Faust/Parte seconda/Atto quinto/Mezzanotte
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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
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MEZZANOTTE.
QUATTRO DONNE s’avanzano vestite a bruno.
La Prima. La Colpa io son.
La Seconda. Io la Penuria.
La Terza. Ed io
- Son detta Alfanno.
La Quarta. Io di Miseria ho nome.
A Tre. Chiusa è l’entrata, inutil cosa in tutto
Fôra sperar che l’ospite ne l’apra:
Un ricco alberga qui che a noi fa guerra.
La Penuria.
Ricco? Vuota fantasima lá dentro
Sarei, non altro.
La Colpa. Io vi sarei di tratto
Ridatta al nulla.
La Miseria. Uom di fortuna amico
Con orrore da me torce lo sguardo.
L’Affanno.
Non voi, suore, non voi potete al certo
Quella soglia varcar nè l’osereste;
Ben l’Affanno saprà pel forellino
Della toppa sguizzar. (L’Affanno scompare.)
La Penuria. All’erta! o mie
Livide suorel Di costà si fugga.
La Colpa.
A te di costa pel deserto piano
Io moverò.
La Miseria. Non mai da te divisa
La Miseria n’andrà.
A Tre. Ruotano a cerchio
Pel ciel le nubi, che di negro ammanto
Velan degli astri il tremulo folgore.
Avanti, dunque, avanti! Ecco da lunge,
Da lange assai! laggiù! laggiù! s’affaccia
La suora, ella già vien, viene — la Morte....
Fausto, nell’interno del palazzo.
Tre sol ne miro in fuga volte, e quattro
Ne trasser quivi. Sconosciute in pria
Eran le voci lor: — Miseria — Affanno
Parvemi ch’e’ dicessero, e più forte
Gridasser: — Morte, Morte! Udiansi arcane
Tenebrose profetiche parole,
Tal che al turbato mio pensiero indarno
Cerco dar posa. E sempre su’ miei passi
Ti avrò, semprel o magia? Tu che mi segui,
E m’incalzi com’ombra! Oh! quando fia
Che le innumere tue formole, e quei
Scongiuri in cui fidanza ebbi cotanta
Mi scordi alfin? Che non son io, Natura,
Un uom dinanzi a te? Suprema allora
Voluttade per me fòra la vita. (Pausa.)
Un uom? Ahi! tristo a me! Cotale un tempo
Non era io forse, pria che maladetto
Con orrendo blasfema al cielo avessi
Al suolo, al mondo, e a me? Pria che l’oscuro
Buio a tentar vôlto mi fossi? Ingombro
L’aere è cosi di larve e di paure,
Che di fuggirle, ohimè! vana è ogni speme.
Se nelle ore diurne han breve calma
I tuoi pensier, fantasmi ed ombre a mille
Tosto orrenda su te piove la notte.
In serena d’april sera tranquilla,
Al raggio amico della Luna, dai
Campi fioriti il piè lieto rimovi.
Tra le frasche un augel cantar s’intende;
Or che canta egli mai? Pianto, e sventura!
N’è a’ panni sempre, e n’ammonisce e preme,
Con basso susurrar di note arcane
Superstizion! e tristo e sbigottito
L’uomoristà.... Sui cardini la porta
Stride, e niun comparisce.
(Spaventato) Olà! Qualcuno
Evvi?
L’Affanno. Il dicesti.
Fausto. E tu chi sei?
L’Affanno. Poffare!
Io mi son.
Fausto. Via di qua!
L’Affanno. Qui star degg’io.
Fausto, sdegnato sulle prime, indi comprimendo la bile.
Stavvi, in malora, ma non sia che motto
Di magia proferir giammai t’ascolti.
L’Affanno.
Se l’orecchio mia voce non sente,
Basso basso favello al pensier;
E di forme cangiando sovente,
Mostro a prova qual è ’l mio poter.
Ad ognora col pallido aspetto,
Non cercato, da canto vi sto;
E quel dì che m’ha l’uom maladetto,
Vezzeggiarmi quel di lo vedrò.
Ancor l’Affanno non conosci?
Fausto. Intero
Il mondo io corsi, nè a’ desir miei tanti
Alcun diè legge, mai; quanto da meno
Parve al bisogno di mia vila, ognora
Rispinsi, dispregiai, di man lasciando
Sfuggirmi tutto che a tener non valsi.
Il desio — l’alto — e, quel trascorso, — un novo
Desio — cotale era mia vita — ahi lasso! —
Florida allor, salda, possente, attiva —
Pigra in oggi, pensosa, e le cocenti
Sue voglie inetta ad appagar. — Intera
Io conosco la terra, e so che fine
Coll’orizzonte estremo han le mie doglie.
Folle, chi anela con offese ciglia
La luce — chi trambasciasi sognando
Oltre le nubi, oltre le vie del Sole,
Spirto che lo somigli! Il guardo intorno
Volga, lo stolto! indi s’arresti; al saggio
Tutto parla quaggiù. Perchè nel vuoto
Infinito vagar? Quinci ben puote
Ogni sua brama di saper far paga.
Questo nel breve di che nome ha vita
Cammino imprenda, e se dentro al sereno
Vapor vaganti Spiriti ravvisi,
Meraviglia nol vinca, ed oltre passi:
Ch’ivi sol troverà quanti già furo
Assegnati per lui gaudi, martiri.
L’Affanno. Se agli strazi condanno un mortale,
A costui più del mondo non cale;
Denso buio l’avvolge, ed ignora
I tesori di candida aurora,
Dell’occaso la porpora e l’ôr.
Mentre all’alma l’ebbrezza s’addice
Di quel ben che la rende felice,
Ecco notte tremenda, affannosa,
Prepotente, inquïeta si posa
Al governo del misero cor!
Infelice! di spasimi ordita
Tutta quanta gli scorre la vita:
Ei del pari sì noia e travaglia,
Sia che rida o che tedio l’assaglia;
Come in terra si goda non sa.
Tra’ conviti mal sazio rimane;
Duolo e festa rimette al dimane;
L’avvenir solo in mente gli sta.
Notte e giorno non d’altro si strugge;
E giammai l’occasione che fugge
Côrre al varco, ghermire non sa.
Fausto.
Oh basta! basta! — D’allacciarmi il vanto
Non avrai ta, mia gioia! — Esci! — Non voglio
Più oltre udir la tua canzone! — Parti!
L’ingrata filatera a trar di senno
Il più sano cervel saria bastante!
L’Affanno.
Ei la mira non coglie; — che far?
Tocca a me più le mosse affrettar?
Tocca a lui più brev’orma stampar?
Che decidere incerto e’ mi par.
Dubbia, teme, l’ardire gli manca;
Già l’abisso a’ suoi piè si spalanca;
Vede il mal che ’l travolge; le angosce
D’altri e sue ben distinto conosce;
Nella strozza il respiro gli muor.
L’infelice non sa, non può dire
Se lo spirto in si crudo martíre
Maledica, o s’affidi tuttor.
L’indolenza, il rimorso, lo stento,
Libertade, servaggio, sgomento,
Breve sonno, affannoso vegliar;
Tal per esso si volve la vita
E — de’ guai la catena compita —
Giù vedrassi in averno piombar.
Fausto.
Spettri schifosi, e che? Dunque fatale
Vi trae destin, quando sì rio governo
Fate della meschina umana razza?
Quando di tante orribili sciagure
Il nostro viver gramo insidïate?
Abbominati demoni che sempre
Ci siete innanzi, indarno uom si riprova
A schermirsi da voi; chè vie più forte
In vostra possa lo avvinghiate, e i crudi
Lacci a spezzar forza nè ardir non vale.
Eppure, Affanno, eppur — sia quanto vuolsi —
Del tuo braccio il poter l’alma sconosce.
L’Affanno.
Lo sconosci? — E partendo — l’impreco!
Già tremendo — sol capo ti sta.
Infra’ ciechi mortali tu cieco,
Fausto, a viver la vita ne va! (Gli soffia nel viso.)
Fausto, divenuto cieco.1
Negra sul ciglio più e più s’aggreva
Notte profonda, ma più viva sempre
Sul cor luce si spande; il mio segreto
Palese al mondo or fia, però che senso
Solo ha il verbo per lui che l’ha concetto.
Suvvia, sul miei valletti, — all’opra! all’opra!
Ciò che in mente volgea, tempo è che alfine
Di fuor si mostri. Olá, mano alla vanga!
Alle pale! alle picche! ardir! coraggio!
Quanto v’imposi oprate or voi. Condegno
Premio all’ardente zelo vostro, al vostro
Eseguir pronto, all’ordine ed al senno,
Non fia che manchi. Onde al suo fin condotta
La più grande e sublime opra si veggia,
Non mille, un braccio sol basta, una mente.
Note
- ↑ L’infermità che l’ha colto, ben lungi dallo spegnere la sua attività, la stimola anzi viemaggiormente. La luce che raggiava al di fuori, va a concentrarglisi oramai tutta al di dentro. Cieco, il vedremo persistere ne’ suoi progetti creatori con più d’insistenza e di energia, e l’applicarvisi fia senza distrazioni dal vario spettacolo prodotto degli esteriori fenomeni. Nella tenebra degli occhi, diverrà l’anima più illuminata e più chiara: dal che trapela l’idea tutta cristiana di una vita nuova. Fausto, dopo essere passato per quanti ha gradi la umana felicità, conosce invecchiezza, come già Salomone, ogni cosa essere vanità. Gl’infortuni (le quattro Donne) sono avviamento a vita superiore; l’Affanno (per l’eterna salute di lui) lo accieca, onde, morto alla terra, spingasi a destino più elevato, e s’indirizzi all’Eterno, di cui presente lo avvicinarsi, mercè questa forza intuitiva che lo investe, disponendolo così alla sua finale apoteosi.