Il Re dell'Aria/Parte prima/10. Un uomo gelato vivo

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CAPITOLO X.

Un uomo gelato vivo.

Al di là del muricciuolo, poichè in quel luogo la cancellata era terminata, si udiva la neve a scricchiolare sotto il passo pesante di un uomo.

Doveva essere il servo dell’intendente del barone, che s’avvicinava alla porta.

— Pronto, Pugno di ferro, — sussurrò Olga.

Il gigante rimboccò le maniche della sua casacca e allargò le gambe, pronto a piombare sulla vittima.

Un momento dopo una chiave fu introdotta nella toppa e la serratura scattò fragorosamente.

Un uomo, che teneva in mano una lanterna, comparve, avvolto in un pesante gabbano.

— Siete voi? — chiese con aria annoiata.

— Sì, — rispose Olga.

— Venite troppo tardi.

— C’è l’intendente?

— Credo che sia già ubbriaco fradicio.

— Mi aspetta però.

— Se non vi attendesse, sarei già a letto da quattro o cinque ore, — rispose il domestico. — Ci si sta bene con questa nebbia.

Fate presto: è fredda questa sera. —

Olga entrò, spalancando la porta per lasciare il posto agli altri che il servo dell’intendente, mezzo assonnato e anche in causa della nebbia, non aveva ancora potuto scorgere.

Pugno di ferro, pronto come il lampo, piombò addosso al disgraziato, afferrandolo strettamente pel collo onde impedirgli di mandare qualunque grido, poi lo lasciò cadere in mezzo alla neve quasi strangolato.

I quattro membri della gaida che lo avevano subito seguìto, s’impadronirono del prigioniero, lo imbavagliarono, lo legarono strettamente e lo portarono nella slitta, affidandolo ai cocchieri. [p. 112 modifica]

— Ecco la via libera, — disse Pugno di ferro, pienamente soddisfatto del suo colpo. — Quella cornacchia non griderà più.

— Guidaci, — disse l’atman ad Olga.

La ragazza che aveva assistito impassibile, a quella scena, come se la cosa non la riguardasse affatto, raccolse le gonne e s’avanzò tranquillamente sotto i grandi alberi del parco stillanti d’acqua.

In mezzo alla nebbia si distingueva un vago chiarore, che pareva proiettato da una lampada elettrica.

— È là il padiglione? — chiese l’atman.

— Sì, — rispose Olga.

— Fa presto. —

Attraversarono il parco, camminando con precauzione onde non far scricchiolare la neve gelata e si fermarono dinanzi ad un edificio di forma quadrata, d’architettura pesante, con ampie finestre al pianterreno, chiuse da doppi vetri coperti già da uno strato di ghiaccio.

L’interno era illuminato, mentre al di fuori un globo di luce elettrica faceva scintillare vivamente la neve.

L’atman s’accostò ad una finestra, grattò leggiermente, senza produrre il menomo rumore, lo strato di ghiaccio steso sul vetro e guardò nell’interno.

Un uomo che aveva una lunga barba rossastra, le mascelle molto larghe e gli zigomi assai sporgenti come tutti i tartari, e che indossava un pesante gabbano di grosso panno olivastro, stava seduto dinanzi ad un tavolo, affondato in una comoda e soffice poltrona di velluto azzurro. Vi erano parecchie bottiglie dinanzi a lui, col collo coperto di carta dorata e parecchie coppe di cristallo di Boemia semi-piene.

Fumava una pipa monumentale di porcellana, simile a quelle che usano i tedeschi della Pomerania, lanciando con forza, verso il dorato soffitto del salotto, buffi di fumo.

— È lui? — chiese l’atman, prendendo fra le braccia Olga e alzandola fino all’altezza della finestra.

— Sì, — rispose la ragazza.

— Entra pure: noi giungeremo al momento opportuno.

— Sta bene. —

Girò intorno al padiglione finchè trovò una porticina che spinse violentemente ed entrò, dicendo:

— Giungo un po’ tardi, è vero, signor Stossel?

— Ah!... Sei tu piccina? — rispose l’intendente con voce rauca. — Ero seccato di aspettarti. [p. 113 modifica]Quindici ore dopo, lo Sparviero, dopo aver evitato il gruppo delle isole Canarie. (Cap. XII). [p. 115 modifica]

— Avete dello champagne e anche dello sliwowitz davanti, se non m’inganno, — rispose Olga, ridendo. — Non vi bastano per consolarvi?

— Uh!... Queste cose cominciano ad annoiarmi.

— Provate il kummell, signor Stossel. Quello è più forte ancora. —

L’intendente del barone depose l’enorme pipa e guardò, coi suoi occhi grigiastri, già annebbiati dalle copiose libazioni, la graziosa ragazza.

— Sei allegra, questa sera, figliola, — disse poi.

— Sfido io! Si sta bene qui, colla nebbia che soffia al di fuori.

— Siedi vicino al caminetto, se hai freddo.

— E datemi da bere, signor Stossel. Sarà champagne finissimo, suppongo.

— È di quello che beveva il barone.

— Quando tornerà non ne troverà più di certo.

— Se tornerà, — rispose l’intendente con un sorriso.

— È forse naufragata la sua nave?

— Oh no!

— È già sbarcato?

— Mah!... Pare.

— Dove?

— Tu sei troppo curiosa, figliuola mia. —

Vuotò un bicchiere di sliwowitz poi, fissando Olga, le chiese:

— Sai che comincio a diventare inquieto?

— Perchè, signor Stossel?

— Io vorrei sapere per quale motivo tu mi parli sempre del mio padrone. Ti interessa o per caso l’hai conosciuto?

— Io!... Non l’ho mai veduto.

— E perchè mi chiedi sempre notizie di lui?

— Così, per una semplice curiosità. M’interessava quella fanciulla che ha condotto con sè.

— Per quale motivo?

— Sono una fanciulla anch’io.

— Non capisco niente, — brontolò l’intendente. — È meglio che beva.

— Avete bevuto già abbastanza, mi pare, — disse Olga, la quale si scaldava dinanzi ad un caminetto elegantissimo, sul quale fiammeggiavano dei grossi pezzi di pino.

— Oh! Appena un po’ di bicchieri, — disse l’intendente, — tanto per scacciare un po’ la noia. [p. 116 modifica]

Comincio ad averne abbastanza di questa vita d’orso grigio e d’aver da fare solamente con quei cretini di contadini.

Quando c’era il padrone la vita era ben diversa.

— Vi rifarete quando ritornerà.

— Sì, quando? È andato lontano, molto lontano.

— E perchè? Forse che non si trovava più bene a Pietroburgo?

— Oh sì, molto; ma aveva una paura indiavolata del padre della fanciulla, una paura sciocca poichè sapeva che io avevo fatto le cose per bene.

Dall’esilio non tornerà più mai, più mai.

— E dov’è scappato?

— Lontano, ti ho detto.

— Lo saprete in quale paese.

— Io!... Io non so più nulla.

— Non vi scrive più?

— Non so niente, — rispose l’intendente bruscamente.

— O meglio non volete dirmelo, — disse Olga alzandosi.

— Che cosa interesserebbe a te?

— A lei no, ma a noi sì invece, — disse una voce minacciosa.

L’intendente, spaventato, si era voltato. Un uomo era entrato silenziosamente nel salotto, non essendo stata la porta ben chiusa da Olga e si era collocato dietro la poltrona: era l’atman.

A due passi da lui, seminascosto dietro un enorme vaso di alabastro, si trovava Pugno di ferro, pronto a piombare sul disgraziato Stossel.

— Chi siete voi? — chiese l’intendente, alzandosi con gran fatica, poichè le gambe erano malferme pel troppo champagne bevuto e per lo spavento.

— Il capo della gaida degli Hoolygani, — rispose l’atman, puntandogli contro due rivoltelle.

— Ho... o... o..., — balbettò Stossel, con voce tremante.

— Hoolygani, ti ho detto.

— I ladri!...

— Se così piace chiamarci, sia pure, — disse l’atman freddamente.

L’intendente, che doveva essere dotato d’un certo coraggio, rovesciò la poltrona e si gettò da una parte urlando a squarciagola:

— Samara!... Samara!...

— È inutile che tu ti sfiati, — disse l’atman. — Il tuo servo è nelle nostre mani e non verrà per ora in tuo aiuto. [p. 117 modifica]

È meglio che tu ti arrenda senza fare tanto chiasso, che sarebbe d’altronde assolutamente inutile.

Non temere però nè pel tuo denaro, nè per quello del tuo padrone: la cassa della gaida non ne ha bisogno, almeno per questa sera. —

L’intendente, che sapeva che razza di ladri erano gli Hoolygani, udendo quelle parole, respirò a lungo.

— Che cosa volete allora da me? — chiese, titubante. — Assaggiare lo champagne o lo sliwowitz del mio padrone? Sarò ben lieto di potervi offrire le bottiglie più vecchie.

— Quelle le berremo più tardi, — rispose l’atman. — Pel momento abbiamo da trattare affari più importanti, mio caro Stossel. —

Poi, alzando la voce, disse:

— Signori, entrate!... —

Ranzoff, Boris, Wassili, i loro compagni ed i quattro Hoolygani della slitta fecero irruzione nell’elegante salotto.

L’intendente era rimasto immobile, appoggiato alla tavola, guardandoli uno ad uno, cogli occhi dilatati dallo spavento.

— Non inquietarti, — disse l’atman con voce ironica. — Questi sono tutti miei conoscenti e anche della vezzosa Olga. —

Stossel guardò macchinalmente la ragazza e la vide seduta tranquillamente dinanzi al caminetto crepitante, intenta a scaldarsi per bene le mani.

— Ah!... Miserabile creatura!... — gridò, tentando di slanciarsi.

Pugno di ferro, che gli si era collocato dietro, lo costrinse a piegarsi sotto la formidabile pressione del suo braccio.

— Sii buono, se non vuoi che ti spezzi in due, — disse il gigante. — È pericoloso scherzare coi membri della gaida degli Hoolygani. —

L’intendente si era appoggiato alla tavola, pallido come un morto, ansando affannosamente.

— Che cosa si vuole dunque da me? — chiese, con voce strozzata.

— Te lo diranno quei due signori, — disse l’atman, indicando Boris e Wassili.

L’intendente fissò l’ingegnere, poi l’ex-capitano della Pobieda e si passò una mano sulla fronte, come se cercasse di risvegliare dei lontani ricordi. Gli pareva di aver veduto ancora quei visi, ma quando e dove?

— Ci riconosci? — chiese Wassili.

— Mi pare di avervi veduti, — rispose l’intendente.

— Dove?

— Non lo so. [p. 118 modifica]

— Allora te lo dirò io: nel palazzo degli Starinsky, nel palazzo dei cugini del tuo padrone. —

Stossel sussultò, come se avesse ricevuto una scarica elettrica e si sentì coprire il viso d’un freddo sudore.

— Degli... Starisky!... — balbettò con voce affannosa.

L’ubbriachezza gli era passata e cominciava a capire qualche cosa. Sentiva per istinto che qualche cosa di terribile stava per accadere.

Pugno di ferro, vedendolo così disfatto, così accasciato, così smarrito, rialzò la poltrona e ve lo mise a sedere, dicendogli ironicamente:

— Vuoi un bicchiere d’acqua?

— No, dategli dello champagne, — disse Olga, senza voltarsi, essendo sempre seduta dinanzi alla crepitante fiamma del caminetto. — Non è abituato a bere dell’acqua e perciò potrebbe fargli male. —

Stossel non rilevò nemmanco quell’atroce ironia, anzi forse non l’udì nemmeno, tanto era in preda allo spavento.

— Signori, accomodatevi, — disse l’atman, facendo segno a Pugno di ferro ed ai quattro Hoolygani di portare delle sedie.

Ranzoff, i suoi amici ed i marinai dello Sparviero si sedettero intorno alla tavola, mettendo dinanzi a loro pugnali e rivoltelle, mentre i soci della gaida si mettevano a guardia della porta affinchè nessuno potesse entrare.

— La seduta è aperta, — disse l’atman, con voce grave. — A voi, signori. —

Fu Wassili che pel primo prese la parola.

— Noi siamo venuti qui, intendente, per aver notizie del tuo padrone.

Io e questo signore, — indicando Boris, — siamo i cugini del barone, quei cugini che quel furfante ha fatti esiliare per impadronirsi delle loro ricchezze.

Tu non ci hai conosciuti, ma noi sì.

— Voi... i cugini...

— Sì, del tuo infame padrone. Dove si trova ora quel miserabile?

Pondera bene le tue parole, perchè noi siamo risoluti a strapparti la verità colla forza.

— Io... signori... — rispose l’intendente, che tremava come se fosse stato côlto da un accesso di intensissima febbre.

— Bada che sei nelle nostre mani, — disse l’atman, — e ricordati che se questi signori volessero risparmiarti non troveresti grazia [p. 119 modifica] presso gli Hoolygani se ti ostinassi a rimanere muto e se tu cercassi d’ingannarci.

Il tuo servo è ormai nostro prigioniero, quindi tu non puoi sperare su alcun aiuto.

Ora rispondi alle domande che ti rivolgeranno quei due signori.

Bevi pure un bicchiere di champagne o di sliwowitz per rimetterti un po’ dallo spavento.

Noi te lo permettiamo.

— Non ho sete in questo momento, — rispose l’intendente, battendo i denti.

— Allora berrai più tardi: rispondi.

— Io non posso rispondere, perchè non so nulla. Il mio padrone è partito e non mi ha confidato dove andava.

— Con chi è partito? — chiese Wassili.

— Con una fanciulla.

— Chi è?

— Non l’ho mai saputo.

— Lo seguì volontariamente? — chiese Fedoro.

— La fanciulla dormiva quando lasciò il palazzo. Credo che le avessero fatto bere qualche potente narcotico.

— Dove si è imbarcato il barone? — chiese Wassili.

— A Riga.

— Su una delle sue navi?

— Sì.

— Come si chiama quel vapore?

— Non lo so.

— Lo sai e non vuoi dircelo, — disse Boris. — Ti costringeremo però a dircelo.

— Pugno di ferro, — disse l’atman. — Collocati dietro a quest’uomo e se esita a rispondere alle domande che gli rivolgeranno questi signori, fracassagli il cranio. —

L’intendente, udendo quell’ordine, aveva mandato un urlo di spavento.

— No!... No!... grazia!... Non uccidetemi!... — aveva gridato. — Io sono un povero uomo!

— Che per far piacere al padrone manda alle miniere siberiane due galantuomini, è vero signor Stossel? — disse Wassili beffardamente.

— Che cosa volete dire, signore?

— Che noi siamo stati informati che sei stato tu ad introdurti nel [p. 120 modifica] nostro palazzo per nascondere dei documenti compromettenti e dei proclami nichilisti per mandarci in galera, miserabile! — gridò Boris, balzando in piedi. — Negalo, se l’osi!... —

L’intendente era rimasto come fulminato. Tentò di parlare, di ribattere l’accusa; solo un suono rauco gli uscì dalle labbra contratte e aride.

L’atman empì un bicchiere di champagne e glielo porse, dicendogli:

— Bevi o non potrai parlare. —

L’intendente lo afferrò avidamente e lo vuotò d’un fiato.

— Ti avverto che simili commozioni sono pericolose talvolta, — disse l’atman.

— Continuiamo, — disse Wassili. — Tu dunque insisti nel dire che non conosci il nome di quella nave.

— No, non insisto più.

— Come si chiama dunque?

— La Tunguska.

— E per dove è salpata.

— Vi giuro, signore, che lo ignoro.

— Dopo la partenza del tuo padrone non hai più ricevuto alcuna notizia da lui.

— Sì, una sola volta.

— Da dove?

— Da Lisbona.

— Mostraci quella lettera, — disse Boris.

— Io non l’ho più.

— Che cosa ne hai fatto? — chiese Wassili.

— L’ho distrutta.

— Io non ti credo.

— Lo giuro.

— Bada che Pugno di ferro ha il braccio alzato, — disse l’atman.

— Se vi dichiaro che fu distrutta.

— Insisti? — chiese Wassili, fissandolo intensamente.

L’intendente esitò a rispondere e guardò Pugno di ferro il quale stava dietro la sua poltrona col braccio in alto.

— Non mi assassinate, — disse.

— Allora parla. Dov’è quella lettera?

— L’ho nascosta.

— Dove? — chiese Wassili.

— In fondo ad una vasca da bagno insieme ad altri documenti. [p. 121 modifica]

— Che cosa diceva?

— Io non l’ho capita.

— Indicava almeno il luogo ove il tuo padrone si è rifugiato?

— Non so: accennava ad un’isola che io non ho mai udita nominare.

— La conosceremo noi presto, — disse Boris. — Spiega a noi perchè il tuo padrone, ricco, potente, ben veduto alla corte imperiale, è fuggito da Pietroburgo.

— Perchè temeva di trovarsi, un giorno o l’altro, di fronte ai suoi cugini e di dover perdere la fanciulla che amava alla follìa.

— Eppure sapeva che noi eravamo esiliati in Siberia e anche più in là della Siberia.

— Eppure aveva paura di vedervi ricomparire.

— Quando fu rapita la fanciulla?

— Due settimane dopo il vostro arresto.

— Da chi?

— Da alcuni servi del barone.

— E guidati? —

Stossel non rispose.

— Da te, è vero, miserabile? — gridò Boris.

— Io non ho detto questo, — balbettò l’intendente.

— Lo leggiamo nei tuoi occhi.

— Io dovevo eseguire gli ordini del padrone.

— E per obbedirlo hai mandato noi alle miniere, — disse Wassili.

L’intendente ebbe uno scatto d’ira e, volgendosi verso Olga, che non aveva lasciato il caminetto, le gridò con voce furente:

— Sei una vile creatura!... Tu mi hai rovinato!... —

La ragazza rispose con un riso argentino ed un’alzata di spalle.

L’atman si era alzato.

— Guidaci alla vasca, — disse. — Noi abbiamo perduto già troppo tempo.

— Fa troppo freddo a quest’ora.

— Bah!... I buoni russi non hanno mai avuto paura della neve. Se vuoi, scaldati lo stomaco con un buon bicchiere di sliwowitz.

Noi facciamo altrettanto. —

Ad un suo cenno i quattro Hoolygani che guardavano la porta, aprirono un grande armadio di noce scolpita che si trovava in un angolo del salotto e tolsero parecchi bicchieri di cristallo di Boemia, deponendoli dinanzi alle persone sedute intorno al tavolo. [p. 122 modifica]

L’atman prese una bottiglia piena della spiritosissima bevanda ed empì i bicchieri, dicendo:

— Bevete, signori: vi preserverà dal freddo; forse dovremo rimanere all’aperto qualche po’. —

Vuotate le tazze, Pugno di ferro prese sotto il braccio l’intendente il quale pareva più morto che vivo e tutti li seguirono, mentre Olga rimaneva dinanzi al caminetto senza degnare d’un solo sguardo il disgraziato che aveva tradito.

Al di fuori faceva un freddo veramente siberiano e la nebbia non era ancora cessata. Gli alti pini del parco erano appena visibili alla base; le cime scomparivano fra quei gravidi vapori scendenti sulla terra come un lenzuolo funebre.

Solo la lampada elettrica, sospesa ad una piccola antenna eretta dinanzi al padiglione, rompeva le tenebre e anche stentatamente.

— Dov’è la vasca? — chiese l’atman all’intendente.

— Presso la lampada.

— Il tuo padrone veniva a prendere il suo bagno quando nevicava?

— All’estate.

— Si vede che è un signore raffinato. —

Stossel non rispose.

S’avvicinò all’antenna sostenente la lampada, strappò con rabbia una tela impermeabile carica di neve e mise allo scoperto un’ampia vasca di marmo bianco, profonda quasi tre metri, munita da un lato di due rubinetti di metallo.

— È lì sotto che hai nascosta la lettera? — chiese Wassili.

— Sì, — rispose Stossel con dispetto.

— Non c’ingannerai tu?

— Non sono forse nelle vostre mani? — chiese rabbiosamente l’intendente.

— È nascosta nel fondo della vasca?

— Sotto la pietra di sfogo.

— Chi farete scendere? — chiese Wassili all’atman.

Il capo degli Hoolygani era così occupato a far girare i due rubinetti che subito non rispose.

— Chi farete scendere? — ripetè Wassili.

— L’intendente, — disse finalmente l’atman.

Poi, come parlando fra sè, mormorò:

— L’acqua dei tubi non è ancora gelata. Si può fare un bellissimo scherzo. [p. 123 modifica]

— Scendi, — disse Wassili all’intendente. — Noi non ce ne andremo da qui finchè non avremo nelle nostre mani quella preziosa lettera.

— E poi, che cosa farete di me?

— A questo penserà il capo degli Hoolygani. —

Stossel si tolse la larga fascia di pelle che gli cingeva i fianchi a più giri e, dopo di averla assicurata all’antenna sostenente la lampada elettrica, si calò, brontolando e bestemmiando, nella vasca.

Giunto nel fondo afferrò un anello di ferro e sollevò una lastra di marmo, facendo saltare il leggiero strato di ghiaccio che la copriva.

Un largo foro subito apparve, di forma circolare, entro cui cacciò una mano frugando per qualche istante.

— Eccola, — disse con rabbia, mostrando una grossa busta. — E che siate maledetti!... —

Boris l’afferrò avidamente, intanto che l’atman, senza che alcuno se ne accorgesse, ritirava d’un colpo la cintura di pelle che aveva servito all’intendente per calarsi nella vasca.

L’ex-comandante della Pobieda aveva gettato uno sguardo sulla busta ed un grido gli era sfuggito, un grido che tradiva una profonda sorpresa.

— Datata da Tristan de Cunha! — aveva esclamato. — Da bordo della Lena!

Un urlo aveva risposto a quell’esclamazione, un urlo spaventoso.

L’atman aveva aperti i due rubinetti e due getti d’acqua terribilmente fredda cadevano addosso all’intendente.

— Che cosa fate? — chiesero Boris, Ranzoff e Wassili, stupiti.

— Gli Hoolygani compiono una delle loro vendette, — rispose tranquillamente il capo della gaida.

— Quel miserabile vi ha mandati in galera, pur sapendovi innocenti, per far piacere al suo padrone e per carpirgli chissà quale somma e per colmo d’infamia ha gettato su di voi l’accusa di far parte d’una banda di ladri.

Tali birbanti non hanno il diritto di vivere.

— E l’uccidete? — chiese Wassili.

— La gaida lo aveva già precedentemente condannato.

— Vi chiediamo la sua grazia, — disse Boris.

— È inutile, signori. Noi abbiamo reso a voi un servigio prezioso; lasciate che gli Hoolygani compiano le loro vendette, senza intromettervi negli affari della gaida.

D’altronde anche se io, in questo momento, lo graziassi per un [p. 124 modifica] riguardo verso di voi, domani sera la sentenza di morte verrebbe egualmente eseguita da Pugno di ferro.

Ritornate nella sala, signori! Ogni nostro rapporto, da questo momento, è finito.

Per noi non siete che degli stranieri. —

La voce del capo era diventata improvvisamente minacciosa e dura. I suoi satelliti guardavano già in cagnesco i figli dell’aria ed avevano impugnate risolutamente le rivoltelle.

Boris e Wassili guardarono ansiosamente Ranzoff.

— Sono affari che riguardano loro, — rispose il capitano dello Sparviero, che non voleva imbarazzarsi con quelle pericolose canaglie. — Andiamo a leggere questa lettera che può darci delle preziose informazioni. —

Wassili fece nondimeno un ultimo tentativo:

— Noi, che siamo stati le vittime di quest’uomo, abbiamo già perdonato. Siate generosi anche voi. —

L’atman fece col capo un energico gesto negativo.

— Io devo rispondere al consiglio della gaida delle mie azioni, — disse poi. — Quest’uomo è stato condannato e morrà.

Se lo graziassi, domani sera non sarei più vivo io.

Andate, signori: fra noi e voi tutto è finito.

— Andiamo, amici, — disse Ranzoff. — Perdereste inutilmente il vostro tempo. —

Volsero le spalle alla vasca e rientrarono nel salotto, senza che gli Hoolygani rivolgessero loro una sola parola.

L’acqua continuava a scrosciare entro il vasto bacino di marmo con un fragore funebre.

Il disgraziato intendente, che la vedeva salire, urlava disperatamente e si dibatteva furiosamente, tentando, senza però riuscirvi, di aggrapparsi ai grilletti per chiuderli.

L’atman, Pugno di ferro ed i quattro Hoolygani assistevano impassibili a quella straziante agonia, senza che un muscolo dei loro visi trasalisse.

Non doveva essere la prima volta che assistevano a così spaventevoli vendette.

L’acqua aumentava sempre e dei ghiacciuoli si formavano rapidamente intorno al disgraziato intendente il quale, visti inutili i suoi tentativi per commuovere quei terribili vendicatori, si era rifugiato in un angolo della vasca, ruggendo come una belva feroce presa al laccio. [p. 125 modifica]

Non si dibatteva più: il freddo intenso aveva ormai paralizzate le sue membra. I suoi occhi, che avevano bagliori fosforescenti, si erano fissati spaventosamente in quelli dell’atman, senza però produrre alcun effetto sull’animo del formidabile bandito.

Ad un tratto Pugno di ferro, dietro un cenno del capo, chiuse i rubinetti.

L’intendente aveva l’acqua fino alla gola.

Il ghiaccio si formava rapidamente, chiudendo il disgraziato come entro un astuccio.

Le grida erano cessate: non si udiva altro che il respiro affannoso dell’agonizzante.

I sei Hoolygani, sempre impassibili come blocchi di granito, guardavano tranquillamente l’acqua a solidificarsi.

Di quando in quando i cristalli si spezzavano sotto una brusca scossa di Stossel, ma poi il freddo intensissimo, che regnava sopra quella notte nebbiosa, tornava a saldarli.

Trascorsero cinque minuti, lunghi come secoli, poi la testa dell’intendente si piegò lentamente verso la spalla sinistra e lo sguardo sfolgorante si spense improvvisamente.

— La vendetta della gaida è compiuta, — disse l’atman. — Andiamo. —

Attraversarono silenziosamente il giardino e raggiunsero la porticina. Olga era là ad aspettarli.

— Finito? — chiese la ragazza, con indifferenza.

— Finito, — rispose l’atman.

Salirono sulle troike, ed i cavalli, poderosamente sferzati, scomparvero rapidamente nel nebbione.