta stagion si puote ancora,
835Per chi n’abbia desir, sementa dare
Al crescente pisello, al verde lino,
All’amaro lupino, a molte insieme
Delle biade miglior, c’a dirne il vero
Aman, più che Scorpion, l’Aquario e i Pesci.
840Mentre c’Apollo ancor le piagge scalda,
Tor si conviene all’umil pecorella
La seconda sua gonna, a fin che possa
Vestirse intanto, e non la truove il gielo
Disarmata ver lui, piangente e grama:
845E la seconda volta all’api avare
Scemar dell’esca; e perc’al crudo verno
L’andar peregrinando è lor conteso,
E di frondi e di fior la terra è nuda,
Sia cortese la man che questo adopra.



Fine del Libro terzo.