Il buon cuore - Anno IX, n. 02 - 8 gennaio 1910/Educazione ed Istruzione

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Carducci e la fede in Dio e nella Chiesa

Il professor Zibordi tenne la sera del 30 dicembre 1909, nell’aula del Ginnasio Beccaria una conferenza, per incarico dell’Università Popolare, col titolo suggestivo: L’idea divina e la Chiesa nella poesia di Carducci.

I giornali ne fecero ampie recensioni, riportando anche letteralmente molte parti del discorso. Saremo senz’altro creduti nel dire che molte delle affermazioni del prof. Zibordi non possono da noi nè accettarsi, nè credersi. Vi sono però fra le molte cose dette di quelle che noi accettiamo pienamente; e non solo accettiamo, ma crediamo utile e opportuno il mettere innanzi ai nostri lettori. Esse sono un’alta affermazione della fede in Dio e della benefica azione sociale della Chiesa in certe epoche determinate, che, uscendo in modo evidente dalla poesia di Carducci, devono aver fatto una sorpresa non troppo gradita a molti dei presenti, abituati a ben altre conclusioni; mentre i credenti non potrebbero desiderare una più aperta conferma delle loro più care convinzioni, conferma tanto più preziosa, perchè viene da chi fu pur troppo molte volte nemico, fino alla bestemmia, della persona e dell’opera di Cristo; anima peggio che pagana in mezzo agli splendori della civiltà cristiana.

Il prof. Zibordi ha dato esempio di coraggio e di onestà nella esposizione e nel sostegno della sua tesi, dinnanzi a uditori che aspettavano forse ben altro, e crediamo pienamente alle sue parole, quando dice: «un intento obbiettivo di verità ha inspirato la mia ricerca, per la quale solo chiedo mi valga lo studio e l’amore».

E qui riportiamo subito uno squarcio, nel quale l’affermazione e il concetto di Dio, non potrebbero essere nè più fermi nè più elevati, pur, quà e là, con qualche piccolo sgorbio.

«Dio, questo enorme mistero che agita le menti degli uomini, questa forma alta o misera ch’essi sembran foggiarsi a loro immagine; che appare a Dante quale una legge suprema e terribile, d’ordine e d’equità, quale l’armonia meravigliosa dell’universo; che si rivela nell’Innominato manzoniano come la legge morale, che ciascun uomo porta in sè, come la voce stessa e la coscienza della giustizia e del bene; Dio che a Mazzini fu segnacolo di battaglia e di libertà, Dio in cui Garibaldi credette, Dio che ad altri spiriti magni fu simbolo e sintesi d’ogni più eccelsa virtù ed aspirazione umana; Dio che agli uomini piccoli e timidi appare come un padrone fiero e crudele, come un duro destino, contro cui è vano combattere, o come il gendarme celeste del loro privilegio contro altri uomini miseri e servi; Dio che ad altri appare come il custode irremovibile delle porte della luce, della verità e del sapere; quale fu, quale si manifestò nel grande spirito di Giosuè Carducci?».

Scendendo a dare una risposta a questa domanda, il prof. Zibordi afferma che il Dio di Carducci è un Dio reale, contro l’oltracotanza dei Sofi, temerariamente negatori, ma non e neppure il Dio del teismo cattolico, mescolato troppo spesso con intenti politici.

E qui apparve il lato debole dell’ingegno pur potente del Carducci. Perchè i preti gli erano apparsi, sotto il Potere temporale dei Papi, come i rappresentanti di un odiato dominio politico, egli estese l’odio del prete al Dio predicato dai preti, come se si potesse confondere l’accidentale col sostanziale, una forma transitoria di governo terreno, colla verità assoluta e superiore del Dio celeste. Quante volte, pur troppo, il Poter Temporale, in questi ultimi tempi, tenuto, dicevasi, pel bene della Religione, fece perder la Religione!

Il prof. Zibordi così ricorda quali ordinariamente siano le cause che richiamano nell’uomo l’idea e il bisogno di Dio.

«Quando niun conforto umano è possibile; quando il bisogno di un’illusione ci solleva gli occhi al Cielo, dove rivedremo coloro che non vediam più sulla terra; quando il dolore si tramuta in rimorso e noi troviam quasi un’amara consolazione nell’accusare noi stessi della sventura che ci colpisce, allora l’idea di una vita immortale e di un Dio castigatore balena alla mente anche d’uomini di forte animo e da molt’anni liberati da ogni idea metafisica».

Non furono queste le cause che portarono l’idea di Dio nell’anima del Carducci. La morte della madre, la morte di un bimbo adorato, non gli schiusero dinnanzi alcun lembo di vita immortale: la morte non era per lui che un cieco mistero della natura, da accettarsi col mutismo dinnanzi alla fatalità. Qui il Carducci è miseramente e davvero il Carducci.

Il Zibordi francamente fa notare la ristrettezza di questo concetto.

«È il concetto realista della morte, contrapposto al concetto idealista definitivo della vita: il concetto che ci induce ad amarla, questa vita che i preti ci insegnarono a [p. 13 modifica]disprezzare, a sanamente goderla anche contro le paurose rinuncie dell’ascetismo, ma sopratutto ad ornarla ed onorarla con opere alte e degne, ad intenderla con retta coscienza del nostro destino e di ciò che dobbiamo agli altri, ai venturi, a quel magnifico mondo, di cui siamo atomi e che è la civiltà umana; a lasciare, piccola e grande, la nostra orma di bene, a dar, come onde che passano, il nostro colpo umile o forte alla ruota perenne della storia: onde quel che altri ci imputa come materialismo di bruti, si traduce nel più nobile e fecondo idealismo».

Una parola qui pel prof. Zibordi: egli cade nel difetto così frequente in chi discorre della religione cattolica, senza conoscerla pienamente, senza abbracciarla in tutti i suoi lati, considerandola da un punto unilaterale, che è la verità, ma che cessa di esserlo, quando si presenta come fosse tutta la verità. È vero che la religione cristiana insegna a disprezzar la vita; ma insegna a disprezzarla ne’ suoi piaceri non ne’ suoi doveri, ne’ suoi pericoli non nelle sue giuste compiacenze, a disprezzarla quando il suo amore ci distacca dall’amor di Dio, non quando ci porta al suo amore. Chi più amò la natura di Francesco di Assisi, che chiamava fratello il lupo, sorelle le tortorelle; di Francesco di Sales che piangeva alla vista di un fiore? Il suicidio, questo odio massimo della vita, sono i principi religiosi cattolici che che lo inspirano? Anzi, la verità è tutto il contrario.

L’oratore, procedendo nella sua conferenza, ha dimostrato la fermezza, la conseguenza, la continuità di pensiero di tutta l’opera del Carducci, che dopo aver nella sua giovinezza inneggiato a Satana, che per lui è un’alta idealità umana, anzi la idealità stessa, nobiltà e forza dei popoli, riconobbe la funzione storica della Chiesa.

Questa tesi è così dimostrata dallo Zibordi, mescolando insieme a molte cose buone, alcune non buone; che i lettori sapranno facilmente distinguere, e mettere da parte.

«Leggiamo la Chiesa di Polenta, quella che a non pochi parve il canto del cigno stanco ed infiacchito, il contrapposto dell’altera e vigorosa baldanza spregiudicata del Clitumno.

«Quivi la funzione storica della Chiesa è schiettamente riconosciuta.

«Lì: nel deserto del Medio Evo, nelle terre devastate dai barbari, sulle rovine dell’Impero disgregato e disperso, la Chiesa offrì ai vinti, spauriti italici, misti agli eredi dei conquistatori, quell’asilo, quel legame, quel crogiuolo, onde usci la coscienza di una nuova unione, e ove, fuso nei suoi vari elementi, si elaborò nacque il Comune: quell’alta autorità spirituale, ond’esso potè surgere e levarsi «nero e turrito» di contro alle roccie della feudal prepotenza. Ma qui pure, e con accenti forse più fieri, il Cristianesimo barbaro, sucido, antiestetico, vandalico, è sfolgorato dal Poeta. E se alla Chiesa vien qui riconosciuto l’ufficio che in altri tempi, unendo le stirpi italiche contro Annibale invasore, ebbe il Nume indigete del Clitumno, non però vien taciuta la triste e non estetica verità dell’altro aspetto come, esprimono i notissimi versi:

Ma sui dischiusi tumuli....

«Tale è quella Chiesa di Polenta che per la data e per la chiusa parve a taluni un ritorno all’ovile. Ma già ben prima, e fino dalla Canzone di Legnano, ch’è del 1876, come nel Comune Rustico, come nei Campi di Marengo, l’idea cristiana e la fede religiosa è mescolata ed avvinta all’idea della libertà e della patria. E S. Ambrogio fu rifugio ai Milanesi, cacciati dalle loro città. «Ci abbracciammo agli altari ed ai sepolcri» dice Alberto Da Giussano, e La Passion di Cristo, nella domenica triste degli Ulivi, è accomunata al dolore della patria, come, sui Campi di Marengo, la vittoria della Lega lombarda su Federico respinto dai mal tentati valli d’Alessandria, è associata alla resurrezione di Gesù:

Diman Cristo risorge: della romana prole
Quanta novella gloria vedrai dimani, o sole!

«E nel Comune Rustico il Console è quasi un sacerdote:

Questo al nome di Cristo e di Maria
Ordino e voglio che nel popol sia.

«Nel che il Cristianesimo, oltre che nella forza di coesione e di autorità spirituale della Chiesa, ci appare anche, come elemento sociale di egualità e di giustizia, in un ritorno alle prime sue origini di comunismo.

«Gli è che la Chiesa fu anch’essa una grande energia morale, quando, col vincolo di una fede sinceramente sentita, unì gli uomini dispersi, soddisfece il loro bisogno d’idealità, diede all’individuo la coscienza della sua comunione con i suoi simili, il senso di non esser solo e smarrito sulla terra, ma di essere parte di un tutto, in una continuità ed ampiezza di vita, che lo avvince ai lontani, agli antenati ed ai venturi, nella grande catena della Storia.

«E a questa forza morale e a questa funzione della chiesa, al cadere del medioevo, il poeta s’inchina, auspicando nuove fedi ed idealità nuove, ond’esca ancora agli uomini luce e vita.

«Due dii dunque, due Cristi, due Chiese sembrò, avere il Carducci, nella complessa visione della sua opera storica e poetica: quelli, su cui ebbe un giudizio solo e un odio unico, furono i preti come organizzazione chiericale. Egli gli odiò, soprattutto, egli idealista nobilissimo, — perchè per lui rappresentavano il commercio della fede.

«Ma combattendo, con immutata fierezza i preti nemici di ogni civiltà (con tutto quel pò pò di bene che il Carducci stesso ha detto che i preti han fatto?) il Grande, ammoniva che bisogna credere in qualchecosa, aver un ideale che trascenda l’io, l’interesse proprio e immediato: e in ciò è, in fondo, la legge stessa della civiltà, della «Società» della solidarietà umana, che è senso dei diritti e dei doveri, ch’è bontà, ch’è giustizia, che si fa eroismo, sacrifizio, martirio.

«Or questo nobilissimo Dio noi facciam nostro, e l’adoriamo come la ragione stessa e la forza delle nostre aspirazioni e del nostro lavoro verso una ideale civiltà superiore, in cui diritto e dovere, uomo e società, cittadino e nazione, patria e umanità si armonizzino in un ordine e in un equilibrio universale e [p. 14 modifica] mirabile: in cui l’anima umana, liberata dal Dio fosco tenebroso e crudele alleato dei tiranni, «risorga e regni!»

Malgrado le tirate contro i preti, o più giusto contro il governo politico dei preti, noi abbiamo creduto opportuno di citare questi giudizi. Queste tirate ora non hanno più ragione di essere. Il Potere Temporale dei Papi è cessato. Cessato il fatto, deve cessare la censura del fatto. E allora resterà solo il prete, col concetto e coll’ esercizio puro del suo santo ministero. Il clero si confonderà col concetto stesso di Dio, di cui il clero non è che l’espressione vivente dell’opera sua sulla terra.

La missione unificatrice ed elevatrice della Chiesa in mezzo alla società, così lealmente riconosciuta e splendidamente cantata dal Carducci nell’epoca del Medioevo, ripiglierà il suo corso e la sua efficacia nell’evomoderno. Quanto questo concetto elevato della missione sociale della Chiesa, predicata dal Carducci, è agli antipodi del concetto che della Chiesa si sono foggiato gli apostoli del laicismo, sinonimo, nell’attuazione pratica, di ateismo!

Dio, per mezzo della sua Chiesa, è la luce, è la forza, è la coesione della società: come è bello il poter dire: questa verità, insieme a noi, l’ha solennemente proclamata Giosuè Carducci!

IL BUON CAPO D’ANNO

DEL PELLEGRINO ITALIANO1.

E’ fa dieci anni che mi son partito,
Italia, ch’hai sì bello il monte e il mare;
ogni anno sopra l’Alpe io son salito,
perchè il buon anno almen ti volea dare;
ma ogni anno appena che t’ho riveduto
mi s’è stretto nel core il mio saluto;
Sta volta, se il mio cor non mi fa inganno,
ti porto, o Italia mia, ’l buon capo d’anno.


Popol di Micca e popol di Balilla,
voi siete all’ombra dei colori belli,
ma di là dal Ticin fin altre a Scilla
guardate i bei color che sono quelli!
Guardate un po’ di là per la pianura
quanti vi chiaman da la sepoltura;
sta volta, se il mio cor non mi fa inganno,
io darò prima a voi ’l buon capo d’anno.


Sono un povero vecchio pellegrino,
posso andare senza passaporto;
tu, che fai la guardia in sul Ticino,
io son passato, e non ti sei accorto;
forse fra poco te ne n’accorgerai,
ma allor la guardia più non ci farai;
sta volta, se il cor mio non mi fa inganno,
ti porto, o Lombardia, ’l buon capo d’anno.


Oggi tu hai la neve e il tramontano,
pur sei sì bella e mi rallegri il core;
ci rivedrem più allegri, o mia Milano,
quando verranno i mandorli col fiore:
verrà col fiore del mandorlo la rosa,
tu, o Milano, allor sarai gioiosa:
qui ’l verde è sempre vivo, ed ei lo sanno;
tu, o Milano, avrai ’l buon capo d’anno.


Non istar più sì tacita e sì bruna;
sveglia, o Venezia cara, il tuo liuto:
le tue gondole spargi alla laguna,
di’ al tuo leone che non stia più muto;
di’ al tuo leon che salti in cima al ponte,
li faccia passar di là dal monte;
di là passati, più non torneranno,
e tu, o Venezia, avrai ’l buon capo d’anno.


O grandi, che abitate in Santa Croce,
certo che voi qui non ci state indarno;
alza almen tu, o Vittorio, la tua voce,
fa tremar le due sponde a tutto l’Arno;
risplenderà una spada in Gavinana,
splender la vedrà tutta Toscana;
i figli tuoi, che a Curtatone stanno,
mandan, Firenze, a te ’l buon capo d’anno.


Addio, care marine, a me native;
addio, poveri amici, entro le fosse;
mi fermo appena per baciar le rive,
le rive del mio Tebro ancora rosse;
mi fermo appena per baciar le mura
dove Cola e Mameli han sepoltura;
le sepolture si commoveranno,
tu avrai, Roma mia, ’l buon capo d’anno.


Oh i bei pendii di Ghiaia e Mergellina!
oh gli aranceti di Castellamare!
Qui la terra d’Italia è più divina,
ma qui si è condannato a sospirare;
sospiran l’onde, sospiran le zolle,
perchè di sotto a loro il sangue bolle;
ma la natura vincerà il tiranno,
tu, o Napoli, avrai ’l buon capo d’anno.


E te saluto alfin, Sicilia bella;
solo a vederti mi s’infiamma il core:
tu pria ci hai dato il suon della favella,
tu pria ci chiami ai giorni del furore:
qui anch’oggi aspetto il suono della tromba,
qui aspetto fin che l’Etna non rimbomba:
anche di qua dov’hai l’estremo affanno,
ti mando, Italia mia, ’l buon capo d’anno.

Luigi Mercatini.

Gennajo, 1859. [p. 15 modifica]

Riconoscenza e Poesia

È lodevole costumanza nelle Case di educazione, in occasione del Natale e del Capo d’anno, che Allievi e Allieve manifestino con recita di piccole poesie, i sensi di loro riconoscenza e d’amore, verso i maestri e superiori. In mezzo alle frasi, sempre gentili, ma un pò stereotipate, balzan fuori alle volte dei piccoli giojelli di spontaneità e di eleganza, che è bene far conoscere. Tali ci sembrano le quattro strofette, che in occasione del Capo d’anno, una piccola Allieva cieca recitò dinnanzi al Rettore; e ciò che va notato è che esse furono composte da una giovane cieca, di Valle Lagarina nel Trentino, la signorina Anna Ambrosi, che già da qualche anno abbandonò l’Istituto. Non è vero che la riconoscenza sia scritta sempre sulla sabbia: in questo caso si deve dire che è scritta nella pietra.


VERSI.


Ho chiesto al prato: Perchè un fior non hai?
Al mio Rettor vò offrirlo in questo di.
Ah, mi rispose il prato: Non lo sai?
Ogni fil d’erba il gel mi inaridì.


Ho detto al cespo: Donami una rosa,
Soave emblema del più puro amor!
Ma il cespo mormorò: La brezza irosa
Mi spogliò di ogni fronda e d’ogni fior.


Richiesi al cor: deh, inspira un caldo accento
Al labbro mio che nulla esprimer sa!
E il cor mi disse: Un alto sentimento
Degna parola a interprete non ha.


Allora mi prostrai: chiesi al buon Dio
Ogni eletto favor, Padre, per Te;
E compresi che pago è il voto mio
Da un palpito che in cor destò la fé!

Anna Ambrosi.


  1. Questa poesia venne declamata nell’Accademia finale all’Istituto dei Ciechi. Quando fu pubblicata al principio del 1859, essa corse in un baleno tutta l’Italia, suscitando il più vivo entusiasmo. Altre poesie del Mercantini venute poco dopo, e rimaste celebri, come l’Inno di Garibaldi, La Spigolatrice di Sapri, La Madre veneziana, misero questa nel dimenticatojo. Molti però udendola, desiderarono, tanto loro piacque, di poterla rileggere. E noi siamo lieti di accontentarli.