Il buon cuore - Anno XIII, n. 42 - 24 dicembre 1914

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SOMMARIO:




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Anno XIII. 24 Dicembre 1914. Num. 42.


Giornale settimanale per le famiglie

IL BUON CUORE

Organo della SOCIETÀ AMICI DEL BENE

Bollettino dell’Associazione Nazionale per la difesa della fanciullezza abbandonata della Provvidenza Materna, della Provvidenza Baliatica e dell'Opera Pia Catena

E il tesor negato al fasto
Di superbe imbandigioni

Scorra amico all’umil tetto .....

ManzoniLa Risurrezione.

SI PUBBLICA A FAVORE DEI BENEFICATI della Società Amici del bene e dell'Asilo Convitto Infantile dei Ciechi
La nostra carità dev’essere un continuo beneficare, un beneficar tutti senza limite e senza eccezione.
RosminiOpere spirit., pag. 191.

Direzione ed Amministrazione presso la Tipografia Editrice L. F. COGLIATI, Corso Porta Romana, N. 17.




NATALE 1914

(Dal quadro di Bartolomeo Murillo).

[p. 330 modifica]A quando?

Dalle pianure inondate e melmose, dalle lontane selve isterilite e gelide, giunge a noi, lugubremente, il lamento desolato di tante giovani creature morenti, dilaniate, mutilate, squarciate. Migliaia di pupille che già conobbero il sorriso dell’amore e della gioia, e che si chiusero invocando la mamma, fissano ora in un macabro stupore di morte il cielo livido e tetro, aspettando a lungo, forse invano, il riposo di un comune sepolcro. Il, loro sangue scorre a rivi, chiazza di toni purpurei la terra, s’aggruma, si cangia in melma nerastra e scende lento a fecondare le zolle.... Quei morti, quelle migliaia e migliaia di giovanili esistenze schiantate nel fiore della vita, ci straziano il cuore; è una visione che turba, che assilla, e sgomenta, e che fa gridare inorriditi: Fino a quando, mio Dio? Fino a quando continuerà questo immane macello? Il voto santo e pio del Pontefice otterrà davvero un’ora, un giorno di tregua? Come gustare coll’animo lieto, le serene feste del Natale? Pensavo dianzi alla nascita del Divino Fanciullo, rievocando la scena squisitamente gentile della grotta di Betlemme, l’angelico coro osannante, la venuta dei pastori lieti e turbati e pur sì consci del divino evento. E m’ero assorta in quella rievocazione dolcissima, finchè il ricordo dell’orrenda Strage degli Innocenti mi ricondusse al primo, insistente pensiero. Perchè Erode aveva commesso quell’atto così barbaro ed inumano! Unicamente per salvarsi da un rivale supposto e temuto.... Nell’onda di COMMOzione che aveva invaso il popolo di Israele all’annunzio della nascita di Gesù, della profezia di Simeone, e del cantico di Maria nel suo incontro con Elisabetta, egli tremò di scorgervi una diminuzione del suo potere, un pericolo oscuro per la sua sovranità. E la strage fu compiuta, benchè invano.... Ora, i tempi sono,,cambiati, le ragioni di questo spaventoso massacro possono assumere spiegazioni e forme più civili. Ma nulla è mutato nell’orrore dell’atto dispotico e brutale. Non son bimbi ignari che il coltello omicida squarta e sgozza, ma son milioni di grandi fanciulli che la mitraglia falcia e schianta senza pietà alcuna. Il pianto di Rachele è forse più inconsolabile e straziante di quello delle madri d’oggi che piangono Moro figli scomparsi in quel turbine infernale? L’onore, l’amore di patria servono ora a spiegare ripugnanti eccessi... Ma in fondo, in fondo, la guerra presente non è forse causata dallo stesso egoismo brutale di emergere, conquistare ed annientare quanto serve d’impaccio a salire, a dominare? Povera umanità, a cui non son bastati, per redimerla, nè la venuta di Cristo Redentore, nè il martirio del Golgota;,povere anime traviate, a cui diciannove secoli di civiltà e di progresso han solo dato una parvenza di effimera elevazione spirituale! Al primo urto, al primo cozza, ecco la barbara ed indomito natura risollevarsi dul fondo delle coscien ze stagnanti e slanciarsi focosa, brutale, feroce, a dilaniarsi l’un l’altro, allora, come oggi, come sempre! Nella guerra odierna non sfolgorar un santo ideale; i. cuori non tremano, anelando ad una libertà doverosa, sognata, conquistata col sacrificio e col sangue. Non vi è che un feroce desiderio di conquista, non v’è che un sordo, incosciente livore di razza, che un insano tormento di dominazione, di dispotismo, di vandalismo, da parte di coloro che hanno lanciato verso la morte milioni di creature innocenti. Gli eroismi, le folli, disperate resistenze, lo sfoggio di forze e di Mezzi superiori, a cui assistiamo, dolorando, non fanno che rendere più cruento e spaventoso e barbaro questo universale conflitto. E’ atroce, e vien fatto di chiederci, sgomenti: A che è servito l’esempio di fraternità e di amore, lasciatoci da Cristo medesimo colla sua vita terrena, coi soavi suoi precettì evangelici? E quando verrà il giorno in cui gli uomini si chiameranno e si ameranno veracemente come fratelli, invocando nella pace del cuore un solo Dio? Canteranno essi allora, concordi, il Magnificat, il dolce è maestoso canto che apre i cuori chiusi, che permette di comprendere fino in fondo quel divino poema cristiano, sgorgato limpido e puro dall’angelico petto di Maria? A quando, mio Dio, a quando? CAROLA COGGIOLA. Natale 1914.

La ballata del velo nuziale Alla Contessina MARIA-GABRIELLA BACCI nel giorno delle sue nozze col Principe BUFFO DELLA SCALETTA

L’hanno ravvolta in un candido velo l’han fatta sembrar cosa di Cielo. Poi con le rame de l’arancio in fiore ne adornan la persona e il capo biondo: a lei d’intorno un angiolel d’amore alita, il più leggiadro, il pia giocondo: nell’occhio suo, cèrulo e profondo, si rivela l’ardor del core anèlo. Il santo ardor, che nel casto e pudico animo le ha svegliato quel gentile che le sta accanto come forte amico le irradiò de la vita l’aprile: per lei sì dolce, sì modesta e umile oggi la terra ben somiglia al Cielo l E il Cielo stesso, per il labbro santo del Vicario di Cristo, consacrare vuole l’amore che in leggiadro incanto ha legato quell’anime sì care... Com’è soave, movendo all’altare, la bella sposa sotto il bianco velo 1.. 28 novembre 1914

SILVIA- ALBERTONI TAGLIAVINI

Nota. — Le auspicatissime nozze furono celebrate in Vaticano. nel salone della Contessa Matilde, dallo stesso Sommo Pontefice Benedetto XV. [p. 331 modifica]Il pregiudizio del coraggio

«Vi sono tra gli uomini degli eroi, vi sono anche dei vili: in queste due classi si dividono nettamente gli uomini». Così dice un sapiente nel poema indiano Mahàbhàrata, e dice una gran corbelleria, Nessun uomo è abitualmente coraggioso, come è invece, ad esempio, abitualmente onesto: ma lo è a volta a volta, a seconda delle circostanze interne ed esterne e della situazione in cui si trova. «Je ne suis brave — confessa lo Stendhal, che fu anche soldato — que quand je suis béte» (i),. E un altro scrittore francese, il Balzac, parlando di sè stesso (lettera del 12 luglio 1828): «Je renferme dans mes cinq pieds toutes les incohérences, tous le contrastes possibles.... Celui qui dira que je suis poltron, n’aura pas plus tort que celui qui dira que je suis exerèmement brave». E un nostro scrittore, il Gozzi: «Credo d’avere due anime: una floscia e l’altra temeraria» (2). Così è di tutti. Se il coraggio fosse, qualche cosa a sè e per sè, non si avrebbe’quel fenomeno così curioso, e pur così frequente, che si chiama timor panico, e cheiopure un nonnulla basta a determinare negli individui e nelle collettività, anche più forti e audaci. Ricordate i bravi del Manzoni che si scompigliano al solo udire i tocchi della campana a martello? «, Eppure erano tutta gente provata e avvezza a mostrare il viso; ma non poterono star saldi contro un pericolo indeterminato». Perciò il più celebre tra gli scrittori di cose militari, il gen. Jomini, dice, nel suo Précis de l’art de la guerre (VII, 47), che bisogna seguire l’uso degli spagnuoli, i quali non dicono mai: il tale è coraggioso, ma: il tale è stato coraggioso in quel giorno. E si può esser, coraggiosi in un senso, e paurosi in un altro. Il Macaulay, nel cap. IV della sua Storia d’Inghilterra, ci descrive due, uomini: il Grey e il duca di Monmouth: il primo, arditissimo in ogni più arrischiata congiuntura, fuorché sul campo di battaglia; il secondo intrepido guerriero, ma pusillanime e molle in tutto il resta Del maresciallo di Lussemburgo c’informa il Saint-Simon (Memorie, II, 92) che era valoroso f i-, no all’audacia sul campo: «pour le reste — aggiunge — la paresse mème». Federico II, fulmine di guerra, dimostrava nella vita privata, — narra il suo biografo (3) — «una timidità naturale che non riuscì mai a vincere». «Questa timidezza, aggiunge, era così grande che, sebbene egli suonasse benissimo il flauto, non poteva quasi eseguire un pezzo davanti a persone che non conoscesse, o per le quali avesse rispetto. Un giorno tentò di suonare in presenza della regina madre; ma dovette rinunciarvi». Forse pensava a lui il Leopardi, allorchè scriveva nel suo Zibaldone (V, 418): «molti sono timidi i quali sono insieme coraggiosissimi. Voglio dire che molti si perdono d’animo nella società, i quali nè fuggono nè temono ed anche volontariamente incontrano i pericoli e i danni e le fatiche e le sof ferenze, e non sostengono gli sguardi o le parole amichevoli o indifferenti di tali di cui sosterrebbero facilissimamente l’aspetto minaccioso e l’armi nemiche in battaglia o in duello». «Je ne congois pas — diceva Napoleone all’O’ Meara a proposito di Murat — (II, 103) comme un C’était un homme si brave pouvait étre si véritablei paladin en campagne; mais si on le prenait dans le cabinet, c’était un poltron sans jugement ni décision». George Sand, che da bambina fu, col padre ufficiale, in Ispagna durante la guerra, narra nelle sue Memorie (II, 199) d’aver udito una volta il Murat gridare come un forsennato, perchè soffriva d’infiammazione viscerale: «J’entendis les cris de ce pauvre héros, si terrible à la guerre, si pusillanime hors des champs de bataille». Al contrario, chissà quanti sopportano animosamente le malattie più dolorose, le più dure privazioni, e tremerebbero al pensiero d’andare a sbudellare e a farsi sbudellare, come il Manzoni definisce il mestiere della guerra! «.Più d’una donna che grida alla vista d’un topolino può avere il coraggio d’;ivvelenare il mar:to. o, che, è peggio, di spingerlo ad avvelenarsi da sè», ha sentenziato il Fielding (4). Sarà vero, pur troppo; ma è vero anche questo: più d’una donna che grida alla vista d’un topolino, può essere coraggiosissima, fino all’abnegazione e al sacrificio, può reggere alla lotta oscura d’ogni giorno colla miseria o col dolore, può essere un’eroina di devozione e di carità. Eroismo e coraggio — si noti -- ben più alto di quello impulsivo e momentaneo, che può anche trovarsi accoppiato al vizio e al delitto. Al qual proposito. è da rilevarsi il fatto, che un nostro psichia tra ha studiato e documentato con molti esempi: «Una nota apparentemente strana della psiche del delinquente è questa, che, in mezzo ad una vita tutta spesa nei più gravi reati, che’ è una dimostrazio ne continua della più radicata perversità, si trova talora più frequentemente che nei normali qualche atto di cosidetto valore, di vero eroismo)) (5). Del resto, si vedono uomini forti sbigottire anche per qualcosa’ di meno d’un topolino. «L’esperienza ha dimostrato che i più prodi militari, soliti a bravare i pericoli e a mirare senza turbarsi l’a3petto della morte, hanno ceduto al timore degli spiriti». E’ un’altra osservazione del Leopardi (nel Saggio sugli errori popolari degli antichi, c. VIII), che forse ricordava quest’altra 91e1 Rousseau nell’Emile: «Fai vu des raisonneurs, des esprits fòrts, dès philosophes, des miiitaires, intr,Spides en plein jour. trembler la nuit comme des femmes au bruit d’une feuille». Ma c’è di più: coraggio e paura, piuttosto che sentimenti contrari, sono spesso correlativi, causa ed effetto a vicenda l’uno dall’altro. A proposito di coraggio femminile, la Sand già citata (II, 188) dice che sua madre era oltremodo.paurosa, ma che ciò appunto le dava il coraggio e la forza di cercare e [p. 332 modifica]di mettere in pratica gli espedienti, talvolta arrischiati, di sfuggire al pericolo: era coraggiosa perchè paurosa. Altrettanto narra il principe di Ligne d’un altra donna: «C’est la plus brave poltronne qu’ il y ait jamais eu; elle risque plus par peur que le plus valeureux grenadier par son courage. Elle est capable de se jeter au feu pour éviter une araignée, et sous la roue d’une voiture parce qu’ un homme l’a regardée de travers en passant» (Oeuvres, IV, 303). Le courage est souvent un effet de la peur, ha detto il Corneille; e il Byron parla d’un «coraggio che nasce dalla paura», che ne è anzi il figlio primogenito (6); si può, secondo il IVIetastasio, Per soverchio timor rendersi audace (Ezio. I, 8). Per lo Shakespeare il colmo del coraggio è anzi il fingersi codardo (i), mentre un autore nostro giunge a confessare: «non ho il coraggio bastante per aver paura»(8). Famosa è poi la sentenza dell’abate Galiani: «il coraggio è una grandissima paura». «A quels actes de vaillance l’épouvante peut pousser un lièvre! Etre effrayé jusque à l’imprudence c’est une des formes de l’effroi..’. A un certame degré d’épouvante, on devient terrible». Così V. Hugo (9); e già Ovidio aveva parlato d’un timore, prodotto dalla paura: Audaciam fecero! ipse timor (FASTI, III, 644); e Seneca (De ira, I, 13): ((Non ha talvolta la paura stessa fatto un timido diventar audace? E il timore della morte non ha spinto nella pugna quelli ancora che sono molto codardi?». Bizzarrie ed esagerazioni di poeti e, letterati? Tutt’altro! Quando Wellington usciva nella famosa sentenza: «datemi un esercito di codardi!», mostrava quanto assegnamento egli facesse sul coraggio disperato prodotto dalla paura. Venti secoli prima, un precettista di cose guerresche Così insegnaya: «Molti, che sono ignoranti dell’arte militare, s’avvisano di ottenere una più completa vittoria tagliando" la ritirata al,nemico, accerchiandolo, oppure chiudendolo in litogo angusto. Pessimd partito questo; poiché il nemico, vedendosi per tal modo impedita ogni via di scampo, attingerà_ nuova forza dal terrore e dalla disperazione. Onde fu lodata quella sentenza di Scipione, secondo la quale bisogna difendere una via per cui i nemici possano fuggire». (10). E’ dunque il coraggio una reazione della paura. Il povero Renzo, fuggitivo, smarrito nella boscaglia (li Gera d’Adda, deve alla Aua stessa paura se gli riesce di rianimarsi alcun poco: «Era per perdersi affatto;- ma, atterrito, più che d’ogni altra cosa, dal suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse. Così rinfrancato un momento», ecc. Quajcosa di simile avviene a quel personagggio in Guerra e Pace (I, II, 19),, del Tolstoi, che, nel folto della battaglia, sentendosi fischiare intorno le palle, «provava un brivido nervoso corrergli lungo la schiena; ma il solo pensiero che e gli potesse aver paura, gli rendeva tutto il coraggio». Perciò già cantava un antico poeta, che coll’audacia si nasconde un grande timore: Audendo magnus tegitur timor (i i). In mezzo al mare di chiacchiere con cui L. Barzini inonda regolarmente un grande nostro giornale. c’era oggi otto questa osservazione acuta, a proposito dei soldati francesi, che, in principio dell’attuale guerra, si esponevano troppo, e trascuravano ogni cautela. Dice che così facevano perchè «sma- • niosi di dar prove di coraggio, o timorosi forse di sembrar paurosi». «Si fai eu peur? — rispondeva Enrico IV a chi gliene chiedeva. — Pardieu! Sans cela, ou serait le courage?» Un. altro Sovrano, Carlo V, sentendo discorrere d’un certo capitano spagnuolo, del quale si diceva che non avesse mai avuto paura, osservò: «Bisogna dunque dire che non abbia mai spenta una candela colle dita!». La sortita ricorda quella del valoroso maresciallo Lannes ad un suo colonnello, che aveva punito un giovane ufficiale appena uscito dalla scuola di Fontainebleau, per essere fuggito nel primo scontro, colto da panico: «Sachez mon colonel, qu’ il n’y a qu’un poitron (le terme était encore plus énergique), qui ose se vanter de n’avoir jamais eu peur!» (12). «Il coraggio uno non se lo può dare», dice don ’Abbondio. E’ • vero; ma lo possono dare ad uno le circostanze. E a quella sortita del pover’uomo, risponde da par suo Federigo, con, queste parole, che sono la miglior conclusione di quanto siam venuti esponendo: «Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che non facessero naturalmente nesun conto della vita? tanti giovinetti che cominciavano a" gustarla, tanti vecchi, avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire, tante donzelle, tante spose, tante madri! Tutti hanno avuto coraggio; perché il coraggio era necessario». Milano, 9 dicembre 19 f 4. P. BELLEZZA. Journal, nella Revue Francaise - 1914, p. 585. Lettere famigliari, Torino 1336, p. 326. Anon., Strasburgo 1787 - VII, 88. The History of Tom Jones X, 9. S. Ottolenghi,,Nuoyi studi su 265 criminali (in Arch. di Psichiatria, 1897, vol. XVIII, p. 179. There ’s a courage which grows out of fear (Don Juan XIV, 5) — Courage... the eldest born of Fear (M. Fafiero, III, 2) Francis, darest thou to be so I aliant as to play the co.vard? (K. Henry IV, IV, p.te I, II, 4). C. Dossi, Desinenza in A. L’homme qui rit, III, 4; IX, 1. Vegezio, De re militari, III, 21. Lucano, IV, 702. Bourrienne. Mímoires, II, 188.

Il Municipio di Milano ha ordinato 200 abbonamenti per distribuire in tutte le scuole i fascicoli dell’ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI. [p. 333 modifica]

Angeli di Natale

Fra le abbrunate spose le madri dogliose, Fra bimbi senza lane vecchi senza pane Annunziate piamente Che tornerà l’Assente.

Angeli di Natale, Bianche stendete l’aie E per l’azzurra via Degli astri sulla scia Ridiscendete a volo In fiammeggiante stuolo Nel trambasciato mondo Gemente dal profondo....

Dove cade la neve A fiocchi, lieve, lieve; Dove la nebbia frigida Infosca l’aria rigida; Dove mormora il vento In tono di lamento, Sovra i negletti avelli Spargete i fior più belli, Alle insepolte salme Alloro date e palme.

Trista l’ora che volge! Da maledette bolge Or disfrenata, bieca Nuova barbarie impreca E i popoli trascina All’ultima rovina In lotta fratricida Con ferocia omicida. Fra i solchi insanguinati Fra morti e mutilati, Sovra il campo macabro Di gelo e d’armi scabro Scendete voi pietosi Fra vinti e vittoriosi..

Poi riprendete il volo Su nell’azzurro a stuolo, In cielo risalite Ed all’Eterno dite Tutto lo scempio atroce Della guerra feroce.... Di quest’orrenda guerra Che sconvolge la terra! Dite i dolor, le pene Dei captivi in catene, Gli strazi d’innocenti E dei giusti i lamenti. Ditegli che un vagito I-la l’uomo redimito! Per tal divino pianto Mite lavacro santo Sovra il percosso mondo Di sangue e colpa immondo Che nel terror si sfate, Implorate la pace!

Rapite al focolare L’eco di voci care Per tutte le esiliate Anime sconsolate. Fra i rovi della siepe Rievocate il presepe, Fra i rami dell’abete La speranza intessete Che allieti e rassicuri Il cuor dei morituri!

Nelle deserte case Dall’angoscia pervase,

Angeli di Natale, Salvateci dal male Torino.

Contessa Rosa di S. Marco. [p. 334 modifica]Il ’70 a Parigi

Credo di far cosa grata ai nostri lettori trascrivendo, in traduzione scrupolosa, un brano aneddotico della lunga lettera — quasi un diario — che mi rivolse giorni or sono una vecchia amica, italiana di origine, stabilita a Parigi per ragioni di famiglia e d’affari, rimasta fedele nel cuore alla patria antica, divenuta acuta ed imparziale amica della seconda; spirito lucido e animo eletto, che le impressitini ct un tempo innesta sulle impressioni di oggi, in questa dolorosa vigilia d’armi, di attesa, di atroci stupori, nella quale non solo si decidono le sorti delle razze e dei popoli, ma quelle di una umanità che abbiamo creduto matura a tutte le migliori conquiste e che a un tratto ci si rivela indomita e proterva come il fanciullo selvaggio che aduna tutte le brutalità primordiali dell’istinto. La mia vecchia amica esordisce così: «Mi è caro in queste ore di faticata inazione di riandare col pensiero avvenimenti, imagini, virioni, che il tempo aveva, non cancellato nel mio spirito e nel mio animo, ma fasciato di quella neb«bia trasparente che assomiglia al profumo dell’incenso rimasto in una chiesa vuota». E anch’io scelgo a caso, nella nebbia odorosa d’incenso, ciò che parmi possa interessare il prossimo che legge: Il bimbo de’ miei vicini stava per compire «l’anno: lo chiamavano la piccola face delFassedio. perchè era nato a Parigi nell’autunno antecedente, dopo i- primi giorni dell’invasione. La sua casa e la mia erano così vuote e silenziose, dacchè gli uomini validi erano fuori a combattere e l’esodo «dei deboli — vecchi e bambini — aveva«internato nelle lontane provincie chi ci era caro t «Vedere quel piccino sulle ginocchia di sua madre era per noi rimasti, un conforto inapprezzabile, perché l’innocenza è la speranza e, senza accorgercene, ci aggrappavamo a quel simbolo di «pace. Era anche un bimbo straordinario; sorrideva a tutti con una grazia così speciale che pareva fat«ta per consolarci, e dai suoi occhi puri emanava una tale limpidità di luce da infondere nelle nostre vene il benefico calore che vivifica. Io non so perchè sia morto: i rigori dell’assedio l’hanno raggiunto perfino nelle braccia «di sua madre? Forse: ma ha lasciato nel mio cuoce re la scìa luminosa di una stella filante!». Ora, un aneddoto al quale la vecchia amica ha perspnàlmente assistito: cc I prussiani (è interessante notare come il nemito fosse nel ’70 quasi-unicamente così denominato) bombardavano Parigi. Presso il Pantheon, in u«na via secondaria una contadina s’era rifugiata, con la sua mucca, in uno stallazzo di osteria. Le avevano lasciato la mucca, a patto di riserbarne il latte per i bambini e gli ammalati del quartiere. Ogni

mattino, ad una data ora, donne e fanciulli aspettavano la preziosa distribuzione. Io era nel pubblico, con la mia gamella, destinata al nostro vecchio portinaio gravemente infermo.... (Sapeste, cara, quanti mestieri si sono fatti allora!). «Tirava una furictsa.trannntana in quella glaciale mattinata, e avevano fatto entrare di preferenna i ragazzi sotto il portico dello stallo. Ad un tratto, una bomba fischiò nell’aria e cadde nel cortile. Istintivamente tutti c eravamo buttati per terra. L’obice esplode, i detriti scalcinano i muri, ma nessuno è colpito. Un ragazzo, dinanzi a me, si rialza come gli altri, e tende la gamella che «non si era lasciata sfuggire di mano., — E’, una fortuna -- esclama disinvolto — che non avessi già avuto il mio latte! Che cosa portavo alla sorellina?... Pensarulo ad essa, aveva dimenticato di aver visto vicina la morte». Ingenua nella sua semplicità, è questa pennellata della cronistoria di allora. La vecchia amica, trasformata, al pari di quasi tutte le donne francesi, in infermiera, trova in un ospedale di Parigi, pieno di feriti giunti dall’Alsazia, un ragazzone che non avrà più di sedici anni. E’ colpito alla spalla da una scheggia di mitraglia, ma non è in pericolo: anzi può dirsi in via di guarigione. — - Volontario? Alla sua età?.. E’ bello ciò che hai fatto — esclama la mia amica rivolgendoglisi con dolcezza. «-- Ah, signora, — risponde il poveraccio ingenuamente — quando il nemico assaltò la nostra fattoria, la massaia e le sorelle hanno staccato i fucili da caccia dal muro.... Ho dovuto per forza fare come loro,». Il coraggio uno- lo ha o non lo ha! — dichiarava quel filosofo che rispondeva al nome di D. Abbondio! Ma vi è subito l’antidoto: Un vetturale da piazza, tino di quei parigini boulevardiers che hanno il gergo della celia a un tempo ironica e sentimentale, mi accompagnava spesso durante le mie peregrinazioni da un ospedale all’altro. Il suo cavallo, bianco, magro, ossuto, rispondeva al nome di Cocò e sarebbe stato un prezioso collaboratore del suo padrone, se non avesce.avuto un raffreddore cronico che lo faceva starnutire con lo strepito di dieci scariche. «Una sera feci, non so come, tardi, e durante il tragitto nè breve, nè comoda (poiché pioveva a dirotto) a casa mia, non ebbi motivo di essere contenta nè di Cocò nè del suo padrone, poiché il primo starnutiva e scivolava ad ogni passo sulle pietre levigate dalla pioggia; ed il secondo sfogava, il suo umor nero borbottando e bestemmiando. Pagai, cionondimenó, con la sopratassa della solita mancia, ma il mio bonsoir fu abbastanza asciutto, rivòlgendomi all’uno e all'altro. [p. 335 modifica]L’indomani, mattina, per tempissimo, la nostra vecchia fantesca introdusse alla mia presenza, senza tante cerimonie, sun visitatore che mi fece restare di princisbecco. a Avete indovinato? Nientemeno che il mio vetturale della sera innanzi. Rigirava il cappello fra le grosse mani, senza riuscire ad aprir bocca, con un’espressione di viso così insolita e complessa, che me lo fece diventare, di colpo, interessante. Via, — gli dissi a titolo di incoraggiamento — a volete bere un bicchierino alla salute di Cocò? — Alla salute di Cocò?... Sarebbe peccato rifiutare, tanto più che ciò mi snoda la lingua; non ho mai saputo bere senza parlare! Né, s’intende; parlare senza bere? — La signora vuol scherzare, ma io, vede, mi darei invece dei pugni nella testa.... — Vi è accaduto qualche cosa? ti da un soldato, che apparteneva alla stessa città del capitano. L’ufficiale si volse e ordinò: — Vattene!» — «Non senza di voi, capitano» — rispose l’altro. Tutt’intorno piovevano le palle; Cocò fu colpito al muscolo d; una spalla. Vedena dolo coperto di sangue, il capitano saltò a terra, piantandoglisi al fianco quasi avesse voluto preservarlo da altri pericoli; e incrociò le braccia sul petto aspettando quel proiettile ch’era venuto a cercare. Anche il soldato era sceso di cavallo e «stava nel preciso atteggiamento del superiore. Allora, sapete che cosa ha fatto Cocò? Con un gran salto andò a mettersi fra il suo padrone e il fuoco dei prussiani e proprio in tempo, poichè raccolse nei fianchi altre due palle, ch’erano dirette a quel«l’altro. Il capitano, ch’era ostinato incrociò nuova«mente le braccia, appoggiandosi a un tronco d’ala bero, non senza aver dato un colpo del suo fru

FRAMMENTO

La natura ha voluto che la donna amas se perchè l’uomo non ha tempo d’amare; ha voluto che la donna soffrisse perchè l’uomo non ha tempo di soffrire. Ma pure vi dico che nessun sacrificio di donna è mai stato perduto, nessuna vera lacrima dispersa, nessuna rinuncia inutile; che senza di lei non sarebbero mai germogliati su quesa terra i due splendidi fiori dell’arte e della poesia, Shaespeare e Dante non avrebbero scritto, nè Raffaello dipinto. In fondo ad ogni gloria.d’uomo si legge un nome di donna, in ogni.cosa fiorente si trova l’opera di una donna, in ogni infanzia felice la donna, in ogni ardore di carità la donna, in ogni azione generosa la donna sempre, ispiratrice, consolatrice, amica, custode, arca sacra dei Popoli che verranno. La sua missióne è la più alta, la più pura, la più necessaria alle idealità della vita. Onta alla donna che non la comprende. NEERA

— Accaduto?... Certo, poiché ho sullo stomarco di aver picchiato Cocò ieri sera! Gli chiesi se. Cocò era ancora in collera. — Dovrebbe esserlo, se non fosse dolce come il miele! Appena in scuderia, l’ho asciugato e strigliato a dovere, poi gli ho dato perfino una delle coperte del mio letto, perchè quella bestia lì vale tant’oro quanto pesa, mia cara signora.... — Vedo che avete da raccontarmi una storià. Accettate dunque un secondo bicchiere.... — Sta bene: — replicò 3 vetturale, battendo un pugno sul ripiano di marmo del camino; — del resto non è lungo da dire. Tal’è quale lo vedete, Cocò, prima di essere cavallo di pubblica vettura, era ’proprietà di un capitano dei corazzieri e prese parte a quella famosa carica di Reichshof fen, che, se non può consolarci di tutto, è però sempre qualche cosa di buono in mezzo al cattivo. Poi è -«stato a Sedan...., ma non parliamo di Sedan; fa troppo male! Finalmente, si è trovato all’assedio, qui a Parigi, nel forte della mischia. Il suo capitano in un momento disperato vistosi perduto, cacciò gli speroni nel fianco dell’animale, per varcare le trincee nemiche e cercarvi la morte. Cocò non «se lo fece ripetere; ma quando furono a venti metra dal nemico, si accorsero eh:erano stati segui-

stino sul muso di Cocò per incitarlo a fuggire: ma l’animale rimase al posto, più impavido di lui. Allora il soldato ebbe un tratto di genio; dopo essersi detto che, alla fin fine, la morte vien sempre troppo presto, anche quando non la si chiama, afferrò il capitano, ch’era lungo, ma non pesante, e buttatolo in sella a Cocò, gli ordinò «Avanti!» ed eccoli tutti e quattro, i due uomini e i due cavalli, che galoppano sul fronte nemico quasi avessero fatto una passeggiata in piazza d’armi! «I prussiani furono tanto stupiti da quel sangue freddo che, sulle prime, cessarono di tirare, ma appena si accorsero che la preda sfuggiva, si diedero il lusso di un fuoco furibondo dal quale non si sa ancora come abbiano fatto a scampare. «Quando raggiunsero i nostri, il capitano non aveva che una palla nel suo chepì; anche il soldato non ne aveva che una, ma nel braccio sinistro: dei due cavalli, l’uno era incolume; Cocò invece aveva un assortimento di ferite, con rispetto parlando, anche nelle parti posteriori.... ma se l’è cavata bene, come vedete. Il capitano lo regalò al soldato; il soldato l’ha venduto a me, ed ecco come,, dal militare è passato al civile. Non vi è un Hotel des Invalides per le bestie!». FULVIA. [p. 338 modifica]TANCREDI CANONICO

Qualche anno fa l’editore Cogliati aveva preparato un volume di mons. Bonomelli: Profili di tre personaggi italiani, (Antonio Fogazzaro, Talco di Revel, Tancredi Canonico). Per consiglio di amici però all’ultimo momento ne era stata sospesa la pubblicazione. Nei suoi ultimi mesi il grande Vescovo. di Cremona aveva solleCitato l’editore di pubblicarlo. Questi non aderì perchè pensava, che i tempi non erano ancora maturi. Oggi, però, dopo quattro mesi dalla Morte, si può credere che sia scomparsa ogni ragione di attesa e la pubblicazione è avvenuta. Diamo quì in saggio alcune pagine che delineano la figura di Tancredi Canonico. Non sia grave al lettore che in poche righe accenni com’ebbero origine i miei rapporti col Senatore Canonico e ripeto, come dichiarai sopra pel Revel che le poche cose che verrò dicendo di lui, da lui stesso le appresi o per iscritto o a voce e non vi aggiungo, nè levo sillaba. Otto anni circa or sono io mi trovava a Firenze presso una persona assai nota pel nome che porta, per le alte parentele che ha, e più ancora per la splendida beneficenza. E’ ricca di censo, ma più ricca ancora di cuore e non la nomino per non offendere la sua modestia. E’ di Tiene persone, che mettono tutta la loro energia nel fare il bene e sembra la raddoppino nel nasconderlo. In quella casa ebbi la ventura di conoscere il Senatore Tancredi Canonico, allora Vite Presidente e poco dopo n’esidente del Senato, Non avea mai avuto occasione di vederlo e nemmeno di aver relazione epistolare con lui: ma da molte persone d’ogni partito e degne di fede avea udito parlare del suo ingegno, della sua dottrina, del suo carattere, della sua bontà e della sua religione profonda, che senz’o.mbra di rispetto umano professava in privato ed in pubblico. Ricordo bene la sera, che lo vidi e potei trattenermi a lungo con lui e la impressione indimenticabile, che ne riportai. Quella nobile e bella figura di vecchio la vedo ancora. La fronte ampia e maestosa, gli occhi vivi, sorridenti e dolci come d’un fanciullo: la barba tra il bianco e il biondo, pochi e candidi capelli sulla testa, alcune rughe sul volto, sul quale si può rilevare una bellezza, che il tempo non ha potuto distruggere. rivelatrice d’una vita corretta e sobria. Una di quelle figure gravi e amabili, dinnanzi alle quali senza volerlo ci sentiamo inferiori e ispirano riverenza. ’In quel primo abboccamento si parlò di non so quante cose anche disparate, di questioni filosofiche e politiche e, codera naturale, dello stato religioso della nostra società. Io pendeva dalle sue labbra e per me i giudizi, gli apprezzamenti di quell’uomo conoscitore perfetto dei nostri tempi e dei nostri bisogni, manifestati con tutta semplicità, e chiarezza e serenità perfetta, erano raggi di luce e mi sentiva tutto confortare anche perchè li trovavo consoni a’ miei. Fin da quella prima conversazione sentii l’animo mio avvinto a lui in modo irresistibile. Qualche tempo appresso lo trovai a Roma e poi ebbe la bontà di venire a Cremona e per due giorni fu mio ospite. In quei giorni, liberi entrambi da ogni cura, conversammo a tutto nostro agio e parlammo dei più svariati e vitali argomenti e le ore che passammo insieme volarono come minuti, ma mi ’lasciarono nell’animo una dolcezza che conosce solo chi l’ha gustata. D’allora in poi la nostra relazione per lettere divenne più confidenziale e’ più frequente,e per me quando giungeva la posta e tra le lettere all calligrafia riconoscea tosto una sua, un vivissia mo piacere mi ricercava tutta l’anima e non potea tenermi dall’esclamare: — Ecco una lettera del Senatore Canonico. — L’anno 1907, in agosto, un caso strano non voluto, nè preveduto nè da lui, nè da me, ci riunì per. due o tre giorni in Val di Cadore, a Lorenzago. Il Presidente del Senato avea bisogno di un luogo tranquillo affine di prepararsi al processo troppo celebre del Nasi, che dovea discutersi regli ultimi mesi del-, l’anno. pensò di ritirarsi per un buon tratto di tempo nell’alto Cadore e ai primi del mese d’agosto ci trovammo insieme nella villa del Marchese Ferdinando Resta-Pallavicino. «Sono qui per riposarmi e rifare le mie forze (aveva_quasi 8o anni) e devo lavo.:u.re e come! mi dicea Ho portato con me 34 fascicoli di roba: devo leggerli tutti per studiare e ordinare questo processo sì lungo, sì intricato e di tanta importanza, e consideri che devo prepararmi, come un giovane avvocato, che fa le sue prime armi. Da gran tempo non tratto più cause e ora sono costretto a consultare i manuali di procedura per non trascurare qualche formalità, che, basterebbe a rendere nullo il processo o a farmi compatire. alla mia età!». In quei pochi ritagli di tempo, che avea liberi, potei come a Firenze e più che a Firenze, trattenermi con lui a discorrere, come potete immaginare, di molte cose interessantissime. In quei giorni in tutta Italia non si parlava che di clericalismo e anticlericalismo: i giornali erano pieni di accuse, di dimostrazioni, di calunnie contro il Clero e particolarmente contro le case dei religiosi. Nulla di più naturale per me Che l’interrogare l’uomo insigne, col quale avea l’onore di conversare, sulle cause dello scatenamento anticlericale, sui mezzi di arrestarlo o scemarlo, sull’avvenire della Religione in Italia e di tutto questo ragionammo e a suo luogo riporterò il suo modo di vedere, almeno in quella parte che mi pare conveniente. Dopo l’agosto del 1907 non mi fu più dato vederlo: solo ebbi qualche lettera. Quel processo fu per lui una fatica enorme e fatale. Potè aprirlo, dirigerlo per alcune sedute e poi a quello sforzo della mente, a quella intensità di lavoro intellettuale più non resse: si ritirò e non molto dopo (non rammento il mese e il giorno) pagò il tributo della natura: giunto alla sera della sua giornata, si [p. 339 modifica]addormentò qui per destarsi in un’altra vita migliore di questa. Ho tratteggiato a volo l’origine e lo svolgimento delle mie relazioni col Senatore T. Canonico; ora concedete che su queste relazioni metta in rilievo il suo profilo, specialmente morale e religioso, quale io l’ho concepito. — Sui vent’anni, mi diceva il Senatore, io avea terminato i miei studi di legge a Torino e mio phdre come premio e insieme come mezzo eccellente per l’istruzione pratica e per il conoscimento della vita sociale, desiderò che facessi un viaggio in Inghilterra e lo feci e me ne trovai ben contento. — Ho notato che tra le diverse regioni italiane

Mons. GEREMIA BONOMELLI

forse il Piemonte fu quello che prima di tutte e in proporzioni maggiori mandò i suoi figli a fare come un tirocinio della vita reale in Inghilterra. Canonico e Cavour, per ricordarne die soli, si formarono alla vita pubblica in quella grande salala inglese, che è un misto singolare di aristocrazia e democrazia. di rispetto profondo per l’autorità é la legge, di culto sacro per la dignità personale e per l’amore e grandezza del proprio paese. Tra il carattere piemontese e l’inglese vi è una affinità speciale, che balza all’occhio di primo tratto: io parlo del piemontese a preferenza di tutte le altre provincie italiane. Hanno comune la serietà, la tenacità del volere, la riflessione e una certa apparente durezza e l’amore del lavoro, del risparmio e dell’ordine. 11 Piemonte fu ed è rimasto fino ad oggi il paese più militare d’Italia e dalla natura stessa preparato a darle il primo e più valido impulso verso la sua indipendenza: senza la scuola e la energia del Piemonte difficilmente l’Italia si sarebbe formata a nazione. Tale era la persuasione del Canonico, che avea simpatie.spiegate per l’Inghilterra. Non ricordo bene, se prima o dopo la sua andata in Inghilterra, egli fece una visita a Stresa ad Antonio Rosmini. Avea sentito parlare spesso di quest’uomo straordinario, come fornito di un ingegno maraviglioso, d’un profondo pensatore, amante della patria e di una vita virtuosa, che gli conciliava non solo la stima, ma la riverenza universale. — Mi sono sentito fortemente e misteriosamente attratto verso di questo uomo, del quale avea letto alcuni scritti filosofici, così mi dieta. Canonico. Andai a Stresa, domandai di Rosmini e il portinaio a cui mi rivolsi, mi disse: è in giardino, e mi additava il giardino. Proprio in quella, Rosmini usciva e gli mossi incontro. Egli mi accolse con un sorriso pieno di bontà e mi condusse nel suo modestissimo studiolo e mi trattenne a lungo e mi disse tante cose e con tal garbo ch’io ne fui innamorato. Non sarei più partito.da quell’uomo benedetto. Delle cose udite da lui, questa sopra tutto ritenni nella memoria. Mi chiese, nel licenziarmi, se amava la verità? — Risposi: Oh, sì, amo la verità, almeno desidero di amarla. -- Bene: allora preparatevi a soffrire molto. Il Canonico fu più volte a Stresa per vedere ed udire Rosmini, e ne partiva sempre compreso d. maggiore venerazione per lui e ripieno di nuova energia a camminare sulla via del dovere: — mi parea di diventare migiore — così egli. Ho voluto qui riferire il fatto e quasi con le stesse parole del Canonico perchè fanno onore a lui e riflettono bella luce sul Rosmini. Non è già che la fede del giovane Tancredi Canonico nel primo periodo della sua vita ( non posso determinare precisainente quale) non avesse a superare una grave e dolorosa prova. Deve essere stata terribile, s’egli un giorno con tutta franchezza potè dirmi: — Fu tempo ch’io avea perduta ogni fede — e dal suo linguaggio mi parve di poter arguire, che non ammetteva nemmeno l’esistenza di Dio..Non dobbiamo maravigliarcene punto. Per quella poca esperienza che ho della società nostra istruita, che è passata attraverso alle scuole universitarie e che tiene uffici pubblici anche di secondo, di terzo quarto ordine, credo di poter dire che sono rari assai quegli uomini, i quali massime nei primi anni, non abbiano sofferto qualche eclissi nella fede e fatto miseramente naufragio. Talvolta si rialzano e, superata la crisi, come si suol dire, spiegano una fede raddoppiata salda ai più duri cimenti e gli esempi splendidi non mancano anche ai nostri giorni. Tale fu il nostro Canonico. Come, per quali vie riacquistò la fede e qual fede? Lo dirà egli stesso in modo solenne e direttamente al S. Padre Pio IX. [p. 340 modifica]Lo strumento della sua conversione fu l’esule polacco, laico, Andrea Towianski. Il Senatore T. Canonico il giorno 23 gamaio 1869 saliva le scale del Vaticano ed era ricevuto da Pio IX in udienza privata, e presentandogli uno scritto del Towianski, gli diceva: — Santità, per mezzo di questo uomo ho ricevuto da Dio benefici spirituali, che non si cancellano più. Ebbi una giovinezza dolorosa: io avea perduto la ferie. La Provvidenza mi avvicinò a quest’uomo. Se ho ricuperata la fede, se ho adesso una base alla mia vita, se ho l’amore di Gesù Cristo e della sua Chiesa, la gioia dell’anima, è principalmente a lui che lo debbo. — Sono contento, disse allora Pio IX... Con profonda emozione risposi: — Santità, posso dirle dal profondo dell’anima che questo è il più bel giorno della mía vita. Non sono che un povero peccatore: ma l’accerto che pregherò sempre Iddio pel vero bene della Vostra Santità. — A queste parole il Papa fu- visibilmente commosso. Mi guardò, mi sorrise con affetto, dicendomi: — Vi ringrazio Pregate anche per la Chiesa di Gesù Cristo. — Oh, sì, ripetei premendo la sua mano contro le mie labbra: anche per la Chiesa di Gesù Cristo. Ed uscii. — Sono parole del Senatore Canonico, che egli stampò nel 1903 nella sua relazione. Chi era dunque questo uomo, del quale con tanta ammirazione e gratitudine parla il nostro convertito Senatore? Lo apprendiamo dallo stesso convertito, che ebbe col suo maestro, com’egli lo chiamava, intima relazione pel corso di 27 anni. Andrea Towianski fu uno di quei tanti polacchi, che da Nicolò I Imperatore delle Russie cacciato in esilio, perché amava la sua fede e la sua patria. Di famiglia agiata, magistrato, colla famiglia riparò in Isvizzera, fu in Francia, in Italia e dovunque colla vita incontaminata, coll’ardore dell’apostolo e colla intrepidezza del martire difese e propagò la fede e onorò la Chiesa e la patria sua. Sostenne la carcere, fu fatto segno a calunnie e nulla lasciò di intentato per servire la causa della Chiesa cattolica, che per lui era la causa della patria e di Dio. Sull’esempio di S. Caterina da Siena, si rivolse a quanti per l’autorità e la potenza poteano giovare al suo intento, a Re, a Imperatori, a Principi, a tutti, anche a nemici dichiarati. Towianski nella sua missione straordinaria fino alla sua morte, che avvenne il 13 maggio del 1878 a Zurigo, ci sembra uno di quei profeti, che a quando a quando Dio suscitava in Israele e comparivano in mezzo al popolo e nella reggia e a nome di Dio invitavano alla penitenza e poi si seppellivano nella solitudine. Ecco chi era Towianski, l’uomo che il Canonico a ragione venerava come maestro e a cui andava debitore della sua conversione. Bisognava udire come ne parlava 29 anni dopo ia sua morte: un figlio non poteva parlare con nìaggiore riverenza e maggiore tenerezza del migliore dei padri. Qual uomo doveva essere Towianski possiamo argomentarlo dal nostro Canonico, che secondo le sue forze si studiava di imitarlo nella vita e pubblica e privata. Egli aveva la parola semplice e naturale e sotto la modestia del ’suo atteggiamento si sentiva la forza, l’energia dell’anima, abitualmente padrone di tutti gli altri. Egli parlava della vita interna, che ogni cristiano deve coltivare in se stesso, che attinge la sua forza in Gesù C. che continuamente deve irradiarsi nelle azioni esterne Come la vita dell’albero senza posa si spande nei rami, nelle frondi e nei frutti. A me parea sognare udendo il Senatore e Presidente del Senato parlare di vita interna, di vita di sacrificio ’continuo sul modello di Gesù Cristo, sull’amore operoso del prossimo, sul distacco dalle cose terrene, sulla libertà vera dello spirito, come ne avrebbe potuto parlare un direttore spirituale di anime, che in un chióstro attendono alla perfezione. E quest’uomo, dicea meco stesso, vive in mezzo al mondo e immerso nelle cure più spinose e dirige le discussioni politiche della Camera vitalizia! E la mia meraviglia toccò il colmo allorché appresi da lui stesso, che avea volgarizzato i quattro libri della Imitazione di Cristo e datili alle stampe fino dal 1873 e volle favorirmene una copia, che conservo come una preziosa memoria. E’ una delle più belle e più perfette versioni di quelle che conosco. Nella prefazione della versione ha queste parole d’un candore, che mostrano l’uomo: Benché questo libro sia scritto principalmente per chi vive in solitudine, ’la nota celeste, che vibra ad ogni sua pagina è una fonte sì pura di interni risvegli e conforti, che riesce forse ancor più preziosa per chi, non volendo rinnegare nelle azioni la voce dell’anima, deve lottare ad ogni passo colle difficoltà di una vita molto attiva ed estesa. A nutrire ne’ miei compatriotti l’alito cristiano, non ch’io creda ia mia versione migliore delle precedenti, ardisco pubblicare ciò che venni traducendo a poco a poco per profitto mio, persuaso che la pietà sincera e vivente è la base indispensabile per meritare chi una nuova effusione risusciti nei petti il Cristianesimo ’vero e dia la forza per applicarlo alla vita e alno scioglimento delle questioni sociali». O io non comprendo nulla, o in queste poche righe il Presidente del Senato ha dipinto sè stesso e ci ha fatto conoscere il fondo dell’anima sua mistica, abitualmente unita a Dio e pronta ad ogni sacrificio. Ora ci torna facile comprendere com’egli fosse in ’ogni.cosa modello di ordine e osservatore esatto d’ogni più minuto dovere come cristiano e come cittadino, indulgente cogli erranti, d’una pazienza e rassegnazione inalterabile nelle più amare vicende d’ella vita. Un giorno mi tratteneva con lui e sapeva, che avea un figliuolo gravemente ammalato, anzi senza speranza di guarigione. Era colto dalla stessa malattia, che condusse a morte il figlio unico del generale Senatore di Revel: soffriva terribilmente ed’io guardava fiso il padre, pensando al suo dolore [p. 341 modifica]non osando chiedergli notizie. Se ne accorse, e con la tranquillità e rassegnazione fun santo, mi disse: — Mio figlio è presso la fine de’ suoi giorni de’ suoi dolori. Da poco tempo avea terminato i suoi studi in Inghilterra e gli si apriva una bella carriera. Mi consolo perchè egli stesso ha chiesto i sacramenti e li ha ricevuti con viva fede. -- Le ultime parole pareano morire ín un singhiozzo, che seppe reprimere: ma gli occhi erano umidi di pianto anch’io a stento potei frenare le lagrime. Ah, quell’uomo era un santo! E qui rammento un fatto ch’egli mi narrò e che non so se sia conveniente pubblicare: forse taluno biasimerà la mia soverchia libertà: ma è si bello ed edificante, che troverò non difficile il perdono. Lo narro colle sue stesse parole: Il Governo da Firenze si era trasferito a Roma ed io per ragione del mio ufficio dovetti seguirlo. Un giorno secondo il mio costume mi recai in una Chiesa per confessarmi. Il Sacerdote s’accorse tosto ch’io era Senatore e inquieto, ma in modo abbastanza urbano, mi disse: — Ella è Senatore ed io con dispiacere debbo dirle che non ho facoltà di ricevere la sta confessione. — Ma io vengo, risposi, per confessare le mie colpe e non credo Che sia colpa l’essere Senatore. — E il prete: No, non è colpa l’essere Senatore: ma qui! comprende. Abbia la bontà di farne domanda al S. Padre. -- Ed io al prete: — Oh, questo no: se crede, ricorra Ella al S. Padre, Ella che ha bisogno di questa facoltà. — Lo farà ben volontieri, rispose il buon prete, e se non le è grave, -ritorni il tal giorno. -- Ritornai il giorno fissato e tutto lieto qui disse: — Il Santo PaEd dre mi ha dato tutte le più ampie facoltà. io feci il mio dovere. conchiuse sorridendo il Senatore. — Io credo che quel prete, in quei pritni momenti del Governo Italiano a Roma interpretasse troppo rigidamente certe istruzioni e le applicasse fuor di luogo. Ho voluto narrare il fatto unicamente all’intento di mettere in luce la Religione del Senatore e insieme la sua bontà, il rispetto e la franchezza. Egli era tal uomo da distinguere con tutta sicurezza ciò che veramente appartiene alla Religione e alla Chiesa; e dò che la buona fede. o l’arbitrio può aggiungervi.

PROFILI DI TRE PERSONAGGI ITALIANI ANTONIO FOGAZZARO THAON DI REVEL — TANCREDI CANONICO Volume Postumo di Mons. GEREMIA BONOMELLI L. 2,50 Casa Editrice L F. COGLIATI - Corso Romana, 17, Milano

La Madonna del Rocciamelone Vaga torreggi sull’audace vetta Dell’Alpe silenziosa, e dal conteso Valico antico, qual regal vedetta Di Susa a la pianura il guardo inteso, Segnacolo di pace A noi ti mostri, da le creste alpine Benedicendo all’italo confine. a Te d’intorno i gioghi immacolati, Le pendici smaglianti di candore I dirupi dai fianchi frastagliati, Cantano a Te l’eterno inno d’amore Fatto d’alti silenzi dell’eco sublime che ridesta In sibilante voce la tempesta. Ma se Tu posi solitaria in trono De’ gioghi eterni nell’orror sublime, Il tuo soglio non giace in abbandono Perchè a’ tuoi piedi il fior dell’alte cime La candida stelluzza La rosa alpina in manto di velluto De’ nostri omaggi a Te porge il tributo. Salve o Vergine! ormai da la pianura Salgono in alto i cori in consolata Speme al fissar la tua regal figura Di nevi eterne e ghiacci incoronata. Che sull’ala de’ venti Come un sospiro che in desio si cuce L’eco ti giunga de la nostra voce! Myriam Cornelio Massa

Milano, 1914

GEREMIA BONOMELLI

PEREGRINAZIONI ESTIVE

L’ultimo libro del grande e santo vescovo di Cremona che raccolse in vita tante ardenti simpatie, ed in morte l’unanime compianto di tutta l’Italia. Il presente volume rievoca le impressioni delle visite fatte in questi ultimi anni alle Colonie dei lavoratori italiani all’Estero. Sono pagine ricche di acute osservazioni, di caldo patriottismo, di carità moderna e cristiana ad un tempo, destinate ad avere una larga eco nel cuore di tutti gli italiani. Volume dl 350 pagine con numerose Illustrazioni [p. 343 modifica]Un grande rimpianto in questo Natale Ci credono loro, lettori miei, all’anima delle cose?.... Io sì, ecco! Come definirla quest’anima non saprei davvero, e meno che mai saprei fare una dissertazione metafisica intorno ad essa, per indurre il mio più o meno riverito prossimo che non ci crede, a persuadersi che c’è, e che è in corrispondenza continua con l’anime umane, con quelle, ben inteso, che sono capaci di comprendere quanto di bello, di buono, di caro, e di grande, talvolta, viene da animucce inferiori. Che cosa possono mai capirne certe anime, tutte dedite alla politica, all’affarismo, ai piaceri, a tutte le grandi o ’piccole vanità della vita? É neppure, credo. ci arrivano certe anime che si abbandonano a severe speculazioni scientifiche, s’immergono nello studio di grandi problemi sociali

afferrano esse, sciolgono talora le grandi questioni, ma sfuggono a certe sottili, delicate comprensioni. Ci vogliono delle anime sognatrici, pensose, le quali si appassionano per un filo d’erba che trema, per un fiorellino che langue, per un rivoletto che canta piano piano la sua tenue canzone, per una cappellina solitaria tra i monti, con le sue mura scretolate, con qualche ramoscello d’edera che s’inerpica e sale.... Oh quali piccple storie allora si ascoltano nell’intimi) nostro! quali dolci o tristi espansioni si accolgono allóra in noi, quasi da cuore amico a cuore amico! Certo qualche cosa, un fluido forse sottile, etereo vagola nello spazio, e dove trova omogeneità scende, ci prende, ci avvolge, e ci si rivela con una squisitezza di ’sensazioni che, anche quando c’inclinano a tristezza, hanno un fascino incomparabile.

Ecco perchè ora io sono tutto preso da queste misteriose Voci di rimpianto, che mi vengono da lontano lontano... E ciò che esse mi dicono lamentevolmente, dolorosamente, lo racconto qui alle semplici anime che sanno comprenderle. Non c’è nulla qui per la gente frivola; nulla per i grandi pensatori, e neppure per il mondo degli intellettuali, a cui appartengono, o credono di appartenere, tanti signori e tante signore. Anime fantasiose di poeti, serene anime di artisti, care piccole anime buone, povere anime visionarie, così calunniate spesso,’ io parlo per voi. Sentite! In questi giorni del Natale vicino, quando le campane, squillando alto e gioconde tra ncii, chiamano alla Novena, e va per l’aria il grande annunzio del Natale che viene, ho sentito nei cuore angosciati lamenti, disperati rimpianti e invocazioni, supplicazioni, preghiere!... Donde partono essi? Ah l’ho sentito! Partono dalle belle città bombardate di Francia e dell’eroico Belgio. Sono di magnifiche cattedrali rovinate, di belle chiese distrutte, di povere umili chiesette di villaggi squarciate dagli obici, abbattute dalla mitraglia; sono di millenarie torri campanarie su le quali passò il tremendo uragano di guerra, già superbe manifestazioni del genio e della pietà un-lana, e divenute ora testimonianza spaventosa della umana ferocia e barbarie. Sono voci di piccole campane atterrate e spez.:ate, giacenti tra le macerie dei loro campaniletti rusticani da cui dominavano tutto il villaggio raccolto al loro piede; sono le storiche, monumentali campane di Lovanio, di Malines, di Liegi, di, BruXelles, che gemono, piangono, o già cadute o ancora erette su in alto, ma che, ad ogni modo, non potranno mandare i loro doppi solenni e gioiosi in questo desolato Natale dei paesi loro.

Sono le maestose, gloriose campane della Cattedrale di Reims, che giacciono travolte in mezzo alle macerie della superba loro torre, da cui, come da un meraviglioso troni di pietra, fiorito di colonnini, di guglie, rabescato di volute, ricamato a trafori, regnavano da sovrane su la storica città. Gemono e spasimano le campane della Cattedrale di Reims per non potere, quest’anno, mandare nell’aria, i loro squillanti inni di gioia per il satro Natale. E ricordano, ricordano... E, tra loro, le desolate campane, giù in mezzo ai rottami, si raccontano la festività del Natale attraverso. tanti secoli, quando turbe infinite, al loro appello, accorrevano alla Cattedrale su le cui rovine ora piange tutto il mondo civile, e sotto le gotiche arcuate volte cantavano: Gloria g Dio negli eccelsi. e pace in Terra agli uomini di buona volontà! Oh che grandiosità, che bellezza! oh che festa allora! E adesso?... Ahimè, anche per le campane di Reims, come per gli uomini, va bene il grido desolato del Divino Poeta,....«nessun maggior dolore, che ricordarsi del tempo felice nella miseria.» [p. 344 modifica]ricordano, e mormorano tra loro, sommesso sommesso, quasi per paura del nemico barbaro, le glorie civili e religiose della loro Città, della loro Cattedrale, alle quali esse presero parte, celebrandole con la loro voce possente, vibrante dall’alto, accolta nel cuore d’ogni cittadino. Era, allora, l’anima stessa della Città, della Cattedrale magnifica, che parlava con la loro propria voce! E rispondeva ogni eco nell’esultanza; e dovunque e da tutto, dagli uomini e dalle cose, voci si levavano e cantavano con la loro voce solenne, armoniosa che dall’alto della Torre Campanaria di Reims si diffondeva nel ’cielo, su la terra di Francia! giù dalla polvere, tra i rottami, le campane della gotica Cattedrale, a cui guardarono ammirate le generazioni trascorse, stupite nella contemplazione di. tanta bellezza, ammaliate nella misteriosità delle arcate svelte e profonde, affascinate nelle iridescenze mistiche delle vetriate, le campane gemono e plorano adesso colpite al cuore, quasi direi, dal gioioso cantico di pace che si eleva ora sul mondo in.questi giorni del Natale. Ahimè! lb cantano gli Angioli, passando a volo su questo piccolo nostro Pianeta, su questa «aiuola che ci fa tanto feroci» per il furore d’odio reciproco, la smania diabolica 4i conquista e di sterminio, ma uomini non rispondono all’angelico inno, all’invito angelico, chè anzi trascinati inconsapevOli a dar morte e a morire, rispondono: guerra, stragi, carneficine, macello!.2. l’orrendo macello di vittime umane si coniPie proprio in questi giorni quando le campane di tutte le chiese cristiane ancora superstiti, nella demoniaca lotta, cantano: Pace! Che importava se, invocato da una grande mite hanno voluta la spaventevole guerra a3>essero accordato un giorno di tregua al fratricidio di popoli cristiani? Non sarebbe, stata che una ipocrisia di più, per tornare il giorno dopo con più accanimento, allo strazio di corpi, ad inesprimibili agonie di anime, a barbarie inaudite, alla distruzione d’ogni fiore di bellezza d’arte, a bombardamenti, sfracellamenti di chiese dove il giorno di Natale, il Principe della. Pace, grazioso Pargoletto, era sceso, e con le protese manine aveva invocato pace Egli stesso invano purtroppo! dalle belve umane scatenate!

Ma neppur questo si è voluto concedere al Dio della Pace. Oh che grande, immenso rimpianto mi arriva da ogni paese di guerra! E son tutti paesi cristiani, sia pure di confessione religiosa diversa; e tutti hanno le loro chiese, i loro campanili, le loro campane: su tutti, anche se non nel medesimo giorno, la dolce Festività doveva portare la sua candida luce, il suo sorriso, gli inni suoi letizianti da ripetersi nel tepore delle stanze domestiche accanto all’Albero, davanti al Presepio, o nelle chiese sotto lo splendore dei lampadari accesi, tra i profumi d’incenso che salgond a spire opaline, tra le armonie dell’organo che canta: Gloria a Dio nel più alto de’ Cieli, e pace in Terra agli uomini di buona volontà! E da ogni chiesa, o eretta tuttora o devastata ormai, dalle splendide sacre Basiliche secolari come dalle più recenti modeste chiesette, mi vengono gemiti e rimpianti su tutto un passato cosi bello e caro. Ma gemono le chiese di Francia: Ci volevano abbattute, distrutte perchè con la nostra mistica ombra offuscavamo l’osceno tripudiare nelle piazze; ci volevano profanate riducendoci a sale d’immondi spettacoli, ed ecco, ora, le inutili querimonie su le nostre sventure, su lo sperpero, la rovina dei tesori d’arte e di memorie che racchiudevamo nel nostro recinto sacro! Ma noi gemiamo, perdoniamo, e supplichiamo a Dio per gli odiatori nostri! E dicono le campane, Ie grandi campane storiche e le povere campanelle dei villaggi, con voci tremule, angosciate, che misteriosamente passano sopra la terra insanguinata della Francia, e s’incontrano arcanamente per lamentarsi insieme: Sorelle, o sorelle, nella gioia una volta, e adesso nella sventura, col nostro allegro e solenne scampanio, noi li disturbavamo questi signori della Banca, delle industrie, dei commerci, questi eroi dell’affarismo, nel fare i conti delle loro rendite, nel pesare i frutti delle loro losche speculazioni; i nostri suoni lanciati a pieno nell’aria guastavano il filo ai loro intrighi politici, i nostri pii e talora tristi richiami alla tomba, alla morte, li immalinconivano in mezzo alle loro orgie domestiche, e ci volevano mute per sempre, ci volevano giù per sempre dalle nostre aeree dimore; oh, sorelle, gemiamo su la sorte nostra, su quella dei cattivi, perdoniamo e stipplichiamo a Dio per gli odiatori nostri!

GIBSON CHARLES B.

Idee Scientifiche d’oggi sulla natura della materia, dell’elettricità, della luce, del calore, ecc. ecc. alla portata di tutti

Traduzione di LEOPOLDO JUNG,

con 40 illustr. e diagrammi - L. 5,50 [p. 345 modifica]Non sapevano essi capire quanto di lieto e di bello era nelle nostre voci, quante invocazioni sacre mandavamo anche per essi al Cielo, quanti augurii pii avevano per i popoli i nostri rintocchi festanti, le ondate di suoni gioiosi che lanciavamo sopra la terra sempre cara della Francia! E questi gemiti e rimpianti arrivano fino a me per arcane vie, e mi vengono da tutti i desolati paesi dove la guerra inruria, facendo infame scempio di uomini e di cose, e mi prendono e mi struggano il cuore! Ma ecco, le grandi campane di Santa Maria del Fiore, dalla mirabile Torre di Giotto coi loro fiotti d’armonie giubilanti dominano queste intime voci che mi arrivano nell’intimo da lontano lontana, e le sopiscono. Dominano su la bella Firenze avvolta tutta nel velo roseo dei suoi tramonti stupendi, e chiamano il popolo cristiano adla Novena di Natale. Non c’è inno di poeta che uguagli la grandiosità degli inni di queste campane, ripetuti dagli echi dei colli virenti sempre di Bellosguardo e di Arcetri, e che annunziano il Natale che viene. Cntano i loro inni di Natale le campane di Santa Maria del Fiore; e il popolo ascolta i metallici ritmi, e li crede espansioni di tripudio e di esultanza. Ben altro dicono essi a me, che solitario comprendo le intime voci delle cose: dicono essi a me altri gemiti, altri rimpianti. Nelle sonore ondate che fanno quasi direi palpitare la Cupola di Brunellesco e il campanile di Giotto, le campane di S. Maria del Fiore, gemono: O Signore, o Signore, per lo strazio di tanti corpi umani. sfracellati, per tanto sangue versato da orrende ferite, per tante agonie desolate, per tante lacrime di madri, di spose, di orfanelli, per tante vittime innocenti di donne, di fanciulli,.di vecchi, peí- tanto massacro di popoli, per lo scempio sacrilego di tante tue chiese, pace, o Signbre, pace! Non guardare, Signore, ai delitti dei Grandi, dei Potenti; guarda agli umili, ai poveri, ai derelitti dilaniati nel corpo e nell’anma, che non hanno più pane, rion hanno più tetto, non hanno più amore intorno a sè, e dà pace al mondo finalmente! Pace, o piccolo Divino Gesù, per il tuo Natale, cosi luttuoso a tutti quest’anno!... Pace, ngiali del Natale, che sopra la Grotta di Bethlem annunziaste al mondo la pace nella Notte Santa!... Questo dicono a me le campane di Santa Maria del Fiore! E l’ultima eco, spegnendosi come un lamento, un rimpianto accorato, nel diffuso cielo di Firenze geme: Pace, o Signore,• pace (Firenze) Eliseo Battaglia.

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Felice Orsini nel 1849 ad Ancona

Chi lo avrebbe immaginato? Orsini, che nel ’58 doveva inaugurare l’orribile sistema degli attentati moderni a base di bombe e di consimili mezzi distruggitori barbarici, venne chiamato nel 1849 ad un’opera altamente civile di epurazione politica: ad estirpare cioè i metodi terroristici, che avrebbero disonorato la Repubblica romana, se una geldra di sche-

Felice Orsini nel 1849 e 49
da un’incisione del tempo

rani feroci avesse potuto impunemente sfogare i suoi appetiti di vendette e di stragi. «Pochi giorni dopo verificati i poteri (verbale 3 febbraio), fui mandato dal Governo come commissario militare in Terracina, onde reprimere alcuni abusi che si commettevano verso la popolaione e verso chi si credeva aderente alla parte papale dal cap. Zambianchi (2). Non potei riuscire nell’intento, poichè il colonnello Amadei, che doveva prestarmi la forza si ricusava alle mie istanze, temendo che le proprie forze non fossero bastevoli allo scopo. Me ne tornai subito a Roma, onde dare il relativo rapporto al governo». Al triumvirato, composto dell’«insignificante» Armellini: del Saffi «tutto mitezza e filosofia»; del Mazzini, meraviglioso di attività e di finezza diplomatica, ma non abbastanza energico e pratico nell’amministrazione dello Stato, Orsini avrebbe allora [p. 346 modifica]rivolto aspre critiche sull’andamento delle cose, con una lettera che alteramente concludeva «voi mi conoscete, dovete sapere che io non temo nè governi, nè individui, nulla da voi desidero o temo, parlo per solo patriottismo, per solo amore alla causa». Cime per mettermi alla prova. Mazzini mi fece chiamare dal Pistucci, invitandomi (3) «a prender ’una missione politico - militar che niuno voleva. accettare peri pericoli che presentava. Mi si diedero due ore di tempo per riflettere, accettai, e diedi la mia parola d’onore che, a costo della vita, sarei venuto a capo dello scopo governativo, purchè mi si dessero illimitate facoltà, onde non avere reclami all’Assemblea ’Nazinale. • Fui nominato Commissario Civile e Militare della Provincia e Città di Ancona, dove da qualche mese era anarchia, giacche si uccidevano persone di giorno e di notte per private vendette, persone sotto pretesto che fossero avverse al governo repubblicano. Tenuta celata la mia missione per 5 giorni, giacche, conoscendomi, sarei stato ucciso, nella notte del 27 Aprile 1849, ne feci arrestare 21 di questi autori di omicidi; nel giorno seguente altri 5 o sei, la città fu posta in istato di assedio, furono prese,le più severe misure per guarentire la sicurezza dei cittadini, e dopo 24 ore i.detentL, furono per mio ordine imbarcati rimorchiati da un vapore, sbarcati a Fermo, e tradotti nella fortezza di Spoleto; il Console stesso Moore inglese venne in persona a congratularsi meco, come vi avessi potuto riuscire. Senza ch’io mi estenda in questo fatto, se ne possono trovare tutti i dettagli, tanto nei giornali d’allora d’Italia, ed esteri, come nelle storie posteridri d’ogni colore. «I detenuti furono messi sotto consiglio di gite ra, ma sul cadere del Governo Romano ’non avendo io altra missione su quel fatto, nel disordine delle cose furono rimessi in libertà (4). In, Roma ne vidi io stesso parecchi negli ultimi giorni, che mi minacciarono della vita (5). Parecchi di questi, essendo rimpatriati, furono arrestati di nuovo e quasi tutti fucilati.dal governo au’striaco. L’Orsini aveva ragione di r.ffermare con orgoglio che di quei fatti eran piene ie storie: la sua missione d’Ancona costituisce veramente una pagina onorevolissima della sua vita; e dimostra "comé in quella esuberante, squilibrata natura, si combattessero per casi dire due anime — il ribelle e il dominatore, il rivoluzionarib e l’udino temprato ai’ doveri e alle responsabilità del governo. Gli ’istinti violenti romagnoli cedevan luogo alla ragione: l’amore del paese, la fierezza del nome italiano risvegliavano i sentimenti più nobili. Il, suo merito fu allora, in quell’ambiente di scatenate passioni, tanto maggiore, ove si considerino non i soli ’pericoli corsi da lui, ma la infelicissima ín-ova già fatta da altri. A commissari in Ancona la Repubblica Romana aveva dapprima delegato Matiioli Bernabei e Francesco Dall’Ongaro, ottimi ma ingenui patrioti, i quali invece di sradicare la piaga ferro et igni avevan creduto, in un esiziale ottimismo, più opportuno ricorrere a persuasioni e compromessi coi delinquenti, con gli accoltellatori! Nell’intento, dicevano, di frenare con mezzi morali le passioni criminose, il Dall’Ongaro e il s Bernabei suggerirono l’inconsulto partito di raccogliere in una specie di corpo di_ guardie daziarie tutti gli eroi del coltello, pagandoli cinque paoli il giorno, pel mantenimento della quiete pubblica che verrebbe a essi affidata! (6) A questo modo, notava giustamente Orsini si attizzava la fiamma; anziché spegner la: poiché lo stipendio di quindici scudi al mese avrebbe allettato altri scherani a commetter delitti, nella prospettiva di vedersi rimunerati con un posticino lucroso. La vergognosa cancrena esigeva ben altra cura: vibranti di nobile indignazione sono le istruzioni che •"..razzini e,Saffi dieder allora a Orsini (7) «Ancona è ora in preda ’all’assassinio organizzato. Bisogna reprimere e punire. Bisogna che a qualunque patto cessi lo stato anarchico della città. Ci corre, in faccia all’esterno ed’all’interno, della salute del paese e dell’onore della bandiera... Noi consideriamo l’assassinio organizzatci la peggiore delle reazioni e la Repubblica è perduta se inkrece di rappresentare il paese si limita a rappresentare 19 fazione.... Il governo s’anche ’dovesse far convergere ad Ancona la metà delle forze dello Stato è deciso a far eseguire la sua ferma intenzione «che sia fatta giustizia dei delitti commessi.» Appena avviatosi Orsini alla volta d’Ancona, lo seguiva’ (23 aprile) un’altra’ lettera incalzante del Triumviro, ch’era, l’anima di. Roma repubblicana: «...Operate. Le transazioni non conducono a nulla. Oltre il delitto di che si contamina la bandiera della repubblica, oltre il grido che accusa ingiustamente il governo di’ connivenza o di colpevole moderazione, abbiamo reclami minacciosi da Francia e da Inghilterra (8). Bisogna preceder con rapidità e severità. Procedete agli arresti. Organizzate una commissione a modo di consiglio di guerra con un difensore della legge per l’istruzione e un difensore officioso pei rei, scelti fra i militari o legali del luogo. Ponete se occorre Ancona in istato d’assedio (9) finchè non sia compito il vostro dovere. Mazzini». Il manifesto, pubblicato il 27 aprile in Ancona da Orsini, era degno dell’assunta missione: «...La repubblica suona umanità non barbarie; libertà non tirannide; ordine, non anarchia; chi altrimenti pensa non è repubblicano, ed uccide, la repubblica là ove esiste... Io non transigo con alcun partito, con alcuna opinione; punisco il delitto ovunque appare... Cittadini! Gli sguardi e le speranze sono ora rivolte allo Stato Romano; imminenti pericoli forse ne sovrastano: un intervento per parte di una Repubblica. la quale ci dovrebbe essere amica e sorella viene oggi a minacciare la nostra esistenza politica, la nostra nazionalità. Si richiedono per conseguenza da ogni classe di cittadini sacrifizi: è d’uopo essere compatti. uniti, forti; è d’uopo che chiunque semina in questi supremi momenti la discordia, il disordine, la diffidenza. il delitto, sia tolto di mezzo» (10) In M. a. A. narra a lungo Orsini i colloqui avu [p. 347 modifica]ti sia con parecchi rappresentanti dell’autorità, che gli raccomandavan prudenza... per salvare la pelle; sia con burbanzosi militi della guardia nazionale, che credettero d’imporgli con delle proteste e con minaccie di sollevazione. Il commissario del Triumvirato rincorò gli uni, licenziò sdegnosamente gli altri, avvertendoli che la voce paura non esisteva nel suo dizionario, nè egli avrebbe mai tollerato si menomassero i poteri conferitogli dal governo centrale, a cui solo intendeva render conto. La sedizione della plebe anconetana, che si annunciava inevitabile per gli arresti dei facinorosi, non si verificò nè punto nè poco: bastò, a soffocare ogni velleità di rivolta, l’ordine daío ad un capitano di artiglieria di dirigere occorrendo qualche cannonata a mitraglia verso Borgo Pio (ricettacolo dei più esaltati). Nessuno degli accoltellatori arrestati tentò recalcitrare alla forza pubblica:.prova evidente, osserva Orsini, che chi vibra a tradimento le pugnalate nell’ombra, non ha poi il coraggio di affrontare la morte alla luce del sole! Orsini estese anche alla provincia la sua autorità seni dittatoria; minacciò di destituzione parecchi alti ’funZionari (fra cui il fratello di Gacomo Leopardi, direttore delle poste) che trascuravano nè adempievano all’obbligo della residenza.

“Mandai subito ordine che si recassero al loro dovere, sotto pena d’immediata destituzione. Obbedirono.» I funzionari pubblici che volessero esimersi dal, l’incarico pericolóso di seder come giudici nelle corti marziali, furono• avvertiti che la lettera di nomina equivaleva ad una «destituzione dall’impiego» in caso di rifiuto. Per un altro importante episodio si, distinse la missione d’Orsini in Ancona. «Mi trovai pure in obbligo (verbale 3 febbraio) di tenere i fratelli di mons. Bedini e i coniugi Arsigli ( io) tutti di Sinigaglia in custodia, per la sicurezza loro poiché fuggivano le minaccie degli assassini di Sinigaglia: e di tenerli anche in ostaggio per la liberazione del Conte Aldovrandi di Bologna, il quale nell’assalto dato dagli austriaci alla medesima città, essendosi recato al campo come parlamentario fu rattenuto contro il diritto delle genti da mons. Bedini, commissario del pontefice al campo austriaco, come prigioniero. Il Conte Aldovrandi fu subito posto in libertà: e il maresciallo Wimpffen recatosi all’assedio di Ancona mandò subito al comando della fortezza l’atto di sua liberazione. In seguito di che furono restituiti i fratelli Bedini ed i coniugi Arsigli: ma io avevo già lasciato Ancona da parecchi giorni, e mi ero recato a Roma.»

(I) Dal volume Felice-Orsini di Alessandro,Luzio uscito quest’anno coi tipi della Casa Editrice L. F. Cogliatr (L. 4.75) 11 turpe scherano, che la caduta di Roma salvò dalla giustizia della Repubblica. In M. a. A. p. 95 Orsini narra un diverbio avuto più tardi a Genova con lo Zambianchi, che gli rimproverava di non aver agito... da liberale L.. Verbale 3 febbraio. Per opera di Garibaldi, che Mazzini perciò disgustato redarguì, biasimandone l’improvvido ottimismo: cfr. la mia conferenza su Mazzini (Milano, Treves, 1905, p. 144). Lo Zambianchi gli disse che solo per miracolo, non essendo esplosa la capsula d’una pistola, Orsini era sfuggito ad un attentato predisposto contro lui, da parte dei fautori degli assassini anconetani. Beghelli, La Repubblica romana del 1849, •Lodi, 1874, vol. 11 p. 13. Anche il Bonopera, Sinigaglia nel 1848-49 e il processo di Gerolamo Simoncelli, lesi, tip. lesina, 1912, vol. 1, p. 13, ammette che i due eccellenti Commissari «male si apposero anche per consiglio di qualche buono» nel voler soffocare il male «più con la persuasione che con la repressione». Tra i documenti (vol. Il, p. 234) riporta una interessante lettera di G. B. Niccolini, che, mentre inveiva con parole di fuoco contro l’organizzazione dell’assassinio, suggeriva di «rimettere le cose in ordine» più «con le insinuazioni, con le amicizie che con l’autorità»!!! Nel Bonopera si possono trovare già riferiti i brani più notevoli delle opere precedenti che parlano della missione Orsini in Ancona: il Del Vecchio (fase. 13 de’ Documenti della guerra Santa); C. A. Vecchi (Storia di due anni, 1848-49); il Gabussi (Memorie per servire alla storia della rivoluzione degli Stati romani, ecc.) Il Bonopera trascura soltanto i volumi del Beghelli, forse i più importanti per la loro impronta di apologia diretta del Mattini e del San Beghelli, II, 16-18. In M. a. A., p. 81, riferisce Orsini che, sdegnato per l’uccisione d’un prete irlandese, il governo britannico minacciava estreme misure contro la canaglia d’Ancona, con una nave da guerra. ( 9) Orsini, nelle Memorie italiane, sorvola sull’opera sua nel 48-49; ma è strano che rimproveri Mazzini di avergli dato la facoltà di ricorrere allo stato d’assedio: «formole del vecchio dispotismo, che non si sarebbero dovute mai usare» (p. 84). Tanto l’ira contro il Mazzini lo rendeva ingiusto e... smemorato della •vera responsabilità che s’era addossato, nobilmente, egli stesso. (IO) Cfr. Lettere ed. e ined. di F. Orsini, G. Mazzini, G. Garibaldi, ecc., Milano, Sanvito, 1862: p. 418. Tutti gli atti concernenti la missione d’Ancona son tradotti in inglese, in M. a. A.; parte, intercalati nel testo; parte, prodotti tra documenti di appendice. Non m’è riuscito di vedere l’opuscolo raro: Memorie e documenti intorno al governo della repubblica romana per Felice Orsini, Nizza, tip. Caisson e Compagnia, 1850, recante l’epigrafe «cui non piace la verità non legga queste pagine». Il suo contenuto però ci è rappresentato, ad esuberanza, dalle altre pubblicazioni successive di Orsini. (Ne possiede un esemplare la V. Emanuele di Roma). (I I) Nipote di Pio IX: soggiunge in M. a. A., p. 89; cfr. Bonopera, vol. I, p. 45 sg.; vol. Il, p. 206 sg. [p. 349 modifica]De cattà foeura in tutt l’appartament, El canton pussee giust che glre voreva Per pientà su on presèpi, ma coi fiocch, Cont tanta lergna, teppa e tanti sciocchi

Quij bei fiocchitt de nev

parti l’aspettativa del gran dì, Che l’è quell del Nattd, col gran disnà, me regordi che fiutava anmì.A tirò el tavolon per fedi slongà, Curand el moment bon de andà in cusina A saggià el dolz sta faa dalla Cecchina.

Quand vedi a T’egiii giò quij bei fiocchitt De nev, insci legger e insci lusent, Che paren propi tanti cristallitt; Me parlen in del coeur duu sentiment; Vun beli, de pàs e insemma d’allegria, d’alter che me fa malinconia.

quand rivava in ca tutt i parent A fa el Natal cont nun; ah che baccan De ciacier! Che ridad de coeur content! mi ghe andava incontra a batt i man lor a basanum su, damm di regai, Che formen la delizia di bagai.

El primni d’on sentimene, che l’è quell beli, El me riciama alla memoria i dì De quand mi s’era on fior d’on rabotell. De quij propri nassuu per fa immatì per scherzà chiunque mi trovass Alla scoletta, in casa e fina a spass.

l’è a stoo pont chi della Che sont riva«al confin di bei memori, Perchè al de là de stoo confin se inizia El svolgiment de tanti brutt istori: De mort, de malattii, disgrazi orribil. Che se i cuntass ve pareli impossibil.

Quand gh’era giò-ona bella nevicada, Ah che gust trass dent longh e distes ciapà su ona bella infarinada, E vont adosi quell masarott, quell pès, Fa la battaglia a ballotitt de fiacca Per tirassi in del coli o sulla bocca,

L’è motto mei che mi ve disa nient. Perchè noo gh’è de peg per annojà Che cuntà i so dolor all’altra’gent; Però on penser trist vel butti là, E l’è che quand ven già quij bei fiocchitt, Mi pensi ai sofferenz di poverìtt!

scappò giò magari in del cortin A falla su sta nev in d’on monton Cont el bernazz, oppur fa su on balin col girali farm foeura on gran balon. Trasformandel poeu dopo in poporott, Cont la soa brava grotta per stagh sott.; ben divertiment l’era anca quell, De mett foeura on biccer de limonada Sull scoss della finestra e andò a vedell, Dopo on’ora ridotta ona giazzada; Ah che allegria! E come l’era bon Quell giazZ, faa d’acqua zuccher e limon! Ma el spass, tra tuie i spass’el pussee bell, Che in quij tremendi inverni se godeva, Giust riservaa all’età del rabbotell; L’era quand per fortuna succedeva, Che a ona longa e nojosa nevicada Taceass adree el seren e ona gelala. Allora Via a corsa in di Boschett, là, foeura al paltò, dormì in giacchetta, Sbragiand a tutt sbragià come on gallett, Se ghe piccava a fa la scarlighetta Per quasi on para d’òr, de moeud ch’el frecc El me faseva ross fina i orecc. Sti bei fiocchitt me tiren anca in ment El gran defà, l’impegn che mi g’àveva

FEDERICO BUSSI