Il buon cuore - Anno X, n. 18 - 29 aprile 1911/Educazione ed Istruzione

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IL VICARIO APOSTOLICO NELL’ERITREA


L’arrivo di mons. Carrara all’Asmara



Il giorno 19 di marzo salpa a da Napoli per Massaua, col piroscafo «Etruria» monsignor Camillo Carrara, vicario apostolico nell’Eritrea, accompagnato da un nucleo di giovani missionari. A bordo ebbe accoglienze gentilissime dal maggiore Guadagni direttore del Deposito colonia!e di Napoli, dal presidente del comitato regionale dell’Associazione di soccorso pei missionari cattolici, dal marchese Giuseppe Camayor, dal Padre Parisi provinciale dei barnabiti, dalla presidenza, al completo, della Società africana d’Italia.

Durante il viaggio trovò la più grande deferenza e la massima cordialità negli ufficiali di bordo, nei paseggeri di prima classe e specialmente nel comandante cav. Andrea Cogliolo. In Alessandria d’Egitto, a Porto Said, i buoni PP. francescani usaron verso monsignor Carrara ogni possibile riguardo, mostrando una volta ancora qual larga vena di schietta italianità essi portano oltre i confini della patria. Dopo 12 giorni di felice navigazione, l’«Etruria» gettava l’àncora nel magnifico porto di Massaua. Erano le 10 di sera dell’ultimo venerdì di marzo. Compiuta la visita sanitaria e di polizia, vennero ad ossequiare mons. Vescovo, il commissario civile cav. Talamonti, il capitano di fregata Ugo Rombo comandante l’«Aretusa», il tenente di vascello cav. Colombo Tarò, il direttore della Dogana cav. Macchia, P. Lorenzo da Collepardo reggente la prefettura P. Francesco da Bassano. All’indomani il vicario apostolico, restituiva ufficialmente la visita al commissario ed al comandante la nave da guerra.

Le infaticabili suore di S. Anna che rallegrano del loro sorriso e della loro carità la simpatica cittadina di Massaua, vollero dare una testimonianza di affetto venerazione a mons. Vescovo improvvisando un trattenimento musicale accompagnato dalle voci argentine dei bimbi dell’istituto. Il giorno 3 aprile il Vescovo con i suoi compagni partiva da Massaua col piccolo treno, ossequiato nuovamente da tutte le autorità civili e militari. Si corre attraverso l’altipiano, fra una larga distesa di casupole e piccole capanne di paglia e di fango. Lo sguardo si ferma melanconicamente sullo storico colle di Dogali e dinanzi al monumento che ricorda la lotta, il valore e lo strazio di tanta gioventù italiana, il cuore commosso manda un saluto a quei prodi che caddero colle armi in pugno per l’amore della patria. Sui brulli e riarsi colli si scorge qualche mimosa, rari cespugli di spini, una corona di fichi d’India, poi man mano che il treno si avanza, da lungi si profila una verde conca attorniata da linde casette.... Siamo a Ghinda che si potrebbe chiamare il giardino dell’Eritrea. Una breve fermata, alcune strette di mano fra compatrioti e si prosegue fino a Nefasit. Il treno ferroviario che conduce all’Asmara è tuttora in costruzione e noi dobbiamo proseguire con la strada carrozzabile.

Il Vescovo entra in una vettura elegante, gli altri missionari in due giardiniere tirate da muletti abissini si parte di corsa tra quelle gole tortuose e dirupate. Il paesaggio è vario e pittoresco: talora orrido come un burrone alpino, talora ridente come un colle lombardo, ma a dire il vero al panorama si guarda poco, perchè la foga dei muli e i precipizi che stanno d’attorno ci rendono preoccupati come D. Abbondio quando montava la famosa mula del segretario....

A parecchi chilometri dall’Asmara due soldati a cavallo giungono come scorta d’onore e poco dopo accompagnato dal commissario regionale avv. Enrico Cagnassi venne ad incontrare mons. Carrara il comm. Del Corso, direttore delle finanze il quale, a nome di S. Ecc. il Governatore ebbe per il vicario apostolico le più lusinghiere espressioni. Giunti all’Asmara uno spettacolo imponente ci rallegrò il cuore e lo sguardo. Sulla via principale della città vi è una folla varia e pittoresca. Arabi dal bianco turbante col braccio carico di amuleti, baniani pingui ed olivastri col berretto sul capo ricamato a colori, abissini col candido sciamma (candido per modo di dire), europei coll’elmo di sughero in [p. 140 modifica]testa, signorine in eleganti toilette, frati, suore, soldati, bambini dell’asilo e delle scuole elementari: un mondo di gente di tutte le confessioni religiose: cattolici, mussulmani, protestanti, ebrei, greci scismatici, cofti eretici.... Il Vescovo procede in mezzo a questa folla con la mitra gemmata in capo e col pastorale in mano.

Commosso e sorridente benedice. Gli indigeni con delle trombe di legno, con dei flauti di nuovo genere, con un tamburo a forma di barile mandano un suono

lacerator di ben costrutti orecchi.

Tutti cantano e salutano con profondi inchini l’entrata dell’Abuna (Vescovo). Nella chiesetta della missione dopo il canto del Te Deum, il Vescovo imparte a tutto il popolo raggiante di gioia la benedizione del SS. Sacramento. La cerimonia d’ingresso era finita.

Al mattino del martedì (4 aprile) mons. Carrara faceva visita a sua ecc. il governatore Salvago Raggi, persona di vasta cultura e di modi distintissimi.

Il giorno seguente sua ecc.za il Governatore col cavaliere Alessandro Allori, direttore degli affari civili, restituiva la visita al vicario apostolico. Molto gradita tornò pure al Vescovo la visita del colonnello marchese Salazar che tante simpatie seppe acquistarsi nel suo ancor breve soggiorno nella colonia. Ci fu pure uno scambio di visite tra monsignore e le persone più ragguardevoli del luogo, sempre improntate dalla massima cordialità.

Il Vescovo, che tanto amore nutre per la gioventù, volle onorare di una sua visita l’asilo e le scuole dirette dalle buone suore, e ne riportò ottima impressione, poichè quelle creature ebbero voci di affetto, inni di gioia sincera e il dolce idioma della patria nostra rivelò per le loro labbra molte e soavissimi cose.

Ed ora dovrà esplicarsi su questa terra africana tutta l’attività del nostro apostolico ministero. Qui dove già risuona una nota gentile della nostra lingua italiana, dove la mano dei nostri operai rompe la dura terra, dove la bandiera tricolore, simbolo di civiltà, distende libera al vento le sue pieghe e ricorda le eroiche virtù del gagliardo esercito nostro; qui noi continueremo l’opera del cardinal Massaia e di P. Michele da Carbonara, quell’opera che conosce tutte le gentilezze, tutte le devozioni, tutti i sacrifici per la riconquista di un popolo agli splendori della fede e della civiltà cristiana.

(P. E. D. I.)


ISTRUZIONE PROFESSIONALE AGRARIA


(Continuazione e fine, vedi n. 17).


Di questo, vedremo quale soluzione pratica saprà trovare il Consiglio Superiore di Agricoltura.

Su un punto ci pare di dover insistere, concludendo, ed è l’igiene rurale.

Questa parola pare un’ironia. Se i principi di igiene sono così trascurati in città, non sono completamente misconosciuti in campagna? Senza dubbio il sole, l’aria libera, i venti forti s’incaricano di quello che si potrebbe chiamare il lavoro più.... grosso dell’igiene; ma essi richiedono un minimum di collaborazione umana. Ora questo minimo troppo spesso difetta.

Uomini e bestie vivono ancora, in molte campagne, in una promiscuità poco favorevole all’igiene. I recipienti in cui s’abbeverano gli animali e dove s’attinge l’acqua per la famiglia è troppo esposto alle peggiori infezioni. La casa rurale si distingue sopratutto per sporcizia e assenza d’ogni preoccupazione d’igiene.

Il dottor Landouzy segnala i pericoli d’infezione che porta con sè il ritorno ai campi di un cittadino tubercolotico. Quando il bacillo della tubercolosi penetra in una casa di campagna, non ne esce più. E infatti, non di rado si vedono famiglie intere sparire in seguito all’importazione di codesto bacillo. Sarebbe più facile liberarsene usando certe precauzioni. Ma l’ignoranza e l’incuria sono tali che il male trova libero ingresso in tutti gli organismi della casa.

I circoli di studi rurali dovrebbero occuparsi altresì di far penetrare nelle campagne i principi più indispensabili dell’igiene. V’ha quivi un soggetto di studio, che non mancherà di interessare i membri di un Circolo se si ha cura di lasciar cercare da loro stessi e definire le regole pratiche d’igiene rurale.

Le scuole di massaie avranno una grande influenza nello stesso ordine d’idee, se si bada di adattarle ai bisogni del paese.

L’iniziativa dei sindacati agricoli si manifesterà utilmente con lezioni, conferenze, concorsi. Se essi diffondono fra i contadini, le nozioni d’igiene animale e d’igiene vegetale, perchè non cercheranno di volgarizzare le nozioni elementari d’igiene umana?

I proprietari soddisferebbero un dovere sociale, se sorvegliassero con maggior cura alla buona installazione dei locali, dove confinano i loro servi e alle case, dove alloggiano i loro contadini. Questi dovrebbero esigere nell’interesse della loro famiglia, con una clausola particolare del contratto, che la casa, in cui dovranno abitare, risponda alle esigenze dell’igiene, e che durante il tempo del contratto si eseguiscano ripuliture periodiche, come l’imbiancamento dei muri e le lavature con latte di calce.

L’attuale insegnamento agricolo, bisogna riconoscerlo, fa tutti gli sforzi più lodevoli per penetrare dovunque e per convertire ogni giorno de’ nuovi gruppi di giovani agricoltori. I nostri professori delle cattedre ambulanti rivalizzano in zelo per diffondere intorno ad essi la buona semente e insegnare alle popolazioni rurali a che servano le leggi, che si fanno per loro e che esse, troppo sovente, ignorano.

Dal punto di vista tecnico e scientifico, codesto insegnamento è eccellente, ma noi crediamo che lasci ancora molto a desiderare per lo scopo che si propone, perchè qui non si tratta soltanto d’istruire i nostri agricoltori; bisogna altresì trattenerli nel paese natio, e condurre all’agricoltura delle nuove reclute. Per giungervi, occorre un altro genere d’insegnamento, che può dirsi estetico, al quale accennammo in principio e sul quale insistiamo; il suo scopo sarebbe quello di [p. 141 modifica]celebrare ed esaltare praticamente le bellezze della natura e i vantaggi della vita campestre.

È ai nostri maestri che spetta, sopratutto, codesto apostolato, perchè sono essi che sono chiamati per i primi a modellare l’anima del fanciullo. Non occorre mica ch’essi siano tutti dei poeti; si può ispirare al fanciullo l’amore della natura senza fare del lirismo. La minima nozione di storia naturale o di chimica, bene impartita vale un poema; l’esame dei grandi fenomeni naturali delle meravigliose manifestazioni della vita animale vegetale eleva l’anima e attacca l’uomo alla vita dei campi, allargandone l’orizzonte.

Ma, si osserva: perchè i nostri maestri possano soddisfare questo compito di educatori agricoli, occorre ne siano essi stessi preparati; per far dei proseliti, bisogna che abbiano la fede. Disgraziatamente, l’istruzione e l’educazipne che si dà oggidì nelle scuole normali ai nostri giovani maestri, non sono veramente fatte per prepararli a questo compito nuovo, perchè l’insegnamento agricolo vi è sempre più trascurato.

Ebbene, venga e presto l’Istituto Superiore d’agraria a Torino. Lì i maestri volenterosi potranno trovare il campo pei loro studi; e di lì usciranno i portatori della novella buona per tutta Italia. Perchè codesta scuola, senza prefiggersi di creare dei professori di agraria, riescirebbe ad apprestare un compiuto insegna. mento delle discipline agrarie a chi possegga una certa coltura.

Per lo sviluppo e per il miglioramento dell’agricoltura, se sono necessarie le cattedre ambulanti, che portino la parola della scienza tra i contadini per rompere la tradizione e creare la cultura nazionale, son altresì necessarie persone, che, senza dedicarsi direttamente all’insegnamento, posseggano una tale cultura in materia da poter influire su di esso direttamente o indirettamente. Non sarebbe quindi, l’insegnamento dell’Istituto erigendo, diretto a creare delle capacità puramente tecniche, ma delle personalità atte a poter dirigere ed equilibrare la produzione tenendo calcolo delle condizioni dei mercati interni e internazionali.

Ma se questo è un campo aperto ad alcuni maestri, non lo è per tutti; ed è quindi giusto formulare il voto che nel tanto discusso rimaneggiamento d’ogni ordine di scuole, si tenga il debito conto delle esigenze che l’insegnamento agrario ha in rapporto alla cultura dei maestri rurali.

Soltanto con tutti questi mezzi si sarà provveduto sufficientemente all’educazione professionale del nostro proletariato rurale, senza di che, l’agricoltura non potrà mai raggiungere quel grado di sviluppo che si deve e si può pretendere in Italia, perchè all’amor della terra deve congiungersi una chiara e precisa cognizione di quello che è e può essere l’agricoltura, se razionalmente praticata.

Paolo Cesare Rinaudo.




Il Municipio di Milano ha ordinato 150 abbonamenti per distribuire in tutte le scuole i fascicoli dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI.




MAGNOLIA

(LEGGENDA ORIENTALE).


Era gemma dell’arabo päese
sovranamente bella:
bianca la cute e le pupille accese
Magnolia avea, castissima donzella.
Un di con la tribù delle sue genti
partìa dal suo villaggio:
erano donne, fanciulletti, armenti
che a meta ignota avean drizzato il viaggio
verso i paesi dove il sole muore.
Magnolia, nata sotto un ciel di foco,
perdeva a poco a poco
delle guancie di rosa il bel colore;
delle nordiche brezze al soffio immite
non reggevan le membra intirizzite
della fanciulla stanca,
che si faceva come neve bianca.
— O Magnolia, — dicevan le amiche —
perchè, perchè, dinne tu vuoi morire?
Tanto sospiri quelle piaggie apriche
ove la palma vedesi fiorire....
del paese natìo,
dolce amica, sì forte é in te il desìo?...
Ma la candida fronte reclinando,
più non udìa Magnolia que’ lamenti:
ella spirava con sospiro blando.
Quelle amiche dolenti
sparsero allor sì larga onda di pianto
e il duolo lor fu tanto,
che morte impietosita
alla bella Magnolia, strano incanto,
ridava ancor la vita,
mutata in pianta dalla folta chioma
dai fior’candidissimi di neve,
che hanno sì forte aroma
l’esistenza delicata e breve.

Oreste Beltrame.


ALLA MOSTRA DI CASTEL S. ANGELO


La mostra di Castel Sant’Angelo è oramai quasi definitivamente compiuta; giorni sono vidi giungere, con relativo e debito imballaggio, nè più nè meno che la testa di Michelangelo; veniva dal Castello Sforzesco di Milano, è in bronzo e vanta il valore dichiarato di venticinquemila franchi, naso non compreso; perchè questa testa bronzea lascia scoprire con viva evidenza anatomica lo scempio memorando che al profilo dell’artista grandissimo procurò quel grandissimo pugno che ebbe a fracassargli, formidabilmente, il naso....

Venticinquemila lire, naso non compreso.... [p. 142 modifica]

Ho assistito anche all’arrivo di un molino senese; non so dove mai sarà destinato a prendere largamente in giro i visitatori nè se il vento di Roma gli sarà propizio; ma convengo pienamente, d’altra parte, nella necessità di offrire ai critici dell’arte retrospettiva almeno un molino a vento.

Ma la docile aiuola conduce rapidamente alla Piazza delle armi dove sul fianco sinistro sta il padiglione greco romano dei congressi; un padiglione eccessivamente candido, a mio parere: un biancore zuccherino che stona col grigiore degli edifici adiacenti, coll’ombra venti volte secolare del colosso di Adriano.... La trionfale aquila romana, poi, ha scavalcato il timpano del padiglione e squassa le ali all’aria aperta; gli storici pilastri marmorei della gradinata maggiore portano le insegne della confraternita della Misericordia col profilo tragico di San Giovanni Decollato... Del resto, è la mostra non retrospettiva delle chiacchiere contemporanee: un’aquila fuori dei timpani e molta misericordia....

Perchè non è detto che il padiglione zuccherino dei congressi sia la cosa più indovinata, sullo sfondo medioevale della mole magnifica: preferisco le casermette, basse, umilmente allineate sul gran piazzale delle armi: esse, per ragioni di contrasto, riescono ad isolare più suggestivamente il castello grande; poi, le casermette a pianterreno sono una specie di mostra del comfort modernissimo; gli uffici di segreteria, la posta e i telegrafi, il barbiere, il piccolo restaurant; ho rivisto i giuocattoli.... istruttivi che avevo già ammirato all’Esposizione di Milano, che si ammirano alle stazioni e che contemplo, ogni sera, filosoficamente, al bar della Rosetta: introducendo una moneta da venti centesimi, italiana o svizzera, potrete ricevere, girando un’apposita manovella, il vostro nome e cognome impressi su di una elegantissima lastra di alluminio; e introducendo la stessa moneta in un’altra macchina miracolosa, voi potrete avere, con venti centesimi italiani o svizzeri, un esemplare di quelle squisite cartoline che.... per Roma costano cinque a soldo.

Confesso che la sfilata di questi giuocattoli istruttivi che accennano ad aumentare, è una cosa di molto discutibile gusto: al Parco di Milano facevano sorridere; faranno sorridere a Piazza d’Armi, a Villa Borghese, a Ragazzopoli; ma innanzi a Castel Sant’Angelo fanno male e le melanconie, innanzi a Castel Sant’Angelo, costano care: due uova al tegame, sui minuscoli tavoli di marciapiede del piccolo restaurant moderno vi costano una lira.

Pagate il valore retrospettivo, s’intende.... E preferite il primo piano: le due ali delle casermette raccolgono al primo piano, oltre il museo dell’ingegneria militare italiana e le mostre di numismatica, di epigrafia, e finanche di sfragistica, quella mostra topografica romana che è una delizia di ricordi e divisioni di Roma nostra, di Roma medievale, della città sparita: la superba raccolta degli acquarelli del Roesler Franz è una singolare documentazione della Roma che ci ha visto nascere e che vedemmo morire con la Ripresa dei Barberi e col vicolo del Capocciotto ed è capace di commuovere, squisitamente, più di tutte le mura di Belisario in terracotta elegantemente deposte su di un tavolo dal professore Rondone che delle mura stesse ha fatto la sua casa e la sua scuola elementare: ho visto un romano de Roma (e giorni sono, almeno, i romani si riconoscevano facilmente, a Castello...) fissare con una tenerezza grande una finestra d’un terzo piano di piazza Strozzi: ora la finestra, il terzo piano, piazza Strozzi non ci sono più: resta l’acquarello.

Questo per garentire anche ai più difficili e ai più esigenti romani di Roma lo spuntino di un ricordo gradito....

Certo, lo so, scendendo dalla Topografica sul viale maggiore del piazzale delle armi non vi potrete rendere facilmente conto e ragione della presenza del generale Enrico Cialdini in policromo bozzetto dello scultore Bardi: questo è un problema ancora insoluto della mostra retrospettiva, sebbene gli informati vadano insinuando che di motivi retrospettivi ce ne siano stati non pochi e davvero potenti, per permettere l’ingresso al bozzetto del generale: il quale bozzetto rappresenta.... un blocco sul quale si distacca il duce a cavallo e una schiera di combattenti, anelanti: rappresentare il blocco, ce n’era abbastanza per motivare la sua non motivata presenza.

Del resto Cialdini è un uomo di spirito: consapevole della situazione, gli si limita a protendervi innanzi l’indice di bronzo in gesso indicandovi la bella riproduzione della fontana Grande di Viterbo e il colosso augusto coronato dall’Angelo. Ha ragione: la vera Esposizione, la vera mostra è là: andiamo: potete pure trascurare le riproduzioni policromate del gabinetto alchimistico di Francesco Borri, della cella campanaria di un eremita del quattrocento, il padiglione medievale delle mostre temporanee che ancora non ci sono: il breve ponte levatoio, calato sul vallo introduce, attraverso alla porta di soccorso, nell’ambulacro angusto che la solida muraglia esterna e le torri merlate segnano in cerchio attorno alla mole severa. La muraglia appare finalmente libera nella sua magnifica ossatura dalle numerose costruzioncelle che fino a poco tempo fa le si accasciavano addosso: dei tetti, dei comignoli, delle cabine, delle baracche restano appena i profili, sulle mura: solo a destra dell’ambulacro di Bonifacio IX si leva ancora, recentemente restaurata, la casina papale; è l’unico.... parassita superstite e compensa largamente la sua natura parassitaria raccogliendo le mostre dei cosmati, di antiche pitture cristiane, di sculture della rinascenza e, al secondo piano, la mostra del costume: i signorili armadi ricchi di abbigliamenti, di acconciature, di monili preziosi, di armi lucenti vi adombrano una numerosa famiglia di castellani, di castellane, di famiglie, di soldati: è il guardaroba del Castello, adornato, non si capisce bene perchè, di certi abbondanti altorilievi in gesso, policromi, di sangue.... sartoriano con inquietante tendenza, però, alla cascaggine e all’anemia. Ma la mostra del costume, perfettamente intonata allo sfondo storico del Castello, vi fa perdonare la sopravvivenza della casina papale, il chiaro caffè latte delle sue pareti levigate, alle quali contrasta, [p. 143 modifica]con ironia schiacciante, la durezza oscura della gigantesca massa che sta a base della fortezza: è la prima, originale base romana dell’edificio, quella che poggiava segnando un quadrato vastissimo, sulle celle funebri del sepolcro imperiale: su questo colosso quadrato si leva poi la torre conica del mausoleo, carica di marmi bianchi, di bronzi battuti, di piante ornamentali. Adriano imperatore aveva voluto che sulle sue spoglie, la maestà funeraria degli egizi venisse congiunta al fasto romano e alla eleganza ellenica: la tomba di lui, immota e vigile presso il Tevere d’oro avrebbe dovuto salutare i pieni meriggi del sole e il sole nel trionfo del meriggio avrebbe dovuto trafiggere le viscere della mole, salutando, attraverso uno spiraglio aperto a mezzogiorno, il porfido sacro alle ceneri dell’Elio diletto.

Tale il sereno sogno funereo cantato sulle sponde tiberine da un pallido poeta coronato: ma ben diversi i destini segnati dalla storia, invece: e voi che uscendo dalla mostra del costume proseguite, a destra, sul torrino di San Luca, sul cerchio laterale della merlatura, riguardando l’ambulacro angusto che vi sta sotto, misurando il diritto profilo della mole che vi si scopre, tutta contro il cielo, vedete da quanto assidua violenza venne mai quel sogno abbattuto. La base quadrata, spezzata sugli angoli ridotta a fasciare in cerchio la torre forte, vi appare come sbalzata su sasso vivo; e sul rudero si protendono timidamente, levandosi su dal suolo, fra i rottami e i frammenti marmorei raccolti nell’ambulacro, esili rami di rose rampichine e d’edera sempre verde: fiori di pace teneri ancora e timidi, fiori di sepolcro imperiale che una singolare furia d’eventi dovette, tante volte, recidere, nei secoli.

Non c’è, infatti, monumento romano che abbia adempiuto a fato più tragico: le vicende di questo mausoleo destinato al riposo di un imperatore amico della pace sono segnate, tutte, invariabilmente ed indelebilmente da un suggello di sangue. Da quando, in pieno terzo secolo Aureliano lo comprese nella cinta delle mura romane, il ritmo drammatico della storia più singolarmente drammatica dell’Universo — la storia di Roma — palpitò sempre su questo castello che di tomba fu tramutato in ferreo cuore della città.

Vitige lo fa assalire da un esercito colossale di Goti: e Romani e Greci difendono il presidio bellissimo, e nell’ardore della difesa spezzano le statue bianche, distaccano i marmi; strappano i festoni di bronzo e li gettano, scagliando, rovinando, sui nemici.

È la consacrazione civile del sepolcro di Adriano: la tomba spogliata da disperata furia fraterna diviene fortezza: e Leone IV la fa un caposaldo della munita città leonina.

E questo fato tragico rende davvero singolare la storia di Castel Sant’Angelo; la sua marmorea bellezza non tanto appare disfatta dalle sapienti demolizioni di quei Barberini che spogliavano pacificamente i monumenti vecchi per vestire i nuovissimi; essa cozza e cede innanzi alla violenza tragica; è dopo una disfatta che molte delle lastre marmoree ancora superstiti vengono piantate a terra, a lastricare le piazze di Roma; è un evento tragico che seppellisce nel Tevere una delle vetuste iscrizioni sepolcrali: fissata, forse, sul parapetto essa precipitò, con centinaia di romani, quando il ponte si sfasciò sotto il peso di una folla immensa reduce da San Pietro, da una festa solenne di Nicolò V e le colonne di marmo frigio, una delle poche cose che sembrarono destinate a sopravvivere nella pace religiosa della basilica di San Paolo, vennero anch’esse raggiunte e spezzate dallo spavento del grande incendio del ’25

La fortezza di Roma, cuore di ferro e corona d’acciaio, sostiene violenze d’odio e predilezioni di signori: Marozia, i Crescenzi, i Frangipane, gli Orsini, se la disputano, la bestemmiano, l’adornano, in una strana vicenda di conquista, di possedimento, di spogliazione, padroni e assalitori, sconfitti e vittoriosi. Bonifacio IX affida a Lamberto di Piero d’Arezzo l’opera di fortificazione che il Sangallo cingerà di una seconda cinta quadrilatera.

Se proseguite sugli spalti della muraglia, sulla fronte del Castello, l’ambulacro merlato, lunghissimo, si corona di una visione mirabile: la vicenda dei merli robusti sembra spezzarsi innanzi alla cupola di San Pietro: soffermatevi; è una delle poche visioni ancora genuinamente storiche di Castel Sant’Angelo: l’ambulacro merlato, il miracolo di Michelangelo, il cielo di Roma: non vedete altro: e da quattro secoli questa visione resta intatta così.

Ma sulla rampa diametrale, la maggiore arteria della mole, non giunge dolcezza di cieli: lunga, ampia, colossale ha tutte le ombre e tutte le asprezze della guerra: di fragori d’armi e rombi di cannoni doveva echeggiare magnificamente la vasta cella sepolcrale che spezza la rampa e segna il cuore del castello: in alto il pertugio sottile che la tradizione vuole sacro al saluto del sole di mezzogiorno; la rampa piega a sinistra sempre immersa nell’ombra; giorni sono un lume fioco vegliava accanto ad una porta ferrata, la prigione di Cagliostro: è una evocazione di tristezza, sul muto e forte colosso armato. Una grigia e squallida casa di terrori, una torre di Londra, una Bastiglia romana?

Ma entrate nel Cortile delle Palle; un angelo bianco, dalle linee dure, impugnante militarmente una spada, domina il semicerchio del cortile e le piccole piramidi di proiettili di pietra; a destra s’apre in giro al visitatore una serie di sale; un bottega di barbiere causidico, una farmacia, una esposizione di oggetti chirurgici, di ex voto; le asprezze della torre forte e munita si inteneriscono di rievocazioni di vita e d’arte. Passate oltre; ecco il cortile di Alessandro VI, anch’esso in semicerchio; ma ogni traccia d’armi e d’armati è scomparsa; il fianco del castello s’ingentilisce di sagome, di linee marmoree, le pareti del cortile lasciano sorprendere, sotto l’intonaco, una vicenda di immagini muliebri, profilate: nel recinto elegantissimo, si rappresenteranno i Suppositi, quest’anno, e la piccola corte di questo castello di guerra saprà essere, al convegno d’arte, un ospizio di grazia squisita.

(Continua). Egilberto Martire.