Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1824)/Libro primo/Capitolo 5

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CAPITOLO V


Dove più sicuramente si ponga la guardia della libertà, o nel Popolo, o ne’ Grandi; e quali hanno maggiore cagione di tumultuare, o chi vuole acquistare, o chi vuole mantenere.


Q
uelli che prudentemente hanno costituita una Repubblica, intra le più necessarie cose ordinate da loro, è stato costituire una guardia alla libertà; e secondo che questa è bene collocata, dura più o meno quel vivere libero. E perchè in ogni Repubblica sono uomini grandi e popolari, si è dubitato nelle mani de’ quali sia meglio collocata detta guardia. E appresso i Lacedemoni, e ne’ nostri tempi appresso de’ Viniziani, la è stata messa nelle mani de’ Nobili; ma appresso de’ Romani fu messa nelle mani della Plebe. Pertanto è necessario esaminare, quale di queste Repubbliche avesse migliore elezione. E se si andasse dietro alle ragioni, ci è che dire da ogni parte; ma se si esaminasse il fine loro, si piglierebbe la parte dei Nobili, per aver avuta la libertà di Sparta e di Vinegia più lunga vita che quella di Roma. E venendo alle ragioni dico, pigliando prima la parte de’ Romani, come e’ si debbe mettere in guardia coloro d’una cosa, che hanno meno appetito di usurparla. E senza dubbio, se si considera il fine de’ Nobili e degl’Ignobili, si vedrà in quelli [p. 30 modifica]desiderio grande di dominare, ed in questi solo desiderio di non essere dominati, e per conseguente maggiore volontà di vivere liberi, potendo meno sperare d’usurparla che non possono li Grandi; talchè essendo i Popolani preposti a guardia d’una libertà, è ragionevole ne abbiano più cura, e non la potendo occupare loro, non permettano che altri l’occupi. Dall’altra parte, chi difende l’ordine Spartano e Veneto dice, che coloro che mettono la guardia in mano de’ potenti, fanno due opere buone; l’una, che satisfanno più all’ambizione di coloro ch’avendo più parte nella Repubblica, per avere questo bastone in mano, hanno cagione di contentarsi più; l’altra, che lievano una qualità di autorità dagli animi inquieti della Plebe, che è cagione d’infinite dissensioni e scandali in una Repubblica, e atta a ridurre la Nobiltà a qualche disperazione, che col tempo faccia cattivi effetti. E ne danno per esempio la medesima Roma, che per avere i Tribuni della Plebe questa autorità nelle mani, non bastò loro avere un Console plebeo, che li vollono avere ambedue. Da questa e’ vollono la Censura, il Pretore, e tutti gli altri gradi dell’Imperio della città; nè bastò loro questo, che menati dal medesimo furore, cominciarono poi col tempo a adorare quelli uomini che vedevano atti a battere la Nobiltà; donde nacque la potenza di Mario, e la rovina di Roma. E veramente chi discorresse bene l’una cosa e l’altra, potrebbe stare dubbio, quale da lui fusse eletto [p. 31 modifica]per guardia di tale libertà, non sapendo quale qualità d’uomini sia più nociva in una Repubblica, o quella che desidera acquistare quello che non ha, o quella che desidera mantenere l’onore già acquistato. Ed in fine chi sottilmente esaminerà tutto, ne farà questa conclusione: o tu ragioni di una Repubblica, che voglia fare uno Imperio, come Roma, o d’una che le basti mantenersi. Nel primo caso, gli è necessario fare ogni cosa come Roma; nel secondo può imitare Vinegia e Sparta, per quelle cagioni, e come nel seguente capitolo si dirà. Ma per tornare a discorrere quali uomini siano in una Repubblica più nocivi, o quelli che desiderano d’acquistare, o quelli che temono di perdere lo acquistato, dico, che sendo fatto Marco Menennio Dittatore, e Marco Fulvio Maestro dei cavalli, tutti duoi plebei, per ricercare certe congiure che s’erano fatte in Capova contro a Roma, fu dato ancora loro autorità dal Popolo di potere ricercare chi in Roma per ambizione e modi straordinarj s’ingegnasse di venire al Consolato, ed agli altri onori della città. E parendo alla Nobiltà, che tale autorità fusse data al Dittatore contro a lei, sparsero per Roma, che non i Nobili erano quelli che cercavano gli onori per ambizione e modi straordinarj, ma gl’Ignobili, i quali non confidatisi nel sangue e nella virtù loro, cercavano per vie straordinarie venire a quelli gradi; e particolarmente accusavano il Dittatore. E tanto fu potente questa accusa, che Menennio fatta una [p. 32 modifica]concione, e dolutosi delle calunnie dategli da’ Nobili, depose la Dittatura, e sottomisesi al giudizio che di lui fusse fatto dal Popolo; e dipoi agitata la causa sua ne fu assoluto, dove si disputò assai quale sia più ambizioso, o quel che vuole mantenere, o quel che vuole acquistare; perchè facilmente l’uno e l’altro appetito può essere cagione di tumulti grandissimi. Pur nondimeno il più delle volte sono causati da chi possiede, perchè la paura del perdere genera in loro le medesime voglie che sono in quelli che desiderano acquistare; perchè non pare agli uomini possedere sicuramente quello che l’uomo ha, se non si acquista di nuovo dell’altro. E di più vi è che possedendo molto, possono con maggior potenza e maggior moto fare alterazione. Ed ancora vi è di più, che li loro scorretti e ambiziosi portamenti accendono ne’ petti di chi non possiede voglia di possedere, o per vendicarsi contro di loro spogliandoli, o per potere ancora loro entrare in quella ricchezza, e in quelli onori che veggono essere male usati dagli altri.