La rivoluzione di Napoli nel 1848/47. Quistione delle imposte

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47. Quistione delle imposte

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[p. 178 modifica]47. Appena la Camera si fu costituita pose mano ad un atto importante. Il ministero Cariati aveva demolito da cima a fondo lo Statuto: il paese fremendo aveva assistito all’incruento e giornaliero sacrifizio. Era dunque dovere dell’assemblea metterlo in istato di accusa. Transigendo colle calamità dei tempi, [p. 179 modifica]ristette innanzi alla guerra civile di cui andava a gittare il guanto. Però non patteggiò nè con l’opinione pubblica, nè con la sua coscienza. In luogo dell’atto di accusa formolò una domanda al re in cui, enumerando energicamente e con franchezza tutti i delitti e le violazioni commesse, chiese che il ministero Cariati fosse dimesso, ed un altro più omologo alla situazione del paese e dell’Europa fosse creato in sua vece. E per usare dell’antica pratica dei parlamenti inglesi, i quali per allargare sempre più il cerchio delle libertà popolari, univano le petizioni ai bill di sussidio; alla domanda associarono il progetto di legge che autorizzava il governo ad esigere le imposte per due mesi sul sistema stesso dell’anno trascorso. Per distornare quest’uragano il ministro Ruggiero, ribaldo sfrontato, ebbe l’impudenza di domandar conciliazione, e proporre una legge che autorizzava il ministero per sei mesi a percepire le imposte. Silenzio glaciale e severo accolse le sue parole, che caddero sulla assemblea come sopra un pavimento di marmo. Il progetto ministeriale fu respinto, quello della Camera votato. Il ministero sapeva che l’antipatia del popolo contro la Camera dei pari erasi estesa fino ai rappresentanti, e che perciò poteva farne facile strumento di vendetta e di dissidio. Questo consesso, che nella prima sessione erasi divertito a prepararsi un letto di morte nella discussione dei suoi regolamenti, aveva adesso dato segno di vita, ma solamente per assolvere il generale Filangieri dalle crudeltà di Messina, e per udir dalla bocca di Emiddio Cappelli delle insolenze plebee, plebeiamente profferite, contro la Camera dei deputati. Il ministero trasportò nel suo grembo la discussione [p. 180 modifica]impegnata con i rappresentanti. Se avessero avuto pudore e giudizio, avrebbero compresa la ignobile parte che il ministero imponeva loro, e dichiarata la incompetenza. Lo statuto, sotto questo rapporto, era chiarissimo. Ma lo Statuto non era stato mai di ostacolo alla volontà del governo: ed i pari, che avevano coscienza della propria nullità, accolsero la palla al balzo, contenti di potersi dare una volta un tantino d’importanza e far sapere al mondo che esistessero. I deputati potevano e dovevano semplicemente protestare contro il fatto del governo e della parìa, e declinare la loro competenza, se non altro per non sanzionare un precedente funesto, che sovente ha vigore di legge in fatto di procedura parlamentare; ma essi vollero dimostrare che niuno spirito di ostilità preconcepita li dominava, e che se non volevano transigere col ministero, per non dividere la complicità, non erano alieni ad intendersi col capo del potere esecutivo. Proposero quindi una libera conferenza tra i delegati di ambe le Camere, e di attenersi alle decisioni che essi avrebbero emanate. La commissione si accolse: e la condanna del ministero, che non era stata pronunziata prima se non dai soli rappresentanti, fu convalidata dalla Camera dei pari col voto che rigettò la sua domanda, e si attenne a quella dei deputati con qualche insignificante cangiamento. Esso ne fu umiliato, ma non scompigliato; perchè omai erasi assuefatto a non rinculare in faccia ad alcun delitto. Allora si sparse la voce che l’assemblea sarebbe stata disciolta, e la legge elettorale provvisoria, emanata dal governo, per la quarta volta modificata. I deputati sanzionarono la legge; il che accelerò lo scioglimento. [p. 181 modifica]

Alle complicazioni interne si erano aggiunte le novelle del rimanente d’Italia.