L'Economico/Capitolo XII

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Capitolo XII

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Senofonte - L'Economico (IV secolo a.C.)
Traduzione di Girolamo Fiorenzi (1825)
Capitolo XII
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CAPITOLO XII.


Ma, gli soggiunsi, non ti trattengo già tuo mal grado, volendotene partire? No veramente, rispose, o Socrate, perchè non me nè anderò di qui prima che al tutto sia disciolta l’adunanza del foro. Certo, dissi, che hai gran cura di non perdere il nome che ti danno di bello, e buono: poichè quantunque per avventura abbia ora molte cose, che richiedono la tua presenza, tuttavia essendoti convenuto con i tuoi ospiti di attenderli qui, vi rimani per non mancare della tua parola. Per altro, disse Iscomaco, non dei tu pensare, o Socrate, che frattanto alcuna mia faccenda mi venga trasandata, perocchè ho dei sopraintendenti nei campi. E quando, diss’io, abbisogni di sopraintendenti, procuri tu di comperarli dove sai che si possono trovare; come abbisognando di alcun artefice, ben so, che sapendo dove esso fosse, procureresti di comperarlo; o piuttosto tu stesso ammaestri quelli, che destini a sopraintendere ai tuoi poderi? Io stesso, disse, o Socrate, ho [p. 69 modifica]cura di ammaestrarli; poichè colui il quale dovrà bastare, quando io non vi sia, a sopraintendere in mia vece, che altro debb‘egli sapere, se non quello, che so io medesimo? E se io sono atto a sopraintendere ai lavori, certo che quello che io mi so, potrò anche insegnarlo ad un altro. Ma perchè alcuno, diss’io, possa fare compiutamente le tue veci, non si richiederà innanzi a tutto che colui porti amore a te, e alle tue cose, perchè, senza di ciò, quale utilità potresti averne dalla scienza di qualsivoglia castaldo? Niuna per certo: ma io in prima mi studio d’insegnargli a portare amore a me, e alle mie cose. Ed in qual modo, dissi, puoi tu ammaestrare chiunque ti piace a divenirti amorevole? Col fargli parte, disse Iscomaco, di quel bene di cui gli Dei ne danno a noi larga copia. Questo adunque, dissi, vuoi tu dire, che quelli che partecipano dei tuoi beni ti si fanno amorevoli, e bramano di ricambiartene col recarti qualche vantaggio. Così è, o Socrate, perchè veggo che questo sì è il miglior mezzo di acquistarsi la benevolenza delle persone. Ma quando anche ti divenga alcuno benevolo, dissi, o Iscomaco, sarà egli pur questo un sufficiente castaldo? Non vedi tu siccome tutti gli uomini portano amore a se medesimi, tuttavia molti di loro niuna cura vogliono prendersi a procacciarsi quei beni, che pure vorrebbero avere? Ma io, disse Iscomaco, quelli che destino ad essere a [p. 70 modifica]castaldi li ammaestro anche a divenir diligenti. E come? dissi. Questo mi pensava che per niun modo si potesse insegnare. E in fatti, o Socrate, non si può già insegnarlo a tutti quanti. A quali adunque, dissi, si può? Fammeli chiaramente conoscere. In primo luogo disse, o Socrate, quelli che non sanno temperarsi dal vino, non potresti mai per alcuno ammaestramento renderli diligenti, perchè l’ubriachezza farebbe loro dimenticare quello che far debbano. Solamente adunque quelli che sono intemperanti nel vino non possono divenir dilìgenti, o ve n’ha altri che pure nol possono? Certo, disse Iscomaco, che ve ne sono degli altri, tali sono i troppo inclinati al sonno, perchè dormendo, nè potrebbero fare le cose che bisognano, nè procurare, che altri le faccia. Or bene, dissi, questi soli non potremo accostumarli a usare quella diligenza, che si richide, o vero anche altri oltre a questi? Parmi anche, rispose Iscomaco, che a qualunque sia vago di attendere agli amori, impossibil cosa ti si renda il fargli di altro aver pensiero, che di questo; poichè non potresti mai trovare nè alcuna speranza, nè alcuna cura che più de’suoi amori lo alletti, nè quando abbia trasandato quello che doveva fare, niuna pena potrebbe parergli più grave, quanto il venire ne’suoi innamoramenti impedito. Coloro adunque che conosco esser tali, io li lascio senza far nè meno prova [p. 71 modifica]di renderli diligenti. Anche quelli, dissi, che sono amanti del guadagno, forse non potranno essere ammaestrati a sopraintendere con diligenza ai lavori di campagna. Non è così, disse Iscomaco, anzi agevolmente condurre si possono a questo, perocchè basta loro dimostrare siccome la diligenza si è cosa, che dà guadagno. Tutti gli altri poi, diss’io, che sanno temperarsi da ciò che hai detto, e che moderatamente amano il guadagno, in qual maniera li ammaestri ad usare quella diligenza, che tu richiedi? In un modo, mi rispose, o Socrate, al tutto semplice: perocchè quando li vedo essere diligenti, e li lodo, e cerco di premiarli; quando poi mi accorgo che alcuna cosa abbiano fatta con trascuraggine, e con le parole, e con li fatti mi studio di farneli ben pentire. Ora, o Iscomaco, soggiunsi, tralasciando di ragionare di quelli che sono ammaestrati nella diligenza, questo dichiarami intorno all’ammaestrare, se è egli possibile, che alcuno sendo esso trascurato, renda gli altri diligenti? Certo, disse Iscomaco, che ciò nulla più agevole gli sarebbe di fare, che non sapendo egli la musica, di rendere gli altri buoni musici: poichè è ben difficile che insegnando il maestro alcuna cosa male, altri apprende a farla bene, e così dimostrandosi il padrone negligente, egli è ben difficile che divenga il servo diligente. E a dirti tutto in breve: di un cattivo padrone [p. 72 modifica]non mi sovviene di aver mai veduto i servi virtuosi, ne ho ben veduti dei tristi anche di un padrone virtuoso; ma questi non erano già impuniti: perciò chi vuole ridurre gli altri a rendersi diligenti, bisogna che egli stesso, e sia pronto a riguardare tutte le opere, che si fanno, e che insieme sappia di quelle farne giudizio, e di ogni lavoro, che convenevolmente sia stato condotto a termine si dimostri largo rimuneratore a chi ne abbia avuto la cura, e che in fine punto non esiti a punire, come sel meritano quelli che vegga essersi diportati con negligenza. Parmi pure, disse Iscomaco, che ben si stia quella celebrata risposta di un barbaro, poichè narrasi, che il re avendo un assai buon cavallo, e bramando di prestamente ingrassarlo domandò uno di quelli che avevano fama di essere intorno ai cavalli molto intendenti qual cosa facesse prestissimo divenir grasso un cavallo, e quegli si dice gli rispondesse, che ciò il faceva l’occhio del padrone. Così a me pare, disse, o Socrate, che anche molte altre bellissime e maravigliosissime cose l’occhio del padrone possa operare.