La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XVI

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Capitolo XVI

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Capitolo XVI

L’assalto del fortino

Durante tutta la notte i giavanesi bivaccarono al chiaror di mille fuochi, sotto gli occhi degli olandesi, ma fuori di portata dai fucili e dalle spingarde.

Gli assediati non avevano però perduto il loro tempo.

Giovanni poté vederli affaccendati a erigere sulla cinta monticelli di terra battuta per mettere gli artiglieri al riparo dalle offese, spezzare dei ponti levatoi e collocare le artiglierie nei punti meno difesi.

Si capiva che si preparavano ad una difesa accanita e che non intendevano arrendersi, malgrado l’enorme superiorità del nemico.

Al mattino, Nigoro fece disporre i suoi diecimila uomini per l’assalto. Munì alcune schiere di grossi fasci di legna per riempire il fossato, ed altri di scale di bambù per appoggiarle alle muraglie, poi, fatto spiegare la sua bianca bandiera, gridò con voce stentorea:

– Viva Giava! E avanti!

Il piccolo esercito vi rispose colle grida di: – Viva Nigoro! – e si slanciò all’assalto, con Nigoro e Giovanni alla testa.

A duecento metri le spingarde del forte fecero fuoco nel più folto delle file nemiche. I giavanesi vi risposero con vivissime scariche di moschetteria e si avanzarono rapidamente, sotto il fuoco micidiale dei difensori del forte. Nuvoli di fumo avvolsero in breve le mura, mentre le grida di guerra, le fucilate, il cupo rimbombo delle due spingarde e le urla dei feriti, formavano un fracasso assordante.

Numerosi giavanesi, fulminati dalle scariche delle spingarde, cadevano lungo la via, ma gli altri non si arrestarono e, gettati i fasci di legna nel fossato, si avventarono contro le mura.

Intanto un centinaio d’uomini, preceduti da Nigoro, atterravano le porte colle accette; la mitraglia e la moschetteria però li decimarono, costringendoli di frequente a ritirarsi.

Nigoro era rimasto nondimeno dinanzi ad una porta. Afferrò una grossa piccozza, e maneggiandola con erculea forza, si mise a batter vigorosamente le tavole tentando di schiantarle, aiutato da alcuni dei suoi, ma dovette ben presto abbandonare anche lui l’impresa.

Allora, strappata una scala dalle mani di un giavanese, l’appoggiò alla cinta, e stringendo la piccozza, montò all’assalto, seguito da Giovanni e da Kedir-Peng.

I suoi guerrieri, vedendolo salire coraggiosamente, appoggiarono le loro scale, e malgrado il fuoco di moschetteria che li decimava, con alte grida, si slanciarono sulla muraglia, distruggendo tutto ciò che si parava a loro innanzi. Nigoro, giunto pel primo sulla cima, abbatté il comandante olandese, indi, come un leone ferito, si avventò in mezzo ai nemici; seguito sempre da Giovanni e da Kedir-Peng. Quasi nel medesimo istante gli altri giavanesi giungevano pure sulle mura, costringendo gli olandesi a ritirarsi.

Abbandonata la cinta, gli assediati cercarono ripararsi nell’interno del forte. I giavanesi, preceduti da Nigoro, Giovanni e Kedir-Peng, entrarono, contemporaneamente agli olandesi, sfondando le barricate e impadronendosi delle spingarde. Nondimeno un centinaio di olandesi erano riusciti a barricarsi in uno stanzone del forte ed opponevano una disperata resistenza, rifiutando di arrendersi.

I giavanesi, risoluti a finirla, sfondarono a colpi di scure le porte e le finestre ed irruppero furiosamente nell’interno.

Gli assediati opposero una fiera resistenza, vendendo cara la vita, poi, oppressi dal numero, caddero sotto i pugnali dei vincitori, prima che Nigoro potesse strapparli al furore dei suoi guerrieri.

Pochi minuti dopo, la bandiera olandese veniva ammainata, innalzando invece quella di Diepo-Nigoro.

– Lasciamo questo luogo, – disse Diepo, trascinando con sé Giovanni. – Questi morti mi fanno orrore.

– Cosi è la guerra, Nigoro, – disse il piantatore.

– Purtroppo, – rispose il gran capo con un sospiro. – Venite, noi stiamo per ripartire.

– Dove andiamo?

– Verso Samarang.

– Volete assediare quella piazza?

– Lo tenterò, – rispose Nigoro. – Essa mi è necessaria.

Quando uscirono nella spianata, i ventimila uomini che erano rimasti indietro, si trovavano schierati in bell’ordine e pronti a marciare. Nigoro ordinò che cinquecento uomini rimanessero a guardia del forte, poi diede il segnale della partenza.

Un istante dopo, l’esercito si rimetteva in marcia.

Alla sera, quei trentamila uomini si accampavano in una prateria immensa, lontana trenta miglia da Samarang.

Mentre si accendevano i fuochi, Nigoro e Giovanni fecero un giro pel campo, onde vedere se le sentinelle erano state bene disposte.

Passando vicino a una tenda, Giovanni, con suo grande stupore, vide alcuni guerrieri che mangiavano una specie di terra cotta.

– Che cosa mangiano? – chiese Giovanni.

– L’ampo, – rispose Nigoro, sorridendo.

– Ah! Lasciatemi veder questo ampo. Ne udii parlare parecchie volte, anzi mi dissero che lo si vendeva sui mercati di Samarang e di altre città.

Nigoro si avvicinò alla tenda e si fece dare un pezzo di quella terra. Giovanni la prese e l’esaminò con curiosità. Era un pezzo di argilla ferruginosa, cucinata e di forma oblunga. Si provò ad assaggiarla, ma aveva un gusto di arso, insipidissimo.

– È terra cotta, – disse.

– Questa sostanza – disse Nigoro, – è assai usata nelle regioni del sud e del centro dell’isola, e specialmente le donne ne sono avidissime. Essa però intacca la lingua e la dissecca dolorosamente.

– E perché allora la mangiano?

– Molti la usano per dimagrare, giacché sapete che a Giava è un pregio l’esser magri.

– Sono pazzi.

– Eppure qualche volta l’ampo è utile, specialmente in guerra, giacché basta mangiarne un po’ per calmare la fame. Però chi lo usa per un certo tempo, non può più astenersene, e non cessa finché non diventa tisico e muore.

Compiuto il giro del campo, Nigoro ed il piantatore fecero ritorno alle loro tende dove li attendeva la cena.