La Scolastica/Prologo primo

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Prologo primo

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Prologo secondo
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PROLOGO

COMPOSTO DA GABRIELE ARIOSTO.1


Io son mandato a recitare il prologo
D’una Commedia detta La Scolastica.
Così volse l’autor nomar la favola,
Apparecchiata per mostrarsi in pubblico,
Per due scolar che in essa si contengono;
Che non tanto occupati nelle lettere
Eran, ch’in parte ancor non s’adoprassero,
Come pur s’usa, in fatti delle giovane.
Dico ch’io son mandato a far il prologo
Da chi si ha tolto in compiacervi studio:
Nel qual non ho a tener lo stil medesimo
C’hanno tenuto questi nuovi comici,
I quai non hanno fatto a lor commedie
Argomento, o risposto alle calunnie

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Che le2 sian date da qualche lor emulo,
Come fe Plauto e come fe Terenzio;
Ma si son posti a scalcheggiar3 le femmine
A dritto ed a rovescio, pur toccandole
Quanto posson nel vivo, ed in quel proprio
Che non è bel da scriver. Nè comprendono
Come l’impresa sia di poca gloria;
Chè si sa ben com’elle sono facili
Da superar, chè addietro si rovesciano
Per poca spinta e non senza pericolo:
Chè se ben non si rompon spalla o gombito,
Avvien per la caduta che si gonfiano
Spesso sì forte, che par un miracolo.
Adunque, in vece d’argomento scrivere,
Risponder a calunnie e donne offendere,
Farà il prologo nostro un altro officio.
Io dico, che poc’anzi il vostro comico
Che rendesse4 alla terra il corpo, e l’anima
All’eterno Motor, una Commedia
Aveva principiata, e preparavasi,
Com’avea fatto l’altre, trarla all’ultimo:
Però ch’avéa sempre intento l’animo
A farsi grata la mente del prencipe,
Di forastieri, cittadini e nobili,
Che di sue finzïon tutti godeano;
E più volte n’avéan goduto in pubblico
Ed in privato, tal che ancor sen laudano.
Esso dunque mancato, mancò l’esito
Alla favola, non già il desiderio
A chi n’aveva veduto il principio.
Di qui nacque, che molti amici intrinseci
Del mancato poeta, si voltorono
All’un dei tre fratelli che superstiti
Gli restaron, pregandolo e strignendolo
Che volesse dar fine a questa favola.

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E ad uno argomento tutti andavano:
Ch’era a lor stato un precettor medesimo,
E ch’ambi avéan seguiti i stessi studii;
E che il tempo non meno all’un propizio
Era stato ch’all’altro, perchè varia
Non molto era l’età. Questo allegavano;
Ma cantavano al sordo. Conoscevasi
Ei d’ingegno e di forze assai più debole,
Che non bisogna a simil essercizio.
Altro ci vuol ch’aver visto grammatica,
Ed apparati gli accenti e le sillabe,
Studiato la Poetica d’Orazio,
E divorati quanti libri stampansi!
È bisogno che ’l Ciel per quel s’adoperi,
Ch’abbia da scriver versi e ornare i pulpiti
Di bei suggetti. Ed oltre ancor avvidesi
Come difficil fusse ed impossibile
Indovinar ch’abbia voluto fingere
Il primo autor dell’opra, per concludere
Il cominciato oggetto; e persüasesi
Che più facil saría farn’una d’integro.
Altre ragioni ancora l’avvertivano
A non ridursi sotto il contubernio
Delli poeti, quando par che siano
In questa nostra età com’un ludibrio.
Non basta che sen’ passin senza premio
Le lor fatiche e lor lunghe vigilie,
Chè lor sono attaccate mille infamie.
Dicon che li poeti sono increduli
Delle cose divine, perchè parlano
Talor di Giove e talora di Venere:
Ma tai calunniatori poco pescano
Al fondo. Ora non vô su tal materia
Entrar più addentro, nè far il filosofo,
Quando appena son atto a dir un prologo.
Dicon piacersi ancor col bue e con l’asino.
Io non intendo ben questo proverbio:5
Ma non è mal che d’ogni cosa facciasi

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Quando bisogna. A torto gli condannano,
Che qual sansuga il sangue vivo cavano
A chi s’appiglian, che suoi versi ascoltino.
Ma quai son quei che ne’ suoi fatti propii,
Ove intervien la gloria, non si perdano?
Sono lor date ancor altre calunnie,
E pur a torto; in che non voglio estendermi.
Restaro6 adunque satisfatti gli animi
Degli prenominati, che voleano
Ch’e’ si giungesse il fin alla Commedia.
Ma dopo, molti giorni non passarono,
Ch’ebbe notizia come ancora il prencipe
Desiderava che tirata all’ultimo
Pur l’opra fusse: e non già perchè intendere
Glielo facesse, perchè un buon giudizio
Potéa comprender, come sopra ho dettovi,
Ch’egli non era a questo fatto idoneo.
Dunque ogni studio, questo di cui parlovi,
Pose in far cosa grata a sua eccellenzia:
Nè sapendo a chi altri meglio volgersi,
Con umil prieghi e lacrime delibera
Tentar se del fratello può trar l’anima
Alle parti7 superne, acciò che gli esplichi
Il fine risoluto della favola.
A lui dunque si volge, e di ciò pregalo,
E la mente del prencipe fa intenderle,
Col ricordarle il lungo e grato ospizio
Avuto in la sua corte, con le grazie
Che benigne le ha fatte8 senza novero.
Tre volte e quattro avéa le sollecite
Preci iterate, quando apparve in sonnio
Il fratel al fratello, in forma e in abito
Che s’era dimostrato sul proscenio
Nostro più volte a recitar principii,9

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E qualche volta a sostenere il carico
Della Commedia, e farle servar l’ordine.
E disse: — Frate, i tuoi frequenti stimoli,
Ma più la reverenzia del mio prencipe,
M’ha tratto a dirti il fin della Commedia.
Bisogna che tu intenda la memoria
Sì ben, che sia bastante recettacolo
Al molto ch’ancor resta per concludere. —
Mancava a farsi giorno ancor buon spazio,
Quando egli cominciò dal loco proprio
Ov’era monca l’opra, e con bastevole
Pronunzia la ridusse in fino all’ultimo,
Quando si dice: — «O spettatori, andatene
In pace;» — e ciò finito, in pace andòssene.
E chi ascoltato avéa si levò subito;
E già veggendo il sole i raggi porgere,
Tal che luce potéa dare allo scrivere,
Non si fidando ben della memoria,
Non si volse levar di mano il calamo,
Che scrisse il compimento della favola
Come gli avéa dettato la santa anima.
Ascoltarete adunque La Scolastica
Fatta dal vostro poeta tutta integra:
E quando vi paresse alquanto vario
Lo stile aggiunto, non vi paja stranio;
Chè non son però i morti a’ vivi simili.
Dirànvi l’argomento, come sogliono
Dirvi, quei primi che verranno in pulpito.
Quei stiano attenti, a’ quali le commedie
Piaccion: a cui non piacciano, si partino;
Ovver, mirando questi volti lucidi
Di tante belle donne, stiano taciti.



Note

  1. Mancante perciò nell’autografo, e ristampato da noi secondo la lezione trovata dal Barotti nell’esemplare condotto per mano di esso Gabriele.
  2. L’ediz. del Grifio ha, forse men male: li (a cui, per errore, séguita: fian). I moderni corressero: lor. Che a Gabriele però fosse abituale cotesto error di grammatica, ne dànno indizio anche i versi 21, 22 e 24 della seguente pag. 426.
  3. Qui per maltrattare, malmenare, come spiegava il Brambilla in un luogo del Boccaccio, a cui pur accadde di usar questa voce nella controversa, pur sempre antica, Lettera al Priore dei Santi Apostoli.
  4. Che poc’anzi che il vostro comico rendesse ec.
  5. Che qui, secondo noi, ha senso osceno. Questo proverbio è, di sua natura, applicabile a diversi propositi; cioè sempre che l’uomo faccia uso di cose diverse ad un fine medesimo. Può rivedersi il Negromante, pag. 384, ver. 3.
  6. Questa a noi pure sembra, coi più, la più ragionevole lezione; benchè le stampe del Grifio e del Giolito portino Restano, e il manoscritto del Barotti non abbia qui correzioni.
  7. I moderni (ed è chiaro per quale scrupolo): Dalle parti.
  8. Intenderle, ricordarle, le ha fatte, sono nel manoscritto del Barotti. Quando, dunque, non si avveri il supposto da noi nella nota 1 della pag. 424, converrà dire che Gabriele riferir volesse questi tre pronomi, piuttosto che a fratello, ad anima.
  9. Delle notizie che possono raccogliersi da questo Prologo, non ci pare che profittassero sin qui abbastanza i biografi di messer Lodovico.