La colonia italiana in Abissinia/XV

Da Wikisource.
XV

../XIV ../XVI IncludiIntestazione 7 novembre 2022 75% Da definire

XIV XVI
[p. 126 modifica]

XV.


L’apologia di me stesso — Pioggia — Una piaga d’Egitto. I termiti in casa — Ancora le locuste — Lucertoloni, vipere e serpenti — La lucertola e la vipera — Scomparsa dei flagelli.



Infatti Glaudios aveva saputo, in sì breve tempo, attirarsi l’odio di tutta la colonia a segno tale che stavasi già macchinando da qualcuno degli indigeni qualche brutto tiro per levarselo dai piedi.

Nè questo io scrivo per mettere in evidenza le altrui mancanze e scusare a questo modo le mie, dappoichè io sappia, e con me lo possa sapere ognuno, che tutti in generale abbiamo dei difetti. Ma se pure io credo d’averne avuto qualcuno, si fu quello certamente di non essermi mai lagnato di nulla, e di essere stato sempre nascosto dietro a tutti, molti dei quali, con poca coscienza, seppero, in vista della mia debolezza, approfittarne a mie spese e farsi belli — come suol dirsi — colle penne altrui. [p. 127 modifica]

In forza di ciò non vi fu mai il caso ch’io fossi stato preso un po’ in considerazione e, pur troppo, mi lasciai sfuggire più di un’occasione di occupare qualche posto che avrebbe potuto bastare alla mia sussistenza.

Ora è vana ogni recriminazione.

Feci parte della Colonia nella prima spedizione, vi posi tutta la mia laboriosità, esposi la mia vita, fui tra i primi a sopportare fatiche e sacrifizi d’ogni genere, non perdetti mai del mio tempo per cose dappoco, ma costrussi capanne per me e per altri, lavorai terreni, feci da manovale e da ingegnere, cercai di essere giovevole al prossimo e procurai di esser buono e leale amico di tutti; eppure, come ne venni ricambiato?

Negli ultimi tempi, allorchè giunse a Keren Pompeo Zucchi e domandò ragguagli della colonia, fu lo spagnuolo che glieli diede a suo modo, perorando pro domo e diminuendo a tutti del proprio merito.

E pare che sul mio conto avesse impastocchiato qualche cosa di grosso, poichè, a quanto potei rilevare in appresso, il signor Zucchi mi tenne in conto di un fannullone, e sparlò di me più e più volte; e, dopo il suo decesso, la signora Elena, sua consorte, e la loro figlia, mi trattavano con riserbo e con severità, finchè un giorno mi chiarirono del tutto.

Nè parvero persuadersene alle parole di giustificazione ch’io proffersi, neppure quando parlarono in mio favore le testimonianze di alcuni tra i miei amici, sicchè, punto nel mio amor proprio, e stanco di servire di zimbello ad alcuno, mi decisi a lasciare il padre Stella e Bonichi, i due miei strenui difensori, e dividermi da tutti abbandonando Sciotel, incontrando persino difficoltà a portar meco il fucile per difendere la mia vita a qualunque evenienza. [p. 128 modifica]

Di questi fatti, siccome avvenuti posteriormente, serbo a più tardi la narrazione, ripigliando ora il filo della mia storia, interrotto per uno sfogo di giusto risentimento.

Avvicinavasi ormai la stagione delle pioggie. Un giorno infatti il sole si era nascosto dietro a fitte nubi grigiastre, che si stendevano sopra la vasta pianura del Barka. Poco a poco il temporale si sviluppò e piovve abbondantemente.

Questo sarebbe stato il minor male; ma ciò che tenne dietro alla pioggia si fu un’altra pioggia di nuovo genere, mille volte più molesta, una vera piaga d’Egitto, la piaga delle locuste.

E ne caddero in quantità sì grande, non altrimenti che quando fiocca la neve e copre i terreni, gli alberi, le case, tutto insomma che trovasi allo scoperto.

Il padre Stella ricordavasi di aver sopportato altre volte una siffatta molestia, e notava che quel flagello rinnovavasi da tre anni a quella parte puntualmente in quella stagione.

Due interi giorni piovvero cavallette; due giorni intieri! Qual danno abbiano arrecato alle piantagioni, e quali disturbi a noi ed ai nostri animali, lascio al lettore l’immaginarlo.

E quasicchè fosse poco, eccoci verso l’imbrunire del secondo giorno del flagello, giungere alcuni indigeni a darci la sconfortante notizia che alcune schiere di Démbelas erano discese nei nostri campi e scaltramente avevano rubato le lancie e gli scudi che i nostri uomini avevano messo in disparte durante i lavori campestri.

Noi corremmo in soccorso dei nostri, ma i predoni avevano levato il campo e si erano ritirati al di là dei monti. [p. 129 modifica]

Passato in bene siffatto incidente, ecco, alcuni giorni dopo, ricomparire le locuste, la cui presenza produceva un ronzìo tanto forte da farci credere allo straripar di un torrente, o al precipitar d’una frana, o al lontano rombo del tuono, o alla caduta di una fitta e minutissima gragnuola.

Per questa seconda visita importuna, le piantagioni furono totalmente distrutte; del cotone non se ne parlò più; solo il frumento ebbe la forza di resistere, ma era destino che anche di quello non avessimo avuto a servirci, imperciocchè il passaggio degli elefanti ce lo distrusse completamente.

Il giardino di Colombo fu il solo che potè sottrarsi agli effetti del flagello, mercè la sua attività nel cacciar le locuste, menando colpi di bastone qua e là, schiacciandone parecchie, fugandone molte.

Gl’indigeni andavano raccogliendole, servendosi di una specie di spiedo di legno col quale le infilavano; poi le mettevano al fuoco, e quand’erano abbrustolite, se la mangiavano in santa pace e col miglior appetito del mondo, come noi facciamo scricchiolar sotto i denti una frittata di piccoli pesciolini.

Ce ne offersero, a dire il vero; ma, com’è ben naturale, ce ne schermimmo con garbo; nè perciò se ne adontarono.

Cessò il flagello anche la seconda volta, ma quegli insetti noiosissimi avevano nel frattempo deposto già le loro uova; sicchè, in capo ad alcuni giorni, non più dall’alto, ma dal seno della terra, ecco ripullulare i piccoli, e rinnovarsi la innondazione delle altre due volte, con questa sola diversità che il colorito delle prime era giallastro, quello delle ultime d’un nero lucente. [p. 130 modifica]

In breve sparirono anch’esse, nè più le vedemmo ricomparire.

Ma era destino che tutto congiurasse ai nostri danni, poichè alle cavallette tennero dietro i termiti. E tanti e sì grossi ne avemmo, che persino le nostre brande ne riboccavano. Le nostre povere carni potevano far fede che i morsi di quegli insetti erano qualche cosa di più acuto che quelli delle zanzare delle nostre maremme; qualche cosa più torturanti che l’effetto della compressione o dello sfregamento delle nostre rughe.

Dormire non era possibile; per cui, anche le ore destinate al riposo dovevamo impiegarle nel dar loro la fuga, accendendo fuochi da una parte delle loro ingegnose catacombe, perchè uscissero dall’altra e s’inducessero a mutar domicilio.

Appena uscivano all’aria aperta, le loro quattro ali spiegavano tosto e svolazzavano per breve tempo; dopo di che si riducevano a terra, ove, per nostra ventura, i famosi formiconi, loro accaniti avversarî, impegnata una lotta mortale, riuscivano a domarli e trascinarli seco nelle loro impenetrabili tane.

Le pioggie venivano accompagnate da violenti commozioni dell’atmosfera; scariche elettriche in quantità, persino un fulmine cadde sul Zadamba, scrostando la montagna, e facendone precipitare i massi giù giù sino al nostro altipiano.

Nè era ancor tutto; anche le lucertole, le vipere, i serpenti vennero ad invadere il nostro territorio.

Un giorno mi trovava montato sul muro del famoso castello, quando fui vivamente colpito dall’apparizione di alcuni serpenti di vario colore e grossezza, per la qual cosa non è a dirsi con quanta fretta cercassi di svignarmela e di riunirmi ai compagni. [p. 131 modifica]

Forse quegli ospiti credevano ch’io avessi fabbricato quel castello precisamente per essi, giacchè, a quanto potei rilevare, era da parecchi giorni che vi si trovavano installati.

Quando fui a terra, slanciai dal di fuori, nell’interno del castello, contro i medesimi, delle grosse pietre allo scopo di farneli uscire; ma quel giorno non ottenni alcun risultato.

La sera appresso, mentre mi trovava a sedere sulla soglia della capanna rotonda, vidi uscire dal castello una vipera che dava la caccia ad un lucertolone, ed afferratolo, si dava ogni cura per cominciare a divorarlo. Io balzai in fretta, presi una pietra e la scagliai contro a quel gruppo. Ebbi la fortuna di coglier nel segno, giacchè immediatamente la lucertola fu libera e la vipera spiccò un salto sopra alcuni massi vicinissimi al sito in cui mi trovava.

Poscia il rettile si rizzò sulla punta della coda, e ravvisato in me il suo avversario, stava per ispiccare un nuovo salto nella mia direzione. Io fui sollecito a ritirarmi entro la capanna, montando sulla branda e guardando fisso all’ingresso, ove mi aspettava di vederla a piombare. Ma per fortuna non la vidi più.

Messi a parte gli amici della faccenda delle vipere e dei serpenti, diemmo loro la caccia, sicchè il castello e le adiacenze furono in breve liberate anche da quest’ultimo flagello.