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Il Parlamento del Regno d'Italia/Giuseppe Cornero

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Giuseppe Cornero

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Giovanni Battista Cagnola Alberto Cavalletto
Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


[p. L modifica]Giuseppe Cornero. [p. 181 modifica]


Figlio di quell’avvocato Giovan Battista Cornero tanto benemerito della patria italiana e nel cui studio praticarono i Rattazzi, i Chiaves, i Bernardi ecc., e di Francesca Caselli, Giuseppe è nato in Alessandria il 9 aprile del 1812.

Compiti gli studî universitarî legali, addottorandosi nel 1833 in Torino, si rattenne tuttavia dall’esercitare la professione e si occupò invece con tutto il fervore di giovare alla patria sofferente coll’adoperarsi, coadjuvato da illustri amici, a promuovere l’instaurazione delle franchigie costituzionali e il nazionale riscatto.

Ma a dare un’idea ben chiara della parte avuta dal nostro protagonista fin dalla più tenera età al movimento italiano, crediamo far cosa grata ai lettori, citando qui un documento, estratto da quell’Archivio triennale delle cose d’Italia, compilato dal Cattaneo, documento che, pochissimo noto qual è, serve anche a gettare luce su interessantissimi fatti dell’istoria contemporanea.

«Giuseppe Cornero ai redattori dell’Archivio triennale.

«Poichè nel vostro primo volume dell’Archivio istorico vi piacque trarre dall’oscurità il mio nome e la mia persona, facendone soggetto e titolo di due numeri (40 e 41), è diritto che mi concediate ed aggiungiate ai medesimi alcune rettificazioni, senza le quali mi rimarrebbe taccia d’uomo sleale e raggiratore; ed alcuni fatti che vi assumete illustrare ne verrebbero compiutamente falsati.

«Il signor Aurelio Saffi, dopo aver detto nel N.° 39 che: Azeglio mandava un suo adepto in Romagna a calmare le ire insorgenti, con nuove promesse e discorsi rivoluzionari fingendo, imminente una crisi radicale in Piemonte se il Re non troncava gl’indugi, dice poi nel N.° 40 che: la persona inviata dall’Azeglio fu un certo Cornero, che affettava sentimenti [p. 182 modifica]più caldi e più liberi di quelli dell’Azeglio. Poi, sempre parlando di me: le sue parole piacquero e da molti dei nostri liberali, che lo credevano sincero ecc. Poi, in fine: il Cornero si congedò dai Romagnoli con grandi promesse d’energici fatti, e come se riandasse a Torino a far la cospirazione nella cospirazione ecc. ecc.

«Tutto ciò è compiutamenle inesatto: e la memoria e lo spirito di parte hanno singolarmente tradito il signor Saffi, e gli hanno dettato espressioni ingiuste e gratuitamente ingiuriose a riguardo mio.

«A porre le cose nel loro vero aspetto, mi è forza risalire un po’ indietro.

«Nel 1852 m’era addetto, ancora studente, alla Giovine Italia: mi vi era addetto, sì perchè la forma repubblicana arride maggiormente come il bello ideale dei governi, sì perchè non poteasi in allora da verun italiano porre speranza in altro che nell’insurrezione. Vi durai poscia frammezzo a tutte le persecuzioni e le fucilazioni dei nostri, adoperandomi con quanto di forze stavano in me in servizio della causa che avevo abbracciata.

«Ma se l’efficacia di quell’associazione in diffondere genericamente i principi di libertà e nazionalità era stata non lieve, come predicazione però repubblicana e come società cospiratrice essa era andata ogni giorno perdendo terreno e i suoi proseliti anzichè crescere s’erano fatti giornalmente più radi, tantochè dal 1840 e 41 in poi s’era dovuto qui smettere ogni tentativo di nuovi arruolamenti, e restringerci, pur tenendoci in corrispondenza coi capi, a predicare genericamente, senza proposizioni speciali, i nostri principî.

«In Piemonte da quel tempo non più un uomo veramente influente, o per ingegno o per posizione sociale, o per mezzi di fortuna avevamo potuto arrestare nelle nostre file; — delle masse non parlo, cui, come ognun vede volere arruolare in una cospirazione è cosa ridicola; — e quando nell’inverno del 1844, dopo essermi in Parigi ed in Londra affiatato coi mazziniani e con Mazzini medesimo, tentai raccoglier denaro per una spedizione che allora disegnavasi e che [p. 183 modifica]poi non si eseguì, a me ed ai miei amici di quà non venne fatto di raccogliervi se non una insignificantissima somma.

«In tale tristissimo stato d’affari per noi, e mentre scorati e caduti d’animo, non vedevamo probabilità di riuscita per gran tempo avvenire, giunse D’Azeglio in Piemonte. Ei cercò di conoscere i capi del partito mazziniano — e alloramai quei pochi eravamo capi e coda, generali e soldati — i battaglioni erano in bianco.

«Abboccatosi con noi, addusse sue ragioni a provarci che eravamo sovra una falsa strada; disse che non v’era altro modo che spingere colle vie legali re e governi alla riforma, alle costituzioni, all’acquisto della nazionalità. Ci espose i molti colloqui avuti col re, i continui discorsi di questo, spiranti amor d’Italia e odio mortale all’austriaco: tanto disse, insomma, e tanto fece, che io ed altri, pur non celandogli la diffidenza che gli antecedenti del re c’ispiravano, non niegammo di tentare la nuova via, dichiarandoci però pronti sempre, ove non riuscisse, a ritornare all’antica. Io specialmente accettai risolutamente di operare in quel senso, non celandogli, però, in nulla e per nulla, i miei dubbî, i miei sospetti, le mie diffidenze.

«M’avvenne in quel tempo di dovermi recare in Toscana: ei mi propose di fare una corsa in Romagna per l’oggetto cui accenna il Saffi: assentii. Giunto in Forlì, dove, per non insospettire la polizia, mi feci amatore di quadri (senza però darmi per artista, come dice il Saffi, forse innocentemente e fors’anco per una tal qual velleità di sempre più caricarmi le tinte d’impostore), fui da persona, cui ero indirizzato, condotto la sera ad un’adunanza di buoni e ardenti italiani. Erano tutti uomini energici e d’azione. Ma se alcuni erano coltissimi e largamente illuminati (e fra questi certamente il Saffi), parecchi pure (lo dico schiettamente e prego quegli ottimi uomini di non pigliar ciò in mala parte) mi parvero, colpa dell’idea che tutti li occupava e del paese disgraziato, siffattamente non curanti od ingannati o ignari delle faccende europee, da credere che, mosse Forlì e Faenza, [p. 184 modifica]l’Italia, anzi l’Europa, sarebbero in fiamme. Perciò, dopo esposti loro nudamente e schiettamente, come ne avevo commissione, i discorsi tenuti dal Re ad Azeglio, posi tutti i miei sforzi a persuaderli, che una insurrezione nelle sole Romagne, anzi in una sola parte di esse (poichè in certi luoghi soltanto li vedeva sicuri di promuoverla) avrebbe finito come tutte le altre, e non avrebbe riuscito se non a far nuove vittime e ad aggravare maggiormente la condizione di tutti. Che perciò, tant’è tanto, quand’anche non avessero fidato interamente nelle parole di Carlo Alberto, della cui sincerità li lasciava giudici, — poichè io non mi facevo, e non potevo nè dovevo farmi mallevadore se non della realtà del fatto, dei discorsi, cioè, seguiti fra Azeglio ed il Re — era pur sempre conveniente, necessario, astenersi da moti intempestivi o ruinosi, vedere come e quando il Re adempisse le promesse, e differire a ogni modo ogni tentativo a tempi più opportuni. Che intanto anche in Piemonte l’opinione liberale progrediva, ed avrebbe progredito ognor più; e che ove il Re ci avesse ingannati, noi pure in Piemonte, e con maggiore speranza di successo, avremmo ripreso l’antico modo d’azione.

«Questo dissi con tutta sincerità, con tutta schiettezza, con fermo proposito di fare quanto diceva, e senza aver bisogno per nulla d’affettare sentimenti energici, poichè quei sentimenti erano sempre stati i miei.

«A ciò alcuni non trovarono altre ragioni ad opporre, se non se, che erano troppo compromessi e non potevano tardare ad essere scoperti, e che, morir per morire, meglio era morir di palla che di capestro. Altri volevano che io promettessi loro un sussidio dal Re sardo di almeno settantamila uomini fra tre mesi al più, e altre cose parecchie. Ai primi risposi che forse si esageravano la loro posizione, su di cui del resto non sapeva che dire, perchè non la conosceva abbastanza, e perchè io era venuto a concertar modi d’azione e non di suicidio. Agli altri dissi, ridendo, che veramente ei pretendevano un po’ troppo da me, e che io non mi sentiva di far loro una tale promessa. [p. 185 modifica]

«In conclusione però, i più (e fra questi mi pare anche il signor Saffi, che a quanto rammento mostravasi e parlava temperatissimo) finirono per piegare alle mie esortazioni d’indugio. E in fatti niun moto per loro fortuna seguì allora in Romagna; dico per loro fortuna in allora, poichè Gregorio XVI mori poco dopo: niuno, credo, fu scoperto e le cose mutarono.

«Or, domando io: in che mancai di sincerità? In che li ho ingannati? in che danneggiai l’opera italiana? In qual tempo vorrebbe il signor Saffi che fosse avvenuta l’insurrezione? In quei pochi mesi che precedettero la morte di Gregorio, o dopo? — Ma in quei pochi mesi le condizioni politiche non s’erano ancor mutate. Dopo dunque? Cantando l’inno Viva Pio IX? o in compagnia dei Gregoriani?

«E in Piemonte dopo le nuove ognor crescenti speranze (speranze, per Dio! Carlo Alberto quanto a lui non tradì) come avremmo dovuto o potuto rifarci mattamente e slealmente cospiratori repubblicani?

«Or due parole sole sulla lettera del De-Boni, numero 41. — Manco male ch’ei mi dichiara uomo franco e risoluto! In buon’ora! Aveva però diritto di aspettarmi dalla antica amicizia e dalla sua buona fede, ch’egli a mio riguardo dimenticasse un tantino di più lo spirito di parte ed usasse minore ambiguità di parole nelle ultime linee, che nel detto numero si leggono in corsivo. Io giunsi in Milano il giorno dopo la cacciata degli Austriaci, e non sapeva, nè poteva sapere, se non poche e generalissime cose sui primi atti del governo provvisorio. Arrivando, sentii alcuni biasimarlo, perchè mostrava accostarsi al Piemonte; sentii, da pochi, è vero, blaterazioni insulse e peggio contro i Piemontesi: mi si disse persino che taluni ci aveva tacciati di croati. Come fare a non montare in istizza? Confesso che non sono umanitario a tal segno. Ciò mi mosse la bile e dissi francamente ed altamente che la era un’indegnità. Or perchè, De-Boni mio, non dir la cosa chiara e tonda invece di quella contorta circonlocuzione: biasimava fortemente quei pochi che biasimavano il governo provvisorio di non aver provveduto alla libertà e alla dignità d’Italia, [p. 186 modifica]– circonlocuzione che a te dovea almeno offendere la orecchie letterate perchè guasta la proporzione e l’economia del periodo, e a me offende ben altro, perchè mi mette in sospetto di non amare la libertà e la dignità d’Italia. È questa la buona fede d’amico e di fratello?

«Queste cose, o signori, vincendo la repugnanza mia a parlare di me, avevo dovere di scrivervi per provvedere all’onor mio, alla mia non mai contaminata fama di lealtà, di schiettezza e di amore all’Italia, scevro di qualsiasi municipale affetto. Queste, poichè fate professione di cercare e di dire il vero, avete dovere di stampare in aggiunta ai numeri 40 e 41 del vostro Archivio

Tale è il Cornero: uomo utilmente e disinteressatamente devoto alla patria, e che, per aggiungere qualche altra particolarità intorno alla ben riempita sua esistenza, fu uno dei fondatori di quella Società agraria nel seno della quale si maturarono e si risolvettero tutte le misure mediante le quali ebbero poco a poco svolgimento le franchigie costituzionali, che fu utile collaboratore del Valerio nelle Letture di famiglia, che nel 1846 fu uno dei promotori della domanda dell’istituzione della guardia nazionale, che fondò, insieme al Lanza e al Durando, il giornale l’Opinione, periodico che ha reso importanti servigi all’Italia.

I suoi concittadini l’hanno rimeritato di tanto zelo e di tanta abnegazione coll’inviarlo, fin dal 1857, ad occupare il posto lasciato vuoto in seno all’Assemblea nazionale dal compianto di lui padre, posto in cui, operoso e affezionato al paese, quale il sappiamo, ei non tralascia di rendersi utile colla sua assiduità alle sedute e negli uffici, e colla illuminata coscienziosità de’ suoi voti.