La vendetta d'uno schiavo/Capitolo XVII

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Capitolo XVII

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Capitolo XVII

Il capo dei giavanesi di mare

La colonna giavanese, dopo una notte tranquilla, si era rimessa in cammino da tre ore, quando giunse presso una grossa borgata, sulle cui capanne sventolavano parecchie orifiamme coi colori di Diepo-Nigoro.

Quel villaggio si componeva di cinquanta capanne, costruite secondo lo stile giavanese, cioè ad un sol piano, col tetto inclinato e formato di tronchi d’alberi e di canne di bambù. Era abitato da oltre mille indigeni, i quali avevano già abbracciata la causa di Nigoro.

Il loro capo fece la più festosa accoglienza all’esercito insorto. Nigoro, Giovanni e tutti gli altri capi, furono alloggiati in una comoda capanna, mentre che i guerrieri si accampavano sul piazzale e nei dintorni.

Ai soldati furono distribuiti dei sacchi di riso, e ai capi invece furono dati dei pasticci composti di cavallette e di pesciolini salati e seccati al sole, un piatto molto apprezzato dai giavanesi.

Alla sera il capo divertì i suoi ospiti con delle lotte di galli. Quei battaglieri pennuti vengono importati dal Borneo e dalle Celebes e combattono senza sprone. Come in Inghilterra, nel Perù e Chilì, si fanno grosse scommesse. Alcuni giungono fino a giuocare le loro armi, le loro capanne, e perfino la loro moglie.

Dopo la lotta dei galli, il capo volle completare il divertimento con una danza chiamata il tandak. Venti ballerine, chiamate dagli indigeni ranguine, improvvisarono un’azione coreografica che non mancava di grazia né di eleganza, accompagnate da alcuni istrumenti musicali.

Il mattino seguente, Nigoro prendeva commiato dal capo, il quale volle fornirlo prima di abbondanti viveri e cedergli cento dei suoi guerrieri, pratici del paese.

L’esercito camminò l’intera mattina in mezzo a boschi assai fitti, attraverso a gole selvagge, volendo evitare le posizioni olandesi, e nel meriggio giungeva, in completo disordine, in causa delle accidentalità del paese, in una grande vallata. Nigoro, volendo esplorarla, si spinse innanzi con Giovanni e Kedir-Peng. Si erano già allontanati un miglio, quando udirono un grido echeggiare presso il margine d’un boschetto.

Nigoro fermò di botto il suo cavallo.

– Avete udito? – chiese, volgendosi verso i suoi amici.

– Sì, – risposero Giovanni e Kedir-Peng.

In quel medesimo istante uno sparo risuonò, seguito da altri due e da un urlo di dolore.

– Accorriamo, – gridò Nigoro, spronando il cavallo.

Giovanni e Kedir si slanciarono dietro di lui, armando i fucili. Nel bosco si udiva il galoppo d’un cavallo lanciato a tutta velocità.

– Mano alle armi, – comandò Nigoro.

Ad un tratto un cavaliere, che montava un superbo cavallo, apparve. Era giavanese, un capo, a giudicarlo dalle tre penne bianche che gli ornavano la testa. Con una mano si premeva il petto, da cui usciva un rivo di sangue.

– Tu, Kantok! Il capo dei giavanesi di mare, – gridò Nigoro, fermando il cavallo.

– Sì, – rispose il cavaliere, con voce fioca.

– Sei ferito forse?

– Sì. Due olandesi che si tenevano imboscati, mi hanno cacciato una palla nel petto, – rispose egli barcollando sulla sella.

Nigoro scese da cavallo e lo afferrò fra le robuste braccia, deponendolo a terra.

– Perché sei venuto qui? – gli chiese.

– Cattive notizie, gran capo, – disse il ferito che sembrava agli estremi.

– Quali nuove?

– Tre vascelli olandesi incrociano dinanzi al villaggio, e minacciano di sbarcare per distruggere i vostri depositi di munizioni.

– E non li avete assaliti?

– Eravamo troppo pochi per sperare la vittoria, – mormorò il ferito.

– Esaminiamo la tua ferita; forse non è pericolosa – disse Nigoro, scoprendogli il petto.

– È inutile, gran capo, sono ferito a morte!

– Almeno ti vendicheremo, ma dimmi, i prahos sono stati distrutti?

– No! Sono salvi.

– Venivi a domandarmi dei soccorsi?

Il morente fe’ un cenno affermativo col capo, poi tutto d’un tratto ricadde, rimanendo immobile. Il capo dei giavanesi di mare era morto.

Nigoro allora si rizzò cogli occhi scintillanti, dicendo:

– Vendichiamolo, amici, – e risalito in sella lanciò il suo cavallo nel bosco, seguito da Giovanni e da Kedir.

Poco dopo udirono alcune voci, poi videro due olandesi, i quali, appoggiati ad un albero, discorrevano fra di loro. Al rumore che fecero i giavanesi, si rizzarono di botto, coi fucili in mano.

Nigoro, Giovanni e Kedir piombarono su loro coi kriss nella dritta e la pistola nella sinistra.

I due olandesi puntarono i loro fucili, gridando:

– Arrendetevi!

– A morte! – urlarono i tre cavalieri.

I due colpi partirono. Giovanni sentì una palla fischiargli agli orecchi, mentre l’altra colpiva il cavallo di Kedir-Peng, il quale cadde trascinando seco il suo padrone.

Gli olandesi cercarono di darsi alla fuga, ma Nigoro piombò sul più vicino immergendogli il kriss fra le due spalle. L’altro si lanciò sul gran capo tentando di ucciderlo col calcio del fucile. Già stava per abbatterlo, quando Giovanni si precipitò su lui, scaricandogli addosso una pistola.

– Grazie, amico, – disse Nigoro, mentre il secondo olandese cadeva stecchito.

– Questa rivincita ve la dovea, – rispose Giovanni, sorridendo.

– E Kedir, dov’è?

– L’ho veduto cadere assieme al cavallo.

– Sono ancora vivo, – gridò Kedir-Peng, correndo colle pistole in pugno.

– Troppo tardi, amico: i due furfanti sono morti, – disse Nigoro.

– Torniamo al campo; io ho bisogno di un cavallo, poiché il mio è morto.

E tutti e tre ripresero in silenzio la via del campo, l’uno a piedi egli altri due a cavallo.

Cinquecento metri più innanzi incontrarono dei cavalieri che correvano in loro soccorso, avendo udito quegli spari.

– Andate a seppellire il povero capo dei giavanesi di mare, – disse loro Nigoro.

Ritornati i tre capi all’accampamento, Nigoro fece entrare Giovanni nella propria tenda e dopo essere rimasto alcuni minuti silenzioso, in preda ad un tormentoso pensiero, gli disse:

– Un giorno voi mi avete detto che nella vostra gioventù avevate navigato parecchi anni.

– È vero, Nigoro – rispose Giovanni. – Prima di diventare piantatore ero ufficiale di mare.

– Voi potete rendermi un prezioso servigio.

– Quale? Parlate, Nigoro.

– Avete udito il povero capo dei giavanesi di mare, parlare di tre vascelli olandesi incrocianti dinanzi al suo villaggio?

– L’ho udito.

– Quelle navi mi cagionano delle gravi preoccupazioni, poiché minacciano i miei magazzini d’armi e di munizioni che io tengo in quel villaggio. Se dovessi perderli sarebbe un vero disastro per me.

– Vi credo.

– È quindi necessario distruggerle o finiranno col privarmi delle mie provviste di guerra.

– Ma voi non possedete navi.

– Ho otto prahos armati di spingarde, ottimi velieri che possono dare del filo da torcere agli olandesi.

– Vorreste tentare, con quei legni, la distruzione di quelle tre navi?

– Lo desidererei ed è perciò che ho pensato a voi. Vorreste tentarlo?

– Sono pronto, – rispose Giovanni.

– Metto a vostra disposizione duecento uomini guidati da Sandiak-Sin, un capo valoroso che se ne intende di cose di mare.

– Quando volete che parta? – chiese Giovanni.

– Anche subito, se lo volete.

– Vi chiedo mezz’ora per fare i miei preparativi.

– Grazie, Giovanni, e se riuscirete nell’impresa, vi serberò eterna riconoscenza.

Il piantatore tornò nella sua tenda per fare i suoi preparativi. Quando uscì, duecento uomini, scelti fra i più valorosi dell’esercito e guidati da un giovane capo, lo attendevano.

Andò a salutare Nigoro e Kedir–Peng, promettendo a loro di rivederli presto, poi verso il tramonto abbandonava l’accampamento seguito dalla colonna e preceduto da Sandiak-Sin il quale sapeva ove trovavasi il villaggio, avendovi soggiornato altre volte.

Tutta la notte la piccola truppa marciò fra i boschi, dirigendosi costantemente verso il settentrione, e ai primi albori giungeva in vista del mare.

Sandiak-Sin guidò la banda attraverso a certe gole a lui solamente note, temendo che in quei dintorni vi fossero delle colonne olandesi e due ore più tardi giungevano presso una profonda insenatura, sulle cui rive sorgeva il villaggio del povero Kandoko.

Gli abitanti, vedendo quella banda di giavanesi e riconoscendo Sandiak, si affrettarono ad incontrarla con grandi dimostrazioni di gioia.

Sandiak presentò loro Giovanni, dicendo che quello era il capo mandato da Diepo-Nigoro. I giavanesi di mare si fecero intorno a Giovanni salutandolo con alte grida, poi tutti uniti entrarono nel villaggio chiamato di Ampok, ove una cinquantina di donne con fanciulli, vennero pure a festeggiare il capo.

Il villaggio di Ampok si componeva di una ottantina di capanne, costruite di bambù, come lo sono tutte quelle giavanesi, e disposte in forma di una gran mezzaluna.

Presso la spiaggia vi erano ancorati dei prahos da guerra, riparati da alcuni isolotti di sabbia, che sopportavano l’ira delle onde, quando il mare infuriava.

Erano in numero di otto, bene armati e ben costruiti. Veramente non erano che lunghe piroghe, fatte di più pezzi, larghe due metri, lunghe quindici e alte due. Al centro e a prora, portavano due alti alberi, ove venivano inserite due larghe vele, fatte di otto pezzi, come quelle delle giunche cinesi.

A poppa avevano una grossa spingarda che lanciava palle di ferro da due libbre, ed a prora, una di minor calibro che tirava invece palle da sedici once, di forma conica.

Quei legni potevano portare sessanta uomini, ma di solito non ne imbarcavano più di cinquanta, venti pei remi, e gli altri per montare all’arrembaggio. Il legno ammiraglio, più grande e meglio armato, poteva contenerne anche ottanta.

– Cosa dite della nostra squadra? – domandò Sandiak-Sin volgendosi verso Giovanni che si era spinto verso la spiaggia.

– È abbastanza numerosa e mi sembra ottima, – rispose il piantatore.

– Oserete attaccare i vascelli olandesi?

– Lo spero, perché voi combattete da forti.

– Ci giudicherete al primo abbordaggio, signore.

Giovanni s’intrattenne qualche po’ sulla spiaggia, chiacchierando coi giavanesi di mare, indi rientrò nella capanna assegnatagli, dove lo attendevano due uomini addetti al suo servizio.

Alla sera egli fece metter delle sentinelle, poi tutti si addormentarono, e nel villaggio non si udì che il russare sonoro dei dormienti.

Alla mattina seguente, appena il sole fu sorto, Giovanni fece equipaggiare il prahos più grande, volendo visitare le coste vicine per vedere se si nascondevano gl’incrociatori olandesi.

Ventiquattro uomini si misero ai remi, altri quaranta, armati di lunghi fucili, di picche e di pistole presero posto a prora e a poppa, e Giovanni prese la barra del timone, dando il segnale della partenza. Tosto i remiganti tuffarono le loro larghe pale, e la piccola nave si mosse rapidamente, spingendosi al largo.

Alcune onde, spinte da un po’ di vento che soffiava dal sud, facevano rollare il prahos, ma questi teneva a meraviglia il mare, e balzava leggermente sulle creste dei marosi. Scostatosi dalle spiaggie, Giovanni comandò di alzare le vele.

Tosto dieci giavanesi le sciolsero al vento e il prahos prese un’andatura così rapida, che Giovanni la calcolò non inferiore ai dieci o dodici nodi all’ora. Le coste di Giava in breve sparvero ai loro occhi, e non si videro altro che le vette dei monti, alti più di milleduecento metri.

– Cosa vi pare di questo legno? – chiese Sandiak a Giovanni.

– È un ottimo veliero, – rispose il piantatore.

– E dell’equipaggio siete soddisfatto?

– Mi sembra composto di bravi marinai.

– Li vedrete al primo abbordaggio, signore. Sono uomini avvezzi sin dall’infanzia a scorrere il mare, e abituati a tutti i pericoli, essendo stati per la maggior parte corsari.

– Spero di provarli presto. Ma... dove si sono nascosti questi incrociatori? Io non vedo nessuna vela sull’orizzonte.

– No, v’ingannate. Non vedete laggiù quel punto bianco che sembra avvicinarsi a noi? – esclamò il giavanese, balzando rapidamente in piedi.

– Sì, lo scorgo.

– Guardate, anche i vostri marinai se ne sono accorti.

– Credi che sia un legno olandese?

– Sono certo di non ingannarmi. Volete accertarvene?

– Sì, e issate intanto, sul grande albero, la bandiera di Diepo-Nigoro.

Tosto la bandiera bianca di Nigoro, fregiata con oro, sventolò sulla cima dell’albero, fra gli applausi dei giavanesi.

– E ora, – gridò Giovanni, – andiamo a conoscere quel vascello.

– Evviva il capo! – urlarono i giavanesi.

Il prahos, guidato dalle robuste mani di Giovanni, seguitò la sua corsa verso la nave che ingrandiva a vista d’occhio.

Un’ora dopo si trovava a solo mezzo miglio dal veliero.

– È un vascello olandese, – gridarono i marinai del prahos.

– È un incrociatore, – disse Giovanni, voltando la barra e facendo caricare le spingarde. Quasi subito, un colpo di cannone rimbombò sul vascello olandese, e una grossa palla fece rimbalzar l’acqua a due metri dalla poppa del prahos.

– Ah! Canaglie! – gridò Giovanni. – Hanno già scorta la nostra bandiera.

– È troppo grosso quel legno per noi, – disse Sandiak-Sin, scuotendosi di dosso l’acqua, che una seconda palla avea fatto balzare sino a lui.

– Viriamo di bordo, – comandò Giovanni mettendo la barra tutta sottovento.

Il prahos virò quasi sul posto e riprese la corsa verso terra filando a dieci nodi all’ora.

Giovanni affidò il timone a Sandiak-Sin, fece caricare con cura la grossa spingarda di poppa, che lanciava palle di tre libbre, indi prese la miccia e attese. Una terza palla partì dal vascello olandese e passando rasente al prahos, tracciò un leggiero solco nella murata di babordo.

– Sbagliato! – gridò Giovanni puntando con cura la sua spingarda.

Un silenzio profondo regnò sul ponte del legno giavanese. Tutti attendevano l’esito di quel colpo di spingarda.

– Fuoco! – gridò Giovanni accostando la miccia.

Subito la spingarda scoppiò, tuonando fortemente sul mare. Tutti i giavanesi si alzarono per giudicare l’effetto di quel colpo.

La palla non era andata perduta. Quattro uomini che si trovavano sul castello di prora del legno olandese, furono presi d’infilata e lanciati in mare.

– Evviva! – gridarono i giavanesi.

Ed il prahos, con tutte le sue grandi vele sciolte, raddoppiò la corsa, lasciandosi indietro il vascello nemico.

Dopo mezz’ora i giavanesi giungevano in vista di Giava, e un po’ più tardi sbarcavano sani e salvi dinanzi al loro villaggio, mentre il vascello cominciava ad avvicinarsi.

Giovanni fece subito i preparativi per attaccare il legno nemico. Su ogni prahos collocò al timone un uomo esperto, fece imbarcare i migliori artiglieri, caricare tutte le spingarde, quindi diede il comando di formare un vasto semicerchio e di spingersi arditamente all’abbordaggio.

Gli uomini tuffarono i remi, ed i prahos mossero incontro al vascello olandese che continuava ad avanzare verso la costa coll’intenzione di bombardare senza dubbio il villaggio.

Quando gli olandesi videro gli otto prahos muovere verso il loro vascello, mandarono alte grida, poi quasi subito i cannoni del brick furono puntati sui legni giavanesi e Giovanni vide gli artiglieri accostare le miccie ai cannoni.

Ad un tratto le artiglierie tuonarono e Giovanni udì la mitraglia scrosciare sui prahos che formavano l’ala destra. Vide pure quattro o cinque giavanesi cadere sul ponte, ma nessun grido di dolore si alzò fra i suoi uomini.

Allora si rizzò gridando:

– Alle vostre spingarde! Fuoco a volontà!

A quel comando da tutti i legni partirono cannonate e numerose palle andarono a spezzare attrezzi e pennoni.

– Avanti! Avanti! – gridò Giovanni.

I prahos volavano rapidamente verso la nave nemica, ma essi non poterono sfuggire a una nuova scarica di mitraglia che decimò gli equipaggi. Però le spingarde vi risposero ben presto con un buon fuoco nutrito, e gli otto legni, protetti dal fumo, giunsero a poca distanza dal vascello. Il prahos ammiraglio, e due altri più veloci, giunti primi, diedero l’abbordaggio a poppa del brick, e gli uomini cercarono di salirlo aggrappandosi ai paterazzi e alle griselle. Per alcuni istanti, protetti dal fuoco dei fucili, poterono resistere, ma gli olandesi, che erano almeno duecento, accorsero in buon numero e si diedero a gettar sul capo degli assalitori gomene, bombe e catrame liquefatto.

I tre prahos, malgrado il loro fuoco e la loro resistenza, dovettero ritirarsi con rilevanti perdite. Giovanni, fatto caricare a mitraglia la grossa spingarda di prora, la scaricò sul ponte nemico.

Il colpo fu così ben giusto, che parecchi olandesi caddero parte feriti e parte morti.

In quel mentre gli altri prahos si erano avvicinati rapidamente, e divisi in due schiere, attaccarono a colpi di spingarda.

Quando credettero gli olandesi abbastanza decimati, si fecero animosamente sotto la nave.

La voce tuonante di Giovanni si fece udire fra il rimbombo dei cannoni e le scariche di moschetteria.

– Su marinai, all’abbordaggio!

Gli otto prahos andarono ad urtare i fianchi del vascello.

Allora i giavanesi col kriss fra i denti, si arrampicarono come tante scimmie sui bordi della nave, aggrappandosi alle corde, alle bancaccie e alle griselle, poi scaricati i loro fucili, si precipitarono sul ponte. Giovanni si lanciò sul capitano olandese, e con un colpo di pistola lo abbatté.

I suoi uomini si scagliarono allora sugli olandesi, come un torrente irresistibile. I marinai della nave, barricati a poppa, tentarono di respingere i nemici puntando i cannoni, ma i giavanesi li presero d’assalto, inchiodando i cannonieri sui loro pezzi, poi balzati al di sopra della trincea, fecero un orribile macello dei superstiti. Invano gli olandesi cercarono ancora di resistere, lottando accanitamente, ma ormai demoralizzati, senza capi, e sopraffatti dal numero, cedettero. Però se morirono, morirono combattendo eroicamente, vendendo care le loro vite. Non domandarono quartiere, e d’altronde i giavanesi non glielo avrebbero concesso. Mezz’ora dopo non rimaneva un solo nemico vivo.

Giovanni fece issare la bandiera di Diepo-Nigoro al picco della randa, e ammainare l’olandese.

Tre salve di artiglieria avvertirono gli abitanti della terra che il vascello era stato preso.