Le Fiabe (Carlo Gozzi)/Prefazione

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Ernesto Masi

Prefazione L'amore delle tre melarance IncludiIntestazione 24 febbraio 2024 100% Da definire

L'amore delle tre melarance

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CARLO GOZZI

E LE SUE FIABE TEATRALI


PREFAZIONE


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SOMMARIO






Ingiusto obblio di Carlo Gozzi — Sua importanza nella storia letteraria — Il Gozzi ed il Goldoni — Primi anni di Carlo Gozzi — In famiglia — Tre anni in Dalmazia — La Dalmazia nelle Memorie del Gozzi — Ritorno e principio della sua vita letteraria — Accademia dei Granelleschi — Il teatro e la riforma Goldoniana — Il Gozzi a capo dei Granelleschi contro il Goldoni e l’Abate Chiari — Origine delle Fiabe teatrali del Gozzi — Colloquio con un Inquisitore di Stato — La Compagnia Comica di Antonio Sacchi — Le dieci Fiabe — Il Gozzi ed il Baretti — Il Gozzi ed il Werther — Il Gozzi ed il Lessing — Della varia fortuna del Gozzi — in Germania — in Francia — in Italia — Chi era il Sig. Giuseppe Foppa — Gli imitatori delle Fiabe — Gli ultimi critici — Come Carlo Gozzi si dipinga da sè stesso — Il capitolo dei Contrattempi — Demonio in gonnella — Vecchi gelosi, giovani pazzi, attrice e gran dama — Come finirono i personaggi del romanzo — Non si può sempre ridere! — Vecchiaia — Conclusione.



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PREFAZIONE



DD
AL 1761, da quando cioè Carlo Gozzi fece rappresentare nel S. Samuele di Venezia l’Amore delle Tre Melarance, le sue Fiabe teatrali non furono in Italia stampate che due volte, e unite a tutte l’altre sue Opere, la prima volta dal Colombani nel 1772,1 la seconda dallo Zanardi nel 1801-1802, vivente ancora l’autore.2 Sono quindi diventate quasi una preziosità bibliografica, al pari delle sue Memorie, le [p. ii modifica]quali non ebbero che una sola edizione nel 1797;3 tanto fu rapida la dimenticanza, in cui presso gli Italiani cadde dal principio del secolo in poi il nome di Carlo Gozzi, che pure era stato famoso pochi anni innanzi e oggetto delle più vive e passionate polemiche letterarie. Senza entrare ora a dire del valore intrinseco delle Opere di Carlo Gozzi, e guardando il fatto unicamente sotto l’aspetto storico, basta, mi sembra, ripensare quali tradizioni letterarie i maggiori scrittori Italiani si studiassero di riannodare nei primi anni del secolo presente, dal Monti e dal Foscolo al Leopardi e al Giordani, e fino a che, in opposizione alla filosofia e allo spirito del secolo XVIII, sorse la scuola dei Romantici, per farsi ragione dell’obblio, che coprì il nome del Gozzi. E neppure i Romantici si porsero in Italia favorevoli a lui, per amore, non foss’altro, della capricciosa e ardita libertà dei suoi lavori drammatici. Appena qualcuno dei minori se ne ricordò, e più per far eco ai Romantici stranieri, grandi ammiratori di Carlo Gozzi, di quello che per riappiccare ad esso le nuove dottrine letterarie, pretendenti a rinnovare tradizioni nazionali ben più alte e solenni, che non la piccola e passeggera gloria del Conte Veneziano. Ripubblicando ora le dieci Fiabe teatrali del Gozzi, [p. iii modifica]non ho bisogno di dire che non credo giusto quest’obblio e ciò per più ragioni: perchè nella storia del teatro italiano le Fiabe del Gozzi rappresentano il passato che lotta ancora e si contrappone alla commedia realistica del Goldoni, perchè sono la forma ultima dell’antica nostra Commedia dell’arte e dell’antica commedia popolare, perchè nel più vivo d’un moto filosofico, il quale, armato di tutte le superbie della ragione umana, mirava a cambiare l’intero assetto morale della vecchia società Europea, esse formano un episodio di letteratura fantastica, che per alcuni anni acquista tale popolarità da mettere in forse, si direbbe, persino le cagioni e gli effetti della riforma Goldoniana.

Quanto a cercare, come molti hanno fatto, intime relazioni morali fra la decadenza della vecchia e frolla società Veneziana e quest’arte fiabesca del Gozzi, che in mezzo a tale società rida ad un tratto nuova vita agli ingenui e primitivi racconti delle Fate, mi sembra questa una tesi critica, che non conduca a conclusioni molto cure. Relazione c’è, e dev’esserci, ma è principalmente estrinseca, e quale d’ordinario passa fra i fatti sincroni della storia. Il desiderio insaziabile di novità, l’instabilità e l’incertezza anche nei gusti artistici, le contraddizioni trascorrenti d’una in altra adorazione sono tutti segni manifesti d’una società svigorita e decadente. Che del resto l’arte del Gozzi, con le ragioni individuali e le [p. iv modifica]circostanze, che l’inspirano, con le tradizioni teatrali, che raccoglie e rinnova, coi fini, che si propone sotto l’involucro e il prestigio delle magie e degli incantesimi, non ha per fermo nulla nè d’ingenuo, nè di primitivo. E violentando quelle relazioni morali e raffinandole in guisa da determinare con esse una legge dello spirito umano, per cui una società prossima a decrepitezza torna, per un ricorso fatale, all’infanzia ed ai trastulli prediletti di questa età, si riescirà a foggiare qualche nuova ed elegante teorica, non nego, ma non per questo si potrà sperare di conoscer meglio e di giudicare più esattamente questo singolarissimo episodio della nostra storia letteraria. Carlo Nodier, discorrendo in genere del Fantastico nella Letteratura, afferma che esso suole apparire, allorchè «sta per cessare l’impero di quelle verità o reali o comunemente accettate, che animavano ancora d’un ultimo soffio di vita i congegni troppo vecchi d’una civiltà.4» Può darsi. Ma il Nodier disegna a grandi tratti la storia del fantastico da Omero al Goethe e muovendosi in così larghi spazii nessuna teoria trova inciampi. Applicando invece quella del Nodier a Carlo Gozzi, se anche le si trovasse qualche riscontro nelle condizioni morali della società Veneziana di quel tempo, certo è però che tanto il poeta, il quale [p. v modifica]nell’imminente ruina delle idee e dei sentimenti del passato presentiva un finimondo, quanto le sue Fiabe teatrali, che furono l’espressione più ardita e più popolare di quella sua vivissima preoccupazione, rimarrebbero un mistero inesplicabile, a meno che non si volesse, come per lo più ha fatto la critica straniera, trasfigurare il Gozzi ad arbitrio, farne un personaggio ed uno scrittore diverso affatto da quel che fu in realtà, e rinnovargli, anche dopo morto, la stravaganza, di cui s’era da vivo tanto doluto, d’essere bene spesso scambiato con persone, che neppur per ombra gli somigliavano.5 Eguale stravaganza, si direbbe, è toccata anche alla sua fama letteraria, massime cogli stranieri, dai quali fu tanto esaltato, quanto fu dai suoi connazionali troppo ingiustamente depresso e dimenticato. Questa varia fortuna del Gozzi ha, come vedremo, ragioni in gran parte estrinseche e non del tutto imputabili a lui, ma in pari tempo dimostra come sia difficile dare di questo scrittore un giudizio esatto e sicuro, tant’è vero che si ondeggia tra chi lo paragonò ad Aristofane ed allo Shakespeare e chi non volle consentirgli alcun valore nè assoluto nè relativo, nè alcun altro diritto a vivere nella storia letteraria, se non la trista celebrità dell’acerbissima guerra da lui combattuta contro a Carlo Goldoni. Al quale proposito è da notare che di quanti lodarono il Gozzi non ve [p. vi modifica]n’ha uno, si può dire, che non lo lodi per deprimere il Goldoni, e che d’altra parte la critica italiana fu così severa a Carlo Gozzi principalmente per amore e, quasi, per vendetta del Goldoni. Eppure nessun confronto è possibile fra questi due uomini! Il contrasto fra essi non è soltanto nella misura dell’ingegno e nell’indole rispettiva. Ma come l’ingegno e l’indole, che natura dà, si svolgono ed operano in un modo o in un altro a seconda della nascita, dell’educazione, della fortuna e delle varie circostanze, fra le quali all’uomo è toccato di vivere, così anche per tuttociò il destino dell’uno e dell’altro li colloca sopra due vie affatto opposte e predispone le manifestazioni diverse della loro indole e gli atteggiamenti diversi del loro ingegno. La vita efficiente d’entrambi comprende la parte veramente originale e caratteristica del secolo XVIII, il quale sino circa alla prima metà non è che uno strascico del Seicento; scrivono entrambi per il teatro, e cessano entrambi di scrivere a non grande distanza di tempo. Ma a questo si limita ogni loro conformità e somiglianza. La giovinezza del Gozzi, benchè si svolga anch’essa in mezzo a vicende non comuni, non ha nulla di quella libertà spensierata e girovaga del Goldoni, che spiega tanto di quel suo scrivere a furia e di quella prodigalità disattenta del suo genio. Ha molto invece di certa selvatichezza mezzo tra beffarda e collerica, che poi determina l’indole della sua satira, e per [p. vii modifica]ripicco al realismo democratico e borghese ed alla placida celia della commedia Goldoniana la burlesca e strampalata ironia delle sue Fiabe e delle sue imitazioni Spagnolesche. L’uno e l’altro hanno scritto le Memorie della propria vita. Ma il Goldoni scrive la storia della sua vita, affinchè serva a quella del suo teatro e fra la sua vita ed il suo teatro passa un vincolo così stretto e così intimo, che le prefazioni e le dediche delle sue commedie gli servono di documento per richiamarsi a mente tutte le sue vicende passate, sicchè non parla quasi che del teatro, e tutto il resto gli si confonde in una nebulosa piena d’obblio, nella quale non discerne più nè volti nè nomi. Quando si mette a scrivere le sue Memorie, non ha più nè rancori (se mai ne ebbe), nè timori, nè speranze. Sa che, deposta la penna, non la ripiglierà più e non gli rimarrà che di aspettare la morte tranquillamente. Quindi è che sulla sincerità inoffensiva e disinteressata de’ suoi ricordi non cade mai ombra di dubbio. Il Gozzi invece scrive le sue Memorie (che qualificò inutili e pubblicate per umiltà, benchè nè inutili le credesse, nè l’umiltà fosse mai stata tra le sue virtù) scrive le sue Memorie con un proposito espressamente ed unicamente apologetico, perocchè, impedito dall’ombrosa autorità del governo di rispondere ex abrupto al libello d’un suo nemico, volle, dipingendo tutto sè stesso, rispondergli indirettamente e mostrare che le imputazioni dategli erano in aperta contraddizione con la sua [p. viii modifica]indole, co’ suoi costumi e con tutto il suo passato. Donde apparisce come delle sue Memorie, al pari di tutte l’altre sue Opere, che sono tutte, di polemica o satiriche, bisogni valersi con molta cautela al fine di trarne notizie per la sua vita o per gli intendimenti dell’arte sua. E tuttavia se v’ha scrittore, che importi conoscere intimamente per giudicarlo bene, è appunto il Gozzi, intorno al quale s’è venuto formando una specie d’arcano, e a mantenerlo contribuirono non poco certi particolari difetti del suo stile, e la rarità relativa delle sue Opere, per cagione delle due sole edizioni che ne furono fatte. Ecco quindi una nuova ragione di ripubblicare le Fiabe, forse non ben note neppure a tutti quelli, che ne hanno parlato, e documento principalissimo del bizzarro ingegno del Gozzi. Oltredichè, durando ancora «l’incerto e timido ecletismo (scriveva anni sono il Carducci) col quale noi andiamo come a tastone per le vie dell’arte6» e fra le molte prove, onde scrittori incerti tentano il gusto d’un pubblico più incerto di loro, spesseggiando pure quelle di genere fantastico ed umoristico, pare giusto ed opportuno, risuscitare la memoria d’uno scrittore italiano, che, raccolta la tradizione dei nostri eroicomici e romanzeschi, cercò ingegnosamente ricongiungerla alla tradizione della commedia popolare e della [p. ix modifica]Commedia dell’arte, allargarla colla mitologia fiabesca dei novellatori orientali, introdurvi molti e diversi argomenti di satira contemporanea e di tuttociò comporre un’opera teatrale che, quale che sia, rimase sola nella nostra letteratura.7

Carlo Gozzi nacque in Venezia il 13 Dicembre 1720,8 e questa data ci mette già sulle traccie d’una gherminella molto curiosa, ch’egli fa ai lettori delle Memorie. Occasione a queste e alla difesa, che imprese a fare di sè medesimo, è un amore un po’ serotino, stato cagione a lui e ad altri d’infiniti travagli e sciagure; e temendo, si vede, il ridicolo, che s’appiccica agli amori dei vecchi, ricorre al partito di tacere la data della sua nascita e se la cava dicendo: «scrivo l’ultimo giorno d’Aprile nell’anno 1780. L’età mia oltrepassa i cinquant’anni e non arriva ai sessanta. Non disturbo il sacrestano, perchè mi faccia vedere la fede del mio battesimo.... perchè non fo [p. x modifica]conto alcuno sull’età degli uomini. In tutte le età si muore, ed ho veduti essere uomini de’ ragazzi, ed essere degli uomini maturi e dei vecchi petulanti e ridicoli fanciulletti.9» Verissimo; ma intanto, quando, poche pagine dopo, egli ha da narrare il principio della sua vita militare in Dalmazia sotto gli ordini del Patrizio Girolamo Querini, mandato colà Provveditore Generale, dice espressamente d’essere partito «in età di sedici in diciasett’anni.10» Ora dai dispacci del Querini risulta che il medesimo s’imbarcò per la Dalmazia il 2 ottobre 1741.11 In questo tempo al Gozzi mancavano dunque due mesi a compiere il ventunesimo anno, ed egli si fa invece più giovine di circa tre anni col fine evidente di nascondere che quando dal 1771 in poi ebbe, come vedremo, a trovarsi impigliato in così grandi vicende d’amori, più di mezzo secolo gli pesava già sulle spalle.12 Debolezze! Ma che danno già idea dell’indole [p. xi modifica]dell’uomo, non così schietto e buono, com’egli volle dipingere sè stesso e parecchi lo credettero, nè così tristo, come pretese con grande esagerazione il Tommasèo, che lo disse vile, ipocrita, ignobile in ogni cosa.13 Gli stranieri, non distinguendo bene i varii ordini della nobiltà Veneta, lo titolano per lo più Patrizio Veneziano, ma non era.14 Al patriziato Veneziano teneva soltanto dal lato della madre, una Tiepolo. Dal lato del padre era cittadino originario di Venezia, ma di nobiltà provinciale. Allorchè fu in età di attendere agli studi, lo scompiglio economico di casa Gozzi (che fu poi la tribolazione di tutta la sua vita) era già incominciato, cosicchè Carlo fu di que’ fanciulli infelici, venuti tardi in una famiglia numerosissima e già declinante (era il sesto di undici fratelli), i quali sono abbandonati a sè stessi o confidati al primo capitato. Ma poesia e debiti, letterati ed usurai, ecco tutto l’interno di casa Gozzi a quel tempo, a «Un ospedale di poeti» la definisce Carlo15 e vuol dire a un dipresso un ospedale di matti. Anche il taciturno e selvatico fanciullo fu dunque ben presto invasato dal furore febèo di tutta la famiglia, nella quale si teneva «una [p. xii modifica]giornaliera adunanza letteraria.» e in villa tutta la numerosa figliuolanza s’esercitava non solo a recitare «opere tragiche e comiche apparate a memoria» ma ancora «farse giocose di piccolo intreccio alla sprovveduta.» Egli e sua sorella Marina sapevano contraffare assai bene certune fra le più ridicole persone del villaggio. «Innestando alle farse, scrive il Gozzi, molte scene appoggiate a dialoghi ed a contrasti famosi di quelle mogli e di que’ mariti, spesso ubbriachi, co’ panni indosso dei nostri originali imitati, la copia d’imitazione era tanto pontuale agli occhi de’ nostri villerecci ascoltatori, che conoscendola, ridendo bestialmente ci caricavano d’applausi proporzionati alle loro grossolane nature. A mio padre ed a mia madre venne il capriccio di voler essere imitati in una farsa da me e dalla mia sorella accennata. Facemmo gli schizzinosi alquanto, ma bisogna obbedire al padre e alla madre. Gli abbiamo serviti con una esattissima imitazione di vestiti, d’attitudini, d’intercalari e di dialoghi in alcune scene intrecciate di famigliari contrasti tra lor consueti. La maraviglia loro fu grande e le loro risa furono il castigo alla nostra obbediente temerità.16» Esemplari educatori davvero quel padre e quella madre Gozzi! Ma essi non s’aspettavano di certo che questi semi fruttificassero poi così bene nell’animo di Carlo, tanto per l’amore [p. xiii modifica]innocente della commedia improvvisa, quanto per avvezzarsi così di buon’ora a creder lecito, o moralmente indifferente, ogni eccesso di beffa e di satira verso gli altri. Assai meno mantenne in certo senso le promesse de’ suoi primi saggi letterari, vale a dire per regolarità di sintassi poetica e per chiarezza, se si ha a giudicare dal sonetto: Alla vedova d’un cagnolino, che riferisce come composto a nove anni, e da altro sonetto composto a undici anni e fatto tutto di emistichi amatorii classici, che gli valse le lodi e i lieti pronostici d’Apostolo Zeno. D’allora in poi studiò e scribacchiò a dirotta, sicchè all’età di sedici anni (o meglio venti)17 avea già scritto «oltre a delle innumerabili prose e delle innumerabili poesie volanti, quattro lunghi poemi, il Berlinghieri, il Don Chisciotte, la Filosofia Morale, cioè i discorsi degli Animali parlanti del Firenzuola, il Gonella in dodici canti.18» Suo fratello maggiore, il celebre Conte Gaspare Gozzi «permana geniale astrazione poetica19» s’era maritato a Luigia Bergalli, povera, di dieci anni più vecchia di lui, [p. xiv modifica]poetessa per giunta e fra gli Arcadi Irminda Partenide. Iacopo Antonio Gozzi, il padre, era stato colpito di paralisi; Gaspare, incurante di tutto, che non fosse i suoi studi, avea lasciato che la moglie pigliasse le redini di tutta la casa, e la poesia arcadica, applicata all’amministrazione d’un patrimonio in disordine, avea dato ben presto i frutti, che erano da aspettare. Le strettezze economiche inasprivano gli animi. Ai debiti s’aggiungevano continue baruffe in famiglia. Carlo dunque stabilì d’imitare l’esempio d’un altro suo fratello, e raccomandato dallo zio Tiepolo a Sua Eccellenza Querini, che andava Provveditore Generale in Dalmazia ed Albania, s’arruolò come Venturiere e salpò da Malamocco sulla galèra generalizia, che dovea portare a Zara, sede della Reggenza, il Querini, avendo per tutto viatico pochi cenci, i suoi libri ed il chitarrino, sul quale soleva improvvisare canzonette. Seguiamolo ora nella sua dimora triennale in Dalmazia (1741-1744), la relazione della quale il Löhner giudica «un capolavoro di studio, che tuttora conserva il suo valore politico ed etnografico.20» Poco descrive i luoghi, perchè, sebbene quella selvaggia natura avesse pur dovuto impressionare di qualche guisa il giovine Veneziano, il paesaggio vero non avea ancora riacquistata alcuna importanza letteraria nè nella poesia, nè nella prosa di quel tempo. [p. xv modifica]Acutissime nella loro strana ironia sono per compenso le sue osservazioni sui caratteri de’ suoi compagni, sui costumi e sulle condizioni morali, economiche e politiche di quella provincia della Serenissima; costumi e condizioni, che formano il maggiore contrasto colla splendida capitale, a cui tutti i gaudenti del mondo accorrevano ancora come alla «Sibari dell’Europa.21» Cito i brani che mi sembrano più caratteristici della relazione del Gozzi:

«L’arrivo all’imbarco del Provveditore Generale fra lo strepito degli strumenti e delle cannonate, mi scosse da miei piccioli pensieri e mi sorprese.

Questo Cavaliere che io aveva prima ben dieci volte visitato al di lui palagio m’aveva sempre accolto scherzevole, e con quella affabilità, e quella dolcezza confidenziale ch’è propria quasi in tutti i Veneti Patrizi, giunse all’imbarco colle vesti, colle scarpe e col cappello cremesi, con un aspetto sostenutissimo a me nuovo, e con una fierezza nel volto notabile. Appresi dagli altri uffiziali, che alla sua comparsa in quelle vesti occorrevano delle mute riverenze profonde e assai diverse da quelle che si fanno in Venezia ad un Patrizio togato. Salì egli nella galera Generalizia, mostrò di non degnarsi nemmeno di osservare i nostri inchini co’ nostri nasi sui nostri piedi. Sbandita affatto l’affabilità con cui ci aveva accolti e presi per la mano in Venezia, non guardò nessuno di noi nel volto e fece caricar di catene il giovine Capitano della Guardia appellato Combat, che aveva mancato di non so quale piccola ceremonia militare nell’ [p. xvi modifica]accoglierlo. Osservai tutti gli astanti sbigottiti e con gli occhi spalancati guardarsi l’un l’altro. Quelle austere novità occuparono per poco il mio cervello. Parvemi ragazzescamente filosofando di comprendere che un Nobile d’una Repubblica eletto Provveditor Generale d’una armata e Capo di due estese Provincie, nel presentarsi tale dovesse mostrarsi in un aspetto affatto diverso da quello d’un Patrizio togato, per far tremare, e per istillare della soggezione a tutti i subordinati avvezzi, e fatti arditi da un privato cortese accoglimento, e spesso presuntuosi, e milantatori di possedere e di disporre della Grazia Generalizia.

Siccome era io fortissimo nella massima di non commettere delitti, di fare il dover mio senza niente pretendere dalla fortuna, fui meno atterrito degli altri al terribile contegno e agli aspri comandi di quel Signore. Diceva tra me: Egli mi fa alquanto di paura, ma egli si degna di darsi il peso, il pensiero e lo studio di trasformare se medesimo nel contegno per farmela, ed apprezzando la sua fatica trovava minore la mia paura del suo disturbo.

Ritiratosi egli nella sua stanza nel profondo di quel navilio infernale, spedì il Tenente Colonnello Micheli suo Maggiore della Provincia a tutti gli Uffiziali e Venturieri imbarcati a chiedere loro chi fossero e da chi raccomandati.

Dopo tante visite fattegli nel di lui palagio, tanti accoglimenti, tanti colloqui avuti con lui in Venezia da tutti noi, nessuno si attendeva questa ricerca. Mi riconfermai nel riflesso ragazzo-filosofico che aveva fatto.

In questa maniera egli estingueva interamente in ognuno le speranze concepite nelle visite fattegli ed accolte con tanta umanità prima che s’imbarcasse e prima che vestisse le insegne Generalizie.

Il Maggiore della Provincia Micheli ottima persona, e assai pingue, venne ad eseguire quel comando molto affaccendato e sudato in gran diligenza con un foglio ed un toccalapis.

Ognuno sombrava, borbottava e sbuffava a passare quella [p. xvii modifica]rassegna. Dal canto mio ho riposto con viso ridente al signor Maggiore della Provincia pingue e badiale, ch’io mi chiamava Carlo Gozzi, e ch’era stato raccomandato dal Patrizio Almorò Cesare Tiepolo. Tacqui il Senatore e il mio zio materno, per non comparire ambizioso.

Quella dimenticanza, certamente finta, nell’E. S. che tanto increbbe agli altri, a me parve un tratto politico necessario per alcune teste fumanti de’ miei sozi che s’erano molto vantati d’intrinsechezza col Cavaliere prima del di lui imbarco.

La galera Generalizia, col seguito d’un’altra galera detta Conserva, e d’alcuni navigli sottili armati, s’avviò nel golfo Adriatico e sopraggiunse la notte assai buia.22»

Otto giorni dopo che il Gozzi era giunto a Zara fu colpito d’una malattia mortale, dalla quale scampò per miracolo ed in questa occasione si strinse della più cordiale amicizia, con Innocenzo Massimo di Padova; amicizia che, contratta ne’ migliori anni d’entrambi, durò tutta la loro vita.23 Attese poscia alla meglio a qualche studio ed esercizio di arte militare, non trascurando del tutto però la poesia, alla quale anzi fu debitore d’un insperato trionfo, ch’egli narra al solito con molta vena di satira nelle sue Memorie: [p. xviii modifica]

«La città di Zara volle dare un segno di venerazione al nostro Provveditor Generale Quirini, e fu edificata per un sol giorno solenne nel prato del Forte una gran sala di legnami, adobbata di bei damaschi, e furono dispensati a molte persone de’ viglietti d’invito per radunare un’Accademia nella giornata prefissa di prosatori e verseggiatori.}}

Ogni Accademico invitato doveva recitare due composizioni in prosa o in verso a piacere. Ne’ viglietti erano notati il primo ed il secondo tema da trattarsi. Ecco il primo. Se sia più lodevole il Principe, che serba, difende e coltiva i proprii stati nella pace o sia più lodevole quello, che cerca di conquistare de’ nuovi stati coll’armi per dilatare il dominio suo.24 Ecco il secondo. Una composizione in lode del Provveditore Generale.

Un vecchio Nobile della città detto il signor Dottore Giovanni Pellegrini Avvocato fiscale, vestito a velluto nero con una gran parrucca bionda raggruppata, letterato molto eloquente sullo stile del Padre Casimiro Frescot e del Tesauro, era il capo Accademico e dispensatore degli inviti.

A me non fu dato cotesto invito. Ciò prova ch’io ero un ignoto dilettante di belle lettere e può anche provare, che il signor Pellegrini assennato, e gravissimo mi credette ragionevolmente ragazzo non degno d’essere considerato, trattandosi d’una impresa ch’egli conduceva colla maggior serietà illirica italiana.

Li signori Colombo e Massimo m’eccitavano ad apparecchiare due composizioni sui temi proposti, e sparsi per la [p. xix modifica]gran giornata prefissa, ma io ricusava di fare una tale comparsa, e per non avere avuto l’invito e per umiltà.

Tuttavia volli divertirmi occultamente e abortire due sonetti l’uno sul primo, l’altro sul secondo argomento, ma risoluto di non fare alcun uso di quelli gli aveva seppelliti nel fondo d’una scarsella. Si deve credere ch’io lodassi col primo la pace e che il secondo fosse un elogio felice, o infelice all’Eccellenza Sua.

Il Provveditor Generale accompagnato dagli uffiziali, e da’ maggiori di quella Città entrò nella sala casotto e si assise in un ricco sedile, al quale si saliva per molti gradini, e uno stormo, non so da dove uscito di Letterati andava posando i loro terghi eruditi in alcuni seggioloni che formavano un semicircolo.

Aveva veduti fuori dal casotto indamascato de’ servi affacendati, che apparecchiavano de’ rinfreschi acquatici, e una gran sete mi molestava.

Credei cosa lecita l’andar a chiedere in cortesia una limonata a que’ servi per dissetarmi ed era da mal consiglio ingannato. Mi si rispose che per un preciso comando, l’atto della misericordia di dar da bere agli assetati era riservato per special privilegio verso gli accademici soltanto.

Questa sgarbata risposta data al sitio di molti uffiziali aveva accesa una muta turbolenza. Mi vergognai di ricevere una negativa tanto increata e mi determinai in sul fatto con viso franco a dichiararmi Accademico per non sofferire rossore, e per espugnare una limonata col titolo di poeta e con due sonetti, ch’era inespugnabile col titolo d’uffiziale e colle armi.... Risuonò l’aere per tre lunghe ore di lunghe dissertazioni ampollose, erudite e di carmi poco soavi. Qualche generalizio sbadiglio onorava di quando in quando l’Accademia e gli Accademici.... Tuonai anch’io nell’Accademia col mio sonetto in lode del nostro Provveditore Generale Quirini. Quest’ultimo Sonetto ebbe la sorte febea di piacere assai all’E. S. e all’universale per conseguenza, egli mi stabilì Poeta nelle opinioni Zaratine. Fece poi nascere una scena [p. xx modifica]comica due giorni dopo. Il Provveditore Generale si divertiva spesso sull’ore fresche a correre a cavallo quando quattro, quando sei miglia fuori della Città, e una truppa d’Uffiziali gli facevano codazzo cavalcando dietro alle orme sue. Tra questi correva anch’io.

Cavalcando per tal modo un giorno venne brama all’E. S. di sentire nuovamente il mio Sonetto in sua lode, ch’era divenuto famoso, come spesso si vedono divenir circolari in copia e famose delle inezie per le sole circostanze che le avvalorano.

Il Cavaliere mi chiamò altamente; spronai il cavallo per appressarmegli ed egli senza punto rallentare il galoppo, mi comandò di recitargli quel sonetto. Non credo che sia mai stato recitato un sonetto in una maniera simile a quella ch’io dovei prendere, dalla creazione del mondo a quel punto.

Galoppando dietro a quel Signore, sparando quasi il polmone per farmi udire, con tutti i trilli, le aspirazioni, le cadenze, i semituoni, le mozzicature, e le dissonanze che può cagionare lo scuotimento niente accademico d’un cavallo in corso, recitai quel sonetto, che parve di singulti, e ringraziai il Cielo cacciato ch’ebbi fuori il quattordicesimo verso.25»

E dei costumi e delle condizioni, ch’egli osservò, delle provincie Illiriche in quel tempo, scrive così:

«Ho vedute tutte le Fortezze, incolte terre e molti villaggi di quelle Provincie. In parecchie città trovai delle persone educate, di buona fede, cordiali e liberali. Nelle più lontane dalla Corte del Provveditor Generale, de’ costumi rozzi e barbari. I villici sono tutti fiere crudeli, superstiziose, insensibili alla ragione. Conservano ne’ loro matrimoni, ne’ loro mortuori, ne’ loro giuochi gli usi degli antichi Gentili perfettamente. Chi legge Omero, e Virgilio trova l’immagine dei Morlacchi. [p. xxi modifica]

Essi pagano una truppa di femmine perchè piangano sui cadaveri de’ morti loro, le quali femmine si danno il cambio per dar riposo alle trachee spossate e rese fioche da certi lugubri ululati d’una musica che mette spavento.

Uno de’ loro giuochi è il levare alto appoggiato alia palma della destra mano, un pezzo di marmo d’un peso enorme, e lo scagliarlo dopo tre o quattro salti. Colui che lo scaglia a dritta linea, e più lontano, ha vinto il giuoco. Ciò ricorda i pezzi di masso pesantissimi, che scagliavano ai loro nimici Diomede e Turno.

Ne’ nidi loro i Morlacchi sono valenti e utili al Principato in occasione di guerra co’ Turchi confinanti, verso ai quali conservano una cordiale antipatia. Ne’ Territori littorali gli abitanti sono atti ad essere marinai temerari abbastanza e risoluti combattitori sull’onde. Verso al Montenegro, sono ancora più barbari i popoli. Quelle famiglie i cui ascendenti e discendenti morirono pacitìcamente sui loro letti, o canili, e non vantano qualche buon numero d’ammazzati in esse, sono guardate con occhio di disprezzo dalle altre.

Sulla spiaggia fuori della città di Budua, dove un drappello di que’ nostri simili calano spesso la state dalle montagne per godere l’aere che spira dal mare, vidi fare le archibugiate e rimanere tre cadaveri sulla sabbia.

Uno di quelli delle famiglie d’una lunga serie morta pacificamente, rimproverato da un altro di quella vergogna, volle troncare il rossore a’ suoi posteri e incominciare i loro trofei dal farsi ammazzare ammazzando.

Le zuffe e le archibugiate tra villaggio e villaggio in que’ contorni sono frequenti. Quelli d’un villaggio che uccidano un uomo d’altro villaggio, non hanno mai la pace, che al prezzo di cento zecchini o a quello d’una testa d’un uomo del villaggio loro; tariffa stabilita senza intervento di Principe tra quelle genti dalla bestialità considerata equità....

La sete della vendetta non è ivi estinguibile e passa di erede in erede come un legale fideicommesso.

Tra i Morlacchi, meno fieri dei Montenegrini, vidi una [p. xxii modifica]femmina di circa cinquant’anni prostrarsi dinanzi al Provveditor Generale, trarre da un carniere un teschio arsiccio, deporlo a’ di lui piedi, piagnere dirottamente e chiedere altamente misericordia e giustizia.

Erano scorsi trenti anni ch’Ella conservava quel teschio di sua Madre, ch’era stata uccisa. Gli uccisori erano già stati puniti, ma perchè la punizione non aveva appagato il genio truce di quell’affettuosa figlia, instancabilmente, per il corso di trent’anni era comparsa alle piante di tutti i Provveditori Generali eletti protempore in quelle Provincie, col medesimo teschio materno, colle medesime strida e lagrime caldissime a chieder giustizia.

Mi piacque vedere le femmine dette Montenegrine. Esse vestono di lana nera in un modo non certamente suggerito dalla lussuria. Hanno le chiome divise e cadenti giù per le guancie e per le spalle impastricciate di butirro per modo che formano una specie di berrettone lucido.

Tutte le maggiori fatiche delle campagne e dell’abitazione sono lor debito. Sono mogli e vere schiave degli uomini. Si inginocchiano e baciano loro la mano ogni volta che gli incontrano, e tuttavia mostrano contentezza del loro stato....

Nella Dalmazia ci sono delle belle femmine, che pendono, la maggior parte, alla robustezza maschile, e tra le Morlacche de’ villaggi que’ Pigmaleoni che volessero consumare qualche staio di sabbia nel ripulirle, averebbero de’ bei simulacri animati....

I terreni di quelle Provincie sono in gran parte montuosi, sassosi e sterili. Vi sono però delle vaste campagne che potrebbero essere fertilissime. Non sono coltivati e lavorati nè i sterili, nè i fertili e restano quasi tutti maggesi e infruttuosi.

I cibi prediletti e più delicati de’ Morlacchi sono gli agli e le cipolle. Fanno un indicibile consumo annualmente di que’ due generi. Potrebbero introdurre ne’ loro terreni una ricolta ubertosa di tali due prodotti, ma essi attendono dalla Romagna gli agli e le cipolle per comperarli. Rimproverati e corretti di questa dannosa inerzia, rispondono che i loro [p. xxiii modifica]antenati non piantarono agli e cipolle e che non alterano la direzione degli avi loro.

Chiesi ragione a delle persone più colte di que’ Paesi della generale indolenza poltrona rurale della Dalmazia. Mi si rispose essere impossibile senza pericolo della vita obbligare i Morlacchi a far più di quello che fanno, o a introdurre la più piccola novità per riformare i loro campestri lavori. Dissi che i padroni delle terre potevano chiamare degli agricoltori italiani e far divenire una Puglia quelle campagne. Vidi ridere sgangheratamente i confabulatori sul mio progetto e chiedendo il perchè di quelle risa, mi risposero che molti signori Dalmatini s’erano provati a far venire de’ villani industri dall’Italia e che pochi giorni dopo il loro arrivo furono trovati uccisi per la campagna, senza poter rinvenire i colpevoli della lor morte. Mi persuasi tosto d’essere un cattivo progettante e mi meravigliai che quei signori ridessero e non piangessero a darmi quelle notizie....

Non ebbi giammai la temerità di voler penetrare e specialmente di discorrere sulle viste e sulle ragioni politiche, ed è forse bene che quelle Provincie rimangano nella loro sterilità.26»

Ciò che osservava e lamentava il futuro poeta delle Fiabe, non osservava o non curava, pare, il governo della Serenissima, e singolare è nel Gozzi, Veneziano d’antica stampa, la fina ironia, con la quale chiude le sue osservazioni. Ad ogni modo, le sue osservazioni tagliano nel vivo e quello poi, che è anche più caratteristico, se possibile, e rappresenta al vivo la profonda decadenza, che si propagava dal cervello alle membra, dalla capitale alle [p. xxiv modifica]provincie, è la vita stessa che il Gozzi condusse alla corte del Reggente Querini, è la nullaggine superba e sfaccendata di quel Patrizio, che tenea in Dalmazia le parti di Sovrano, e di quel codazzo di nobili e di servidorame, che lo attorniava, dei quali in tre anni il Gozzi non ricorda, si può dire, un sol giorno, che abbiano impiegato a qualche utile studio di quella permanente barbarie, che li circondava, od a tentare di spargervi qualche piccolo seme di civiltà. Quell’accademia di poesia, nella quale, come s’è visto, il Gozzi conquistò con un sonetto una limonata, cavalcate su destrieri focosi, nelle quali rischiò di fiaccarsi il collo, qualche amoretto, un teatro di commedia, in cui il Gozzi recitava all’improvviso (e ciò è almeno altro prodromo notevole del poeta drammatico) le parti di Servetta, serenate per far dispetto a mariti gelosi, burle, travestimenti, chiassi notturni per disturbare i sonni degli abitanti, un fascicoletto di poesie laudatorie legato in velluto cremisi e offerto prima del ritorno a S. E. Querini, ecco tutta la vita del Gozzi in Dalmazia. E come la sua, così quella di tutti gli altri suoi compagni, compresa la Eccellenza del Provveditore Generale.

Si paragonino ora questi ricordi colle parole, che circa tre anni dopo il ritorno del Gozzi dalla Dalmazia pronunciava Marco Foscarini nel Consiglio Maggiore e si vedrà che il Gozzi fu storico veritiero in questa parte delle sue Memorie. «Preghemo Dio, esclamava il Foscarini, che le [p. xxv modifica]nazion forestiere no se abbia messo a ponderar l’incoerenza de tali direzion; mentre osservando la condotta dei Governi lontani opporse diametralmente a quella del Principato no so cossa le riprendesse di più, se l’impudente fidanza di chi regge le Provincie o la comun sonnolenza de chi presiede alla Repubblica.27» Con così alta libertà si parlava ancora nei Consigli di Venezia! Tali uomini la Repubblica aveva ancora! Ma purtroppo quella decrepita sonnolenza era invincibile. Questo in quanto alla storia.

Quanto all’arte, non mancò chi volle scoprire in quella dimora del Gozzi fra un popolo quasi selvaggio e pieno di leggende superstiziose e d’ingenua poesia i primi germi del suo dramma fiabesco. Ma è una sottigliezza molto arbitraria o di cui almeno non è nelle Opere del Gozzi alcun segno sicuro. I sonetti in lode del Querini, qualche satira a’ suoi commilitoni, qualche commedia all’improvviso, recitata con allegria, con audacia e con estro giovanile, ecco tutto il fardelletto poetico, che il Gozzi riportò di Dalmazia. [p. xxvi modifica]

Tornato a Venezia, in compagnia dell’amico Innocenzo Massimo, pareva che il cuore gli predicesse qualche nuovo guaio. L’aspetto della sua bella casa paterna era al di fuori sempre quello, ma batti e ribatti, nessuno apriva. Era come «picchiare ad una sepoltura.28» Finalmente una vecchia serva venne ad aprire.... Ahimè! Che interno di casa! che contrasto fra l’antico lusso e la presente ruina! I pavimenti solcati e sconnessi, le finestre coi vetri rotti, le tappezzerie stracciate e cascanti a pezzi. La galleria dei quadri era scomparsa. I ritratti degli antenati non aveano ancora preso il volo, ma colla guardatura mesta e seguace parevano chieder ragione anche al tornato nipote di tutto quello squallore; il quale altro non era che il risultamento combinato dell’astrazione filosofica del Conte Gaspare e della «pindarica amministrazione29» della pastorella Arcade, sua moglie. Carlo e l’amico Massimo stavano lì, guardandosi l’un l’altro, come trasognati, allorchè il Conte Gaspare capitò, e mezzo tra dolente e sopra pensieri narrò al fratello che la famiglia se n’era andata nella villa del Friuli, che tra i debiti, le liti e le usure sfumavano le reliquie del patrimonio, che le sorelle, in età da marito, strillavano per la dote, che il padre era sempre paralitico e muto, che la casa era tutta a soqquadro; [p. xxvii modifica]poi sviò il colloquio e si mise a parlar di tutt’altro coll’amico, ospite di Carlo. Cominciò allora per Carlo una lunga iliade di guai. Volle tentare di salvar qualche cosa dal naufragio e si tirò addosso le ire degli usurai, le querimonie dei creditori, i piati dei forensi, le avversioni di tutte le donne di casa, quella della madre specialmente (sventura decisiva per l’indole d’ogni uomo), la quale spingeva la sua parzialità per Gaspare fino al segno di non poter tollerare, che altri osasse mettere in dubbio il genio finanziario dell’Irminda Partenide. Questa, non sapendo più qual’altra poetica sciocchezza commettere, dopo aver tentato di dare in pegno agli usurai la vecchia dimora dei Gozzi, indusse persino il buon Gaspare a farsi conduttore e impresario del teatro S. Angelo e di una compagnia comica. Fu l’ultimo crollo! Carlo, che con tutto il suo genio fiabesco badava al sodo, dopo aver pazientato lungo tempo, provocò la divisione della famiglia e che ognuno si pigliasse ciò che gli spettava.30 La qual famiglia però dovrà essersi martoriata fra tante angustie più per disordine, che per povertà vera, se il Conte Gaspare potè, siccome nota il Tommasèo, «dopo cinquant’anni di negligenza e di lapidazione lasciare al suo erede più che il necessario alla vita.31» Carlo scioltosi alquanto da tali brighe (libero del tutto non ne [p. xxviii modifica]fu mai) ritornò agli studi e al far versi, l’infermità gentilizia dei Gozzi.

Nel 1747 s’era formata in Venezia un’Accademia detta de’ Granelleschi, «brigatella di omaccini dabbene (così Gaspare Gozzi) che si danno questo titolo per umiltà.32» Che cosa significasse questo titolo, non occorre dire. Paolo De Musset, scrittore Francese, innamoratissimo di Carlo Gozzi, lo spiega per «amatori d’asinaggini;» Alfonso Royer, traduttore francese delle Fiabe, lo dà per Accademia degli «Inetti;» ma sono entrambi spiegazioni inesatte.33 Delineando «una quasi geografia poetica, una etnografia stilistica dell’Italia nel secolo passato» il Carducci nota che il Veneto era diviso «tra il francesismo cattedratico di Padova e sociale di Venezia e il toscanesimo cinquecentistico ed erudito.34» Di quest’ultimo erano accesissimi sostenitori i Granelleschi «gran difensori (scrive Carlo Gozzi nelle Annotazioni preparate per una ristampa del sua Poema: la Marfisa [p. xxix modifica]Bizzarra) gran difensori della lingua letterale italiana e della colta poesia di vario genere.35» Ma in che modo la difendevano?... E quest’Accademia, e le sue gesta, al pari di tutta la vita di Carlo Gozzi, danno anch’esse in parte la fisonomia storica di Venezia in quel tempo. «Bella cosa era, dice giustamente il D’Ancona nel suo studio sull’avventuriere Casanova, restaurare il gusto nelle lettere; ma quei Granelleschi col loro scempio prete Sachellari arcigranellone (il Presidente dell’Accademia) e la loro sconcia impresa e le altre goffaggini loro e il culto al Burchiello, più che ad un ravvivamento fanno pensare ad un rimbambimento.36» Così è di fatto. E non occorre rifarsi a descrivere per la centesima volta Venezia alla fine del secolo XVIII, e trarne ancora argomento di accuse o di difese strampalate, come s’è fatto a sazietà. Il fondo della vita sociale d’allora non [p. xxx modifica]è peggiore a Venezia che altrove. La leggerezza spensierata di costumi e di sentimenti, l’appassionarsi di picciolezze, in mancanza o nello spegnersi via via di alti ideali da conseguire, è comune a tutto il resto della società italiana, la quale perciò è dipinta nelle commedie del Goldoni più profondamente e più largamente di quello che vogliasi per solito ammettere. Se non che a Venezia, la quale della sua splendida vita passata conservava ancora le forme e le sontuose apparenze, a Venezia, dove anzi si potrebbe dire che era ristretta in questo tempo tutta la vita italiana, imbastardita, falsata, schiacciata in tutto il resto d’Italia dalle influenze o dalla padronanza degli stranieri, a Venezia, dico, i segni della decadenza risaltano più vivi, più dolorosi, ed in più immediata relazione di cagioni e di effetti colla catastrofe, che ingoiò la vecchia repubblica; catastrofe, che (salvo a Roma ed in Piemonte, decadenti anche per cagioni loro proprie) era già avvenuta negli altri stati italiani. Tuttociò basta e n’avanza per dar ragione della vergognosa rovina di Venezia; nè occorre calunniarne le instituzioni e il governo, come fece il Daru, o, come Filarete Chasles, compendiarne i costumi e la moralità in un sonetto ed in una canzonetta di Giorgio Baffo.37 [p. xxxi modifica]Fra le picciolezze, delle quali Venezia s’appassionò di più nel secolo scorso, furono le rivalità del Chiari, del Goldoni e del Gozzi; picciolezze, dico, non già per la «battaglia teatrale combattuta allora,» che «sarebbe segno di cultura e di svegliatezza, da onorarsene un popolo,38» ma per le forme, che assunse tale battaglia, e le personalità, le bassezze, le volgarità, i pettegolezzi, che vi si mescolarono e che pur riescirono a mettere «tutta la città in movimento.39» Antesignana della lotta fu l’Accademia dei Granelleschi, alla quale era ascritto Gaspare Gozzi e, dopo il ritorno dalla Dalmazia e le vicende domestiche, alle quali ho accennato, s’ascrisse anche Carlo, le cui buone relazioni col fratello non erano mai cessate del tutto, nonostante che Gaspare, durante i litigi, che travagliarono e divisero la famiglia, avesse esposto a ludibrio nel teatro, (di cui per sua disgrazia era impresario e poeta) il fratello Carlo, una dama,40 pretesa amante di questo, e trovatasi a caso mescolata nelle baruffe domestiche dei Gozzi, e l’avvocato di Carlo personaggio autorevole e generalmente stimato.41 Singolare (nota il D’Ancona42) questa libertà aristofanesca del teatro sotto un [p. xxxii modifica]governo così ombroso e così inframmettente, e bruttissimo esempio domestico, che ebbe certo grande azione sull’indole naturalmente satirica, puntigliosa e battagliera di Carlo Gozzi. Nell’Esopo in città, libera traduzione di Gaspare d’una commedia Francese, una vecchia, nella quale è raffigurata nient’altro che la madre dei Gozzi, viene a lagnarsi ad Esopo, ministro del Re Creso, dei mali trattamenti, che essa ed il suo figlio maggiore ricevono da altri figli e fratelli, vale a dire da Carlo e Francesco:

Vecchia — ....Morì mio marito

E nella fratellanza de’ miei maschi
Per un tempo seguì lo stesso affetto
E la stessa amicizia. Erano tutti
D’un cuore, erano tutti d’una mente,
E quel che l’un volea, l’altro volea.
Quando, non posso dirlo senza piangere,
Fecesi loro amico Sicofante,
Dottor leggista di questa città,
E scompigliò la pace. Due de’ maschi
Si sono uniti, e sono contro l’altro
Ch’è maritato ed ha cinque figliuoli.
Esopo — E questo vostro figlio non ritrova
Chi lo difenda, chi gli faccia scudo?
Vecchia — Vi dirò: l’umor suo è sì pacifico,
Ch’ei stava pure aspettando che gli altri
Due fratelli tornassero a pensare
Che son nati d’un corpo e sono un sangue
Stesso. Oltre di che, avendo atteso
In vita sua a leggere e a scrivere.
Non s’intende niente di litigi,
Ed è di cuore schietto e buona fede;

[p. xxxiii modifica]

Nè s’è curato d’opporsi a’ lacciuoli
Dell’avversario dottore leggista.
Onde, oltre alla sua moglie, alla famiglia
Sua ch’è assai numerosa, ha in casa me,
Le sue sorelle, e in tutto è abbandonato
Dagli altri due che stimano vittoria
L’opprimere un fratello e se ne vantano:
A tale gli ha accecati la promessa
Dell’avvocato, chè da lor non sono
Già di mal cuore, anzi hanno buone viscere.
Però, signor Esopo, io son ricorsa
Alla vostra bontà. Fate per modo,
Che ritorni la pace in casa mia,
Sì ch’io possa vedere tra’ miei figli
Il primo amore e la carità prima.
Esopo — Sapete voi, che mova l’avvocato
A difender tal causa?
Vecchia —                               C’è chi dice
In varie forme. Chi dice ch’è mosso
A ciò far da una donna; e chi, ch’essendo
Già conosciuto per poco veridico
E per ciò abbandonato di clienti,
Faccia fascio d’ogni erba; e per mostrare
Qui in Cizica che ancor abbia faccende,
E’ si fa difensore d’ogni cosa
A dritto e a torto, e fa pianger le povere

Famiglie sventurate in questa forma.43

La mano di Gaspare in questi versi si sente, mi sembra, nè so davvero come qualcuno abbia potuto dubitarne.44 Una sola scusa ha il buon [p. xxxiv modifica]Gaspare ed è la debolezza sua, per cui era solito lasciarsi tirar pel naso dalle donne di sua casa, le più indiavolate in tali contese. Da queste, nelle quali avea educato l’umor suo, passò Carlo Gozzi alle contese letterarie. Quella col Goldoni e col Chiari, ch’egli si compiacque sempre d’appaiare con enorme ingiustizia45 incominciò dopo l’impegno contratto dal Goldoni, come poeta comico, con Girolamo Medebach per gli anni dal 1748 al 1753. Quali fossero le condizioni del teatro in Venezia ed in Italia prima della riforma del Goldoni è stato bene o male detto e ripetuto da tanti, che non occorre veramente tornarlo a dire. Meglio e con maggiore autorità d’ogni altro dal Goldoni stesso in più luoghi delle sue Opere, principalmente nella Prefazione alle edizioni del suo teatro del 1750 e del 1753, riprodotta e ampliata nell’edizione Pasquali del 1761: «Era corrotto a segno da più d’un secolo nella nostra Italia il Comico Teatro, che si era reso abbominevole oggetto di disprezzo.... Non correvano sulle pubbliche scene se non isconce Arlecchinate; laidi e scandalosi amoreggiamenti e motteggi; Favole mal inventate e peggio condotte, senza costume, senza ordine.... Molti però negli ultimi tempi si sono ingegnati di regolar il teatro e di ricondurvi il buon gusto. Alcuni si son [p. xxxv modifica]provati di farlo, col produrre in iscena commedie dallo Spagnuolo o dal Francese tradotte. Ma la semplice traduzione non poteva far colpo in Italia.... E perciò i Mercenari Comici nostri,.... recitandole all’improvviso, le sfiguraron per modo che più non si conobbero per opere di que’ celebri Poeti, come sono Lopez De Vega e il Molière.... Lo stesso crudel governo hanno fatto delle commedie di Plauto e di Terenzio,46 nè lo risparmiarono a tutte le altre antiche o moderne Commedie ch’eran nate e che andavan nascendo nell’Italia medesima.... I dotti.... il popolo.... tutti d’accordo esclamavano contro le cattive Commedie, e la maggior parte non avea idea delle buone. Avvedutisi i Comici di questo universale scontento, andavano tentoni cercando il loro profitto nelle novità. Introdussero le macchine, le trasformazioni, le magnifiche decorazioni.... gli Intermezzi in musica.... le tragedie, e i drammi composti per la musica. Qual incontro non ebbero i drammi del celebre Sig. Abate Pietro Metastasio, quelli dell’Illustre Sig. Apostolo Zeno, le tragedie del sapientissimo Patrizio Veneto Sig. Abate Conti, la Merope dell’eruditissimo Sig. Marchese Maffei, l’Elettra ed altre molte o interamente composte o eccellentemente dal Francese trasportate dal [p. xxxvi modifica]peritissimo Sig. Conte Gasparo Gozzi, non meno che altre eziandio, così di antichi, come di recenti valorosi Poeti Italiani, Francesi ed Inglesi....? E qual compatimento non ebbe anche alcuna delle mie rappresentazioni il Belisario, l’Enrico, la Rosmunda, il Don Giovanni Tenorio, il Giustino, il Rinaldo da Montalbano....? Ma codesti applausi stessi, che riscuotevano i drammi e le Tragedie rappresentate da’ Comici, erano appunto la maggior vergogna della commedia, come la più convincente prova dell’estrema sua decadenza.47» Queste le condizioni vere del teatro in Italia, allorchè il Goldoni ideò e iniziò la sua riforma. La tentò per gradi e quasi assaggiando le proprie forze e gli umori del pubblico. «Quando si studia, scrive esso, sul libro della Natura e del Mondo non si può.... divenire maestro tutto ad un colpo; ma egli è ben certo che non vi si diviene giammai, se non si studiano codesti libri.» Compose dunque da prima commedie d’intrigo, poi di una sola parte scritta, cioè il carattere principale della commedia, lasciando il resto all’improvvisazione dei comici, e finalmente di varii caratteri e tutte scritte. Già la grande arte della commedia improvvisa, che il Goldoni stesso, (al pari di Carlo Gozzi, fattosene poi sostenitore) riconosceva essere quella che «italiana unicamente può dirsi, poichè da altre nazioni non fu [p. xxxvii modifica]trattata,48» la grand’arte della commedia improvvisa era, si può dire, finita; le tradizioni delle famose Compagnie comiche dei Gelosi, degli Uniti, dei Fedeli erano illanguidite da un pezzo. Anche in Francia, dov’era stata delizia di popoli e di re dal 1530 in poi,49 la Commedia dell’arte, verso la fine del secolo XVII, s’era quasi fatta francese del tutto e non conservava più che «qualche sgocciolo della sua antica vena, i suoi vecchi tipi, che le faceano risparmiar la spesa dei vestiarii, le forme estrinseche insomma e non altro.50» Ripigliò vita sotto la Reggenza nei primi del secolo seguente, ma era già altra cosa anche allora, nè certo risplendeva più dei grandi nomi degli Scala, degli Andreini, dei Fiorilli, dei Martinelli, dei Riccoboni. Tale la ritrovò il Goldoni nel 1762, mentre in Italia, dove il maggior rappresentante, che ancora avesse, era il Truffaldino Antonio Sacchi, s’era da gran tempo irrigidita in forme convenzionali e scadeva sempre più nella grazia del pubblico, «annoiato di veder sempre le cose istesse, di sentir sempre le parole medesime, e di sapere cosa deve dir l’Arlecchino prima ch’egli apra la bocca.51» L’apogeo della gloria del Goldoni, la [p. xxxviii modifica]maggior furia della sua creazione letteraria sono appunto nel quinquennio comico dal 1748 al 53. Il martedì grasso, io febbraio 1750, promette le sedici commedie per l’anno venturo e l’ultima sera del Carnovale seguente, dopo la recita dei Pettegolezzi delle Donne, è portato in trionfo a braccia di popolo al Ridotto.52 Con tutto ciò gli si contrapponeva come emulo l’Abate Pietro Chiari, del quale (checchè si sia sforzato di dimostrare in contrario il Tommasèo) ha detto esattamente Carlo Gozzi, allorchè lo definiva «un cervello acceso, disordinato, audace e pedantesco; una oscurità d’intreccio da astrologo; de’ salti da stivali da sette leghe; delle scene isolate, e disgiunte dall’azione, suddite d’una loquacità predicantesi filosofica e sentenziosa; qualche buona sorpresa teatrale, qualche descrizione bestialmente felice;.... uno scrittore il più gonfio e ampolloso che adornasse il nostro secolo.53» Con più placida ironia il Goldoni si contentava di dire delle commedie del Chiari: «romanzi e poi romanzi!54» Ma il Chiari, vano e maligno, non si ristava dall’assalire in mille modi il Goldoni e, prima ancora che osasse scimiottare i temi ed i titoli stessi [p. xxxix modifica]delle sue commedie, contrapponendo alla Pamela Nubile la Pamela Maritata, all’Avventuriere Onorato l’Avventuriere alla Moda, al Padre per amore l’Inganno amoroso, al Molière il Molière marito geloso, al Terenzio il Plauto, alla Sposa Persiana la Schiava Chinese, al Filosofo Inglese il Filosofo Veneziano, alla Scozzese la Bella Pellegrina,55 prima ancora che osasse tanto, fulminava il Goldoni di satire e di scherni più o meno diretti, più o meno coperti. V’ha chi pretende che il Goldoni provocasse per primo il Chiari con un sonetto ignobilissimo, che è riferito nel Codice della Raccolta Cicogna (nel Museo Correr di Venezia), intitolato: Composizioni uscite sui teatri e Commedie e Poeti nell’anno 1754 in Venezia,56 monumento curiosissimo dell’accanimento e della scurrile volgarità di codeste lotte letterarie. [p. xl modifica]In quel sonetto, fra altri vituperi, v’ha che le Commedie del Chiari, prete:

D’un sagro disertor son laide imprese.57

Ma quel Codice è pieno di poesie scritte dai partigiani e dai nemici dei due poeti. Per me non credo quel sonetto opera del Goldoni e mi sembra che concordi piuttosto con altri assalti consimili di Gasparo e Carlo Gozzi contro il Chiari, il primo dei quali scriveva:

San Basilio e Gregorio Nazianzeno
E più di tutti San Pietro è adirato,
Perocchè un sacerdote consacrato
Fa commedie ogni dì con Cristo in seno,58

ed il secondo, alludendo al Goldoni ed al Chiari:

Ritornin gli uni a’ lor digesti, e scribi,
Tornin gli altri pentiti agl’Introibi.59

E altrove, volgendosi al Chiari soltanto:

Omaì pe’ falsi libri e per mollezza
E più pei disertor dal sacro tempio
Piange la Chiesa afflitta, è il secol guasto.60

[p. xli modifica]Fra i molti però, che si mescolavano in questa lotta, chi si mostrava indifferente fra il Goldoni ed il Chiari:

E sì, a dirla tra nu, senz’altri bizzi,
I xe tutti do coghi belli e boni.
Che tutti do fa dei gran bei pastizzi;61

chi esaltava il Chiari sul Goldoni:

Chiari ve scrive in serio e più bello e pulito,
Chiari vien più brillante....
Bisogna aver pazienza, in tutto ancuo el lo supera
E col far insolenze, l’onor no se recupera.
Bisogna far fadiga, studiar come el fa lù,
Che allora po’ se vede quel che gh’a più virtù.
Via, bravo intanto, Chiari, poriève sempre ben,
Che diese matti parla de rabbia e de velen.
Voghè, Chiari, voghè, che da do anni in qua
De cento barche almanco avanti ghe se andà;62

chi finalmente, ed erano i migliori in Venezia e in tutta Italia, stava pel Goldoni. Per lui parteggiava altresì il Casanova, giramondo imbroglione, finchè si vuole, ma vivissimo ingegno di certo, che, mosso da ragioni non tutte letterarie, avventò contro il Chiari una filza di cattivi martelliani, e [p. xlii modifica]questi se ne vendicò, satireggiandolo sotto il nome di Signor Vanesio in un suo romanzo, la Comica in fortuna. Per tutta risposta, pur ribadendogli:

Ma vu guastè el teatro: e la bella fattura
Che avea fatto Goldoni se perde e più non dura,

il Casanova gli promise un cargo de legnae, ma era già alla vigilia d’esser chiuso nei Piombi e non potè mantenergli la promessa.63 Si sbracciava il Chiari a procurarsi fautori dappertutto, ed uno dei documenti più strani della sua pazza vanità sono le Epistole Poetiche a lui dirette da Alcuni Letterati Modanesi e pubblicate con le risposte di lui.64 Di queste Epistole il Goldoni, scrivendo all’Arconati-Visconti in proposito del poemetto in sua difesa del Padre Roberti, diceva: «non maltratta alcun altro, per onorare l’amico suo; non seguita lo stile dei Modenesi nelle loro Epistole Martelliane, nè mi mette al di sopra de’ buoni autori, com’essi fanno il loro versificatore.65» E Gaspare Gozzi in una lettera al Mastraca: «il (Chiari) è stato gonfiato a Modena con lettere [p. xliii modifica]in versi martelliani piene di lode, ed egli ha risposto a tutte, lodandosi quel poco di resto che mancava. Tutto il mondo è versi martelliani.66» Fra gli scrittori delle Epistole, uno de’ più inviperiti nelle sue allusioni al Goldoni è l’Abate Giambattista Vicini, Arcade della più bell’acqua, che inneggia al Chiari, dicendo:

Tu vai dei Greci sommi, tu dei Latini al paro,
E degli Itali antichi, cigno animoso e raro.
Tu superi gl’Ispani, tu superi gl’Inglesi
Moderni e prischi; ah il soffrano, tu superi i Francesi.
Tu a gli Europei talenti campo novello apristi,
Nuovo comico mondo tu. Chiari, discopristi....

E via di questo gusto, chiamando per di più in un sonetto di chiusa gufi e corvi gli emuli del Chiari; senza che questo gli impedisse poi, tre anni dopo, di far la corte al Goldoni, il quale, sempre buono, avea scordate le offese.67 L’Abate [p. xliv modifica]Vicini è il Signor Egerio Porconero del Baretti, titolo che gli stava bene davvero!68

Contro il Goldoni ed il Chiari scesero in campo i Granelleschi; non tutti però avversi al Goldoni o non tutti almeno con accanimento uguale a quello di Carlo Gozzi. Suo fratello Gaspare, ad esempio, se non si può dire che s’astenesse del lutto, certo attestò più volte e pubblicamente la sua stima e la sua ammirazione al Goldoni. Basti ricordare i giudizi di lui sui Rusteghi e sulla Casa Nova nella Gazzetta Veneta e la pubblicazione fatta nella Gazzetta stessa dei famosi versi del Voltaire in onore del Goldoni.69 Di questi entusiasmi di Gaspare pel Goldoni pare anzi che Carlo s’arrovellasse talvolta non poco, sicchè, oltre ai noti versi, nei quali taccia quasi d’infedeltà il fratello:

I Granelleschi in gran pensier mettete;
Chi si lamenta, e vi crede neutrale
E chi sustien che ribellato siete.
            Lo scandal ci ponete;
Il Dottor tira calci, come un mulo,
E la camicia non gli tocca il c...,70

[p. xlv modifica]oltre a questi versi, dico, v’è nel Codice Cicogna un altro sonetto di Carlo, che credo inedito, ed è di questo tenore:

Fegeio71 alza la cresta e sfida l’orbe
     Dopo la lega sua col Gazzettiere,
     Più non si può rimetterlo a dovere,
     Ei ci minaccia e tien le luci torbe.
Sapete, amici, come se gli torbe72
     Quest’arroganza, ch’or ci fa vedere?
     Ditegli questi detti per godere,
     Che gli fien più discari delle sorbe:
Fegeio, l’opre tue fin or son state
     Fetenti e lorde, pazze e di castrone;
     Puolle veder chi non l’ha ben guardate.
Se pel futuro ne farai di buone,
     Diremo: il Gazzettier l’ha tacconate
     O gliel’ha fatte ed avremo ragione.
                  Chi cerca la cagione
     D’un stran caso, la trova; ecco trovato
     Lo’mperchè sozio a Erode oggi è Pilato.73

Carlo invece non diede mai tregua nè al Chiari, nè al Goldoni, e d’invettive e di satire contro questi due, e principalmente contro il Goldoni, riempì intieri volumi, oltre alle moltissime, che sono inedite. Sarebbe soverchio e stucchevole riesaminare tutta questa farraggine. Non ne dirò [p. xlvi modifica]quindi se non quel tanto che più importa al mio argomento.

Quando Carlo Gozzi nel 1772-74 pubblicava e ripubblicava molte delle sue poesie satiriche contro il Goldoni, sentì la necessità di tralasciarne alcuna delle più scurrili, di correggerne altre e di scusarsi quasi di questa rinnovazione d’offese a guerra finita. Ma la sua scelta fu maligna, dappoichè escluse tutte o quasi tutte quelle contro il Chiari; le sue correzioni furono pressochè insignificanti, le sue scuse magre e non sincere. «Il pubblicare, scriv’egli, de’ Sonetti urbanamente satirici, faceti, ragionevoli, non fa che far noto, che quella persona, contro alla quale sono scritti, fu un ingegno, che ha meritato l’occupazione d’un altro ingegno.74» Come e in che tempo preciso Carlo Gozzi si gettasse nella battaglia, che ferveva a Venezia, fra Goldonisti e Chiaristi, sarebbe difficile determinare. Questa battaglia, come dissi, avea veramente messo sossopra tutta la città, e non esagera Carlo Gozzi, scrivendo:

I partigiani ogni giorno crescevano,
Chi vuole Originale e chi Saccheggio;75

[p. xlvii modifica]

Tutto il paese a romore mettevano,
Sicchè la cosa non è da motteggio.
Nelle case i fratelli contendevano.
Le mogli co’ mariti facean peggio,
In ogni loco acerba è la tenzone,
Tutto è scompìglio, tutto è dissensione.

76

Fu il momento più decisivo per la vita privata e letteraria del Gozzi. Fin’allora non avea fatto altro che poesie per nozze, per monache, per ingressi di magistrati,77 poesie per le cosidette Raccolte, la gran miseria dei letterati del secolo XVIII, (ogni tempo ha le sue) ed il suo nome apparisce anche nelle famose di Milano per la morte del gatto del Balestrieri, e per quella di Pippo, cane vicentino;78 satire forse, che sono, delle Raccolte; [p. xlviii modifica]siccome, celiando, si lagnava Carlo Gozzi, se ad ogni occasione di Raccolta non era con gli altri poeti invitato a cantare:

O me infelice! Che vorrà dir questo?
Il Venier fa l’ingresso,
Tutti i poeti a scriver son pregati
Ed io non veggio un messo
Che m’abbia almeno un sonettuzzo chiesto!
Ahi ch’esser deggio de’ dimenticati!79

Combattè da prima contro il Goldoni ed il Chiari, insieme coi colleghi Granelleschi e cogli altri avversari dei due poeti, punzecchiandoli di continuo con libelli e satire, ma finalmente buttò giù buffa, e, ponendosi audacemente a capo degli assalitori, scrisse la Tartana degli Influssi per l’anno bisestile 1756, specie di lunario burchiellesco, col quale, fra altre cose, dileggiava nel peggior modo il Goldoni e il Chiari.80 «O vergogna del secolo cornuto! (scrive altrove in questo proposito il Gozzi). Che più si doveva attendere per accendersi d’un [p. xlix modifica]onesto sdegno in difesa del secolo, degli studi e del comune? Io mi recai nel mio stanzino terreno e qui disegnai quell’operetta di pochi fogli appellata: La Tartana. Picciola parte d’essa spetta ai poeti Nugnez,81 la maggior parte a’ costumi del secolo in generale. Ella è uscita da’ torchi di Parigi. Buon pro. Fu donata e non venduta. Non aveva nome del suo scrittore, ma i pesciolini sapeano ch’ella era di Carlo Gozzi. Se ad alcuno mancasse di saperlo, suonisi la tromba, si raduni il popolo. Sappiasi che la Tartana è di Carlo Gozzi, di Carlo Gozzi.82» Anche in questa Tartana il bizzarro ingegno e l’umor satirico del Gozzi brillano di strana luce a traverso le irregolarità e disuguaglianze del suo stile, col quale questa volta pretendeva imitare il Pulci ed il Burchiello, la gran passione del Gozzi e dei Granelleschi. Ai quali, ed al Gozzi specialmente, alludeva certo il Baretti, allorchè con molto senno derideva nella Frusta gli «smisurati panegiristi,» del Burchiello e tutti quei loro riboboli d’accatto e vecchiumi di frasi ritinti a nuovo, in cui parca credessero consistere il perfetto scrivere.

Della rivalità fra il Goldoni ed il Chiari scrive il Gozzi così: [p. l modifica]

Dove fan lor imprese ì ciurmatori,
Vedestu mai, lettore, in sulla piazza
Due fantaccini far gli schermidori
In mezzo a innumerabil turba pazza?
Davano assalti, menavan furori
Da far paura a Dodon dalla mazza,
Tondi, punte, rovesci ed avean quelli,
In iscambio di spada, in man randelli.
Era ignorante l’uno e ne sapea
Tanto di scherma, quanto un uom dipinto:
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
L’altro avea della scola alcun precetto
E facea l’impostore al rigoletto,
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Così tenendo il popolo in puntiglio
Traean que’ due ciurmanti un buon guadagno.
Leggonsi certe nuove Marianne,
Certi Baron, certe Marchese impresse,
Certe fraschette buse, come canne,
E le battezzan poi filosofesse,
Che il mal costume introducono a spanne.
Credo il dimonio al torchio le mettesse.
Chi dice, egli è un comporre alla Francese;
Certo è peggior del mal di quel paese.83
Il costume o dev’essere un bordello,
O in tutto una virtù che non si trova.
D’otto vecchie Commedie in un fardello
Ricuci i fatti e la commedia è nova.84
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Gridan le genti: il Teatro è risorto,
Novi Molier son nati al calamaio....

[p. li modifica]

Di un assalto così fiero il Gozzi dava già per ragione il suo amore alle vecchie commedie dell’Arte:

Io sto piangendo pel Teatro morto
E singhiozzando al buco dell’acquaio,85

e a rinnovarne la gloria conchiudeva preconizzando e invocando il ritorno del Truffaldino Sacchi, che da Lisbona donde avea dovuto ripartire colla sua Compagnia a cagione del terremoto del 1755,86 stava per far ritorno a Venezia:

Deh corra il Sacchi e venga a darci aiuto
    Tutti per noia abbiam le faccie oscure;
    .  .  .  .  .  .  Tutte le persone
    Andranno al Sacchi come ad un convito
    E rideranno e dirangii: ghiottone,
    Perchè sì t’eri, traditor, fuggito?
    Questi dottor ci opprimeano i cardiaci;
    Eravam tutti fatti ipocondriaci.
Sappi, che noi facemmo que’ fracassi
    All’opre loro e quel picchiar di mane,
    Perocchè sentivam certi papassi
    A dir, ch’ell’eran cose sovrumane
    E che tu eri un istrion pe’ chiassi.
    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
    Galoppa e vien per le più mozze vie....87

[p. lii modifica]

Contro il suo solito il Goldoni non potè contenersi e rispose:

Ho veduta stampata una Tartana
   Piena di versi rancidi sciapiti,
   Versi da spaventare una befana,
Versi dal saggio imitator conditi
   Col sale acuto della maldicenza,
   Piena di falsi sentimenti arditi;
Ma conceder si può questa licenza
   A chi in collera va colla fortuna,
   Che per lui non ha molta compiacenza.
Chi dice mal senza ragione alcuna,
   Chi non prova gli assunti e gli argomenti
   Fa come il can che abbaia alla luna.88

Il Gozzi, vedendo così raccolto il guanto dal Goldoni, si eccitò alla lotta sempre più. Dipingeva il Goldoni come disperato di quell’assalto:

Stassi il Dottor sdraiato e strappa e sbrana,
   E scaglia il parruccon sul pavimento,
   Poi grida: Aceto, io vado in sfinimento,
   Che non posso patir quella Tartana.89

[p. liii modifica]Smascherava la finzione che la Tartana fosse scritta da un morto90 e ch’egli non ne fosse che l’editore:

Qual colpa è mai di quel barbier di Mida
   Che vide al Re gli orecchi del giumento?
   .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Qual colpa ho io che in un oscura tana
   Scrissi soletto, e, morto, nella tomba
   Avea gli scritti e quella mia Tartana,
Se uscita come sasso dalla fromba
   Da torchi Parigin, la Fegeiana
   Orecchia ha pubblicata a suon di tromba?91

Non avea più alcuna misura nella volgarità birichinesca dello scherno:

O putti da buon tempo, o compagnoni,
   S’io credea, che n’avessimo un tal spasso,
   Dicendo all’Assessor:92 Vate da chiasso
   E gran Riformator de’ miei c...
Gliel’avrei detto prima ott’anni buoni.
   Amici, eccol di qua bassotto e grasso,
   Corriamgli incontro, attraversiamgli il passo,
   Diamgli dei pizzicotti in sui pippioni.

[p. liv modifica]

Che il vederem rivolto inverso noi
   Con sicumera e con caricatura
   A gridar: Ragazzon, che fate voi?
Poeta io son della Madre-Natura....93


Il Goldoni ora in una or in altra occasione rispondeva, ma (tanta era la diversità dell’indole di questi due uomini) più schermendosi, che offendendo, più dolendosi dell’ingiusta guerra, che rintuzzando l’ingiuria coll’ingiuria. «Can che abbaia alla luna» è forse la frase più acerba che gli esca contro il Gozzi. Pochi accenni del resto a tali baruffe, trovansi ne’ suoi scritti. In un poemetto intitolato: La Tavola Rotonda94 introduce:

Un Lombardo che affetta esser cruscante
Col riso in bocca e col veleno in petto,

il quale nega al Goldoni ogni facoltà poetica e dice:

Come si può soffrir che un uomo scriva
   Senza il conciossiachè, senza il quandunque?
   Per mieter palme all’Apollinea riva
   Deesi la Crusca adoperar dovunque.
   Non bastan, no, del basso vulgo i viva
   De’ sacri allori a coronar chiunque,
   E poeta chiamar si puote indarno
   Chi le pure non bevve onde dell’Arno.

[p. lv modifica]Ed il Goldoni risponde umilmente, anche troppo:

                    .......perdono
Volentieri l’insulto a me dovuto,
Purtroppo il so che buon scrittor non sono
E che a i fonti miglior non ho bevuto;
Qual mi detta il mio stil scrivo e ragiono
E talor per fortuna ho anch’io piaciuto,
Ma guai a me se il fiorentin frullone
A sceverare i scritti miei si pone.

Anche da questi versi traspare la bonarietà del Goldoni. Per contrario l’iracondo Gozzi varcava ogni limite e contro alle poche risposte del Goldoni centuplicava le nuove risposte95 e le nuove invettive. Fra le tante contro la Tavola Rotonda, ne cito una inedita:

Scrisse un dì l’escremento del Molière:
   Io con arte dipingo il vizio espresso,96
   Tal che nessun può dire: io son quel desso,
   E metto l’uomo in scena a mio piacere.
Ma essendo censurato al suo mestiere
   Da un uotn col ver, per svelenarsi ha messo
   In scena un ignorante, un uom di cesso,
   Un Lombardaccio cotto, un menzognere;
Poi disse piano ai suoi parziali: è quello
   Il mio censor; gli assaggiator di brodo
   Ballavan tutti ed egli si fe’ bello.
Così la verità si cambia in frodo
   Nè si dipinge il vizio, Ser baccello,

[p. lvi modifica]

Nè si sconta i peccati o scioglie il nodo.
                    La va per altro modo
Dalla mia parte, ed a fronte scoperta
Non dico: Ser Lombardo, o Monna Berta,
                    Ma il Goldoni diserta,
Non riformata ha la commedia nostra
E non ha vinto Truffaldino in giostra.
                    Con sopportazion vostra
Ei fa commedie, e poi le crede buone
Perchè i c... gli dan riputazione.
                    Spiegato ho il Gonfalone,
Mai non dirò per tema le bugie.
M’impiccheran le vostre Signorie?97


E basti di questi versacci, che n’ho citati anche troppi e unicamente perchè sono il documento di questa sconcia lite letteraria.

Il Goldoni avea detto:

Chi non prova l’assunto e l’argomento
Fa come il can che abbaia alla luna.

E il Gozzi:

           Ma acciò s’abbia a decidere
S’io dissi il ver, sto facendo un comento
Che proverà l’assunto e l’argomento.98

Questo commento fu una nuova satira vivacissima e bizzarramente burlesca, con cui pretese rispondere al Teatro Comico, commedia del Goldoni, [p. lvii modifica]contenente, come si direbbe, il programma della sua riforma teatrale. È intitolata: Il Teatro Comico all’osteria del Pellegrino tra le mani degli Accademici Granelleschi. «Ecco giungere, scrive Carlo Gozzi,99 un mostro che dalle forme fu tenuto per una addottrinata maschera, ma dai Granelleschi si tenne per quello ch’egli era veramente ed eccovi la pittura. Il corpo era d’uomo. La statura bassa e grossa e goffa oltremodo. Le vestimenta erano cangianti e tenea al galone la spada. Nuova e strana cosa era il capo, poichè aveva quattro facce con quattro bocche, quattro nasi e otto occhi, uno di vista corta, tre cispi, quattro rovesciati e per tutte le quattro bocche ragionava. I discorsi venieno da un cervello solo e picciolino, come che la zucca fosse assai grande a tale che si sarebbe potuta chiamare zuccone, e quanto agli orecchi erano due soli lunghissimi e pungiglianti. Non vi direi in tre anni i discorsi che faceva al popolo, che se gli affollava dintorno, con quelle sue quattro bocche. Con una contraffacea Pantalone, il Dottore, il Brighella, e il Truffaldino con poca grazia e molta disonestà. Il popolo facea un gran picchiar di mani nel principio a tale novità, ma perchè per costume i popoli si cambiano, a poco a poco cominciava la noia e il sbavigliare ed era abbandonato. Colui s’accorgeva della sventura e spalancava un’altra bocca, fingendo il Lelio, la [p. lviii modifica]Rosaura, il Leandro, la Clarice, la Corallina, in alcune circostanze di certe famiglie conosciute dei nostri giorni. Vestiva queste persone di caratteri palesi caricandoli oltre la naturalezza e con una prosaccia fetente faceva dialoghi sconnessi non lasciando mai le lascivie e l’adulazione verso il popolo. A tal cambiamento le genti s’aggruppavano di nuovo, l’applauso e il picchio si rinnovellava. Non andava però molto che la freddezza, i sbadigli e l’abbandono era a campo (sic). Il mostro apriva ben presto la terza bocca, fingeva personaggi eroici, di paesi lontani, di costumi e di leggi non conosciute dal popolo e qui con le novità faceva nascere curiosità fra la gente, la quale si ravviluppava di nuovo. Dialogava con versacci lunghi, rimati, d’uno stile assai goffo. Sponeva ripudi, violenze, duelli, pianti, e predichette.... Gli applausi erano pronti, com’anche a poco a poco era pronto il tedio e l’abbandono. Il mostro prestamente spillava la dottrina dalla quarta bocca, fingendo la Catterina e la Maddalena, pettegole, sfacciate, in contrasto per gli amori o per la gatta. Titta e Nane, gondolieri maldicenti o in baruffa alla taverna o al tragitto. Il Conte forestiere innamorato della lavandaia Veneziana. La Dama strapazzata dalla baldracca e rinvilendo gli esteri, adulando gli ascoltatori, innestando equivoci lordi, ragionando or in versi corti, or in versi lunghi, or in ottave, or in terzine, spiccando qualche canzoncina, immaginando d’essere or in barca, or a [p. lix modifica]cena, or a giuoco, or alla finestra, or alla bottega, per sola novità e senza proposito, usando linguaggi corrotti e gergoni di levante, di ponente, di mezzogiorno e di settentrione, tanto faceva che il popolo inalzava di nuovo le voci e accorreva. E così all’apparire della noia riapriva la prima bocca, la quale riusciva come nuova, poi la seconda, poi la terza, poi la quarta e con questa dottrina.... teneva le persone intronate e meravigliate e d’altro non si discorrea per la piazza che di questa persona o vogliamo dire mostro o chimera.»

Dopo questa specie di storia, a modo suo, del teatro Goldoniano, dalle prime prove alle commedie di carattere, da queste alle romanzesche e alle popolari di costume Veneziano, i Granelleschi, già mezzo brilli, fanno entrare il mostro nell’osteria e ne segue un dialogo tra esso ed il Gozzi, che è tutto una diatriba violentissima contro le commedie del Goldoni. Il mostro non sa più che cosa rispondere. Allora, continua il Gozzi, «rizzatosi dalla pancaccia e sbottonandosi dinanzi il vestito a furore, fece vedere ignuda la pancia rigonfia ai Granelleschi. Nel mezzo di quella gran trippa con istupore degli Accademici c’era un altra gran bocca con la quale con voce alta così disse: Campioni e difensori del vero, scusate in carità le strane e diverse cose fatte e dette dalle quattro bocche che sono nel capo di questo mio fratello e bastivi il sapere che tutto fu fatto per amor mio e non per altro. Io mi vi raccomando. [p. lx modifica]Qui si tacque, torcendosi in atto di piangere quella veridica bocca dell’Epa. Allora gli Accademici mossi da misericordia spalancarono l’uscio e quel mostro, o Teatro Comico, rotoloni come un barile a rompicollo se ne andò giù per le scale dell’osteria... Gli ottimi Granelleschi borbottando e lagnandosi presero i tabarri e le maschere e giurato nuovamente il nodo dell’alleanza.... se ne andarono chi qua chi là a spargere parolette in difesa del buon gusto e delle purgate scritture e a scagliare dardi alla corruzione del secolo e a viso aperto cercando il martirio.»

L’eccesso di questa satira (che per l’invenzione però fa già presentire il poeta delle Fiabe ed ha con la prima di esse non poca affinità) la ignobile allusione alla onorata povertà del Goldoni fanno, per vero dire, poco onore all’indole del Gozzi. Ma nel dialogo accusa altresì il Goldoni di deprimere deliberatamente i nobili e di subornare la plebe «con un pubblico mal’esempio contrario all’ordine indispensabile della subordinazione,100» ed in Venezia, retta da un’oligarchia sovrana di Patrizi, quest’era una denunzia bell’e buona. Narra il Gozzi che codeste brutte sfuriate furono di ragione pubblica prima ancora d’essere date alle stampe e che anzi il Goldoni, spaventato, ottenne da lui, per intramessa di due Patrizi, il Farsetti, amico del Gozzi, ed il Widiman, amico del [p. lxi modifica]Goldoni, che il Teatro Comico non fosse pubblicato.101 Può darsi e, se il Goldoni cadde in tale debolezza, il tempo, la natura del Governo, le condizioni della società Veneziana d’allora sono più che bastanti a darne ragione e sempre più se n’accresce il torto dell’aristocratico Conte Gozzi. Più certo è che nè prima, nè poi, quando scrisse le sue Memorie, il Goldoni tentò vendicarsi del suo feroce avversario. Questa nobile moderazione non ammansò tuttavia le furie del Gozzi, e la Tartana, e la Marfisa Bizzarra e il Ratto delle Fanciulle Castellane, ed i Sonetti e gli Atti dei Granelleschi e tanti altri suoi scritti faceano piovere come una grandine di vituperi sul Goldoni e sul Chiari. Negli Atti dei Granelleschi il Gozzi si rivolge con speciali componimenti ai Consacrati Religiosi, alle Granosissime Dame, ai Nobilissimi Cavalieri, alle Gentilissime Cittadine, ai Prudentissimi Cittadini, agli Onorati Mercatanti, a tutti raccomandando la sua causa e quella dei Granelleschi; finalmente alla plebe, e a questa parla così:

    Tu spererai, plebaglia da mente
    Che io abbia a parlar teco umilemente.
Che sa di poesia, di libri sani,
    E di buone commedie la plebaglia?
    Corri, loda chi vuoi, picchia le mani
    Che non decidi mai cosa che vaglia.
    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    

[p. lxii modifica]

    Del resto loda e biasma chi ti pare
    Ch’io non t’apprezzo.....
    Quando s’ha a far a’ pugni, a’ cocci e a’ sassi,
    Della plebaglia allor gran conto fassi.102


Anche chi non soffre di gran tenerumi democratici troverà incivile tutto questo disprezzo. Ma in Carlo Gozzi è significantissimo dell’indole sua e dei principii che professava, e fa un po’ riscontro al contegno di quei nobili, così finamente castigato da Gaspare Gozzi nella Gazzetta, che dai palchetti del san Luca sputavano in platea, prendendo i cittadini, che vi sedevano, per altrettante «iscodelle da sputarvi dentro.»103

Notevole è pure la Marfisa Bizzarra, poema faceto che il Gamba molto inesattamente paragonò alla Secchia Rapita e al Ricciardetto, il Morelli con evidente esagerazione chiamò «un modello perfetto,»104 ma di cui il Tommasèo, benchè severissimo al Gozzi, lodò giustamente «i sali vivaci e la franca dicitura.105» Aggiunse però che non ha «nè caratteri, nè disegno;» critica, che non mi sembra giusta. La Marfisa è una satira, non un poema. I caratteri sono caricature e non vi fosse che quella di Marfisa, modellata [p. lxiii modifica]sulle eroine del Chiari, basterebbe a far prova della potenza satirica e della burlesca originalità dell’ingegno del Gozzi. Il quale del resto col confuso e barocco disordine del suo stile e del suo linguaggio, talvolta così strambo, che bisogna intenderlo per discrezione, toglie troppo spesso ogni garbo e vaghezza e forza a ciò che scrive. Ma non si può negare che le sue salire maggiori, per invenzione, impostatura e congegno di composizione, sono singolarissime, e, se accoppiassero il pregio d’una forma viva e schietta, porrebbero giustamente il Gozzi non solo al di sopra dei maggiori satirici nostri, ma più specialmente accanto ai più celebri umoristi stranieri. Il Gozzi scrisse i primi dieci Canti della Marfisa, mentre fervevano ancora le sue lotte col Goldoni e col Chiari, e ne pubblicò molti saggi nei Fogli sopra alcune massime del Genio e Costumi del Secolo, operetta specialmente dedicata al Chiari ed al suo apostolo, Abate Placido Bordoni. Gli ultimi due canti scrisse molti anni dopo, quando cioè stampò il poema,106 che tenne parecchio tempo nascosto, perchè satireggiando, oltre al Goldoni ed al Chiari, i costumi e le opinioni del proprio tempo, temeva forse di capitar male. Ripiglia il tema dai poemi cavallereschi e «dovrebbe essere superfluo avvertire (scrive nelle Annotazioni pubblicate dal Magrini e dal Malamani) [p. lxiv modifica]che Carlo Magno, Parigi, i Paladini.... non sieno stati presi dallo scrittore che per coprire d’una veste allegorica un picciolo abbozzo del prospetto dei costumi, della morale dei giorni suoi e dei caratteri in generale de’ suoi compatrioti riformati da scrittori perniziosi e dalla scienza del nostro secolo detto illuminato107... Sotto i due nomi dei Paladini Marco e Matteo del Pian di S. Michele sono figurati particolarmente il Chiari ed il Goldoni, maggiori nemici arrabbiati dell’Accademia dei Granelleschi... Non si cela che sotto il nome del Paladino Dodone Dalla Mazza è figurato l’autore del poema della Marfisa, il quale unito agli Accademici Granelleschi di lui sozi, fu il martirio maggiore dei due sopraccennati poeti.108» Finalmente nell’impero di Carlo Magno, che si sfascia per impotenza, mal costume e debolezza, il Tommasèo crede che il Gozzi abbia prenunziata «la vicina dissoluzione della repubblica.109» Di ciò non è sentore nelle Annotazioni. Certo però sono notevoli in un poema tutto allegorico questi versi del Canto XII:

Carlo è già vecchio e presso all’ora estrema
E deggio dir pria che sia in tutto morto
A che ridotto fosse e in qual sistema

[p. lxv modifica]

Lo stato nell’inerzia e l’ozio assorto
E del popolo il vero e del monarca.
Dio mio, ti raccomando la mia barca.


Ma un presagio, che si risolve in una satira così diretta al governo, è poco in accordo con le opinioni e coi sentimenti del Gozzi e del resto ogni querimonia anteriore ad una catastrofe, come quella che sfolgorò la vecchia Repubblica, piglia facilmente aspetto di profezia. Nella Prefazione all’edizione del 1772, egli dà il suo poema per una satira generica ai costumi a guisa del Giorno del Parini. Trent’anni dopo, quando ogni ragione di prudenza era scomparsa, lo chiamava ancora: «picciolo, vero, e significante ritratto de’ costumi e del pensare della società;110» non altro. E così nella Chiacchiera, ancora inedita, ch’egli divisava premettere ad una ristampa della Marfisa, neppur fa cenno di questo e solo difende le buone intenzioni dei Granelleschi e confuta prolissamente e leggermente le dottrine del Cesarotti intorno alla lingua italiana.111 [p. lxvi modifica]

L’abate Chiari per alcun tempo «resisteva taciturno alle ferite» del Gozzi.112 Taceva, ma bolliva ed alla fine scattò anch’esso contro il Gozzi ed i Granelleschi;113 anzi fu il primo «che li sfidò a comporre commedie in sua competenza.114» Questa volta gli rispose il Conte Gaspare, poco o assai mescolatosi sempre in tutte queste baruffe:

Ma la Commedia è specchio naturale
   D’uman costume in favellar condito
   Urbanamente con faceto sale.115
Prima di fare a’ Granelleschi invito
   Fanne tu una non pazza, nè bestiale,
   Ma ch’abbia il suo ripien sano, e l’ordito;
                           Allor poi sali ardito
  Sul monte d’Elicona e li disfida;
  Intanto lascia che di te si rida.116

Nuova esca offriva ai Granelleschi la pace fatta fra il Goldoni ed il Chiari, palesatasi in un’anacreontica del Chiari al Goldoni, in cui lo [p. lxvii modifica]chiamava «degnissimo comico vate, poeta amico,» ed il Goldoni di rimando (non senza, pare a me, molta punta d’ironia) salutava il Chiari «vate sublime, vate immortale» aggiungendo:

Sì, tu sei l’aquila
     Io la formica,
     Tu voli all’apice
     Senza fatica,
     Mia Musa ai cardini
     Salir non sa.117

Forse la comunanza delle guerre patite li pacificò; forse, anche questa volta, il Goldoni scordò bonariamente le offese. Ciò non toglie che il Goldoni giudicasse del Chiari, come meritava. Partendo per la Francia, e volendo dare idea al suo amico Albergati del tumulto, che agitava l’animo suo in quel momento, gli scriveva: «Ho una testa presentemente così confusa, che la cambierei volentieri anche con quella del Chiari; almeno sarei sicuro d’averla quieta e tranquilla, poichè un uomo assai persuaso di sè medesimo, fa tutto con facilità e intrepidezza.118» Poche parole, ma nelle quali il vanitoso abate è scolpito. Il Goldoni non sfidò anch’esso il Gozzi a comporre commedie e [p. lxviii modifica]lo stesso Carlo Gozzi119 dichiara falso l’aneddoto, narrato dal Baretti nel suo libro inglese sui costumi italiani,120 che tale sfida facesse il Goldoni a Carlo Gozzi in un alterco accaduto fra essi nella bottega d’un libraio. Il Goldoni si limitò a rispondere alle incessanti satire del Gozzi che l’Achille degli argomenti in favore delle sue commedie stava nella folla, che attraevano costantemente al teatro. In un sonetto contro al Goldoni il Gozzi scrive:

Perdio, Dottor, di qua non fuggi via.
Rispondi e aguzza quanto vuoi l’ingegno,
O tu, o il Chiari, o il popol è in pazzia.
                       Se astratto e in balordia
Rispondi: «è sempre buon segno il concorso,»
Viva il Goldoni, il Chiari, il Sacchi e l’orso;121

che è quanto dire: se il concorso del popolo è quello che decide, tanto fa una buona commedia, quanto i lazzi di Truffaldino e l’orso, che balla in sulla piazza. Di qui dunque la picca del Gozzi di mostrare al Goldoni che qualunque novità, anche la più sciocca, è buona per tirar gente al teatro e ch’egli avrebbe conseguito il medesimo [p. lxix modifica]risultamento con una fiaba qualsiasi di quelle che le nonne e le serve narrano ai bimbi accanto al fuoco. Tale è l’origine delle Fiabe di Carlo Gozzi, quale l’ha narrata egli stesso in molti luoghi delle sue Opere, nelle Memorie,122 nel Ragionamento Ingenuo e Storia sincera dell’origine delle mie dieci Fiabe teatrali,123 nella Più lunga lettera di risposta che sia stata scritta124 e nella Chiacchiera inedita da premettere alla ristampa della Marfisa, ed è importante ricordare la vera origine storica delle Fiabe del Gozzi, appunto perchè fu trascurata da tutti coloro, che nel meraviglioso delle Fiabe vollero vedere non già un puntiglio casuale, non già un coefficiente estrinseco, preso d’accatto da un ingegno potentemente burlesco e teatrale, quale si palesò subito il Gozzi, bensì la conseguenza naturale e necessaria d’un temperamento artistico, a cui la semplice rappresentazione poetica del reale non basta più e si crea da sè tutto un mondo magico, nel quale s’ingolfa con così intima correlazione spirituale, che i limiti stessi del reale e del fantastico gli scompariscono dinanzi e l’uno e l’altro gli divengono tutt’uno.

L’Amore delle Tre Melarance (il cui argomento ognuno può rifarsi in mente coi ricordi [p. lxx modifica]della propria fanciullezza) fu la prima fiaba posta in scena da Carlo Gozzi, la sera del 25 Gennaio 1761. Con essa la gran lotta, combattuta dal Gozzi contro il Chiari e più particolarmente contro il Goldoni, era portata sopra tutt’altro campo. Il pubblico era direttamente chiamato a seder giudice fra i contendenti. La faccenda si faceva seria ed è qui che molto probabilmente va collocato l’aneddoto, dal Gozzi narrato confusamente nelle Memorie125 e nel Discorso sulle poesie satiriche,126 cioè l’improvvisa apparizione d’un messo, che lo chiamava al palazzo del Patrizio Zuan Donà. Confrontando le due narrazioni del Gozzi si vede chiaro che ciò accadde tra la fine del 1760 ed il principio del 1761. Dunque alla vigilia della rappresentazione delle Tre Melarance. Ma di questo il Gozzi non parla. Tace pure quello, che si rileva dalle Annotazioni degli Inquisitori, cioè che il Donà era in quel momento Inquisitore di Stato, (lo fu dal 1 Ottobre 1760 al 1 Ottobre 1761) e solo gli sfugge indicato «il tremendo Tribunale che allora egli (il Donà) occupava», cioè il Tribunale dei «Tre di sora» (sopra). Per quanto l’esser chiamato in privato e non alla Bussola di S. Marco (il che significava trattarsi dell’ammonizione officiosa e non officiale) dovesse in certo modo [p. lxxi modifica]tranquillizzare il Gozzi, pure confessa, in una delle due narrazioni, che l’idea ch’egli aveva «di quel gran Signore» e «del tremendo Tribunale» lo scosse, e nell’altra narrazione che prima di presentarsi fece un breve esame di coscienza, che lo confortò colla certezza di «non aver delitti,» dei quali dover render conto, e nondimeno quando fu dinanzi al Donà dimostrò «nel viso qualche interna confusione.» Il Donà era un vecchio magistrato integerrimo e severissimo.127 Ciò rende poco credibile quanto il Gozzi racconta del loro colloquio, vale a dire che si riducesse ad una conversazione tutta scherzosa e amichevole sulle polemiche col Goldoni e col Chiari e che il grave Inquisitore di Stato conchiudesse, animandolo a continuare quella guerra in difesa del buon gusto letterario, purchè «non veniate alle pugna» (così il Gozzi nelle Memorie) ovvero, purchè «le controversie stieno nelle penne soltanto,» (così nel Discorso). Ma il Donà non si sarebbe incomodato per tale [p. lxxii modifica]cagione, nè per tale cagione avrebbe fatto al Gozzi quel po’ po’ di paura colla sua improvvisa chiamata. Non mi sembra quindi arrischiata la congettura che il Donà volesse piuttosto interrogare il Gozzi sulla rappresentazione teatrale, che stava apparecchiando, e forse lo rendesse responsabile dei disordini, che potessero mai avvenire. Il Gozzi l’avrà persuaso che l’Amore delle tre Melarance non superava in violenza di polemica tutte le sue satire anteriori. Tant’è vero che le Melarance furono rappresentate. E dunque da conchiudere colle parole del D’Ancona, il quale, accennando appunto a questo aneddoto, scrive: «Su tutto vegliava la suprema autorità, non scontenta che alla messetta, alla donnetta e alla bassetta tradizionali. Si aggiungessero.... la commedietta e le fiabe e le guerricciuole letterarie; ma attenta che le cose non andassero troppo oltre, e curiosa di conoscerne ogni incidente.128»

Mettendosi a scrivere le Fiabe, il Gozzi si propose altresì di soccorrere la Compagnia Comica del Sacchi, colla quale durò «per quasi venticinque anni129» (circa dal 1756, che la Compagnia tornò da Lisbona, al 1781) nella più stretta intimità. Egli la descrive a lungo e con molta arguzia nelle Memorie. In un suo Ditirambo uscito poco prima [p. lxxiii modifica]della rappresentazione delle Melarance rivelava già questa sua gioconda famigliarità, proverbiando i Comici e le Comiche degli altri teatri di Venezia, ed esaltando il Truffaldino Antonio Sacchi,130 la Smeraldina Adriana Sacchi Zanoni, il Brighella Atanagio Zanoni, il Tartaglia Agostino Fiorini, il Pantalone Cesare Darbes, la Beatrice Antonia Sacchi, e Ignazio Casanova e Gaetano Casali, principali attori ed attrici della Compagnia Sacchi, i grandi esecutori delle Fiabe del Gozzi.131 L’Amore delle tre Melarance riportò di fatto un trionfo clamorosissimo. Ma quanto al punto principale della polemica col Goldoni, che cioè qualunque novità, anche le ciancie delle nonne e delle serve, basta per attirar folla al teatro, forsechè è a questo soltanto che il Gozzi andò debitore del suo trionfo? L’Amore delle tre [p. lxxiv modifica]Melarance' è la sola fiaba, della quale abbia scritto poco più che l’orditura, lo scenario, il canevas. E questo pure ci è rimasto in una forma insolita, in quella d’un racconto (e perciò il Gozzi lo chiama Analisi Riflessiva), in cui, oltre al sunto della rappresentazione, trovan luogo le sue chiose e via via le impressioni del pubblico, all’incirca come nelle odierne Appendici Teatrali. Nelle altre Fiabe le sole parti a soggetto sono, e non sempre, quelle delle Maschere. All’ardimento, alla licenza, alla facil vena degli attori estemporanei, alla gioconda irregolarità della Commedia dell’Arte, alle trasformazioni, ai meccanismi, e alle decorazioni di scena, che già prima di lui e del Goldoni facevano la delizia del pubblico Veneziano, a tutti questi ammennicoli di buon successo, dai quali neppure il Goldoni era riescito del tutto ad emancipare il teatro, il Gozzi ridiede vita tutt’ad un tratto, ma valendosene di cornice ad una satira feroce contro il Goldoni ed il Chiari, oggetto allora fra quel pubblico di dispareri e parteggiamenti fierissimi. Che parte ha in questo primo trionfo del Gozzi la ingenuità della fiaba popolare? Piccola davvero! Nella mente del Gozzi le trivialità di essa sono per sè medesime una parodia dei Campielli, delle Massere, delle Baruffe Chiozzote del Goldoni, ma il grosso pubblico avrà côlto ben poco di tale finezza. Se non che nel Mago Celio è raffigurato il Goldoni, nella Fata Morgana il Chiari; il Principe Tartaglia, ossia il pubblico [p. lxxv modifica]Veneziano, sta morendo per indigestione di versi martelliani; Truffaldino, ossia la Commedia dell’Arte, è il solo che riesca a guarirlo, facendolo ridere, e tutta la lotta è tra il Mago e la Fata, l’uno che protegge, l’altra che perseguita il Principe;132 la lotta durata tanto tempo fra il Goldoni ed il Chiari, i quali si strapazzano a vicenda sulla scena, l’uno in istile avvocatesco, l’altro in soprapindarico. Tutta questa parodia è in realtà potente ed ingegnosissima ed è essa, e non altro, che diede causa vinta al Gozzi. Ha ragione il Tommasèo, che questa fìaba del Gozi «è la più sua133» e così pure l’Ugoni, che gli rimprovera di non essersi sempre attenuto a questo genere, il più conveniente all’ingegno e all’umore di Carlo Gozzi.134 In sostanza la commedia popolare, con cui intese opporsi al naturalismo del Goldoni e al romanzesco sentimentale del Chiari, non gli si ripresentò a tutta prima, se non sotto forma di commedia allegorica, e come continuazione sulla scena della polemica combattuta già cogli opuscoli, i sonetti e le satire. Col suo primo saggio non [p. lxxvi modifica]solo il Gozzi sorpassò ogni incertezza di principiante, ma toccò subito alla forma d’arte teatrale più riflessa e meno spontanea. Perchè questo? Fra le molte ragioni che se ne possono addurre, una poco notata, ch’io sappia, è l’età del Gozzi, il quale è forse unico fra i poeti drammatici (ed era innegabilmente un grande ingegno teatrale) che cominci la sua carriera a più di quarant’anni. Il Metastasio, dopo i primi tentativi del Giustino e degli Orti Esperidi scrive a 25 anni la Didone abbandonata, a 26 l’Alfieri (benchè fuorviato per tanto tempo da circostanze straordinarie) il suo primo abbozzo di tragedia, a 22 il Goldoni i suoi primi Intermezzi comici, lo Schiller a 20 anni i Masnadieri, il Goethe a 23 il Goetz di Berlichingen, il Lessing a 19 Il Giovine Scienziato, Vittorio Hugo l’Ernani a 27 anni, l’età di Bonaparte alla prima campagna d’Italia, come soleva dire il Gautier. L’Amore delle Tre Melarance è più che altro quindi opera di critica, di caricatura, di parodia. In questo senso è l’opera d’un ingegno maturo e perfettamente esercitato e non ha nulla dell’esordiente. E commedia allegorica e non altro la ritenne pure Gaspare Gozzi, il cui giudizio sulla prima Fiaba di Carlo è importantissimo metter sott’occhi ai lettori, primieramente, perchè l’un fratello era molto a dentro nei segreti letterari dell’altro, e in secondo luogo, perchè egli dà tali spiegazioni autentiche, per così dire, delle più riposte intenzioni e allegorie della [p. lxxvii modifica]Fiaba, che niun’altro, salvo l’autore stesso, avrebbe potuto fare altrettanto. «La favola delle tre melarance, scrive Gaspare Gozzi, commedia a soggetto, fu rappresentata la prima volta domenica di sera nel teatro di San Samuele. Io avea fatto proposito di non parlare di commedie fatte all’improvviso e durerei nel parer mio, se questa non fosse di un genere particolare e della condizione di quelle che anticamente si chiamano allegoriche. L’argomento di essa è tratto dallo Cunto delli Cunti, capriccioso e raro libro scritto in lingua napoletana, che contiene tutte le fiabe narrate dalle vecchierelle ai fanciulli. La favola in essa commedia trattata è sopra tutte le altre notissima: chi compose la commedia non si sa, ma viene attribuita a diversi autori. Siasi chiunque si voglia il tessitor di essa, egli ha avuto l’intenzione di coprire sotto il velo allegorico certi doppi sentimenti e significati che hanno una spiegazione diversa dalle cose che vi sono espresse. Avrei troppo che fare se io volessi sviluppare ogni minima parte da quel velame che la ricopre; ma solo alcune poche cose dirò, acciocchè queste poche aprano la via all’udienza di poterne esaminare più altre da sè medesima, quando sarà assicurata che da capo a fondo quelle novelluzze e bagattelle rinchiudono non picciola dottrina. Que’ re di coppe, que’ maghi, quegli scompigli, quelle malinconie, quelle allegrezze dinotano le vicende del giuoco, e l’incantesimo or buono, ora contrario della fortuna in [p. lxxviii modifica]esso. Andando a passo a passo per questo cammino, vi si troveranno molte interpretazioni. Io mi arresterò solo a spiegare con brevità due cose: la prima è quella dello spirito che soffia dietro col mantice a Truffaldino e a Tartaglia, i quali vanno all’impresa delle melarance e fa che questi attori nell’intervallo di un atto corrano millecinquecento miglia. A prima vista par cosa da scherzo; ma vi si troverà sotto sostanza, quando si penserà a quel tempo ch’è limitato nelle tragedie e commedie, e tuttavia si veggono talora personaggi passare da un paese ad un altro lontanissimi in un momento senza ragione veruna; onde pare che l’Autore voglia significare che in sì breve tempo non possono trovarsi da questo a quel luogo senza un mantice infernale che ve gli abbia dietro soffiati.

Il secondo passo allegorico è il Castello della Maga Creonta che tiene custodite le tre Melarance. Questa è l’ignoranza grossa dei primi popoli, che teneva incarcerati e rinchiusi i tre generi di componimenti da teatro, tragedia, commedia di carattere, e commedia piacevole improvvisa. Il diletto e l’ingegno sono figurati ne’ due personaggi che trafugano le tre melarance. Le due donzelle uscite dalle due tagliate da Truffaldino e morte di sete dinanzi a lui, significano la tragedia e la commedia di carattere, le quali in que’ teatri, dove recita un buon Truffaldino, non possono avere nutrimento, nè vita. La terza giovine uscita dalla melarancia tagliata dal Tartaglia e da lui tenuta [p. lxxix modifica]in vita con l’acqua datale in una delle scarpe di ferro, denota la commedia improvvisa, sostenuta in vita dal socco de’ recitanti piacevoli, il qual socco sa ognuno ch’era la scarpa degli antichi rappresentatori di commedie. Molte altre allegorie si contengono nel portone di ferro che vuol esser unto, nel cane che vuol pane, nella corda, nella fornaia, nelle mutazioni della fanciulla in colomba e della colomba in fanciulla; ma non è tempo nè luogo qui da descrivere ogni cosa minutamente. Solo non tacerò che i due peritissimi attori, i quali rappresentarono il Tartaglia e il Truffaldino e che quivi ebbero le parti principali, mantennero all’improvviso una continua vivacità e grazia in tutte le scene, assecondando l’allegorico sentimento ch’è l’anima di tal qualità di rappresentazioni. Chi tenesse, come fece l’Autore di questa commedia, bene in mente il detto di quell’antico filosofo: ne quid nimis, che noi diciamo: ogni soverchio rompe il coperchio potrebbe aggiungere alla scena anche questo allegorico spettacolo che a noi manca, e che fu sino ad un certo segno la delizia del teatro di Atene e talora una delle più grate rappresentazioni di quello di Francia.135» Così il Conte Gaspare, tre giorni dopo la prima recita dell’Amore delle Tre Melarance. Noto anzitutto il fatto, [p. lxxx modifica]che la commedia si rappresentò senza nome d’autore. Di questa circostanza (la quale non avrà impedito di certo che tutti sapessero chi era) approfittò il buon Gaspare, il quale in queste liti procedette sempre guardingo, per dissimulare artificiosamente i veri punti di mira della parodia di Carlo, annebbiandoli in un commento, che allarga e sorpassa di molto le intenzioni dell’autor della Fiaba. Tanto varrebbe commentare così Li Tre Cetra del Cunto delli Cunti di Giambattista Basile, fonte immediata della Fiaba teatrale del Gozzi.136 Il pubblico, che avea assistito alla [p. lxxxi modifica]rappresentazione, avrà riso non poco delle cautele, delle amplificazioni e dei silenzi eloquenti del Conte Gaspare, il quale smussava ogni angolo di una delle satire più personali che si conoscano, tramutando persino la liberissima commedia del fratello in una difesa delle tre solenni unità, dai più stitici interpreti d’Aristotile prescritte al teatro. I lettori hanno qui sott’occhi le Fiabe, ripubblicate integralmente, e giudicheranno. Su quanti scrittori italiani trattarono finora di Carlo Gozzi ho almeno questo vantaggio, che posso risparmiare ad essi ed a me il solito sunto subbiettivo delle Fiabe e non ho altro obbligo che quello d’esporre il più

[p. lxxxii modifica]che posso di circostanze contemporanee, che le risguardano, e i pochi fatti, che vengono a galla dalle infinite Prefazioni di Carlo, gran mare di chiacchiere per lo più inconcludenti, e delle quali è sembrato quindi inutile a me e all’Editore impinzare questi due nostri volumi. Giudicheranno dunque i lettori, non dimenticando che il Conte Gaspare è il primo a ricordare in proposito delle Fiabe di Carlo la commedia Aristofanesca, la quale ne’ più agitati e gloriosi tempi della libertà Ateniese segnava a dito in teatro le sue vittime. Ma il teatro avea allora altro ufficio civile di quello potesse e volesse avere negli ultimi tempi della Repubblica Veneta. Ben lo sapeva il Conte Gaspare, che forse con quell’ultima frase altro non volle se non accennare ad un ricordo, che, comunque, richiamasse un po’ meglio di tutto il suo commento il vero spirito della Fiaba di Carlo, e indirettamente forse ne biasimasse l’eccesso. Nondimeno anche i partigiani del Goldoni, fingendo di dar poco peso alla satira, arrecavano tutto il trionfo delle Tre Melarance allo spettacolo scenico. Il Gozzi spostò allora alquanto la sua tesi. Non volle più dimostrare che ogni ciancia è buona per attirar folla al teatro, bensì che l’artificio scenico, l’invenzione, lo stile possono dar grandezza a qualunque argomento, per quanto puerile.137 La [p. lxxxiii modifica]seconda tesi era assai più giusta della prima ed accostava un po’ più il Gozzi al fine via via poi sempre più maturatosi nella sua mente, di rialzare cioè e ringiovanire con arte le tradizioni del teatro, alle quali il mestierismo dei comici ed il corrotto gusto del pubblico aveano quasi tolto ogni luce ed ogni vigore. Incominciava subito così a delinearsi la contraddizione, in cui l’arte poetica del Gozzi sta con lo spirito e coi propositi della sua critica. Ma non è questa, come vedremo, la sola, nè la maggiore delle contraddizioni del Gozzi.

Quanto al Goldoni, esso non potè patire in silenzio le vittorie del Gozzi. Già i suoi Comici erano irritatissimi di essere stati tirati in ballo essi pure nel Canto Ditirambico dei Partigiani del Sacchi Truffaldino ed in un sonetto, dove il Gozzi, schernendoli d’essersi impermaliti, diceva:

O Medebacche, o Falchi, o Maddalena,
Ircana138 e voi Rosaura, e voi, Magnano,
Venite tosto a baciarmi la roano,
Che a torto il Ditirambo v’avvelena.139

Nell’Addio dell’ultima sera del Carnovale 1761 il Goldoni fece dunque dire al pubblico dall’Attrice Bresciani: [p. lxxxiv modifica]

Questa è per onor mio la sesta volta,
   Che me presento a sta benigna Udienza,
   L’ultima sera a ringraziar chi ascolta,
   E chi soffre la nostra insufficienza.
   Ah! se avesse dal fren la lengua sciolta
   Vorria stasera domandar licenza
   De poder dir quel che non ho mai dito,
   Ma ogni sfogo per mi saria un delito.
Compatirne, ve prego, in carità
   Se confusa me vegno a presentar,
   Perchè dopo aver tanto sfadigà
   Villanie no me par de meritar,
   Da mi, da tutti nu s’ha procurà,
   El mestier con modestia esercitar,
   E pur zente ghe xe (ne so dir come)
   Che i Attori strapazza e stampa el nome.
Del poeta no parlo; el soffre, el tase,
   Perchè a lu no i ghe fa nè ben nè mal;
   El Pubblico el respetta, el se compiase,
   Che dei discreti el numero preval.
   Solamente el se lagna, e ghe despiase
   Che se diga che el guasta la moral,
   E che penne lo scriva venerande
   Con parole sporchissime e nefande.
Basta, lassemo andar ste cosse odiose
   Capace ogni omo onesto d’irritar....
   .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Tanto del vostro amor, tanto me fido,
   Veneziani cortesi e de buon cuor,
   Che nell’anno, che vien, spero e confido
   Egual prosperità, se no maggior.
   Avvilirne i voria, ma me ne rido,
   Ghe vol altro che Fiabe a farse onor,
   E maghi, e strighe e satire e schiamazzi,
   Le vol esser Commedie e no strapazzi.
   .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    

[p. lxxxv modifica]

Ve domando giustizia, no vendetta;
A longo andar ga più rason chi tase.140


Sotto la consueta e decorosa moderazione del Goldoni, c’è questa volta un’amarezza, un disprezzo, che sentesi a stento trattenuto. Ben l’avvertì l’acuto Gozzi e non tacque. Rispose esso a nome del pubblico:

Ve ringraziemo, Ircana. El complimento
   Ch’el vostro Direttor v’ha messo in bocca
   Noi fa parer un omo de talento,
   Ma no diremo gnanca ch’el sia un’oca.
   .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
   Circa ai nomi stampai, credème, Ircana,
   Che se stampa anche el nome al Re de Franza.
   Domandeghe al Poeta, ch’el ne spiana,
   Se el pensa colla testa o colla panza.
   .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
   L’ha guastà la moral; volesse Dio
   Che sto peccà sul toni nol gavesse
   .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
Savemo che le Fiabe sulla scena
   A un Poeta no basta a far onor;
   Ma per sie zorni avemo fatto piena
   E nu femo l’onor e el desonor.
   .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
   Almanco se le Fiabe no corona
   Le ga de ben che chi le fa, le dona.141

[p. lxxxvi modifica]Fiacca risposta, dove si ribadiscono false accuse e quasi brutalmente si allude allo scarso compenso, che il Goldoni ritraeva da’ suoi lavori, ed alla sua povertà. In cento luoghi delle sue Opere il Gozzi si dà gran vanto di non aver mai voluto, nè ricavato alcun compenso dalle sue fatiche. Il che prova che anche di dignità vera di vita, e di quanto la sminuisce o l’accresce, avea un’idea molto imperfetta e confusa. Forse è imputabile più ai pregiudizi della sua casta in quel tempo, che a lui. Ad ogni modo dimostra che a tali pregiudizi egli non era superiore, nè si comprende come li conciliasse col rispetto e l’amore al fratello Gaspare, vivacchiante di letteratura anch’esso, non meno del Goldoni.

Al riaprirsi del teatro in Ottobre Carlo Gozzi diede la sua seconda fiaba: Il Corvo, drammaticamente forse una delle più forti di tutte. E tolta, come la prima, dal Cunto de li Cunte del Basile, e fu rappresentata prima a Milano, quindi a

[p. lxxxvii modifica]Venezia il 24 Ottobre 1761. «Chi leggerà la Fola del Corvo in quel libro, scrive il Gozzi, e vorrà confrontarla colla mia rappresentazione, vorrà far cosa assolutamente impossibile.142» Eppure è invece possibile tanto, che a confrontarla si vede che il Gozzi ha con grandissima abilità drammatizzata la fola del Basile, ma, se si toglie la catastrofe, ha di suo inventato ben poco. Il Tommasèo su codesto attingere del Gozzi da novelle orientali e popolari d’Italia e dal teatro spagnuolo, scrive: «Meno osò di suo che il Goldoni» ed ha ragione.143 Basti pel Corvo riferire l’argomento della fola del Basile: «Gennariello pe dare gusto à Milluccio Re de Fratta-Ombrosa fratiello suio fa lungo viaggio, e portatole chello, che desiderava, per liberarelo da la morte, è connanato a la morte; ma pe mostrare la ’nnecenzia soia, deventanno statoa de preta marmora, pe strano socciesso, torna a lo stato de ’mprimmo, e gaude contente.144» Il Gozzi non ha variato che «lo strano socciesso.» Nel Basile per ridar vita alla statua occorre il sangue dei figli del Re ed esso gli immola. Nella fiaba del Gozzi invece occorre il sangue della sposa, ed essa si uccide per placare [p. lxxxviii modifica]la collera del padre suo Norando, il negromante, contro i due fratelli. In questa trovata c’è veramente il poeta drammatico. Ma il Gozzi si vanta assai più d’essere riescito a fare del Negromante un carattere e avverte: «Scorgerà il mio lettore in qual aspetto nobile e differente da tutti gli altri goffi maghi delle consuete commedie dell’arte io abbia voluto porre i negromanti, ch’entrano nelle mie Fiabe.145» Eccolo dunque a tentare coll’ingegno una quasi impossibilità artistica, quella di fare ciò, che nell’arte comica si dice un carattere, in esseri sottoposti alle leggi fatali della magia. Di più, eccolo costretto subito nella seconda Fiaba a restringere il più possibile le parti lasciate all’improvvisazione dei comici ed a passare dalla prosa al verso, «condotto non solo, dic’egli, dal capriccio, ma dalla necessità e dall’arte. In alcune circostanze di passione e forti, scrissi le scene in versi, sapendo, che l’armonia in un dialogo ben verseggiato dà della robustezza a’ rettorici colori e nobilita le circostanze ne’ serii personaggi.146» Per tal guisa, ridotta quasi a nulla l’improvvisazione, cercata la commedia di carattere persino nella Fiaba, e nei momenti migliori del dramma scartata la prosa pel verso (sia pure non martelliano), il Gozzi è già ben lontano da’ suoi primi propositi, e costretto egli stesso a trasmutare [p. lxxxix modifica]profondamente le vecchie tradizioni della commedia popolare e della commedia dell’arte; le tradizioni, che avea voluto raccogliere e difendere contro il Goldoni, «il più fiero combattitore, com’ei lo chiamava, della commedia nostra improvvisa, che l’Italia abbia avuto.147» Checchè sia di ciò, il Corvo è una delle sue fiabe meglio congegnate; v’ha scene potenti, lo stile ed i versi sono qua e là talmente superiori a quelli delle altre fiabe, che non sarei lontano dal credere vi fosse passata sopra, come in altri suoi drammi, la mano del conte Gaspare. V’è introdotta anche qui, per amore o per forza, la satira letteraria. La Scena VII dell’atto terzo è, per confessione del Gozzi, una parodia del Chiari, che s’ostinava a voler far parlare le Maschere in versi.148 Su di che è da notare altresì la bellezza tipica del carattere del Pantalone, che il Gozzi, in ciò correggendo la tradizione della Commedia dell’Arte, serba uniforme in tutte le altre sue fiabe.149 Nel Pantalone s’incarnano il brio, la bonarietà, la cordialità, ed insieme l’acuto senno [p. xc modifica]e l’umore burlesco dei Veneziani, ond’è che questa Maschera si piglia licenza talvolta di deridere persino tutto quel diavoleto di forze magiche, che il Gozzi scatena, ed a cui sono in preda i personaggi delle Fiabe. Notevole è pure nel Negromante del Corvo (come in altre Fiabe del Gozzi), ch’egli subordina al concetto antico del fato,150 (dal Cristianesimo trasformato in Provvidenza divina) anche la potenza dei Maghi. Non sempre la potenza magica rappresenta il principio del male, come pura forza demoniaca, che s’oppone e contrasta al principio del bene, e con esso divide il governo delle umane vicende. Più spesso il Mago agisce esso pure in forza d’una condanna e per questa via il Gozzi sottomette in certo modo al concetto cristiano dell’espiazione della colpa anche la capricciosa forza della Magia. Ma la soluzione di quei grandi inviluppi magici, intorno ai quali si ravvolge la Fiaba, non è sempre nel Gozzi artisticamente felice. Nel Corvo, per esempio, col suicidio della sposa la tragedia giunge al suo punto massimo. Anna Radcliffe ne’ suoi spaventosi romanzi spiega all’ultimo come effetti naturali i misteri delle sue fantasmagorie e scema essa pure l’effetto artistico, che aveva prodotto. Ma che dire del Gozzi, il quale, per opera dei Mago fa risuscitare la morta sposa del Re Millo [p. xci modifica]e ai maravigliati del prodigio fa rispondere dal Mago stesso:

Tai ricerche si fanno? È il verisimile
Al proposito nostro? E lo trovate
Forse in qualch’opra, in cui vi par vederlo?151

La satira letteraria s’intrude così nel momento più inopportuno e guasta e raffredda inutilmente tutta la poesia del sacrificio di quella donna. Ma è appunto l’effetto, ch’egli vuole ottenere. All’ultimo ride sul naso del suo pubblico e dice:

Provato abbiam, se falsa illusione
Ha sugli animi forza......152

Era dunque una burla e non più. Ma essa serve di risposta a quelli, che credono avere il Gozzi presa dal popolo la fiaba e recatala sulla scena in tutta la sua candida ingenuità.

Al pari di quella del Corvo, la altre fiabe del Gozzi sono tolte (lo dice espressamente egli stesso) dal Cunto de li Cunte, dalla Posilipeata di Massino Repone,153 dalla Biblioteca dei Genj, dalle Novelle Arabe, Persiane, Chinesi, dal Gabinetto delle Fate, dal Teatro Spagnuolo,154 ma con molta [p. xcii modifica]maggiore varietà e libertà di scelta, ch’egli non abbia adoperata nel Corvo. Il Magrini, che con tanto amore ha studiato questo argomento, ha diligentemente cercato di fissare i riscontri fra quelle fonti e le diverse Fiabe del Gozzi. Si limita però a indicare con qualche citazione bibliografica il risultamento delle sue ricerche e non entra in nessun particolare. Sarebbe molto diffìcile infatti orientarsi in tanta varietà di novelle, che il Gozzi ha messo a contribuzione. L’Amore delle Tre Melarance, il Corvo e Zeim Re de’ Geni sono quelle che stanno in più esatta corrispondenza, le prime due con due fole del Basile (ma più la seconda che l’altra) e la terza colla Storia del Principe Zeim Alasnan e del Re de’ Geni nelle Mille e una Notti. Per le altre si trova qua e là qualche riscontro più o meno largo e non più. Pel Re Cervo, ad esempio, per la Donna serpente, per la Zobeide, pel Mostro Turchino in racconti delle Mille e una Notti, del Gabinetto delle Fate e dei Mille e un giorni, per l’Augellin Belverde nella Bella addormentata nel bosco, per i Pitocchi Fortunati nei Mille e un giorni ed in aneddoti storici contemporanei, ma è quasi impossibile decomporre e analizzare con sufficiente precisione gli elementi varii, che il Gozzi s’è appropriati e ha fusi insieme. La Turandot, una delle più celebri fiabe del Gozzi,155 ha una derivazione delle più lontane e [p. xciii modifica]solenni; e già molti altri s’erano prima del Gozzi valuti di questa bellissima novella, lo Shakespeare per l’episodio di Porzia nel Mercante di Venezia, (dove i tre cofani d’oro, d’argento e di piombo, fra i quali i pretendenti alla mano di Porzia hanno da scegliere, fanno riscontro ai tre enigmi della Turandot), il Molière per la Principessa d’Elide, imitata da un dramma spagnuolo del Moreto, ma che pel carattere dell’eroina (ciò che non è della Porzia dello Shakespeare) combina essa pure colla Turandot, le cui fonti risalgono poi per questa trafila insino ai Gesta Romanorum.156 Ma a che cosa approderebbe del resto una simile ricerca pel Gozzi, il quale si serve dell’antico contenuto delle Fiabe popolari per fini letterari e morali tutti suoi personali e del tempo suo? Oltredichè delle due specie di commento, scientifico e psicologico, che si potrebbero fare alle Fiabe del Gozzi, il primo, anche sapendolo fare, sarebbe assolutamente un fuor d’opera, il secondo, dove il Gozzi stesso non ha detto le sue intenzioni, diverrebbe affatto cervellotico ed arbitrario. Non ignorava neppure Carlo Gozzi che le portentose novelle da esso adoperate, e che con molta proprietà chiamò fiabe, sono di origine mitologica, e che in esse «come in un [p. xciv modifica]ossuario (scrive Vittorio Imbriani) fur depositati alla rinfusa gli scheletri scompaginati di credenze antichissime ed in cui ravvisi personificazioni dei fenomeni naturali e delle passioni umane, e la manifestazione fantastica di quel panteismo spontaneo, che fu forse il primo pensiero religioso della nostra razza.157» Vi accenna il Gozzi chiaramente nel Mostro Turchino:

Son l’ombre, i mostri, i cambiamenti e l’Idre,
I flagelli, le morti e le vittorie
Che voi vedeste in questo vostro regno
Alte dottrine, allegorie, che un giorno
Molto avean pregio......158

Ma una volta fermate codeste fiabe nella forma drammatica e nei fini particolari dell’arte poetica del Gozzi poco gioverebbe sapere, per esempio, che la principessa addormentata dell’Augellin Belverde significava nell’antica fiaba, da cui in parte deriva, la Terra addormentata dall’Inverno, e lo sposo, che verrà a ridestarla, rappresentava il sole primaverile, e via dicendo. Quanto a determinare tutte le allegorie, che oltre alle confessate apertamente dal Gozzi si potrebbero scoprire nelle sue Fiabe, mi pare che l’esempio dato da Gaspare nel suo articolo sull’Amore delle Tre Melarance dimostri chiaro che, a non voler fantasticare ad arbitrio, un simile commento non può [p. xcv modifica]farlo che l’autore stesso, o chi scrive quasi sotto la sua dettatura o la sua inspirazione. Di certe frangie, fatte alle sue Fiabe dagli ammiratori, il Gozzi stesso si dichiara inconsciente. In esse «scopersero, scriv’egli, delle profonde allegorie, e molte di quelle, ch’io non m’era nè meno sognate.159» E altrove: «Vi trovarono delle bellezze, ch’io non aveva vedute.160» Per non uscire d’argomento o per non lavorare di fantasia, meglio è dunque, cred’io, attenersi a quanto il Gozzi ha detto dell’arte e dell’opera sua, ed alle circostanze storiche, che l’inspirarono ed ora quindi l’illustrano e spiegano.

La terza fiaba del Gozzi fu il Re Cervo, rappresentata il 5 Gennaio 1762. E qui debbo fermarmi per un momento alla questione della cronologia delle Fiabe. Nella migliore edizione delle Fiabe (l’edizione Colombani del 1772) il Gozzi ha stampata per terza la Turandot con la data del 22 Gennaio 1761, e per quarta il Re Cervo con la data del 5 Gennaio 1762, e di più dice espressamente che il Re Cervo fu la quarta Fiaba e che «successe alla Turandot.161» Per buona sorte nell’edizione Zanardi del 1801 si corregge da sè, dice che il Re Cervo fu la terza e sopprime (tanto è vero che rettificava l’errore del 1772) sopprime il: «successe alla Turandot.» S’aggiunga che [p. xcvi modifica]nelle Memorie, dopo aver parlato della rappresentazione del Corvo, dice espressamente: «volli battere il ferro mentre era rovente e la mia terza fiaba intitolata il Re Cervo ribadì la mia proposizione,....162» vale a dire, ribadì che anche le più assurde meraviglie di magie, e incanti e trasformazioni potevano con arte ed eloquenza ridursi ad opere di verità ed efficacia drammatica. E poichè gli avversari continuavano ad attribuire i trionfi del Gozzi ai meccanismi della scena, allora passò egli alla fiaba spoglia affatto «di magiche meraviglie,163» cioè alla Turandot. È dunque messo fuori d’ogni dubbio che l’ordine cronologico dell’edizione del 1772 è sbagliato, che il Re Cervo è la terza e la Turandot la quarta delle Fiabe del Gozzi. Resta ora un ultimo punto oscuro, la data assegnata dal Gozzi alla prima rappresentazione della Turandot e da lui ripetuta in tutte due le edizioni, la data del 22 Gennaio 1761. Se questa fosse la vera, non solo la Turandot precederebbe il Re Cervo, ma ancora il Corvo e l’Amore delle Tre Melarance, che, come s’è visto, fu rappresentata il 25 Gennaio 1761. Ora è certissimo che l’Amore delle Tre Melarance fu la prima fiaba del Gozzi, siccome è parimenti certo che il Corvo ed il Re Cervo precedettero la Turandot. È dunque da conchiudere che il Gozzi ha [p. xcvii modifica]scritto il 22 Gennaio 1761 more veneto, (pel quale l’anno non cominciava che al Marzo) e che quella data equivale perciò al 22 Gennaio 1762.164

Due invenzioni burlesche primeggiano veramente nel Re Cervo. L’una è il prologo personificato nel Cigolotti, cantastorie famoso di Piazza S. Marco e della Riva degli Schiavoni, tanto ammirato da John Moore, lo spiritoso viaggiatore inglese, fino dal primo giorno del suo arrivo in Venezia.165 «Nel 1762 a Venezia, scrive Filarete Chasles, tutti conoscevano il Sig. Cigolotti colla sua berretta rossa e intignata, le calze paonazze e piene di buchi, il suo vecchio abituccio nero ereditato da un abate galante, la faccia squallida, la barba lunga ed arruffata. Tale l’aspetto ed i connotati del favoleggiatore favorito dal popolo; grammatico, critico, erudito, poeta, per lo più mezzo brillo, diligentissimo nel far notare al popolo i bei motti toscani e le eleganze letterarie, onde infiorava i suoi racconti, sempre ascoltati e sempre ammirati. Scendevate all’albergo di San Pantaleone, ed ecco il Cigolotti a darvi il benvenuto con un sonetto; prendevate moglie e il Cigolotti faceva il vostro epitalamio; vi portavano l’olio santo, e il Cigolotti preparava subito l’epicedio per voi e l’epitafio per gli eredi. Uomo grave e di mansueti costumi, soggiungerò con [p. xcviii modifica]dolore ch’ei fu perseguitato e senza che la storia se ne ricordi. Il Senato di Venezia esigliò un bel giorno le cortigiane, l’imprudente Cigolotti prese a difenderle, il popolo a ripetere i suoi versi166 ed il Cigolotti fu bandito come Omero, Camoens e Dante.... e morì in esilio.167» Or bene il Gozzi piglia su questo cencioso eroe della Piazza, e collegandolo fantasticamente all’azione della Fiaba, ne fa il Prologo del suo Re Cervo. Sfrutta così, in molti altri luoghi delle sue Fiabe, celebrità ridicole o ignobili del tempo, e usanze particolari e indicazioni di luoghi e di persone allora notissime con una libertà e a volte con una licenza singolare. Notevole è pure che il popolo nelle Fiabe del Gozzi non sia mai rappresentato più degnamente di così. La bollente fierezza dei Titta Nane del Goldoni poco gli andava a sangue. Altra macchina burlesca del Re Cervo, che il Gozzi deriva dalle novelle orientali, è la statua donata al Re da un mago, la quale ride ogni volta che una donna mentisce dinanzi ad essa. Il Re, volendo ammogliarsi, interroga prima dinanzi alla statua la donna, che gli è proposta, e già n’ha passate in rassegna duemila cento quarantotto, senza che posi mai la terribile ilarità della statua. Sopravviene alla fine Angela, la figlia di Pantalone, e la statua non ride più. Angela è una La Vallière [p. xcix modifica]pantalonesca, che ama l’uomo nel Re, una delle poche delicate figure di donna, che il Gozzi abbia disegnate. I prodigi, le trasformazioni del Re Cervo sono tante e cosiffatte, che non s’intende alla lettura, come siansi potute eseguire con sufficiente illusione scenica. Il Re si cambia in Cervo, poi il suo spirito entra nel corpo d’un altr’uomo, tanto vecchio e deforme, quant’egli era giovine e leggiadro e, ciò non ostante, l’amore di Angela lo indovina e lo scopre sotto alle mutate sembianze. È questo un forte abbozzo drammatico, guastato alquanto dal Gozzi, che lo ricaccia ben tosto nel circolo magico della fiaba. Tutto il resto è più spettacoloso, che fantastico e, per dar pure un senso a tutte quelle metamorfosi, si volle vedere un apologo politico in quel Re mutato in bestia da un ministro infido e perverso; ma è una di quelle intenzioni, che il Gozzi non confessò.168

Era accusato, come dissi, di fondarsi tutto sui prestigi delle macchine e delle fantasmagorie. A tale accusa volle rispondere colla Turandot. È una principessa Chinese, che costretta a scegliersi uno sposo, non consente a dar la sua mano, se non a chi saprà risolvere tre enigmi da lei proposti, pena la vita a chi, presentatosi, non li risolve. Già molti hanno lasciata la testa a questa prova, allorchè il dramma incomincia. La scena è a Pekino e la fiaba si svolge a traverso un caos [p. c modifica]di costumi, di cerimonie e di usanze bizzarre e feroci, contro le quali s’arrovella inutilmente l’onesta coscienza di Pantalone, primo Ministro, che, con Tartaglia, Brighella e Truffaldino, ministri ancor essi, governa l’impero. Il fondo del dramma è poetico assai, non v’ha dubbio. Non v’ha prestigio di magia. Ma una forza misteriosa ed estraumana governa ad ogni modo tanta stranezza di eventi e di personaggi, e questa e la mescolanza delle vecchie Maschere italiane a personaggi tragici, rinnovata dal Gozzi (le quali Maschere hanno veramente l’aria di esigliati in China, non riesciti ad acclimatarsi) formano un contrasto così nuovo e stridente, che spiega la fortuna grandissima di questa fiaba. Di quella mescolanza il Goethe ha molto lodato il Gozzi169 ed il suo giudizio, quantunque, più che un giudizio, sia l’impressione fuggevole d’un viaggiatore, che ha assistito una sera ad una commedia dell’arte, e la sera dopo ad una tragedia bestiale,170 ha senza dubbio grande importanza. Gli si può contrapporre l’esempio dello Schiller, che, traducendo pel teatro di Weimar la Turandot, si studiò di attenuare, più che potè, quel contrasto fra il carattere stereotipo delle Maschere e l’ambiente non eroico, nè magico (chè allora la parodia salverebbe tutto) ma semplicemente poetico della Fiaba. È da [p. ci modifica]notare però che la lode del Goethe si fonda sulla relazione intima, ch’esso pretende esistere fra la fiaba tragico-burlesca del Gozzi ed il carattere del popolo Veneziano. Checchè sia di ciò, le Fiabe correvano di trionfo in trionfo, e tre fatti importanti accadevano dopo la rappresentazione della Turandot, il passaggio della Compagnia Sacchi dal Teatro S. Samuele a quello di Sant’Angelo (l’antico teatro del Goldoni), la partenza del Goldoni per la Francia, e quasi allo stesso tempo il ritiro del Chiari nella sua Brescia ed il suo cessare di scrivere per il teatro. Non è già che il Goldoni si fosse dato per vinto. Ma certo i trionfi del Gozzi affrettarono la sua risoluzione ed in una sua poesia lo dice più aperto che nelle Memorie e nelle Lettere:

Tre lustri or son che del mio scarso ingegno
    Vo spremendo il midollo, e quanto lice
    A me sperar, giunsi dell’opra al segno.
Ma non dura fortuna ognor felice,
    E temer posso di colei gli oltraggi
    Ed all’imo cader della pendice.
Nuove terre calcando e nuovi saggi
    Di costumi prendendo, può la mente
    Trar miglior frutti da novei viaggi,
E un dì tornando alla diletta geate
    D’Italia mia, ch’or di me forse è stanca,
    Esser rancido meno e men spiacente.171

[p. cii modifica]Alla Turandot seguì il 29 Ottobre 1762 la Donna Serpente più spettacolosa e più intricata, se possibile, del Re Cervo. In quel laberinto di malie, d’incanti, di condanne e combinazioni misteriose di cronologie cabalistiche, sembra quasi che il Gozzi stesso si smarrisca. Poeticissimo è il tipo di Cherestanì, maga innamorata, che lotta tra un amor vero e la ineluttabile fatalità delle leggi negromantiche, alle quali, come maga, è sottoposta. Fra tanti incantesimi Pantalone parla il linguaggio d’un buon senso impersuaso e pieno perciò di forza comica. Ma il quadro s’allarga in modo che il Gozzi, non potendolo far stare dentro la cornice del dramma, si trae d’impaccio, introducendo fra una scena e l’altra un venditore di relazioni pubbliche, come sarebbe uno strillone dei nostri giornali, il quale riferisce in compendio il contenuto della sua merce e così informa il pubblico di ciò che è accaduto e non fu potuto rappresentare sulla scena. Ha ragione il Gozzi di lagnarsi, che certi critici troppo austeri biasimassero cotesta sua invenzione, la quale fa riscontro a quella del Cigolotti nel Re Cervo, e tutte e due, con molte altre di simile genere, che trovansi nelle Fiabe, sono un vero ringiovinimento delle forme libere e popolanesche della Commedia dell’Arte. «Il Sacchi Truffaldino, scrive il Gozzi, uscendo con un tabarro corto e lacero, un capello tignoso e un gran mazzo di relazioni a stampa, gridava, ad imitazione di que’ birbanti, accennando in compendio [p. ciii modifica]il contenuto della relazione, dichiarando i successi accaduti, ed eccitando il popolo a comprar il foglio per un soldo. Tal scena inaspettata, ch’egli faceva con molta grazia e verità e con una di quelle imitazioni sempre fortunate, spezialmente nel Teatro, cagionava un intero tumulto e continuati scoppi di risa nell’uditorio, e si scagliavano da’ palchetti a quel personaggio confezioni e danari per avere la relazione. Questa fantasia, che sembra triviale, usata da un privilegio di franca libertà, che sostenni sempre nelle mie Fole, fu apprezzata da’ buoni ingegni.... Giunto agli orecchi de’ venditori delle relazioni il successo di questa scena, si unirono e posti alla porta del Teatro con un gran fardello de’ loro già disutili e muffati fogli, che nulla avevano a fare colla rappresentazione, all’uscire dell’uditorio si posero a gridare con quanta voce avevano la relazione de’ gran casi avvenuti nella Donna Serpente. Nel buio della notte venderono un numero infinito di que’ fogli, ingannando il popolo, e se n’andarono all’osteria a far de’ brindisi al Sacchi.172»

Ben altra composizione però è la Zobeide rappresentata l’11 Novembre 1763, e una delle due (l’altra è il Mostro Turchino), che il Baretti potè leggere ancora inedite,173 il qual fatto, unito [p. civ modifica]ad altri, che accennerò più tardi, farebbe ritenere che fra i due passasse maggiore intimità di quella confessata dal Gozzi e spiegherebbe il silenzio della Frusta, vissuta e morta appunto durante la rappresentazione delle Fiabe. Nella Zobeìde è lotta tragica veramente tra il principio del bene e quello del male, tra le arti magiche e l’innocenza e la religione. Vigorosamente disegnato è il carattere di Re Sinadab, in cui è raffigurato l’ipocrita. È un Negromante, che ha sempre in bocca Dio e la virtù. Però la magia ed il prodigio turbano ogni tentativo di svolgimento di caratteri, e così pure impediscono alla lunga il terrore e la pietà tragica. Il Gozzi ha voluto fare della Zobeide una tragedia fantastica. Ma benchè nei fenomeni d’un atavismo criminoso, che scende per due progenie principesche, siavi in realtà imitazione e reminiscenza di tragedia classica, nondimeno anche il Sismondi, gran lodatore del Gozzi, osserva che l’abuso della fantasmagoria esclude la sensibilità e che la Zobeide, per quanto tragica, non farà mai piangere nessuno.174

Al genere della Turandot, che il Gozzi definisce «genere fiabesco, spoglio di mirabile magico,175» appartiene la settima Fiaba: I Pitocchi Fortunati, rappresentata il 29 Novembre 1764. Trattasi d’un Re, che si finge pitocco e gira [p. cv modifica]incognito per conoscere i bisogni del suo popolo e le arti malvagie de’ suoi Ministri. V’è la solita figura dell’Angela, la virtuosa figlia di Pantalone e amante del Re, e il solito fondo di riti ed usanze e barbarie orientali, che ai Veneziani, già conquistatori dell’Oriente ed ora perdenti ad una ad una le loro conquiste, piaceva oltre modo, forse come un ricordo di domestiche glorie. Però il tema della fiaba, quel Re in incognito e sotto mentite spoglie, rispecchia aneddoti contemporanei, che ancora si raccontano, di Pietro il Grande di Russia, di Federico II, di Giuseppe II e di Leopoldo di Toscana.176 Non pare che questa fiaba riescisse sulla scena così bene, come le altre. Forse l’argomento non destò grande interesse. Fatto sta che, a quanto narra il Gozzi, fu rappresentata sei sere nell’Autunno, poi sospesa, e rimessa in scena per due sole sere nel Carnovale, intramezzandovi un altra fiaba, non più spoglia di mirabile magico. Una semi-confessione del poco buon successo dei Pitocchi Fortunati si ha dal Gozzi stesso, il quale dice ch’essa «non era in tutto popolare» e di ciò si consola colle lodi in versi tributategli da una parrucca accademica, il Conte Durante Duranti di Brescia.177 Un’ultima notizia intorno ai Pitocchi Fortunati, che merita ricordo, è quella che «ai nomi di Profeta Macone e di Moschea, [p. cvi modifica]non voluti lasciar correre in Teatro dai prudenti Revisori Veneti, furono sostituiti quelli di Apollino e di Tempio;178» prudenza, che non giovò purtroppo, dopo Passarowitz, a rinfrancare in Oriente la potenza dei Veneziani!

La Fiaba, con cui il Gozzi soccorse la non grande fortuna dei Pitocchi Fortunati, fu il Mostro Turchino, rappresentata l’8 Dicembre 1764. La moralità di questa fiaba è l’amor coniugale, poetizzato in Taer e Dardanè, e messo a terribili prove da Zelou, Mostro Turchino. «La passione fantastica, ch’ella racchiude, scrive il Gozzi, fu guardata come una verità incontrastabile;179» ma quest’affermazione mi sa veramente di troppo ardita. Il Gozzi nel mescolare la realtà dei fatti e delle passioni umane ai portenti magici e ai miti fiabeschi non raggiunge quella perfetta fusione del fantastico e del reale, a cui seppe toccare, per esempio, lo Shakespeare. Il dubbio di Alonzo nella Tempesta dello Shakespeare: «non potrei giurare se ciò non sia una realtà180» non mi sembra possibile nelle Fiabe del Gozzi. Eppure è a questo patto che il fantastico sul teatro può evitare il pericolo, a cui più della realtà si trova esposto, di divenire monotono, triviale e sazievole. È verissimo quanto dice in proposito la Signora di Staël che il genere fantastico va giudicato come [p. cvii modifica]se si trattasse d’un sogno e che «se il buon gusto vegliasse sempre alla porta eburnea dei sogni, per costringerli a forme prestabilite, ben di rado essi colpirebbero la nostra immaginazione.181» Ma è più vero ancora ciò che poco innanzi avea detto la stessa Signora di Staël (parlando delle streghe del Faust): «I limiti sono difese. La vaghezza delle invenzioni soltanto può salvare il fantastico, nel quale l’unione del bizzarro e del mediocre non potrebb’essere tollerata.182» Peccato, che non sempre il Gozzi potè sfuggire e che appunto al momento di far rappresentare il Mostro Turchino pare che avesse già messo il pubblico in qualche diffidenza e sfiduciato un poco il poeta dell’opera sua. Nella Prefazione si mostra assalito quasi dal dubbio d’essere andato tropp’oltre e malcontento di dover continuare, costretto dallo zelo dei partigiani e dalle esigenze dei Comici. Le critiche cominciavano ad assalirlo. «Bilanciai molto, scrive il Gozzi, per la soggezione in cui m’avevano posto i colti ed acuti miei giudici.... e confesserò che il rispetto e il timore, che io ho del pubblico, mi fece costar questa fiaba una fatica non conveniente al suo ridicolo titolo di Mostro Turchino.183» La gestazione fu lunga, faticosa, piena d’incertezze (perciò forse questa fiaba fu comunicata al [p. cviii modifica]Baretti manoscritta), e coi pochi accenni, che il Gozzi ne dà nella Prefazione, concorda, mi sembra, quanto scrive in una sua lettera del 15 Ottobre 1763: «Il Mostro Turchino, tra il volere, il non volere, gli imbarazzi, l’accidia e la rabbia è finito; ma così fiacco e scipito, che intendo non far d’esso uso alcuno. Non sono queste espressioni d’affettata modestia, ma di sincerità. Sono arrabbiatissimo colla poesia e vorrei poterla frustare. Ho preso dell’affetto a questi deserti (scrive dalla campagna) e mi sono più cari i ragli di questi asini, che il sentire a Venezia: oh che cuccagna!184» Anche l’ardito artista delle Fiabe, anche il poeta, che non dubitava di nulla, che si credeva sostenitore della verità, della tradizione, della cultura e della morale, il poeta, che avea visto fuggirsi dinanzi sgominati gli avversari ed a suoi piedi il pubblico, il quale mutava di adorazioni da un giorno all’altro con una celerità spaventosa non meno ai vinti che ai vincitori, anche questo guerrigliero fortunato era dunque assalito dalle sue ore di dubbiezze e di sgomento al pari del Goldoni, e quasi impaurito della poca giustizia de’ suoi stessi trionfi! «La riputazione, scrive il Gozzi, in cui erano entrate le Fiabe incominciava a dispiacermi;185» e nella Fiaba del Mostro Turchino [p. cix modifica]mette nella bocca a Zelou (quasi il poeta antiveda le troppo rapide vicende della sua fama) questa singolare profezia:

Tempo verrà, che le trasformazioni,
Ch’io son per cagionar, servir potranno
D’allegorici casi, e i sprezzatori
Mostri saranno, com’io son, cercando
Di trasformar sè stessi in nuovo aspetto
Grato nel mondo, trasformando altrui,
Se mai potranno, in abborriti mostri.186

Lo stranissimo argomento di questa fiaba è però svolto e condotto con abilità magistrale, e se il Gozzi osò qualche volta vantarsi inspirato dall’esempio del Boiardo, dell’Ariosto e del Tasso nel ritornare, che fa, agli «impossibili e mirabili avvenimenti187» dei poemi cavallereschi ed eroici, qui oltre ad atteggiare un eroe, che per amore o per espiare colpe sue o d’altri deve affrontare imprese di straordinaria temerità (fondo comune delle fiabe popolari in genere e di quelle del Gozzi in particolare), qui, con vera efficacia satirica e comica, contrappone all’ideale cavalleresco l’egoismo filosofico moderno.188

Le ultime due Fiabe del Gozzi furono L’Augellino Belverde, rappresentata il 19 Gennaio 1765, [p. cx modifica]e Zeim Re de’ Genj, rappresentata il 25 Novembre 1765,189 nelle quali, come nell’Amore delle Tre Melarance, tornò a mescolare di proposito, e non soltanto per incidenza, la fiaba, la parodia e la satira, non più di battibecchi letterari, bensì delle dottrine filosofiche e morali degli Enciclopedisti Francesi, che già erano in voga. Ma l’Augellino Belverde è il vero epilogo, la conclusione solenne delle Fiabe Gozziane. Il Re de’ Genj non è che un’appendice, un soprappiù, ed il Gozzi stesso ne parla poco e mostrando di non curarla. Notevolissimo è però (quantunque l’azione vi proceda un po’ disordinata e slegata) come manifestazione delle idee morali e politiche del Gozzi. Zeim, Re de’ Genj, opera in sostanza tutti i suoi portenti e sottopone altri alle prove più dure nell’interesse dei principj conservatori. È un Bonald o un De Maistre sotto le forme d’un negromante mostruoso; creazione fantastica, che, come il Mostro Turchino, il Gozzi desume in parte dai racconti orientali, in parte costruisce da sè; che tiene del gnomo, del demone, dell’animalesco e dell’umano, e vagamente ricorda il Calibano della Tempesta dello Shakespeare. La fedeltà d’una schiava, allevata nella più ingenua fede in Dio, nella [p. cxi modifica]sommessione più assoluta, e nella tranquilla credenza, che da Dio viene ogni potestà dei Grandi e che anche gli eccessi della costoro prepotenza Dio li permette per alcun bene nascosto nell’abisso del suo consiglio, come pure la probità e la costanza di un vecchio ministro ricevono all’ultimo dal Re de’ Genj il dovuto compenso. Quest’è la moralità, che si svolge a traverso i portenti magici e che è racchiusa negli ammaestramenti di Zeim alla schiava:

Ei sempre mi dicea......
Che sacra, non intesa Provvidenza
Tutto dispone e che mirabil opra
Era de’ grandi il posto e grado a grado
Veder le genti, insino alla minuta
Plebe, operar subordinate a’ primi
Era cosa celeste. Ah non t’allettino,
Spesso dicea, sofistici talenti,
Che maliziosamente libertade
Dipingono a’ mortali, fuor da questo
Bell’ordine, dal ciel posto fra noi.190

La generale intenzione satirica della fiaba si deduce da questo tema ed un saggio curioso è in una scena dell’Atto I, in cui Sarchè, figlia di Pantalone (e terza incarnazione dell’Angela del Re Cervo e dei Pitocchi Fortunati) tenuta dal padre nascosta in una campagna, chiede a lui che cosa sia una città ed egli le descrive co’ più minuti [p. cxii modifica]particolari lo stato morale d’una città, guasta dalle dottrine e dai costumi alla moda.191 Manifestamente allude a Venezia, dove le massime filosofiche francesi, per mezzo dei libri, dei viaggiatori, delle associazioni Massoniche, già penetravano. Non al governo di certo, che durava immobile, quantunque esso pure fin dal 1761 avesse dovuto reprimere in Angiolo Querini e ne’ compagni suoi un’agitazione politica, che s’inspirava alle nuove idee, dappoichè il Querini, riformista e ammiratore dal Voltaire, somigliava assai più ai Mirabeau ed ai Lafayette, che non ai patrizi Veneti d’antica stampa.192 Ma il più fiero assalto del Gozzi alle esotiche dottrine venute di moda fu nella Fiaba dell’Augellino Belverde. «È un’azione scenica, egli scrive, la più audace che sia uscita dal mio calamaio. Io m’era determinato a tentar con uno sforzo di fantasia uno strepito grande teatrale popolare e a troncare il corso delle rappresentazioni sceniche, delle quali non voleva utilità nessuna, ma nè meno quel peso disturbatore, che incominciavano a darmi; massime sembrandomi già di aver abbastanza ottenuto quell’intento, che m’era proposto per un purissimo, capriccioso, poetico puntiglio.... Sotto un titolo fanciullesco, e in mezzo ad un caricatissimo ridicolo, non credo che [p. cxiii modifica]nessun uomo bizzarro abbia trattato con più insidiosa facezia morale le cose serie, ch’io trattai in questa fola.... I punti gravi, moralmente trattati in questo audace teatrale trattenimento, cagionarono per la città tante dispute e d’una spezie tanto particolare, che infiniti religiosi regolari degli ordini più austeri si trassero le loro tonache, e postisi in maschera, andarono ad ascoltare l’Augellino Belverde con somma attenzione.193» Per farne ben spiccare l’intendimento satirico, il Gozzi riappicca il filo di questa fiaba all’argomento delle Tre Melarance, quantunque la parodia e la satira abbiano cambiato oggetto. L’azione comincia vent’anni dopo la conquista delle Tre Melarance, il vecchio Re di Coppe è morto, il Principe Tartaglia è scomparso da diciannove anni, sua moglie è stata sepolta viva, i due loro gemelli sono stati affogati, la corte è vuota, il regno in balia della regina madre, una vecchia pazza imbertonita d’un poeta estemporaneo e furfante. Tutto questo terribile destino, che fa rassomigliare alla stirpe degli Atridi la stirpe fiabesca delle Tre Melarance, è scongiurato dalla magia. I morti tornano, gli sperduti si ritrovano, e non solo essi, [p. cxiv modifica]ma anche antichi personaggi d’altre Fiabe Gozziane tornano petrificati, come il Cigolotti del Re Cervo cambiato in statua parlante, ed i prodigi, le trasformazioni fanciullesche delle Tre Melarance si moltiplicano all’infinito. È veramente, ripeto, un vasto epilogo fiabesco, è il delirium tremens della magia, dove tutto ripiglia anima e vita, sino i pomi, che cantano, sin l’acqua, che suona e balla, sino le statue delle antiche fontane, che scendono dalle loro nicchie diroccate e muscose e, a guisa della statua espiatoria del Commendatore nel Don Giovanni, camminano con passo marmoreo fra i mortali. Ma in mezzo a questo pandemonio fiabesco la parodia e la satira primeggiano e forse con più intima connessione all’argomento, che non sia nelle Tre Melarance. Delle dottrine, che satireggia, il Gozzi ha un concetto molto inesatto e confuso. Sferza però in generale l’insurrezione della ragione contro la fede e ricongiunge tale insurrezione al Machiavellismo personificato nel salsicciaio Truffaldino, a cui la causa dei vinti inspira il più alto disprezzo ed è divenuto razionalista, incartando il salame coi libri dei filosofi.194 Manomessa l’antica fede, gli uomini, secondo [p. cxv modifica]il Gozzi, si chiuderanno in un egoismo feroce; deificata la ragione, vorranno l’impossibile, i pomi che cantino, l’acqua che suoni e balli. La buona e vecchia morale è personificata in Calmon, un eroe del Cunto de li Cunte, che di statua ridiventa uomo, di petrificato ridiventa attivo, e libera le vittime della filosofia dalle miserie, nelle quali sono piombate senza sapere più come levarsene. Meglio assai che nella dubbia profezia della Marfisa Bizzarra, Carlo Gozzi dimostra il presentimento della prossima rovina della Repubblica in questa sua avversione ad ogni novità, dalle commedie del Goldoni, che irridono i nobili e atteggiano civilmente il popolo sulla scena (quel protagonista futuro, rimasto sempre in disparte nella storia di Venezia), fino alle dottrine enciclopedistiche, che scompaginano le antiche armonie religiose e morali, fino alle prosuntuose scienze fisiche, che spiegando fenomeni e riparando sciagure sembrano volersi sostituire alla Provvidenza nel governo del mondo.195 Il Gozzi avverte la decadente [p. cxvi modifica]senilità della Repubblica di San Marco, nè può contentarsi di dire come il Goethe, coll’indifferenza d’un viaggiatore di passaggio: «essa, come ogni altro essere, cede alla forza del tempo.196» Il Gozzi l’avverte e, patriotta ardentissimo, si appassiona e si arrovella contro ogni novità, perchè la più piccola pietruzza, che si sgretoli dal vecchio edificio, gli sembra che debba cagionarne la rovina totale.

«Troncai il corso alle Fiabe, scrive il Gozzi, [p. cxvii modifica]dopo il Re de’ Genj e non perchè il fonte loro fosse inaridito (e forse farò ciò vedere un giorno, e quando il capriccio mi parrà usato a un util proposito) ma persuaso da quel principio, che ogni genere abbia la sua certa decadenza naturalmente per quell’aria di somiglianza e d’imitazione nell’indole, difficilissima, dopo un lungo corso, da poter evitare. Credei miglior cosa il lasciare il Pubblico desideroso, che nauseato di questo genere.197» Il 15 Febbraio 1768 Giuseppe Baretti chiedeva da Londra al Conte Vincenzo Bujovich: «Quante commedie nuove ha fatto il Conte Carlo Gozzi dopo la mia partenza da Venezia? Quanto pagherei se potessi avere il Mostro Turchino! Vorrei tradurlo in inglese e mi darebbe l’animo di farlo rappresentar qui con molto mio emolumento.198» A sua volta il Gozzi nel dedicare al Patrizio Giovanni Minio un volume delle sue Opere, e senza nominare il Baretti, scriveva: «s’io vi dicessi, che (le fiabe) mi furono chieste in Inghilterra da persone, che le videro rappresentare nella vostra inclita Patria (Venezia), per esser tradotte, ed esposte ne’ teatri di Londra e ch’io negai di darle, vi [p. cxviii modifica]direi una verità, ma dimostrerei una di quelle sciocche albagie, colle quali i boriosi provano il merito delle opere loro.199» Per qual ragione il Gozzi non acconsentì alla domanda del Baretti, il quale era perfetto conoscitore della lingua Inglese, ed amico in Londra del Garrick, del Burke e d’altre persone d’alto affare? Dubitò esso del buon successo? È probabile. Era, come abbiamo visto, meravigliato egli stesso dei trionfi delle Fiabe e non osò forse avventurare queste povere figlie d’Oriente tra le brume nebbiose di Londra e lo spirito positivo degli Inglesi. Quanto a tacere il nome del Baretti, che gli aveva fatta la proposta, ciò mi conferma nel dubbio già espresso, ch’egli lo conoscesse un po’ più di quel che vuol lasciare apparire. Parlando delle lodi dategli dal Baretti nel suo libro inglese sugli Italiani,200 il Gozzi le riporta, smisuratamente gonfiate, da una cattiva traduzione francese, se ne compiace assai e ricambia le lodi, quindi soggiunge: «io non ebbi giammai pratica confidenziale coll’Autore, nè lo conobbi [p. cxix modifica]che per fama, e di veduta passeggera, mentr’egli era in Venezia pubblicatore della sua Frusta Letteraria. Una sola volta mi trovai accidentalmente nell’abitazione di mio fratello Gaspare con esso e corsero alcune parole tra lui e me, le quali dovevano farmelo più nimico che amico.» Smentisce poi alcuni aneddoti riferiti dal Baretti, e conchiude: «da tutte quelle sue riferte si dovrà giudicare, ch’egli non conosceva nè me, nè l’indole mia, nè la mia direzione, nè il mio costume taciturno e solitario e ch’egli non aveva nessuna pratica domestica e confidenziale con me.201» Così il Gozzi nell’Aprile del 1801, quando il Baretti era già morto da dodici anni, e di tanto zelo non si vede veramente una ragione, se non è quella di togliersi di dosso ogni complicità in tutto il male che il Baretti aveva detto e ripetuto del Goldoni. L’intimità del Baretti con Gaspare Gozzi era ed è notissima. Quanto a Carlo, una sua lettera privata del 1763202 mostra ch’egli giudicava con senno i primi Numeri della Frusta, benchè [p. cxx modifica]si dolesse, forse per amore della sua Marfisa, delle lodi date al Mattino del Parini. Il fatto però che il Baretti potè leggere due Fiabe manoscritte e gli offerse poi di tradurle in inglese, dinota non aver forse il Gozzi detta tutta la verità in questa occasione. Certo non fu tra essi l’intrinseca amicizia che tra Gaspare e il Baretti. Ciò si rileva anche da altre lettere al Bujovich, dove, per esempio, il Conte Carlo non è mai compreso in quelle filze di affettuose salutazioni a tutti e singoli di casa Gozzi, di cui il Bujovich è sempre incaricato. Però, a quando a quando, il Baretti lo ricorda con amicizia riverente e nel 1772, fermo ancora nell’idea di tradurre le Fiabe, chiede «se v’è speranza che il Conte Carlo dia mai alla luce le sue commedie,203» nel 77, saputele stampate, mostra il desiderio d’averle subito,204 e finalmente riscrive d’aver ricevuto lettera dal Conte Carlo, il quale promette egli stesso di mandargliele.205 Non sono questi i rapporti di due persone, conosciutesi appena di veduta, tredici o quattordici anni prima. Ma le lodi pubblicamente date dal Baretti a Carlo Gozzi, ripetendo in pari tempo i vituperi al Goldoni, avevano rieccitate le collere degli amici di questo; il Goldoni, che già privatamente avea scritto del Baretti col più [p. cxxi modifica]intero disprezzo,206 avea stampate queste parole:.... «In Italia non ci sono, come in Inghilterra, di tai foglisti. Dopo ch’io sono in Francia, se n’era introdotto uno in Venezia, che dando il titolo di Frusta letteraria al foglio suo periodico, non criticava, ma insultava gli Autori, ed io ero nel numero degli insultati; ma ha durato poco, ed ha finito, come meritava finire.207» Il Gozzi quindi non volle scemar pregio alle lodi prodigategli dal Baretti, quasi fossero dirette più all’avversario del Goldoni, che al poeta delle Fiabe; non volle che si potesse sospettare aver egli soffiato nei carboni roventi della Frusta Letteraria, quando il Goldoni era già in Francia e gli avea già lasciato libero il campo, e perciò nella lettera pubblicata nel 1801 fece con tanto zelo verso il Baretti la parte dell’apostolo Pietro nel pretorio di Pilato. E sì, che il povero Gozzi non sapeva quale fosse stato il giudizio definitivo dell’eccessivo e intollerante Baretti intorno a lui e con che ferocità d’espressioni lo avesse confidenzialmente manifestato al suo Don Francesco Carcano, nell’informarlo d’aver ricevuto in dono dal Gozzi stesso le sue Opere! «Mi aspettavo, scrive il Baretti, un banchetto poetico dei meglio imbanditi.... Ma che volete? L’animale ha guasti tutti i suoi drammi, [p. cxxii modifica]ficcando in essi que’ suoi maledetti Pantaloni, e Arlecchini, e Tartagli, e Brighelli, che non doveva mostrare se non sulla scena per dar gusto alla nostra canaglia. Indotto dal suo matto amore alla compagnia del Sacchi o, com’egli sguaiatamente dice, Truppa Sacchi, egli ha fraudata l’Italia d’una gloria, che le poteva aggiungere con poco sconcio ed ha poi resi del tutto inutili a molti italiani e ad ogni straniero que’ drammi suoi. Qual’è lo straniero che voglia o possa darsi allo studio del dialetto viniziano e rendersi così atto ad intendere.... che? delle pantalonate scipitissime, che ti fanno cascar le braccia? E non potendo intendere un dramma intiero, chi vorrà comperarlo? chi leggerlo? Che bel trovato per rendere inutilissime tante sue belle e bizzarre e poeticissime invenzioni ai tanti amanti della lingua nostra oltramontani e oltramarini! Puossi avere il cervello più stravolto, più sgangherato! Lascio andare quella vergognosa sua trascuratezza nel ripulire la lingua e lo stile d’ogni cosa sua. E sì, che sua Signoria si vorrebbe pure spacciare per uno de’ più rigidi puristi su questi du’ punti! Il disegno della sua Marfisa è altresì molto poeticamente concepito e nuovo e bello quanto si possa dire; ma il diavolo si porti l’ottava, che non ha qualche macchia o nella lingua o nel verseggiamcnto. L’edizione poi ha la coda impiombata da una scomunicata versione delle satire di Boileau, che l’aiuterà di sicuro ad affondarsi presto nel fiume dell’obblio; tanto più che [p. cxxiii modifica]ella è sconcia da certe sue magre buffonerie alla Burchiellesca e da certi suoi ululati, com’e’ li chiama, e da cert’altre sue pessime prosacce, che sarebbe propio un acquistare l’indulgenza plenaria chi nel bastonasse ben bene. Un mucchio d’oro e di sterco a quel modo non s’è visto più mai. Ma passiamo da questo scioccone ingegnoso ad un altro scioccone che non merita questo epiteto. Voglio dire il Conte Verri....208» Critica soggettiva, se mai ve ne fu, e che dimandava al Gozzi per prima cosa d’aver fatto tutt’altro, da quello che volle fare, per entrarle in grazia. La quale pretensione, veramente superlativa, scema il valore anche dei biasimi giusti, che gli infligge. Comunque, tutto il discorso del Baretti significa ch’egli abbandonava il pensiero di una traduzione inglese delle Fiabe, lavori teatrali, secondo lui, d’un’indole troppo locale da potere piacere fuori di Venezia. Non così la pensavano i Tedeschi, che tra il 1777 e 1779 aveano già pubblicate a Berna le Fiabe tradotte nella loro lingua.209 La traduzione uscì anonima ed il Gozzi, pur compiacendosi moltissimo dell’inaspettato onore, non nomina mai il traduttore, che era Francesco Augusto Clemente Werthes, sebbene narri d’averlo conosciuto di persona a Venezia.210 Curioso è che il Gozzi non [p. cxxiv modifica]intende per quale motivo il Werthes abbia lasciato indietro tutte le sue Prefazioni e massime il Ragionamento Ingenuo211 e l’Appendice al Ragionamento Ingenuo212 e siasi esaltato poi tanto delle sue Fiabe, mentre in que’ due discorsoni avea pur condensato tutto il segreto della sua arte poetica e le ragioni delle polemiche letterarie e morali combattute colle Fiabe. «Forse internamente, scrive il Gozzi, non era persuaso de’ miei due Ragionamenti, ed io non mi offendo delle opinioni contrarie alla mia.213» Preziosa è questa ingenua confessione del Gozzi ed è come il principio di quella specie di malinteso fortunato, che passa fra lui ed i suoi furiosi ammiratori stranieri, i quali dell’opera sua accettano quella parte che conviene ai fini dei loro speciali dibattiti letterari, e acconciano un po’ a loro modo tanto l’uomo, quanto lo scrittore. Il Werthes, in ordine di tempo, appartiene al periodo, in cui lo spirito tedesco, guidato principalmente dal Lessing, si affranca dall’accademismo Francese per far ritorno, come si diceva, alla natura e alla libera fantasia, lo Sturm und Drang periode, il quale precede il lavoro concorde e fecondo del Goethe e dello Schiller, e precede pure il Romanticismo tedesco, propriamente detto, il romanticismo degli Schlegel e dei loro compagni. Presso tutti costoro, o per una [p. cxxv modifica]ragione o per un’altra, trovò grazia il nostro Gozzi, e massime colla scuola Romantica tedesca, alle cui simpatie non solo lo raccomandavano, come a guerriglieri dello Sturm und Drang periode, la libertà della sua poetica teatrale, ribelle (si può giurare) ad ogni canone di precettistica classica, ma altresì la tendenza (in questo caso la parola è storica) la tendenza tilosofica, politica e morale delle sue Fiabe, e quel suo rinfrescare vecchie favole e superstizioni popolari e medievali. Stando ai principii, dai quali moveva la scuola Romantica tedesca ed ai fini, ai quali deliberatamente intendeva, non si può negare che una certa affinità fra essa ed il Gozzi non esista. Se non che, anche quando le Fiabe si sollevano dalla guerricciuola dei Granelleschi contro il Goldoni e mirano più in alto, l’intento satirico primeggia sempre nella mente del Gozzi, ed il miracoloso, il mitico, il soprannaturale, il fantastico, per cui lo pregiano tanto i Romantici tedeschi, sono nell’opera sua coefficienti estrinseci e secondari, ch’egli raccoglie qua e là da fonti note e da lui stesso schiettamente indicate, ma ai quali non dà egli stesso alcuna principale importanza. Debole dunque è il filo, per cui il Gozzi s’attiene ai Romantici tedeschi e ben s’intende come, per avvincerselo di più forti nodi, essi abbiano dovuto trasformarlo alcun poco a posta loro. Letterariamente egli può e deve essere annoverato fra i precursori del Romanticismo italiano, per lo meno allo stesso titolo che (direbbe [p. cxxvi modifica]il Carducci) «il pasticcio ossianico-macphersoniano,» messo di moda in Italia dalla traduzione del Cesarotti e determinante insieme col sentimentalismo dello Young e del Rousseau le prime intonazioni preromantiche del Foscolo e del Monti. Se non che i Romantici tedeschi, cercando nel passato un rinnovamento artistico, s’imbatterono nel feudalismo, ed i Romantici italiani nella libertà dei Comuni e nel Guelfismo, perocchè il Romanticismo è reazionario in Germania, legittimista in Francia, scettico in Inghilterra e cattolico-liberale in Italia. Ora fare di Carlo Gozzi un neoguelfo ed un liberale del Conciliatore e della scuola Manzoniana è quasi più straordinario, che farne un feudale od un filisteo tedesco; nè venne quindi in mente ad alcuno, salvo a Piero Maroncelli, che, spiegando la genesi di quel suo benedetto cormentalismo, pretende che il Gozzi abbia volato «con l’ala di Shakespeare, di Calderon e di Schiller,» rimprovera agli Italiani d’averlo dimenticato, come l’Andreini, autore dell’Adamo, e destina a Carlo Gozzi un seggio in Campidoglio fra i patres della futura Italia una, libera e indipendente.214 Ma queste sono confusioni, non storia, nè critica; e la politica e il patriottismo le scusano appena. Qualche segno della fortuna del Gozzi in Germania è già nel Lessing, il quale, benchè nella Drammaturgia [p. cxxvii modifica]Amburghese non parli di Carlo Gozzi e solo accenni al Goldoni ed alla fecondità e spontaneità del suo genio comico,215 in una lettera però del 28 Aprile 1776 a suo fratello, che progettava una raccolta di opere teatrali italiane, consiglia di non trascurare quelle di Carlo Gozzi, che stavano per essere ripubblicate in tedesco a Berna, e senza delle quali la raccolta si dovrebbe dire imperfetta, tanta importanza avevano agli occhi suoi le opere teatrali del Gozzi. Notevolissimo è che dello scrivere il Gozzi ed il Cerlone alcune delle parti dei loro lavori in dialetto veneziano e napoletano, il grande critico dà per ragione il discredito, in cui era caduto il brutto italiano infranciosato, che adoperavano nelle loro commedie l’Albergati ed altri contemporanei, nè mostra di meravigliarsi punto d’un tale rimedio.216 L’anno innanzi il Lessing era stato in Italia per accompagnarvi un Principino tedesco caduto in disgrazia e mandato per correzione a svagarsi nella terra dove fioriscono gli aranci, e a Venezia avrà forse vista rappresentare qualche opera del Gozzi o l’avrà letta nell’edizione, che appunto allora era uscita. Nel Tomo IV Carlo Gozzi, la cui polemica avea ora [p. cxxviii modifica]cambiato oggetto, e, non più col Chiari e col Goldoni, ma se la pigliava colle intenzioni rivoluzionarie dei drammi lagrimosi, fa un paralello molto imbrogliato fra i teatri di Vienna e quelli di Venezia, fra il Sonnenfels e l’Heufeld217 ed il Chiari e il Goldoni, e rimprovera ai due tedeschi di avere fra altre pièces larmoyantes dato luogo a «quella Rosa Samson» (sic) che anche a Venezia era stata rappresentata nel 1773, ed «è cosa, scrive il Gozzi, d’un genio Tedesco.218» È chiaro che qui si tratta della Sara Sampson del Lessing, un dramma lagrimoso, la cui influenza, mercè il tipo della peccatrice redenta dall’amore, è stata letterariamente più viva e più lunga di quella degli altri suoi drammi. Chi sa pure se il Lessing ed il Gozzi non si conobbero? Fatto è che l’uno fa ricordo dell’altro ed il Lessing con intenzione più benevola di quella del Gozzi. Ma i primi a levare a cielo il Gozzi in Germania furono gli Schlegel, caporioni del Romanticismo Tedesco.219 Fino dal 1797 Federico Schlegel poneva già il Gozzi ed il Guarino, come scrittori drammatici, [p. cxxix modifica]accanto allo Shakespeare220 e già Ludovico Tieck aveva presa dal Gozzi l’inspirazione della sua Fiaba: Blaubart. «Senza volere imitare il Gozzi, scrive il Tieck nella Prefazione, il piacere provato nel leggere le sue Fiabe, m’invogliò di comporne una in altra maniera e secondo il gusto tedesco.221» Questa prima racconciatura o trasfigurazione del Gozzi, che di circa sei anni precedette quella dello Schiller con la Turandot, fu acremente censurata dall’Haym. Nel Tieck, che tratta alla Shakespeare la Fiaba, e le presta le intonazioni, il colorito, la passione del dramma storico, e nello Schiller, che senza spogliarla del tutto del suo carattere meraviglioso dà sentimenti e sembianze nobilmente poetiche ai suoi personaggi, l’Haym ravvisa un criterio artistico sbagliato, perchè ogni fiaba è essenzialmente un po’ parodia della forma drammatica vera e quindi anche quel tanto di burattinesco, che hanno le Maschere del Gozzi, e quel che d’abbozzato e di grossolano, che ha la sua fiaba, s’accordano meglio coll’indole di essa, che non le forme drammatiche del Tieck e le schiettamente poetiche dallo Schiller. Fra i tre chi è più nel giusto è Carlo Gozzi, che unisce il burlesco al [p. cxxx modifica]fantastico.222 Uguale censura vien mossa allo Schiller in alcune osservazioni sulla Turandot premesse all’edizione di Stuttgart del 1867. Dopo avere terminata la Pulcella d’Orléans, lo Schiller mise mano nell’autunno del 1801 alla Turandot, non secondo l’originale del Gozzi, bensì sulla versione del Werthes, per levarne una commedia, che fu rappresentata a Weimar il 30 Gennaio 1802, natalizio della Duchessa. Allo Schiller mancavano i grandi attori italiani, sui quali poteva contare il Gozzi, gli mancava quella vena di umorismo, di cui era ricco il Gozzi, e appena avea tentato qualche saggio di tal genere nel Campo di Wallenstein. Smorzò quindi tutto il burlesco della Fiaba e insistette di soverchio sulla nota patetica senza mutar poi nulla alla sostanza del dramma.223 Comunque, lo Schiller stesso rivela in due lettere al Körner, del 2 e 16 Novembre 1801, quali furono i suoi propositi nel mettersi a questo lavoro. La riduzione della Turandot fu per esso un riposo ed un’occasione felice di procurare con poca fatica una gran novità al teatro di Weimar. I suoi versi e pochi abili ritocchi avrebbero rialzato di [p. cxxxi modifica]tono il fondo poetico della Fiaba del Gozzi e tolta ai personaggi quella rigidità automatica da marionette, che non poteva piacere ad un pubblico, com’era quello del teatro di Weimar. Ma neppure il Körner si capacitò di quest’idea dello Schiller e gli scriveva il 15 Febbraio 1802 che confrontando la sua riduzione con la Fiaba del Gozzi preferiva anch’esso il Gozzi, quasi per le stesse ragioni, che adduce l’Haym.224 Fra questi contrasti e queste racconciature il vero Gozzi s’andava via via trasfigurando. La parte burlesca delle sue fiabe era presa sul serio, la parte seria (o che tale almeno era stata nella mente del Gozzi) si considerava un difetto da emendare od una concessione da lui [p. cxxxii modifica]fatta al mal gusto italiano. Però l’opinione dei poeti e critici tedeschi si determinava sempre più in favore del Gozzi.225 Prima ancora che il sommo [p. cxxxiii modifica]pontefice dei Romantici tedeschi, Agostino Guglielmo Schlegel, pigliasse nel 1808 sotto le sue grandi ali la gloria di Carlo Gozzi, uno storico letterario insigne, Federico Bouterwek, nel 1802, pronunciava sul Gozzi un giudizio, per molti lati giusto e definitivo. Con acuto intuito il Bouterwek congiunge quella ch’egli chiama la rivoluzione teatrale del Gozzi alla commedia popolare del Ruzzante. Questi avea tentato nel secolo XVI di nobilitare la commedia dell’arte ed il Gozzi ripiglia tale tentativo in onta al Goldoni, e quasi per burla, poi lo continua per genio e, si direbbe, inconsapevolmente. A voler conservare la commedia dell’arte bisogna non toglierle il suo carattere di spettacolo irregolare e bizzarro e nel tempo stesso nobilitarla con lo spirito e l’ingegno. È appunto ciò che il Gozzi ha fatto ed applicare a lui, per criticarlo, la precettistica della commedia e della tragedia regolare varrebbe quanto giudicare l’Orlando Furioso alla stregua dell’Iliade. La mescolanza d’estemporaneo, di serio e di burlesco, che il Gozzi conserva della commedia dell’arte e maneggia con buon gusto ed abilità, è il suo maggior titolo di gloria. Non c’è pantomima buffonesca ch’egli non sappia concepire poeticamente, e se non si può, come qualcuno ha preteso, paragonarlo allo Shakespeare, le sue Fiabe, sotto certi aspetti, sono superiori a tutte l’altre commedie e [p. cxxxiv modifica]tragedie italiane del tempo.226 Più giusto a quest’ultimo riguardo e più largo era stato il giudizio del Goethe, che anch’esso avea veduto come la forza della Commedia dell’arte consistesse nella riproduzione istantanea di tipi e scene popolari, in questa specie d’identità fra piazza e teatro, e come la mescolanza di patetico e di burlesco delle Fiabe del Gozzi fosse in relazione al carattere Veneziano e perciò avea conchiuso che l’unione delle Maschere con le figure tragiche, rinnovata dal Gozzi, era il vero spettacolo che conveniva agli Italiani. Ma questa sua ammirazione (in cui entra per molto la curiosità soddisfatta del touriste, che si diverte) non gli avea impedito di giudicare una commedia di costume Veneziano del Goldoni un’opera d’arte perfetta. «Posso dire finalmente, scrive il Goethe, d’aver vista una commedia!227» Ed ora ascoltiamo l’oracolo dei Romantici nella traduzione del nostro Gherardini, il quale, sentendo un così gran personaggio lodare [p. cxxxv modifica]uno scrittore, pel quale egli non avea alcuna simpatia, e deprimer altri, ch’egli avea in buon concetto, consigliava agli Italiani di consolarsi vedendo «onorato di lodi e d’ospizio ancora quello che per poco da noi si rifiuta.228» Strano modo di commentare lo Schlegel, che in mezzo ai dommatismi ed alle esagerazioni della scuola dice, anche a proposito del Gozzi, cose assai belle e giuste. «Questo autore, scrive lo Schlegel, diede la forma dramatica a veri racconti di Fate e vi fece camminar di fronte una parte seria e poetica con una parte grottesca, ove tutte le Maschere avevano il loro pieno sviluppo; simili commedie sono d’un effetto il più grande che mai. Sono esse ordite con estremo ardimento, l’invenzione è piuttosto originale che romantica; e tuttavia sono in Italia le sole composizioni dramatiche ove regnino i sentimenti dell’onore e dell’amore. L’esecuzione poco elucubrata di queste commedie dà loro l’aspetto d’un abbozzo tirato giù come la penna getta; ma [p. cxxxvi modifica]un tale abbozzo è pieno d’immaginazione, i tratti ne sono fermi e robusti, tutti i colori vivi e spiccati, e li oggetti, che esso rappresenta, colpiscono per modo la fantasia, che il popolo vi piglia grandissimo diletto.... Nelle prime opere del Gozzi il maraviglioso della stregoneria faceva un sorprendente contrasto col maraviglioso della natura umana, cioè a dire con la bizzarra follia de’ differenti caratteri, sì fortemente ritratta dalle Maschere.... Questa capricciosa imitazione della vita, o ne mostrasse il lato ridicolo, o vero il lato serio, oltrepassava la realtà in tutti i versi.... Le sue Maschere burlesche rappresentavano quella parte prosaica dell’umana natura che mette in ridicolo la parte poetica, ed erano la personificazione dell’ironia.229» Certamente questo giudìzio amplifica [p. cxxxvii modifica]e trascende l’intenzione dell’arte, che era possibile colla qualità e misura d’ingegno e coll’educazione letteraria di Carlo Gozzi, ma contiene pure gran parte di vero in ciò, se non altro, che concorda coi giudizi del Goethe e del Bouterweck. Linee più sfumate e più vaghe, apprezzamenti più soggettivi e metafisici trovansi in altri umoristici e Romantici tedeschi a proposito del Gozzi. Alle estrinseche bellezze della Turandot attribuiva importanza grandissima il fantastico Hoffmann, del quale alcuni fanno un imitatore del Gozzi.230 L’Hoffmann, in un suo Dialogo intitolato: Tribolazioni d’un Direttore di Teatro, loda sopratutto il bizzarro contrasto che passa fra la poetica Turandot e la bonomia comicamente volgare del padre di lei. Se la Turandot è rappresentata da una bella attrice, quel suo sollevare improvvisamente il velo, che la copre agli occhi del principe Kalaf, deve produrre un effetto irresistibile e costringere gli spettatori ad esclamare estatici, come il Kalaf, fulminato da quello sguardo divinamente superbo: «Oh bellezza! oh splendor!» Parimente la gravità comica, la figurina Chinese d’Altoum, padre di Turandot, esilara opportunamente e bilancia il [p. cxxxviii modifica]patetico della Fiaba. A ciò non ha badato lo Schiller, che per colmo d’errore ha ridotto le Maschere a figure scolorite ed insulse. Ed in altre Fiabe del Gozzi, nelle Tre Melarance, nel Corvo, nel Re Cervo che grandezza, che profondità, che vita! Non è ben chiaro però se fra tutti questi entusiasmi lo strano umore dell’Hoffmann non nasconda anche qualche intenzione beffarda, poichè nel suo Dialogo il più acceso partigiano del Gozzi è direttore d’un teatro di marionette.231 Di tale duplicità non può essere sospettato Francesco Horn, il Romantico cristianeggiatore dello Shakespeare, così crudelmente sbertato da Arrigo Heine nell’Atta Troll. Figurò nelle conversazioni dei Tè Estetici di Berlino ai tempi della restaurazione e scrisse in forma di lettere un libretto su Carlo Gozzi. Comincia dall’esaminare le Tre Melarance. In questa fiaba, secondo l’Horn, la satira del Gozzi è obbiettiva, mira più in alto che al Goldoni, avversario non degno di lui, ed anche tolta la satira al Goldoni, le Tre Melarance rimarrebbero pur sempre una grande creazione poetica. Guai a chi tocca (e valga l’esempio dello Schiller) a quel quid medium del Gozzi tra il fantastico e il comico, a cui nulla mancherebbe, s’egli sapesse trattare con ugual forza il patetico. Nelle Melarance il genio [p. cxxxix modifica]del Gozzi si mostra sull’orizzonte, nel Corvo è già allo zenith della grand’arte Romantica, nella Turandot tramonta, ma non tanto per colpa sua quanto per quella degli avversari, ai quali egli ebbe la debolezza di sacrificare il soprannaturale, il meraviglioso magico delle prime sue Fiabe. Nel Gozzi, nonostante i suoi mancamenti, l’Horn vede adempiuto l’ideale della poesia Romantica, il quale è libertà assoluta, è l’eroismo che, sciolto da ogni vincolo di fatalità o di circostanze esteriori, rispecchia tranquillamente l’umanità. Il Romantico è l’equazione del dilettevole e del sublime che, scompagnati, smezzano l’impressione, da cui deve esser tocca tanto la sensualità, quanto la spiritualità dell’uomo. Così la luna splendente nel cielo sereno è bella, ma intorbidata da qualche nuvola, che le passi dinanzi, è romantica; così un gruppo di maestose rovine per sè solo è sublime, ma posto in mezzo ad un paesaggio ridente è romantico. Il medesimo dicasi del genio poetico del Gozzi. Nell’Horn, come si vede, la trasfigurazione romantica di Carlo Gozzi è compiuta.232 E dinanzi a tal sorta di miraggi estetici non sembra più esagerato ne il giudizio, più etnografico che letterario, del Goethe (che taluno pretende abbia imitato il Gozzi nel suo Trionfo [p. cxl modifica]della Sensibilità233) nè la sentenza di Agostino Guglielmo Schlegel, la quale massimamente si riferisce alle affinità del Gozzi coll’eroismo, le fantasmagorie e le avventure della commedia di cappa e spada nel Teatro Spagnuolo. E la fortuna del Gozzi segue le vicende e il cammino storico del Romanticismo, sicchè i giudizi del Goethe e dello Schlegel234 trapassano di Germania in Francia con la Signora di Staël, che scrive: «il Gozzi, emulo del Goldoni, è ben più originale di questo ne’ suoi componimenti, i quali poco hanno da fare con le commedie regolari. Volle lasciarsi andare francamente al genio italiano e drammatizzare i racconti delle Fate; mescolare le buffonate e le arlecchinate al meraviglioso dei poemi; non imitare in nulla la natura, ma scrivere a grado delle [p. cxli modifica]più pazze fantasie, delle chimere della fiaba e trascinare per ogni guisa lo spirito degli uditori al di là dei confini del reale e del vero. Piacque immensamente al suo tempo ed è forse l’autor comico, il cui genere meglio convenga all’immagizione italiana.235» Da quest’opinione si scosta il Sismondi, a cui le opere teatrali del Gozzi non sembrano veramente conformi al gusto italiano. Le ritiene piuttosto una reazione contro i precetti classici; ma piglia talmente sul serio gli incantesimi delle Fiabe da assicurare che gli Italiani non se ne gloriano, perchè, essendo superstiziosi, non voglion apparir tali.236 Giudizi leggeri e meschini, che dinotano altresì una mediocre cognizione dell’argomento. Migliori e certamente più graziosi e dilettevoli intorno al Gozzi sono i ricami e le amplificazioni romantiche di Filarete Chasles e di Paolo De Musset. «Vedete voi quell’uomo alto, pallido, bruno, dallo sguardo fisso e penetrante, dal passo lento, che nel 1780 porta la maestosa parrucca del 1735, i ciondoli d’oro d’un vecchio Senatore, e i rovesci dell’abito all’antica? Egli abita un palazzo, che casca a pezzi, in una repubblica, che fa altrettanto, e non esce di casa [p. cxlii modifica]che per andare a far visita ai suoi attori ed alle sue attrici. Egli s’affaccia tra le quinte del palco scenico e tutta quella brava gente è a’ suoi piedi; l’Arlecchino gli si prosterna, la prima donna gli fa riverenza, il direttore gli fa recare un sorbetto; persino ogni rivalità, ogni gelosia femminile tace o scompare dinanzi a lui. Ammirate questa grande figura severa e malinconica e la venerazione che essa inspira a tutta la famiglia dei Tartaglia e dei Pantaloni! Perchè tanto rispetto?» Carlo Gozzi (continua lo Chasles, e lo compendio in breve) è uno di que’ genj che spuntano ad ora fissa per incarnare in sè stessi tutto un momento storico. Il Gozzi è l’ultimo discepolo della Spagna eroica, l’ultimo possessore della vena ironica e fantasiosa dei poemi cavallereschi; egli rappresenta da solo la decadenza, la servitù civile e la potenza passata di Venezia, la cui storia comincia come una leggenda, continua come un racconto di Anna Radcliffe e termina come un romanzo dell’Aretino. Posto sul limitare d’un rinnovamento sociale protetto dai filosofi, il Gozzi combatte le ultime battaglie in favore del Medio Evo, che stava per essere distrutto.237 Insomma un Goetz di Berlichingen letterario o poco meno! A critici immaginosi non c’è, come sogliono dire gli Inglesi, autore più suggestive del Gozzi, cioè che offra loro maggior copia, varietà e possibilità di [p. cxliii modifica]commenti, di illustrazioni e di amplificazioni fantastiche e bizzarre. Paolo De Musset, fra molte osservazioni ingegnose e fine, è uno di quelli che più vi lavorano intorno di fantasia. Ha un’idea fissa, che nel Gozzi sia del Molière e dell’Aristofane, fusi insieme. A sentire il De Musset, Carlo Gozzi non avrebbe dimandato di meglio che metter alla gogna sul palco scenico del San Samuele i Dogi, i Dieci, gli Inquisitori, tutti quei mercantacci superbi del Libro d’Oro; non lo trattenne che la paura d’essere strangolato a sessanta piedi sotto terra o dato in pascolo alle zanzare dei Piombi del Palazzo Ducale. Il che prova che il De Musset s’è formata un’idea molto inesatta del Gozzi, il quale era uomo invece, che avrebbe veduto strangolare volentieri e dare in pascolo alle zanzare dei Piombi chiunque avesse messa in forse la infallibilità politica dei Dogi, dei Dieci, degli Inquisitori e dei Patrizi del Libro d’Oro, e ciò non per mal’animo, ma perchè il Gozzi adorava la sua vecchia Repubblica, come i secoli l’aveano fatta, ed avea in orrore tutti i novatori politici e filosofici d’ogni tinta. Il De Musset riscontra poi affinità moltissime fra i personaggi dei Racconti Fantastici dell’Hoffmann e quelli delle Fiabe, delle poesie, dei drammi e delle Memorie del Gozzi; poi fa del Gozzi stesso un Hoffmann Veneziano, che, a furia di far la parte della Provvidenza e del fato con le creature della sua fantasia, s’immerge fino alla gola nel mondo dei sogni, ed ogni [p. cxliv modifica]realtà gli si trasfigura, ogni cosa gli s’illumina d’una luce magica, vede la coda del diavolo passar tra le falde d’ogni vestito, e se qualcuno di lontano lo chiama per isbaglio con un nome diverso dal suo, tosto si crede in balia delle potenze infernali. Tutto questo il De Musset arguisce con troppa libertà dal famoso Capitolo delle Memorie Inutili, dove il Gozzi narra delle Stravaganze e Contrattempi, ai quali la sua stella lo volle soggetto.238 «Trasportate in Germania, scrive il De Musset, la scena dei Contrattempi: e non avete voi lo scolare Anselmo, che non può mai salutare un gran personaggio senza rovesciare una sedia; il piccolo Zaccaria colle sue trasformazioni; e il Consigliere Tussmann, che vede una testa di volpe sulle spalle del suo vicino l’orologiaio, e tutte quelle altre figure, che si fantasmatizzano nella luce fumosa delle taverne di Berlino e di Norimberga? Negare l’originalità dell’Hoffmann non si può; ma sino a qual punto s’è esso appropriata quella del Gozzi? In che misura il poeta Veneziano l’ha egli aiutato ad esaltarsi, a mettersi come fuori di sè medesimo, per vedersi agire, pensare e muovere come le Maschere della commedia dell’arte? Quanto ha preso dal Gozzi il Nodier, che ne ha rifatte le peregrinazioni in Dalmazia? Fino a che segno giunge l’affinità della Fée aux Miettes, di Trilby e di tanti altri lavori del Nodier [p. cxlv modifica]con le commedie Fiabesche e il Capitolo dei Contrattempi? Turandot e l’Amore delle Tre Melarance hanno prodotto le Tribolazioni d’un Direttore di Teatro e gli articoli sulle Marionette. Neofobo è nipote di Burchiello e le sue diatribe sono venute a Parigi sulla Tartana degli Influssi, spinta da un venticello felice, molto tempo dopo l’anno bisestile 1756.... Leggete le Fiabe senza timore d’annoiarvi! Esse sono scritte per un popolo ben più insofferente ed incontentabile di noi!... Carlo Gozzi sapea nascondere i suoi fini morali e letterari sotto le apparenze del diletto e della ricreazione; dietro la vecchia nutrice, che narra accanto al fuoco le fole ai bambini, s’intravvede il filosofo. Quel suo insieme di forza satirica, di buon senso critico, di meraviglioso orientale, di fantastico e di pantalonata italiana ha qualche cosa di strano e di sorprendente, quanto l’esistenza stessa di Venezia. Questo genio complesso non potea uscire che dalla magica città delle lagune....239» Dopo lo Chasles ed il Musset, poca o nessuna importanza ha Maurizio Sand, la cui opera è più artistica che letteraria e non fa, a proposito del Gozzi, che ripetere cose dette da altri. Soltanto è notevole che ricongiunge anch’esso il Gozzi al Ruzzante e che è meno ingiusto di altri col Goldoni. Del resto il Sand fa del Gozzi un ente quasi del [p. cxlvi modifica]tutto immaginario, un personaggio di fiaba, che non si sa nè quando nacque, nè quando morì e che si dilegua in mezzo al turbine della Rivoluzione, insieme con Pantalone, Brighella, Arlecchino, deità finite d’un tempo già morto.240 Più che critico, paesista e profilista di fantasia è pure l’inglese Vernon Lee, ma di gran lunga miglior giudice e più acuto dei precedenti. Anch’essa si diverte a variare il tema dell’Hoffmann, dello Chasles e del De Musset sul Gozzi, e a descrivere questo poeta come un medium spiritico, strumento e vittima delle forze occulte, che stanno a mezz’aria tra il cielo e la terra, ma vede chiaro altresì quali elementi dell’antica commedia popolare e dell’arte Carlo Gozzi raccoglie e tenta ringiovanire, vede chiaro qual’è nella storia del nostro teatro la posizione rispettiva della commedia del Goldoni e della Fiaba del Gozzi, e nell’arte poetica di quest’ultimo si contenta di ammirare un forte abbozzo drammatico ed umoristico, che il lettore o l’ascoltatore, ricco di fantasia, può deliziosamente integrare a sua posta, come l’integravano al loro tempo la mimica e l’improvvisazione della Compagnia Sacchi. Chi vuol trovare tutto in un libro, non legga il Gozzi. Chi sa deliziarsi invece in questo sforzo interiore del compiere, fantasticando, gli informi abbozzi del Gozzi, questi non può [p. cxlvii modifica]trovare libro, che gli convenga meglio. Ecco perchè la Staël, lo Schiller, V Hoffmann ammirano il Gozzi ed il grosso pubblico lo lascia andare in obblio. Ma a Carlo Gozzi non mancò se non l’arte di estrinsecare tutto sè stesso nell’opera sua. Restò a mezzo tra il reale e il fantastico, tra la vita ed il sogno. Vagheggiò orizzonti sterminati, ma non ne colse che frammenti, all’opposto del Goldoni, che guardava ad un mondo ristretto, ma con un occhiata lo squadrava tutto. La Vernon Lee mette anzi il Goldoni in più diretto rapporto del Gozzi con la tradizione democratica della Commedia dell’arte e a questo rapporto dà colpa della volgarità, della mediocrità prosaica, che la infastidisce nella commedia Goldoniana.241

Esaminando le concordanze dell’antica favola Tedesca della Turandot con le ricomposizioni fattene dallo Schiller e dal Gozzi, un erudito tedesco di molto nome, Federico Enrico Hagen, piglia anch’esso a celebrare la vittoria del Gozzi sul naturalismo volgare della commedia Goldoniana.242 E siamo già ben lontani cronologicamente dagli entusiasmi Romantici! Ma la [p. cxlviii modifica]simpatia dei Tedeschi pel Gozzi perdura ostinata anche fuori delle preoccupazioni di quella Scuola.243 [p. cxlix modifica]Nel 1859 lo Schnakenburg ha trattato nuovamente del Gozzi e del suo teatro, e benchè accusi d’esagerazione la critica Romantica e dimostri, al pari del Tommasèo, che Carlo Gozzi somigliava tanto poco ad Aristofane, quanto Venezia ad Atene, pure confessa che il Gozzi con arte potente adescò la plebe con la volgarità delle sue forme, la gente colta con le sapienti allegorie delle sue favole, e perciò prese posto nella famiglia secondaria dei fantastici e degli umoristi, in quella dei Rabelais, degli Aretino e degli Sterne, dove gli spiriti magni d’Aristofane e dello Shakespeare passano a volo talvolta o si soffermano appena.244 Non si ribellò veramente a questo quasi generale consenso che l’arruffato storico del Teatro, il Klein, il quale assalisce il Gozzi in nome di quel liberalismo politico borghese che, fino a pochi anni sono, si riteneva arbitro delle magnifiche sorti e progressive del genere umano, ed era intollerantissimo anche in arte. Nulla il Klein concede al Gozzi, nè come uomo, nè come poeta, sicchè confonde in un odio solo gli Schlegel [p. cl modifica]feudali, il Conte Gozzi, e Napoleone III, l’ultimo dei Cesari, e si scaglia contro lo Schack, il quale ebbe il coraggio di chiamar il Gozzi il più grande poeta drammatico (der grösste dramatische Dichter)245 dell’Italia. Il Gozzi è un volgare impiastricciatore di colori. Nessuno loda più questo aristocratico retrivo, salvo qualche sperduto fantaccino della vecchia falange macedonica degli Schlegel.246 Con maggior diligenza di tutti questi critici impressionisti, se mi è permesso di chiamarli così, ha studiato il suo tema Alfonso Royer, elegante traduttore Francese di cinque Fiabe del Gozzi, e con più sicura equità ha giudicato il poeta. «Giudicarlo, dic’esso, non è facile.... Al lettore straniero massimamente occorre un certo sforzo di buon volere per gustare quelle quattro Maschere, introdotte dal poeta fra le più disparate azioni drammatiche e che vi appariscono innanzi in ogni tempo e luogo con la loro individualità convenzionale ed il loro grazioso linguaggio, bene spesso triviale. Quel miscuglio di poesia fantastica e di racconti di vecchie nonne, che ricorda a un tempo stesso l’Ariosto e i cantastorie di piazza, affetta inoltre una certa andatura Spagnolesca, che salta agli occhi a prima vista. E qua [p. cli modifica]e là c’è un ardore di personalità violenta, che scotta. Il fondo delle commedie fiabesche trascende sempre il mondo reale. Ma c’è tale delizia d’impressioni piacevoli in cotesto mondo dei sogni, che si perdona volentieri alla frivolezza dei mezzi per compiacersi de’ risultamenti ottenuti.... In grazia di questi si perdonerà pure al Gozzi, io spero, d’aver scritto dei drammi, nei quali nessuna madre corre dietro a un figlio smarrito, nessun diseredato corre dietro al misterioso portafogli, che gli deve rendere nome e fortuna dopo cinque atti di ginnastica drammatica; e parimenti lo si scuserà s’ei non sale in cattedra tutti i momenti per far la predica, se non maltratta il pubblico, che paga, se non dà in pascolo agli odii democratici l’uomo in abito nero, come il simbolo di tutte le iniquità commesse o da commettere. Questi metodi teatrali non erano ancora in voga al tempo di Carlo Gozzi.247»

Mi sono allargato alquanto a dar notizia della fortuna di Carlo Gozzi presso gli stranieri. In Italia e fino a questi ultimi tempi la critica o lo lasciò nell’obblio, in cui era caduto, o gli fu oltremodo severa, a cominciare dai contemporanei, dal Cesarotti, dal Taruffi, dal Vannetti, dal Gennari, dal Napoli Signorelli, storico dei teatri. Del Baretti ebbi già ragione di parlare e di riferire le [p. clii modifica]sue varie opinioni sul Gozzi, Nella corrispondenza epistolare del Cesarotti col Taruffi senti tutto il razionalismo pedantesco e pretensioso di due abati filosofi del secolo XVIII. «Credereste voi, scrive in francese il Cesarotti al Taruffi, che esista un paese al mondo, dove gli Orfanelli della China, i Tancredi, le Semiramidi non giungono senza sbadigli alla quarta rappresentazione?.... Dove? presso gli Uroni o i Topinambù? No. A Venezia. Per compenso abbiamo Fiabe e Fole, che si rappresentano le trenta volte di seguito in mezzo ai più cocenti entusiasmi. Crederete forse che si tratti degli Oracoli di Saintfoix, delle novelle di Marmontel, racconciate dal Favart.... Pover’uomo! Come siete a mille miglia dalla squisitezza del nostro gusto!... Sono le Tre Melarance, i Re Corvi (sic), i Re Cervi, i Mostri Turchini e altri di questa risma. E le più gravi persone assicurano che sono opere moralissime e dilettevolissime, contenenti allegorie profondissime e tutti i misteri dell’umana saggezza!» Ed il Taruffi gli rispondeva, pure in francese, da Varsavia, che avea vista rappresentare a Bologna una delle sublimi corbellerie del Gozzi, il Corvo. Gli eleganti, che erano stati a Venezia, la lodavano. Ma egli, l’abate filosofo, era scappato via inorridito per timore di smarrire il senso comune.248 Il Vannetti [p. cliii modifica](che Carlo Gozzi lodò nella sua Chiacchiera inedita) chiama l’autore delle Fiabe «corruttore del nostro teatro italiano.... Se le sue favole riscossero l’approvazione degli ignoranti gondolieri, caddero ben presto nel disprezzo dei colti uomini.» E nel 1782 (l’anno in cui scrive) annunzia già morti e sepolti gli effimeri trionfi del Gozzi.249 L’eruditissimo Gennari (che pure era dei Granelleschi) scriveva al Patrizio Battagia, proprio nel maggior fervore della rappresentazione delle Fiabe: «Camminando di questo passo torna a cadere il teatro comico in quegli stessi o somiglianti difetti, dei quali negli ultimi tempi s’è procurato di liberarlo colla sostituzione delle commedie di carattere alle vecchie filastroccole dei commedianti secentisti. Quanto a me avrei cercato di correggere e di emendare gli errori del Goldoni e del Chiari, anzichè gettarmi all’estremo opposto e introdurre una foggia di rappresentazioni inverosimili e romanzesche.250» Ed il Napoli Signorelli, discorrendo delle Fiabe nella sua Storia: «notabile è l’arte, scrive, adoperatavi [p. cliv modifica]l’industre Autore, imperciocchè le perturbazioni tragiche, le piacevolezze comiche, le favole anili, le metamorfosi a vista, un fondo di eloquenza poetica e di riflessioni filosofiche concorsero a formar que’ mostri lusinghevoli, che seducevano il popolo Veneziano ed ebbero un imitatore nel Sig. Giuseppe Foppa.251» Sulla fede del Napoli Signorelli, il Klein, il Magrini252 ed altri citarono codesto Foppa, come l’imitatore del Gozzi, ma tutti soggiungono d’aver cercato inutilmente notizie di lui. Chi era dunque questo misterioso personaggio? Un suo dramma, che si legge nel Teatro Moderno Applaudito (nota raccolta di opere teatrali)253 non lo chiarisce di certo imitatore delle Fiabe di Carlo Gozzi, bensì, se mai, imitatore della seconda maniera del Gozzi, cioè de’ suoi drammi Spagnoleschi. Ad imitatori delle Fiabe il Gozzi allude con disprezzo, ma non ne nomina alcuno.254 Quanto al Foppa, esiste una sua curiosa autobiografia,255 non priva d’interesse anche per la vita del Gozzi. Il Foppa era nato nel 1760. Era un [p. clv modifica]povero impiegatuccio e a tempo avanzato poeta, pittore, suonatore e romanziere. Le sue opere salgono ad un numero sterminato, ma pare che aspirasse piuttosto ad imitare il Goldoni, e più che a poeta fiabesco, la pretendesse a melodrammatico. Di fatto fornì al Rossini il libretto d’una sua opera: L’Inganno Felice. Cominciò a scrivere per il teatro nel 1782. «In quel frattempo (trascrivo la parole del Foppa) la rinomata compagnia Sacchi, che agiva nel teatro in S. Salvatore (chiamato volgarmente di S. Luca) si disciolse.256 Il Conte Cario Gozzi, che diede ricchezza in tempi antecedenti a quel Capo Comico da lui proletto, vedendolo ridotto a mal partito, s’indusse a persuadere l’insigne attore Petronio Cenerini (sic) con qualche altro valente soggetto a non abbandonare il Sacchi nel passaggio che fece dal teatro in S. Luca all’altro in S, Angelo. Fu a quell’epoca, ch’io conobbi il Gozzi, presso il quale ebbi speciale favore, essendosi egli a me affezionato, perchè mi era già anche prima dichiarato [p. clvi modifica]suo settario; e come settario del Gozzi si è fatta menzione onorevole della mia persona dal Signor Napoli-Signorelli nella sua Storia dei Teatri. Ho detto ch’ebbi dal Gozzi speciale favore, perchè uomo tutto a sè solo, ciò provandolo ch’egli nella celebre Accademia dei Granelleschi in Venezia, e di cui fece gran parte (sic), era nominato il Solitario. Sembrando al Gozzi, ch’io potessi esser utile a quella Compagnia, mi eccitò a darle qualche mia composizione. Lo compiacqui e trattai il fatto di Ginevra di Scozia, riferito dall’Ariosto nel suo poema Orlando Furioso.257» Settario dunque, non precisamente imitatore, ed in egual modo il Poppa era anche amico del commediografo Albergati, che dice letterariamente avversissimo al Gozzi. Ma il Foppa seppe barcamenarsi tra i due!258 L’Albergati di fatto criticò acerbamente le Fiabe del Gozzi.259 È bene sapere però, che l’Albergati, vanissimo e corteggiatore d’ogni gloria grande o piccina che spuntasse, avea prima e molto più del Foppa imitato il Gozzi con una Fiaba, che intitolò il Sofà, e che anzi dedicò, stampandola, al Gozzi stesso con amplissime lodi. La Fiaba dell’Albergati (il cui ingegno fece pur buona prova nella commedia) non ha alcun valore. Forse [p. clvii modifica]allude ad essa il Gozzi, allorchè, parlando degli imitatori delle Fiabe, scrive: «essi affidarono alle immense decorazioni, alle trasformazioni e alle agghiacciate buffonerie. Non intesero nè il senso allegorico, nè la urbana satira del costume, nè la forza dell’apparecchio, nè la condotta, nè il vigore intrinseco del genere de me trattato.260» Ma, a proposito del voltafaccia dell’Albergati, il Gozzi non si contentò di anonime allusioni, e poichè alla dedica del Sofà egli avea corrisposto gentilmente, dedicando all’Albergati il tomo quinto della sua edizione del 1772, ristampò nel 1802 la dedica Albergatiana e finamente derise la mutabilità dei gusti del Commediografo Bolognese, che dall’ammirazione per le Fiabe era trascorso ora all’ammirazione pei drammi lagrimosi.261 Meritevole di speciale ricordanza è il fatto che il Goldoni, stando a Parigi e giungendogli colà l’eco dei trionfi delle Fiabe, volesse comporne una egli stesso quasi a rinnovare col Gozzi l’antica rivalità anche sul campo, ch’egli stesso s’era scelto per far contrasto alla Commedia Goldoniana, La pretesa Fiaba del Goldoni è intitolata: Il Genio Buono e il Genio Cattivo e fu rappresentata a Venezia nel 1768.262 Che il Goldoni, nel mandare a Venezia [p. clviii modifica]questa sua commedia, in cui ha introdotto un po’ di spettacoloso e di meraviglioso, abbia voluto approfittare del nuovo gusto del pubblico Veneziano per le Fiabe, non mi sembra dubbio. Ma che il Goldoni le abbia imitate, è questa una voce, che s’è andata ripetendo, ma che il Gozzi stesso ribatte con molta ragione263 e che, leggendo la commedia del Goldoni, si vede chiaro non avere alcun fondamento.264 Il Goldoni fu costretto, nei primi tempi della sua dimora in Francia, a ritornare alle tradizioni della Commedia dell’arte e a modellarsi, più che potè, sul gusto dell’Opera Comica Francese. Il gran modello di questo nuovo tentativo del Goldoni è il Ventaglio, vera meraviglia d’arte comica. Allo stesso genere appartiene il Genio Buono e il Genio Cattivo, non ostante le trasformazioni e le macchine, la quale commedia, benchè inferiore di gran lunga al Ventaglio, ha però parti vigorosissime e che indicano un vero ringiovinimento, che il viaggio in Francia avea conferito al genio del Goldoni. Le mie affermazioni si fondano sull’esame della Commedia e su quanto scrive il Goldoni all’Albergati il 18 aprile [p. clix modifica]1763, dandogli notizia del Ventaglio e di un’altra commedia che progettava fin d’allora e che voleva intitolare: Il Carnevale di Venezia. «Vi saranno, scrive il Goldoni, molti Francesi e molti Italiani; non risparmierò la critica nè agli uni, nè agli altri. Farò dei confronti di costumi, di usi, di divertimenti, di musica e dei teatri. Ecco la mia idea....265» E parmi appunto l’idea, che ha incarnata nel Genio Buono e nel Genio Cattivo; commedia, che quale specchio storico di costumi, specialmente Parigini del secolo scorso, e quale documento di un nuovo svolgimento dell’ingegno del Goldoni,266 ha, secondo me, una capitale importanza. Ma ritorniamo ai critici italiani di Carlo Gozzi.

Quanto gli fu avversa la critica letteraria contemporanea, altrettanto gli fu ostile quella che la segue da presso. Il Gherardini, annotatore dello Schlegel, esiglia le Fiabe fra i melodrammi e le pantomime, «ove oggidì si vuole sopratutto che sieno colpiti i sensi, ove il cuore non si lagna se resta alquanto in riposo ed ove la ragione è meno gelosa de’ suoi diritti.267» Tutte parole, che indicano però quanto poco aveva appreso dalle [p. clx modifica]Lezioni dello Schlegel. L’Ugoni fu dei primi ad esaminare un po’ accuratamente la vita e le Opere del Gozzi per farsi strada a giudicarlo, ma la sua conclusione non fu favorevole al Gozzi. C’entrò pure la preoccupazione politica e liberale, per la quale l’Ugoni non poteva perdonare al Gozzi le sue opinioni avverse alla filosofia filantropica del secolo XVIII, senza pensare che queste con le opinioni politiche liberali del 1820 e 31 non hanno nulla da fare. L’Ugoni quindi derise come assurde affatto le lodi date dagli stranieri a Carlo Gozzi, la cui fantasia, incapace di crear nulla di artisticamente armonico, era, secondo l’Ugoni, la folle du logis, che discorre a vanvera, senza sentimento e senza giudizio.268 Come il Tommasèo giudicasse l’uomo ed il poeta ebbi già occasione di dire. Delle Fiabe giudica che «le giocose fantasie e i sali abbondano» nell’Amore delle Tre Melarance. «Delle altre (continua), delle quali talune rimasero ai burattini, l’invenzione è tolta da novelle o drammi d’altri: abborracciati i caratteri, falso o leggiero l’affetto, il dialogo fuor di natura, lo stile disadorno. E il Baretti, chiamandolo il più mirabile ingegno drammatico dopo lo Shakespeare, si mostra giudice grossolano.269» Chi direbbe però che con queste gravi parole l’acuto [p. clxi modifica]Dalmata giudica di Fiabe teatrali? A mala pena la più solenne e coturnata tragedia comporterebbe una tal critica. Più equo è Giuseppe Ferrari, benchè ricalchi le esagerazioni e le inesattezze dei critici Francesi. Anch’esso però è più contrario che favorevole al Gozzi.270 Dopo questi scrittori non mi pare che valga la pena di ricordare particolarmente nè il Ginguenè, che encomia e critica il Gozzi, molto probabilmente senza averlo letto, tante sono le inesattezze che accumula,271 nè il Lombardi, che ricopia l’Ugoni,272 nè il Salfi, che giudica il Gozzi dal punto di veduta d’un giacobinismo italiano in ritardo,273 nè il Baseggio, nè il Cuccetti, ne l’Emiliani-Giudici, i giudizi dei quali, avversi al Gozzi, non mi sembra però che abbiano più alcuna possibile importanza letteraria.274 Ricorderò bensì che il Settembrini distingue bene certe parti dell’opera teatrale del Gozzi e di altre discorre in confuso,275 che meglio e con più sicuro intuito di tutti lo giudica il De Sanctis, massime nel compararlo al Goldoni.276 Degli altri molti, che hanno [p. clxii modifica]trattato del Gozzi in questi ultimi tempi, nei quali, col rinnovarsi degli studi critici di storia letteraria, anche Carlo Gozzi è uscito dalla penombra oscura dell’obblio, ov’era rimasto tanti anni, non sembra opportuno discorrere qui partitamente. Basti accennare che appunto da questo ritorno dell’attenzione degli studiosi su Carlo Gozzi, dai nuovi e recenti saggi su questo poeta, i quali hanno messo in chiaro quant’era l’importanza storica e letteraria di lui, nacque il pensiero, che fosse bene ripubblicare le sue Fiabe, e la speranza, che il pubblico italiano dovesse fare buon viso a questa ristampa. Mi sembra debito però un’eccezione pel Magrini, il cui libro non è senza mende, ma è pur sempre il più ampio studio, che finora si sia fatto su Carlo Gozzi; e, non potendo riassumere le molte, forse troppe, cose che dice, ne citerò le conclusioni, con le quali io pure in molta parte mi accordo. «Le Fiabe di questo ingegnoso umorista del XVIII secolo, scrive il Magrini, sono commedie allegoriche, favolose, strane, in cui spesso più che le passioni giuocano la volontà possente ed il genio benefico o malefico di esseri soprannaturali, che ricordano il Deus ex machina ed il fato degli antichi; sono racconti drammatizzati di fate, incantesimi e trasformazioni, in cui il genere comico va unito in bel modo all’eroico, la prosa al verso; e si trovano in esse satire pungenti, attici epigrammi e parodie efficaci, dacchè il fantastico è commisto al reale [p. clxiii modifica]ed alla parte scritta sono innestate le scene improvvise delle maschere paesane, che, con motti arguti e pronti, e con frequenti allusioni personali allietano il pubblico.... Le Fiabe adunque, che stanno per noi tra la Commedia dell’Arte e le moderne Féeries, sono un vanto della letteratura italiana, piacciono, e, non c’è critica che tenga, invogliano alla lettura per la loro originale festività.277»

Durante i trionfi delle Fiabe, la consuetudine di Carlo Gozzi con la Compagnia comica di Antonio Sacchi, che le aveva rappresentate, era divenuta quotidiana. Attori ed attrici dovevano a lui, al disinteresse, con cui prestava l’opera sua, il favore del pubblico e l’agiatezza. Gli attori lo retribuivano di gratitudine, di ossequio, di riverenza. Colle attrici era amico, confidente, consigliere, maestro, compare, protettore e, non ostante tutte le sue proteste e le sue pedanterie moralistiche, era anche amante. E perchè no? Erano donne «impastate d’amore278» (lo dice esso) e allorchè il Gozzi incominciò a mettersi in tali intrinsichezze, avea circa trentacinque anni.279 Stando anche solo alla storia dei tre amori, che narra in tre de’ più graziosi Capitoli delle sue Memorie,280 [p. clxiv modifica]vedesi del resto ch’egli non era poi quell’inespugnabile Catone, che vuole apparire. Ma, poichè Carlo Gozzi volle descrivere il proprio esterno ed interno nella sua autobiografia, è pregio dell’opera riferire le sue parole:


«La mia statura è grande, e m’avvedo di questa grandezza dal molto panno che occorre ne’ miei tabarri, e da’ parecchi colpi ch’io dò colla testa nell’entrare in qualche stanza che abbia l’uscio non molto alto. Ho la fortuna di non essere nè scrignuto, nè zoppo, nè cieco, nè guercio.... Questo è quanto credo di sapere, e di poter dire della mia macchina, avendo lasciata sino dalla mia giovinezza la briga alle femmine di dirmi bello per lusingarmi e di dirmi brutto per farmi rabbia, senza che vincessero mai nè l’una cosa, nè l’altra. Escluso sempre il sudicio da me abborrito, s’ebbi in dosso qualche vestito di taglio moderno, fu per opera del sartore, e non mai della mia ordinazione.... L’acconciatura de’ miei capelli dall’anno 1735 all’anno 1780 in cui scrivo fu sempre della forma medesima.... Non ho mai cambiato modello di fìbbie alle scarpe sino a tanto che spezzate le prime fibbie, dovei cambiarle per necessità, e se nel cambio ci fu qualche differenza di modello, dal quadro all’ovale, lo fu per consiglio dell’orefice, che mi fece prendere le più leggere, perchè si rompessero più presto.... I poco parlatori, e assai pensatori, come sono io, occupati nei molti loro pensieri, prendono il vizio di incrocicchiare le ciglia per maturarli, il che dà loro un aria brusca, severa, e presso che truce. Bench’io abbia l’animo sempre allegro.... gli infiniti pensieri, ch’empierono sempre la mia testa in burrasca, o per imbrogli della mia famiglia, o per riflettere alle ragioni delle mie liti nel Foro, o per riparare a qualche disordine, o per architettare una mia composizione poetica, o qualche prosa, mi fecero cadere nel vizio del corrugare la fronte, dell’aggrottare e incrocicchiare le ciglia per modo, che unito [p. clxv modifica]questo vizio al mio passo lento, alla mia taciturnità, e al mio cercare passeggi solitari, mi fece giudicare da tutti quelli che non m’ebbero in pratica un’uomo serio, burbero, impraticabile e fors’anco cattivo. Molti che m’hanno colto occupato in qualcheduno de’ miei molti pensieri colle ciglia brusche incrocicchiate e lo sguardo oscuro, guardandomi sott’occhio, avranno creduto ch’io pensassi ad uccidere qualche nemico, quando pensava a comporre l’Augel belverde.281»

«Non fui avaro, perch’ebbi sempre a schifo il peccalo dell’avarizia, e non fui prodigo forse soltanto perchè non fui ricco.... Averei potuto trarre qualche utilità pecuniaria dal diluvio de’ scritti miei, ma gli ho donati ognora a’ Comici, a’ librai.... I miei scritti sempre satirici..., non prezzolati, avevano il vantaggio d’un certo decoro. Prezzolati, sarebbero.... decaduti..., nelle opinioni e sulle lingue de’ miei contrari, in una insoffribile mercenaria maldicenza, che mi avrebbe forse fatto odioso universalmente. Oltre a ciò non v’è peggiore avvilimento in Italia.... di quello di scrivere prezzolato per i nostri Librai e lo scrivere prezzolato per i Teatri de’ nostri miserabili comici.... Sempre costante nel mio naturale risibile (sic), non potè rattristarsi il mio interno, nemmeno nello scorgere rovesciata la mia sparsa morale, ch’io credeva sana, dalla sottigliezza degli insidiosi e industri sofismi del secolo.... Gli amici miei di stretta amicizia furono pochi ed io fui come il Berni

Degli amici amator miracoloso.
Il mio interno s’è acceso in qualche raro momento d’irascibile per dei torti ricevuti.... ma pochi istanti bastarono alla mia riflessione a calmare il mio interno.... Ho un istinto risibile tanto in sui spiriti deboli che credono tutto, quanto sui spiriti forti, che ostentano di non creder nulla, ma ho [p. clxvi modifica]giudicati spiriti più deboli i secondi dei primi.... Con tutte le mie risa, scorsi però nell’uomo con sicurezza un’immensa sublimità e tanto superiore all’essenza dei bruti che non mi sono mai degnato d’avvilirmi a considerarmi nè letame, nè fango, nè un cane, nè un porco, come si degnano di considerarsi i spiriti forti.... Le odierne novità di rovesci, che ci dipingono gli Epicuri onest’uomini; i Seneca impostori; venerabili filosofi i Volteri, i Russò, gli Elvezi, i Mirabò..., non seducono il mio interno. Guardo i funesti effetti cagionati sui popoli dalle dottrine dell’ateismo.... Finalmente l’interno mio tenne sempre viva la sacra immagine dell’augusta nostra Religione, nè mi curai d’essere considerato da’ Filosofi d’oggidì addormentato nel da lor detto pregiudizio.282»


Ma il ritratto morale di Carlo Gozzi non sarebbe compiuto, senza dare qualche idea del famoso Capitolo delle sue Memorie, intitolato dei Contrattempi, il quale servì alla critica Romantica per rappresentarsi il Gozzi come un Doctor Faust, preda e ludibrio di quelle potenze magiche, che la sua fantasia di poeta aveva evocate. Vedranno invece i lettori, che il Capitolo dei Contrattempi non è altro che un bozzetto leggiadrissimo del bizzarro umore del Gozzi e di una sua preoccupazione, che confina coi terrori della jettattura napoletana.


«S’io volessi narrare (scrive il Gozzi) tutte le stravaganze e tutti i contrattempi, a’ quali la mia stella mi volle soggetto, averci lunga facenda. Furono frequentissimi e quasi giornalieri. Le stravaganze ch’io soffersi mansuetamente [p. clxvii modifica]co’ successivi miei servi pro tempore potrebbero darmi argomento di formare un volume. Narrerò la sola stravaganza molesta, pericolosa e ridicola insieme, ch’io fui preso con somma frequenza da infinite persone in iscambio di chi io non era con un insistenza ostinata, e ciò che ha di vago questa stravaganza è ch’io non somigliava punto agli uomini per i quali era preso. Un giorno m’incontrai in un vecchio artefice a San Favolo, che vedendomi mi corse incontro inchinato e baciandomi un gherone del vestito piangendo, mi ringraziò ch’io avessi colla mia protezione liberato il di lui figlio dalle carceri. Sostenni ch’egli non mi conosceva e che mi prendeva per un altro. Egli sostenne vivamente, francamente di conoscermi e che io era il suo caritatevole padrone Paruta.... Chiesi a chi conosceva quel Patrizio Paruta, se mi assomigliasse. Mi si disse che non aveva con me la menoma somiglianza. Non v’è chi non conosca o non abbia conosciuto Michele dall’Agata, noto Impresario dell’Opera, nè chi non sappia ch’egli era un palmo più basso di me due palmi più grosso e difierentissimo da me ne’ vestiti e nella fisonomia. Ho dovuto soffrire per un lungo corso d’anni e sino ch’egli visse la seccaggine d’esser fermato per la via per Michele quasi ogni giorno da Canterini, da Canterine, da Ballerini, da Ballerine, da Maestri di Cappella, da Sartori, da Pittori, da dispensieri di lettere, e di ascoltar lunghe doglianze, lunghi ringraziamenti... e co’ dispensieri di lettere di dover rifiutare lettere e fardelli diretti a Michele dall’Agata, gridando, protestando e giurando ch’io non era Michele, le quali persone tutte partendo a stento si volgevano a me tratto tratto guardandomi fiso smemorati e dimostrando di credere ch’io fossi un Michele che non volesse esser Michele.

Giunto a Padova una state, seppi essere a letto da un parto la signora Maria Canziani valente e saggia Danzatrice, mia ottima amica. Volli farle una visita e chiedendo a una donna nel di lei alloggio se potessi entrare nella sua stanza, ella entrò ad annunziarmi con queste parole: Signora, è qui [p. clxviii modifica]fuori il Signor Michele dall’Agata che brama di riverirla. Nel mio entrare ho avuto timore che la povera Galiziani scoppi dal ridere sul franco sbaglio di quella femmina.

Uscito da quella visita m’incontrai sul ponte S. Lorenzo nel celebre Professore d’Astronomia Toaldo. Egli conosceva me perfettamente, com’io conosceva perfettamente lui. Lo salutai, ed egli guardandomi, si trasse il cappello con gravità, e dicendomi: Addio, Michele, e passando oltre pe’ fatti suoi. La eterna insistenza di questo sbaglio m’aveva quasi ridotto a credere d’essere Michele. Se quel Michele avesse avuti de’ nemici brutali, vendicativi, avrei avuto occasione di non ridere d’esser preso per Michele.

Una sera, che faceva gran caldo, splendeva una luna bellissima, a tal che la notte pareva giorno. Passeggiava cercando fresco e discorrendo col Patrizio Francesco Gritti nella piazza S. Marco.

Ho udita una voce gridare dietro di me dicendo: Che fai tu qui a quest’ora? Che non vai a dormire, pezzo d’asino? Il dir ciò e il darmi due calzanti pugni nella schiena fu tutt’una cosa. Mi volsi per fare una mia vendetta, e scorsi il Patrizio Cavalier Andrea Gradenigo, il quale guardandomi prima attentamente, mi disse poscia: Scusi, avrei giurato, ch’ella fosse Daniele Zanchi. Ci fu qualche cerimonia sulle pugna e sul titolo d’asino che aveva ricevuti per esser stato creduto un Daniele, con cui il Cavaliere doveva avere una confidenza da potergli dire asino e di darle (sic) de’ cazzotti per usargli una finezza domestica.

Nè meno stravagante fu il caso che m’avvenne sulla mia considerata somiglianza. Essend’io con Carlo Andrich mio buon amico discorrendo sulla piazza S. Marco un giorno serenissimo, vidi un greco co’ baffi, vestito alla lunga con una berretta rossa in capo, il quale aveva seco un ragazzo vestito alla sua stessa maniera. Quel greco vedendomi, corse allegro verso me, e dopo avermi abbracciato e baciato con gran trasporto, si volse al ragazzo dicendogli: via, ragazzo baciate la mano qui al vostro zio Costantino. Il ragazzo mi [p. clxix modifica]prese la mano baciandola. Carlo Andrich guardava me, io guardava l’Andrich; eravamo due simulacri. Finalmente chiesi al greco per chi mi prendesse. Oh bella! (diss’egli) non siete voi il mio caro amico Costantino Zucalà? L’Andrich si stringeva le coste per non crepare dal ridere, ed io ebbi fatica sette minuti a persuadere il greco, ch’io non era il signor Costantino Zucalà. Fatta ricerca sulla mia somiglianza col Signor Zucalà a chi lo conosceva, fui assicurato che quel Signore, onorato mercante, era un uomo di bassa statura, pingue e che non aveva grano di somiglianza con me.283»


Passando ora a rivelare la «centesima parte» dei Contrattempi, dai quali fu sempre afflitto, il Gozzi narra con tono di malinconica desolazione che se lo coglieva la pioggia per istrada, aspettava ore ed ore, sotto un portico, nella speranza che cessasse. Non c’era caso! Si risolveva allora ad affrontarla e giungeva in casa bagnato come un pulcino. Appena toccava la soglia dell’uscio, eccoti il sereno e un sole di paradiso. Se volea star solo per leggere o scrivere, eccoti un seccatore ad interromperlo. Se si metteva a radersi la barba, ecco persone d’alto affare, che lo ricercavano con premura, e la barba rimaneva mezza fatta e mezza da fare. Se, sorpreso per via da una piccola necessità naturale, cercava un viottolo solitario, ecco due signore, che capitavano proprio da quel lato. Ne cercava un’altro, ed eccoti altre due signore, che uscivano da una porta vicina. [p. clxx modifica]

Tornando dal Friuli in una freddissima sera di novembre, s’incamminava verso casa sua e vide per la contrada un gran via vai di gente, poi (oh meraviglia!) le finestre della sua casa spalancate e piene di lumi....


«Aperto l’uscio (continua il Gozzi) mi si affacciarono due militi urbani, i quali presentandomi due spuntoni al petto gridarono con viso fiero: per di qui non si passa.

Come! (diss’io ancor più sbalordito e mansuetamente) perchè non poss’io passare?

Non Signore (risposero quei terribili) per quest’uscio non s’entra. Ella vada a porsi in maschera ed entri per quel portone che vede qui a mano diritta ch’è del palagio Bragadino. Mascherato, la lascieranno per di là entrare alle feste.

Ma se fossi il padrone di questa casa e giunto stanco da un viaggio, agghiacciato, e assonnato, non potrei entrare nella mia casa per pormi nel mio letto? (diss’io con tutta flemma).

Ah il padrone! (risposero que’ feroci). Ella si fermi ed avrà qualche risposta. Detto ciò mi chiusero impetuosamente la porta in faccia.... S’aprì finalmente di nuovo l’uscio, e mi si presentò un Mastro di casa tutto trinato d’oro, il quale con molti inchini, mi fece l’invito d’entrare. V’entrai e salendo la scala chiesi a quella riverente persona, che fosse l’incantesimo che io vedeva nel mio albergo. E lei non sa nulla? (rispose quell’uomo). Il mio padrone Patrizio Gasparo Bragadino, prevedendo che il di lui fratello sarebbe eletto Patriarca, trovandosi ristretto di fabbricato per fare le consuete feste pubbliche, desiderò di unire con un ponticello di passaggio dalle finestre questa casa alla sua per aver maggior agio. Tanto fu eseguito con la di lei permissione. Qui si fanno parte delle feste e si getta dalle finestre al popolo pane e danari. Lei non abbia però alcun dubbio che la stanza dove ella dorme non sia stata preservata e chiusa con diligenza. Venga meco, venga meco, e vedrà. [p. clxxi modifica]

Rimasi ancor più attonito sentendomi dire d’una permissione che nessuno m’aveva chiesta e ch’io non aveva data. Non volli però far parole con un Mastro di casa sopra ciò, e giunto nella sala restai abbagliato dalle gran cere che ardevano, e stordito da’ servi e dalle maschere, che facevano un gran girare e un gran bisbigliare.

Il rumore che si faceva nella cucina m’attrasse a quella parte, e vidi un grandissimo fuoco, a cui bollivano paiuoli, pignatte, tegami e girava un lungo schidione di polli d’India, di pezzi di vitella e d’altro.

Il Mastro di casa cerimonioso voleva pure che io vedessi la mia stanza preservata, chiusa con gran diligenza, e ch’entrassi in quella.

Mi dica di grazia, mio Signore (diss’io) sino a qual’ora dura questo tumulto?

Ma veramente (rispose il Mastro di casa) per tre notti consecutive egli dura fino a giorno.

Ho ben piacere (diss’io) d’aver avuta cosa al mondo ch’abbia potuto accomodare alla famiglia Bragadino. Ciò m’ha cagionato un onore. Riverisca le Eccellenze Loro. Vado in traccia tosto di trovarmi un alloggio per i tre giorni e le tre notti consecutive, avendo somma necessità di riposo e di calma.

Oibò (rispose il Mastro di casa) ella deve riposare nella sua casa e nella sua stanza serbata con tutta l’attenzione.

No, no certamente (diss’io). La ringrazio della cortese sua diligenza. Come mai vorrebb’Ella ch’io dormissi con questo fracasso? Il mio sonno è sottile.... E passai ad abitare pazientemente per i tre giorni e le tre notti consecutive in una locanda.284»


In realtà questo racconto ha un non so che di fiaba e rassomiglia ad una di quelle avventure [p. clxxii modifica]degli eroi del Cunto de li Cunte, sempre sorpresi tra via da questi scherzi del destino. A chi è mai accaduto nulla di simile, chiede il De Musset? E la Vernon Lee ci ride su, per conchiuderne che evidentemente la vecchia casa dei Gozzi era abitata da tutti gli spiriti folletti delle Lagune, e che eran’essi che governavano a posta loro l’ingegno e tutta la vita di Carlo Gozzi.

Come furono lieti gli anni passati dal Gozzi, scrivendo le Fiabe, e in compagnia delle vezzose donne,285 delle Maschere e degli attori della Compagnia Sacchi! Erano gli ultimi sorrisi della sua giovinezza, ed anche riscrivendone da vecchio, non può mai staccarsi da quei ricordi e li descrive, e li torna a descrivere, e ripubblica i brindisi cantati negli allegri simposii coi comici in casa del Sacchi286 e si richiama a mente ogni nome, ogni [p. clxxiii modifica]persona, ogni più piccolo accidente di quel tempo felice con un mesto rimpianto, ch’egli cerca inutilmente di nascondere sotto la burlesca e pedantesca gravità delle sue solite frasi. Durò così fino al 1771, nel qual anno, ad intercessione sua, Teodora Ricci Bartoli entrò nella Compagnia Sacchi in qualità di prima attrice.287 Da principio la Ricci non piacque al pubblico; ma il Gozzi la prese a proteggere, scrisse e riscrisse commedie e drammi per lei, ed essa, che avea ingegno, avea bella ed elegante persona e bellissima voce, fìnalmente trionfò. Il periodo delle Fiabe, il quale non comprende se non cinque anni della vita artistica di Carlo Gozzi, dal 1761 al 1765, era chiuso da un pezzo. Alle Fiabe avea egli surrogate le imitazioni del teatro Spagnuolo, con le quali si [p. clxxiv modifica]proponeva di sostenere ancora le Maschere, mescolandole bizzarramente all’intreccio romanzesco e sentimentale dei drammi di cappa e spada, e si proponeva altresì di opporsi alla moda francese dei drammi lagrimosi o tragedie borghesi, che già era penetrata in Italia, (se pure, come io credo, non vi fu dal Goldoni precorsa) ed era già divenuta il bersaglio principale delle nuove polemiche letterarie del Gozzi.288 Altri affetti s’aggiungevano però a questi vecchi ardori di battaglia, e la Ricci fu veramente l’inspiratrice di molti dei lavori teatrali di quella, che può chiamarsi la seconda maniera del Gozzi. Dopo cinque anni circa d’assiduità, d’assistenza e d’una protezione cosiffatta, sperava esso d’avere acquistati titoli imperituri alla gratitudine, all’amore, dirò meglio, di questa donna, e lo dico appunto perchè egli spende un intero volume a provare che non si trattava d’amore. Povero Gozzi! Questa volta il folletto infernale era capitato davvero a tribolarlo ed egli avea fatto i calcoli senza mettere in conto i cinquant’anni suonati, che già pesavano sulle sue spalle, l’indole vana, leggera e corrotta, e il temperamento isterico della Ricci, della quale è [p. clxxv modifica]curioso leggere a riscontro delle Memorie del Gozzi la biografia scrittale dal martire marito, Francesco Bartoli, il Plutarco dei nostri Comici; biografia, che è un vero capolavoro di dissimulazione e di diplomazia coniugale.289 Un uom di moda, Pier Antonio Gratarol, Segretario del Senato, si mise a corteggiare la Ricci, ed essa sperò senz’altro di poter tenere a bada il Conte Gozzi ed il Segretario Gratarol. Il Gozzi fiutò la trama e da gentiluomo si ritrasse, ma rodendosi in cuore. Da questi umili e molto comuni principii si svolse un romanzo dolorosissimo e che amareggiò e oscurò, si può dire, la restante vita di Carlo.290 Nel 1775, prima cioè della sua rottura con Teodora Ricci, esso avea scritto un dramma, tolto da: Zelos cum Zelos se curat di Tirso de Molina (pseudonimo di Gabriele Tellez), che intitolò: Le Droghe d’Amore. Ne lesse qualche brano alla Ricci e ad altri comici della Compagnia Sacchi; ma poi, non sentendosene soddisfatto, lo mise da parte. Verso la fine dall’anno seguente, quando s’era già separato da Teodora Ricci per causa del Gratarol, il Gozzi afferma che dovette cedere alle istanze [p. clxxvi modifica]del Capocomico Sacchi e dare il dramma. Fatto è che, assistendo ad una nuova lettura, che, secondo l’usanza, se ne faceva ai comici radunati, la Ricci cominciò a dar segni di meraviglia e di sdegno, come se le si rivelasse tutt’ad un tratto qualche gran novità, e la novità era una palese allusione a’ suoi dissapori col Gozzi e il tipo di un Don Adone, tutto massime filosofiche e motti e smancerie e caricature di moda, in cui le parve rappresentato il Gratarol. Da questa prima favilla nacque l’incendio. La Ricci avvertì il Gratarol, il quale colla balordaggine d’un cervello fumoso, cieco d’ira e senza verificar nulla di nulla, ricorse ai magistrati, e il dramma, che già era stato licenziato per la scena, fu ridomandato, contro ogni consuetudine, per una seconda revisione. Il capocomico Sacchi, avidissimo e certamente con malignità (poichè era anch’esso innamorato della Ricci) rispose ai magistrati che non poteva darlo, perchè avea prestato il manoscritto alla Procuratessa Caterina Dolfin Tron, moglie a quell’Andrea Tron, tanto potente allora in Venezia, che lo chiamavano per antonomasia il Padrone. Or ecco come l’intreccio del curioso romanzo s’avviluppò. Anche questa Dama (non si sa bene se per maltalento o per gelosia) odiava il Gratarol. Da un lato adunque la Ricci, che volea vendicarsi del Gozzi, e la gran Dama, che volea vendicarsi del Gratarol. Dall’altro il Capocomico, che, innamorato deluso, contava almeno ricattarsi della [p. clxxvii modifica]sconfitta amorosa coi profitti sicuri d’una diffamazione teatrale, ed il Gratarol, che propalava ai quattro venti la sua disgrazia prima ancora che gli fosse toccata. Per ultimo, e nel fondo del quadro, il gran pubblico Veneziano, che già era a parte del segreto e già pregustava l’acre delizia d’uno scandalo che comprendeva le aule de’ magistrati, il salotto d’una gran Dama e le quinte del palco scenico. A farla breve, per quanto il Gozzi ostentasse un gran zelo, a fine d’impedire la rappresentazione del Dramma, la segreta influenza della Dama, i raggiri del Capocomico, la perfidia della Ricci e la scioccaggine del Gratarol furono più forti di lui e la sera del 10 Gennaio 1776 (stile Veneto) 1777 (stile comune291) la folla pigliava d’assalto il teatro per veder messo alla berlina dal celebre autore delle Fiabe un Segretario del Senato di Venezia.292 Fino la derelitta [p. clxxviii modifica]moglie del peccaminoso Gratarol fu incontrata dal Gozzi sulle scale del Teatro e la sentì a dire, ridendo: «ho voluto venir a vedere mio marito sulla scena.293» Il Gratarol stesso sfidava da un palchetto la tempesta. Essendo poi il dramma un assai pallida cosa e le allusioni e la parodia tanto fiacca, che un pubblico meno prevenuto avrebbe potuto non addarsene neppure, così, ad ogni buon fine, la Dama ed il Capocomico provvidero che l’attore Vitalba, il quale faceva la parte di Don Adone ed avea qualche rassomiglianza col Gratarol, imitasse il vestiario, l’andatura, gli attucci, la pettinatura di lui, sicchè il pubblico a prima vista lo riconoscesse.294 La indovinarono. Lo scandalo fu immenso; ad ogni apparire di Don Adone gli urli, le risate, gli applausi parevano sobbissare il teatro, ed il giorno dopo il povero Pier Antonio Gratarol, che avea durato impavido tutta la sera a quello strazio, era divenuto il ludibrio di tutta Venezia. Tentò ogni via di schermirsi e di vendicarsi e non gliene riescì nessuna. Alla fine, disperato, fuggì. A Stokolma pubblicò una Narrazione Apologetica, nella quale infamava il Gozzi, la Tron, la [p. clxxix modifica]nobiltà e il governo di Venezia. Fu condannato a morte in contumacia, con sentenza del Consiglio dei Dieci del 22 Dicembre 1777,295 pel semplice titolo d’essere uscito di Stato senza la licenza necessaria ad un ufficiale della Segreteria del Senato, gli furono confiscati i beni, sua moglie e la sua famiglia furono ridotte all’indigenza ed egli, dopo essere andato errando a Brunswick, a Stokolma, in Inghilterra, agli Stati Uniti, al Brasile, partì da qui con alcuni avventurieri e chiuse miseramente i suoi giorni al Madagascar nell’Ottobre del 1785.296

Questo singolare avvenimento è profondamente caratteristico del tempo, della città e dei mali, ond’era sordamente minata la forte e antica compagine di quella società e di quel governo, che per durata, gloria, sapienza e vigore d’instituzioni e alto sentimento di patria meritò d’essere paragonato a Roma nei tempi antichi, e nei moderni all’Inghilterra. Tutto s’è ora rimpiccolito, uomini e fatti, e nel governo penetrano influenze illecite, ed una dubbia moralità inspira le decisioni dei magistrati e un arbitrio violento, che non impedisce le colpe grandi, castiga le piccole con un eccesso di rigore, da cui traspare la sua intima debolezza. Quanto alla parte del Gozzi in ciò, che [p. clxxx modifica]ho narrato, e alle accuse, che gli furono date, e alle difese, ch’egli ha scritte di sè medesimo, la convinzione, ch’io mi sono formata, confrontando diligentemente la Narrazione Apologetica del Gratarol con le Memorie,297 con la Lettera Confutatoria298 e col Dramma: Le Droghe d’Amore299 del Gozzi, è la seguente. L’allusione satirica al Gratarol esiste nel Dramma e fu deliberatamente voluta dal Gozzi. Se però essa fosse rimasta nelle proporzioni, ch’ei le aveva date, pochi certamente l’avrebbero avvertita e poco danno avrebbe potuto fare al Gratarol. La costui imprudenza, il malvolere delle due donne e la bassa cupidigia del Capocomico gonfiarono invece al di là d’ogni previsione possibile l’entità della satira. Ma questo fatto era già visibilissimo prima della rappresentazione, ed il Gozzi, che avrebbe potuto, volendo, impedirla, non agì a tal fine con sufficiente risolutezza e lealtà, mentre il Governo dal canto suo autorizzò e protesse lo scandalo. Da ultimo il Gratarol, testa debole, la smarrì del tutto in tale frangente e fu in massima parte autore della propria rovina. Queste conclusioni, che a me sembrano esatte, gettano, non v’ha dubbio, una brutta [p. clxxxi modifica]ombra su Carlo Gozzi e su Caterina Dolfin Tron, della quale il Gozzi stesso, nel dedicarle la Marfisa Bizzarra, aveva lodato l’ingegno, l’animo franco e la lingua sincera, non meno che il portamento leggiadro, i gigli e le rose del colorito e l’oro dei capelli,300 e che nella storia letteraria italiana è conosciuta principalmente come la protettrice di Gaspare Gozzi, a cui soleva dare famigliarmente il dolce nome di padre.301 Caterina fu certamente una delle più illustri donne del patriziato Veneto negli ultimi tempi della Repubblica. Fu ambiziosa, potente, invidiata. Perciò ebbe detrattori fierissimi in vita, e dopo morte furono molto diversi i giudizi sul conto suo. Di recente le si mostrò avverso l’Urbani De Gheltof;302 apologista forse troppo indulgente il Castelnovo, il quale però aggiunse nuovi documenti ai già noti del vivo ingegno di lei.303 Pare indubitato che lo [p. clxxxii modifica]scandalo delle Droghe d’Amore e del Gratarol e la parte, che ebbe Caterina in tutto questo malaugurato avvenimento, troncassero il volo alle ambizioni di Andrea Tron, il quale aspirava al Dogato.304 Ciò non tolse a Caterina di primeggiare in Venezia e a questo fine veramente furono diretti gli sforzi di tutta la sua vita e le arti femminee, con le quali passò dal talamo de Tiepolo a quello di Andrea Tron,305 di cui fu amante prima che moglie, e che pure non seppe sciogliersi dalle sue catene. Galante essa era di certo e la galanteria fu il segreto della sua potenza. Basta leggere le sue lettere al Tron durante i dibattimenti delle Leggi contro gli Ebrei e della Correzione del 1775 per vedere, che filtri d’amore e d’adulazione sapea manipolare quella donna.306 In pari tempo la sua vendetta contro il Gratarol rivela una violenza di passioni, che basta a dar ragione, non foss’altro, delle maldicenze molte, che corsero a suo carico. V’ha chi pretende che in quell’occasione ella si valesse dell’antico ascendente, esercitato sul cuore del Conte Carlo Gozzi, e sebbene non s’abbia ancora documento sicuro di ciò, [p. clxxxiii modifica]certo è che il Gozzi non dice nelle Memorie tutta la verità sulle sue relazioni con Caterina prima del 1776. Furono più intime e più frequenti di quant’egli voglia lasciar credere e queste dissimulazioni del Gozzi hanno sempre qualche riposta cagione. Anch’esso interveniva ai Lunedì di Caterina e forse rappresentava fra quella comitiva filosofistica (un bel giorno dispersa dai sospetti del Governo) la parte, come oggi si direbbe, dell’estrema destra.307 Quanto a Caterina, essa avea mente aperta alle novità correnti e animo libero da pregiudizi. Non mi sembra fondata però l’ipotesi del Castelnovo che il bellissimo sonetto della Tron, da lui pubblicato, sia scritto dopo il 1789 e contenga quasi una profezia della rovina, che soprastava a Venezia per opera della Rivoluzione Francese:

Si, cascarà la mole de Pierazo,
    Perchè xe un’oca deventà el leon,
    Perchè nel fogo se descola el giazzo;
Ma mi fia d’un Dolfin, muger de un Tron,
    Bato grinta, per Dio, ma no me mazzo
    E se casco, no casco in zenocchion.

[p. clxxxiv modifica]Richiamando, come fa, il ricordo di Pier Gradenigo e dell’ordinamento dato da lui all’aristocrazia Veneziana, è chiaro, mi sembra, che essa si riferisce alle agitazioni interne della Repubblica, forse a quelle della Correzione del 1775, ed il suo sonetto esprime i sentimenti della parte aristocratica più illuminata, siccome quello, assai noto, di Lorenzo da Ponte in difesa di Giorgio Pisani, «il Caio Gracco di Venezia in quei tempi.308» esprimeva le passioni e gli astii dei Barnabotti e dei loro aderenti. Se si potesse determinare che l’allusione della prima quartina al

                        ....filosofo profondo,
Che unir sogna ai so corni anca el Ducal,309

si riferisce al Renier, che fu Doge nel 1779, e alle cronache scandalose del secondo matrimonio di lui colla Dalmaz, plebea,310 si stabilirebbe la data approssimativa del sonetto. In ogni modo, (se già quella frase: muger de un Tron non indica che il Tron era anche vivo, e morì nel 1785) non è ammissibile in una Patrizia Veneta, morta nel 1793, una sì miracolosa chiaroveggenza d’un [p. clxxxv modifica]intrigo politico, che fa parte delle ultime vicende storiche della Rivoluzione Francese. La Tron non resta meno per questo una delle figure più notevoli e più caratteristiche del suo tempo, ma lo è appunto perchè, nella superiorità del suo spirito e del suo ingegno, partecipava non poco anche ai vizi, alle corruttele, e ai bassi istinti di prepotenza e d’intrigo, nei quali s’andava spegnendo la vecchia grandezza della sua casta.

Teodora Ricci, l’altra eroina del triste romanzo del Gratarol, nel 1777 se n’andò a Parigi nella Compagnia dei Commedianti Italiani e vi rimase circa tre anni. Nelle Notizie Istoriche dei Comici il prudente marito parla di lei fino al suo ritorno da Parigi, tace delle sue clamorose avventure, e nasconde i suoi risentimenti sotto un’ammonizione agrodolce, con la quale chiude l’articolo della moglie. Francesco Bartoli era un buono e onest’uomo, che non avrebbe meritato una simile donna per moglie. Appassionato compilatore di curiosità storiche dell’arte sua e delle belle arti, avea scritto in gioventù anche commedie e tragedie ed era stato attore valente anche all’improvviso. Fra il canagliume istrionico della Compagnia Sacchi si trovò, dice egli stesso:

O mal visto, o mal noto, o mal gradito.311

[p. clxxxvi modifica]

Dopo gli scandali del 1777 si separò dalla moglie ed è notevole, in uomo di così retta coscienza, che dei tre figli della Ricci non ritenne con sè che il primogenito. Nell’82 si ritirò dall’arte e visse a Rovigo, scrivendo anche libri ascetici e tutto dato alla devozione. La Ricci invece, tornata che fu da Parigi, entrò nella Compagnia del S. Giovanni Grisostomo a Venezia. Rivide allora il Gozzi, e osò rivolgersi a lui con una lettera garbata, dove, toccando delicatamente la corda sensibile del passato, lo pregava di donare alla sua Compagnia un dramma, da lui già scritto per la Compagnia del Sacchi e mai rappresentato, intitolato: Cimene Pardo. S’era ella avveduta che qualche brace covava ancora sotto le ceneri? Le donne hanno in ciò un intuito, che di rado dà in fallo. Fatto è che, se l’amante non si fece più vivo,312 il poeta la compiacque e le donò il dramma. L’artista lo rimeritò, procurandogli l’ultimo forse dei suoi trionfi teatrali.313 Nel 1793 anche la Ricci lasciò il teatro. Il pietoso marito la riaccolse ed essa, l’isterica, tribolò gli ultimi suoi anni fino al 1806, che il Bartoli morì. Teodora finì pazza, circa nel 1824, nello spedale di S. Servilio presso Venezia.314 A [p. clxxxvii modifica]Francesco Bartoli spetta quindi di pien diritto un bel posto in quel famoso Teatro Celeste di Giovan Battista Andreini, nel quale si rappresenta come la divina bontà habbia chiamato al grado di beatitudine di santità comici penitenti e martiri315.... Nessuno lo ha più meritato di lui!316

Dopo gli avvenimenti narrati, anche la vita di Carlo Gozzi si abbuiò. Scioltasi la Compagnia Comica del Sacchi, egli cessò poco dopo di scrivere per il teatro. Avea ancora sul telaio molte altre [p. clxxxviii modifica]opere, ma, disgustato, diede un calcio a tutto e non ne volle saper più altro.317 Pareva ch’ei s’accorgesse per la prima volta, e come allo svegliarsi da tutto il suo sogno fiabesco, che la vita ha pure un lato serio e tristo per tutti e che «non si può sempre ridere.318» Era più solo del solito e forse un po’ abbandonato; la morte gli rapiva ad uno ad uno fratelli, sorelle, amici; la sua salute cominciava ad alterarsi. Tuttociò lo facea immalinconire e (strano a dirsi del Gozzi, derisore implacabile dei sentimentali e dei piagnolosi,) i suoi «riflessi filosofici s’accostavano alquanto a quelli di Young,319» lo scrittore sentimentale, più degno forse delle sue derisioni! Comunque, nei versi, che in questo tempo il Gozzi andava ancora componendo, si mescolano all’antica sua vena burlesca insoliti accenti dolorosi, che ben dimostrano lo stato dell’animo suo.320 A poco a poco il poeta si spense in lui quasi del tutto, e gli sottentrò una vecchiaia [p. clxxxix modifica]ipocondriaca, travagliata di mali mezzo immaginari e mezzo reali e tutta occupata di affarucci e di faccenduole, la quale fa un contrasto più strano di quello, che tocca a tutti, con la sua giovinezza e, non dirò, con la sua virilità, perchè mi sembra che questa manchi nella vita del Gozzi. L’amore di Teodora protrae la sua giovinezza, e quando quest’ultima illusione gli sfugge, egli piomba, senza trapasso e senza gradazioni, nelle ombre malinconiche della vecchiaia. Dalle poche lettere, che di lui si conoscono, relative a questo tempo, massime dalle inedite dirette al suo amico Innocenzo Massimo ed al figliuolo, le quali vanno dal 1785 al 1788, si rileva ch’egli ora s’occupava di negoziare in merletti e tele, in caffè, cinnamomo e cacao, in Malaga e Cipro, talvolta in carrozze, tal’altra persino in capponaie, non sdegnando neppure di offrire la sua mediazione a chi voleva far aggiustare cocci rotti.321 Una sua lettera inedita del 6 [p. cxc modifica]Febbraio 1785, more veneto, 1786, stile comune, favoritami dal Sig. Conte Tiberio Roberti, conferma appunto ciò che ho testè detto di lui. È senza indirizzo:


«Amico amatissimo, delle monete non vi date pena. Alcuni brutti zecchini Veneti, papalini, giliati e pezzette d’oro furono prese dal Messere senza bilancia. Un quarto di lisbonina, e mezza doppia del Papa sono scarsissimi, ma per un accidente fortunato non vi sarà nessun divario. Riguardo al fornimento, per quante ricerche faccia, non trovo niente di Fiandra. Vengo assicurato che di Fiandra qui non viene più nulla e che l’impostura sola mantiene il titolo di Fiandra. Mi si dice che vengono qui dei bellissimi fornimenti di Slesia. Mi fu data la traccia di far ricerca alli Signori Heinzelman, mercanti di tutta probità, da me conosciuti. Oggi mi porto da quei Signori. È certo che se trovo ivi il fornimento, si avrà di prima mano e ad assai miglior prezzo che nella Merceria, la quale si provvede da lui (sic) per corbellare i poveri compratori.

Il Minio, rigattiere, mi disse che se toccherà a lui certi mobili d’una famiglia, che sono in vendita, avrà da servirmi, ma questa è cosa lunga e non a proposito. Se mi riesce di trovare codesto fornimento ditemi se devo spedirvelo tosto o tenerlo alla vostra venuta. Quando averete condotta la sposa in casa, averete fatto il più; tutto il resto [p. cxci modifica]vi servirà di passatempo. Dio voglia che i tempi buoni resistano per vostro minor tracollo.322 La Cimene si è replicata anche iersera323 per la recita diciasette con somma fortuna. Non so se questa sera si replichi ancora, perchè non sono ancora uscito di casa. Ho la testa frastornatissima da mille imbrogli. Riverite tutti. Addio. Vostro fed. S.° e Amico, Carlo Gozzi.»


In questa lettera il poeta delle Fiabe non si riconosce più. Pare scritta da uno dei Rusteghi del Goldoni e tanto più singolare riesce quell’accenno alla recita della Cimene, il dramma ch’egli avea donato alla Ricci. È come un ultimo baleno, che striscia sul buio! Era sempre impicciato nella tregenda economica di Casa Gozzi, e contuttociò non pare ch’egli fosse assolutamente povero. Ma si lagna sempre e, se non degli affari, si lagna della sua salute. Al Massimo descrive e ridescrive infermità, tossi, raffreddori, reumatismi, flussioni. «Le nostre lettere, gli dice in un lucido intervallo, si potrebbero intitolare: gazzette ipocondriache!324» Eppure dalla poesia e dal teatro non si distolse mai del tutto, se anche nel 1799 e 1800 [p. cxcii modifica]faceva rappresentare suoi drammi325 e se fino al 1805, penultimo di sua vita, si occupò dell’edizione delle sue Opere, rompendo le ultime lancie in difesa delle sue Fiabe, de’ suoi Drammi alla Spagnuola e, quel che è più, in difesa delle sue vecchie idee morali e politiche. Ciò basta a farci conoscere con che animo egli avrà assistito agli avvenimenti del 1797 e alla caduta della Repubblica. Nelle Memorie non è libero di scrivere su questo argomento. Venezia era in balia degli ultra-democratici e si sa bene che libertà lasciano costoro a tutti quelli che non pensano a loro modo. Il Gozzi adunque dice poche parole, sugli effetti della Rivoluzione Francese nella sua patria: «Venezia non restò illesa dall’essere colta nel cerchio di quella tremenda ondulazione.... Un dolce sogno della fisicamente impossibile Democrazia organizzata e durevole, fece urlare, ridere, ballare e piangere.326» E in cospetto di questo baccanale, odioso al suo cuore di vecchio gentiluomo Veneziano, si vanta d’aver predetto, circa quarant’anni prima, le ruine morali, che avrebbero cagionato le dottrine filosofiche francesi, venute allora di moda. Poi ripiglia: «Al dolce sogno della fisicamente impossibile democrazia noi [p. cxciii modifica]vedemmo sviluppare....327» E lascia in tronco, e su questa reticenza le sue Memorie si chiudono. Dirlo per questo un oscurantista, un retrogrado, come molti vollero, è non intenderlo affatto. La sua avversione a quelle novità è la forma del suo patriottismo e quanto a Venezia non si potrà certo dire ch’egli si fosse ingannato.

Più invecchiava e più le brighe lo stringevano. Sempre nuove liti forensi, sempre parenti impoveriti che si rivolgevano a lui. Il poeta delle Fiabe era un uomo d’affari e godeva la fiducia di molti, che gli confidavano i proprii interessi. Non dico della famiglia Gozzi, di cui fu indubitabilmente la testa più solida e meglio organizzata. Con Gaspare, cogli altri fratelli, con le mogli di questi, coi nipoti fu buono e tollerante. Brontolava, ma poi non cessò mai di prendersene cura, sicchè moralmente la vecchiaia di Carlo Gozzi val meglio della sua gioventù, entro a quell’orizzonte ristretto e meschino, in cui la sua vita era andata a finire. Due delle sue lettere, e ancora inedite, lo diranno meglio d’altre parole. La prima è ad un suo fratello, in data 22 Febbraio 1803:


«Carissimo Fratello, ho ricevuti i tre capponi, ma, vi dico il vero, mi sono rincresciuti i soldi spesi in posta, perchè sono tre scheletri verdi, e fo assai male l’ultimo giorno del Carnovale. [p. cxciv modifica]Pazienza. Per il vostro conto, il residuo del mio frumento è stara sedici, quarte tre. Sento ch’egli è giunto di prezzo a lire 70. Dalle cose che vedo qui credo che voglia crescere più ancora. Attenderò sino verso l’Aprile a venderlo, perchè la mia sussistenza in quest’anno dipende dal mio poco frumento, non potendo qui riscuotere affitti, e sono in atti forensi. Non parliamo di organizzazione. L’organo è conquassato e si dice che si lavori in una enorme redecima. (sic) Sarà quello che Dio vorrà. Se alla vostra venuta troverete modo di organizzare la vostra famiglia, gli imbarazzi co’ nipoti fuori, e con Checco, che m’è addosso ogni momento, vi stimerò un grand’uomo. Addio. Vostro Aff.mo Fratello Carlo Gozzi.328»


La seconda lettera, che è del 22 Ottobre 1805, è diretta ad una sua nipote, la Contessa Ernesta Gozzi, a Pordenone:


«Riveritissima Sig. Nipote, ebbi carissimi gli augelletti e la ringrazio molto. Giunsero in parte sani e in parte guasti, ma li giudicai tutti sani, essendomi inviati dall’animo suo sano e cortese. Si persuada che de’ pensieri molesti che ho e dei pesi insoffribili, che porto sforzatamente, mi sono ridotto a condannare soltanto la stella maligna, [p. cxcv modifica]sotto a cui nacqui. Se l’età mia fosse alquanto più fresca, non mi lagnerei nemmeno di questa stella. Fui a visitare giorni sono la mia Tiranna, (?) la quale mi disse che un suo fratello, passando per Pordenone, fu a visitar lei e di averla trovata pingue e in ottimo stato, di che ebbi consolazione. Il mio raffreddore segue, ma è per me il più picciolo de’ miei pensieri, e non fo alcun disordine per accrescerlo. Avvicinandosi il giorno, in cui si dispensano le fave ai fanciulli, mi prendo la libertà d’inviargliene alquante, ond’ella possa fare l’uffizio di madre in questo proposito. A tal tenue spedizione mi persuade il credere che a Pordenone vi siano de’ cattivi fabbricatori di un tal genere. Sono riconoscente alle sue cordiali espressioni e la prego a credere ch’io mi dichiaro cordialmente. Suo Aff.mo Zio Carlo Gozzi.329»


E questo è il vero Gozzi, non quello che la stella maligna dei Contrattempi, riapparente in questa lettera, trasmuta per certa critica fantastica in un negromante, dileguatosi insieme con le Maschere della Commedia dell’Arte nel gran turbine della Rivoluzione Francese. Allorchè tutto in questo andò travolto, il Gozzi anzi si ritirò più che mai in sè medesimo, più che mai si tenne saldo alle sue vecchie idee, e le ultime parole, che scrive, [p. cxcvi modifica]concordano perfettamente colle prime. Di tale continuità e di tale fermezza è giusto dargli lode e mi sembra che riscattino molte delle sue antiche cattiverie e debolezze, e rialzino non poco il valor morale della sua vita, come uomo e come scrittore, poichè appunto i grandi rivolgimenti politici e sociali sono la pietra del paragone per saggiare i caratteri e vedere chi ha vacillato e chi no in tali frangenti.

Carlo Gozzi morì il 4 Aprile 1806, in età di 86 anni.330 Il suo testamento, scritto di suo pugno il 13 Febbraio 1804, nell’abitazione di lui «posta nel Campo della contrada di S. Michele Arcangelo» (S. Angelo) si chiude con le parole seguenti: «Ricordo a’ miei Nipoti figli de’ miei fratelli e figli loro il timore di Dio, l’osservanza alla loro Religione e Precetti della santa Chiesa, l’obbedienza al loro Principe, i sentimenti di probità, di carità, di sincerità, di gratitudine, la moderazione nel misurare ed economizzare le loro rendite, certo essendo io che tali ricordi esatamente (sic) eseguiti saranno loro più utili di qualunque [p. cxcvii modifica]successione ed eredità, vedendosi per esperienza che per tutti gli uomini che trascurano questi sopra accennati principii, e si abbandonano alle passioni e ai capricci, nessuna facoltà è sufficiente; si riducono a martirizzare la loro mente ne’ raggiri, cadono nelle azioni inoneste, perdono ogni traccia di riparo a’ loro disordini, s’involgono d’abisso in abisso, si rendono indegni della grazia e dei soccorsi di Dio, e si acquistano l’abborrimento di tutti gli uomini.... I commissari che sono da me ordinati, nominati e pregati all’esecuzione delle mie testamentarie disposizioni qui sopra espresse e comandate, sono mio fratello Almorò e il di lui figlio Gasparo, tanto uniti che separati, persone da me conosciute pontuali, onorate e impuntabili, raccomandando al detto mio Nipote Gasparo figlio di mio fratello Almorò di conservare l’affetto alla sua ben educata, morigerata, buona moglie e di aver somma cura alla educazione de’ suoi figli, tenendoli diffesi (sic) dalle false massime della sofistica perniziosa scienza del secolo, che ha rovesciata tutta la umanità in una nebbia di confusione, e in un laberinto di infelicità e di miserie.331» Così Carlo Gozzi s’accomiatava dal suo tempo. [p. cxcviii modifica]

Ed ora, per conchiudere anche nel giudicare il poeta, non c’è, mi sembra, che da collocarsi in un punto medio tra gli entusiasmi dei Romantici stranieri e certi dispregi troppo dogmatici e tradizionali della critica letteraria Italiana. I Romantici hanno separato il Gozzi dagli antecedenti, che ha nella nostra storia letteraria; lo hanno paragonato, come poeta drammatico, ad Aristofane ed allo Shakespeare e come umorista al Richter, allo Swift, allo Sterne; hanno alterato la sua indole e le circostanze più comuni della sua vita; hanno fatto di lui un personaggio leggendario, della Venezia del suo tempo una città di rimbambiti, che volentieri tornava ai trastulli dell’infanzia, e delle Fiabe una creazione istantanea, sbucata di sotterra ad ora fissa, affinchè quella città avesse la letteratura, che meritava. Tuttociò non è conforme alla realtà. L’Italia aveva avuta una Commedia dell’arte ed una Commedia popolare scritta.332 Negli Scenari della Commedia dell’Arte, in quelli di Flaminio Scala, per esempio, si trovano già le fantasmagorie delle Fiabe Gozziane, e le Maschere mescolate a’ personaggi eroici, e la scena in China, nel Marocco, in Persia, in Egitto.333 Gli esemplari [p. cxcix modifica]Spagnuoli avevano già servito a molti, e principalmente, sul gusto del Gozzi, a Gio. Battista Andreini. Il Calmo ed il Ruzzante avevano già tentato inalzare gli umili intenti della Commedia popolare e rusticale.334 Carlo Gozzi dice finalmente egli stesso che queste, e non altre, sono le tradizioni teatrali, che volle raccogliere e conservare. Non parliamo delle contraddizioni, entro alle quali il Gozzi si dibattè nell’attuare il suo disegno. Sostenere le Maschere, parodiare gli avversari, rifare il fantastico del Pulci e dell’Ariosto, toscaneggiare come il Burchiello, ed essere popolare a Venezia, ricostruire il vecchio e comparir nuovo sono tutti (dice ottimamente il De Sanctis) «fini transitorii, i quali poterono interessare i contemporanei, dargli vinta la causa nella polemica e nel teatro, e che oggi sono la parte morta del suo lavoro.... Ciò che resta di lui è il concetto della commedia popolana in opposizione alla Commedia borghese.... Le Maschere rimangono nella sua composizione come elementi d’obbligo e convenzionali.... Il contenuto è il mondo poetico, com’è concepito dal popolo avido del maraviglioso e del misterioso, impressionabile, facile al riso e al pianto. Questo mondo dell’immaginazione è la base naturale della poesia popolana.... La vecchia letteratura se n’era impadronita; ma per demolirlo, per gittarvi dentro [p. cc modifica]il sorriso incredulo della colta borghesia. Rifare questo mondo.... drammatizzare la fiaba o la fola, cercare ivi il sangue giovine e nuovo della commedia a soggetto, questo osò Gozzi in presenza di una borghesia scettica e nel secolo de’ lumi, nel secolo degli spiriti forti e de’ belli spiriti. E riuscì a interessarvi il pubblico, perchè quel mondo ha un valore assoluto e risponde a certe corde che maneggiate da abile mano d’artista suonano sempre nell’animo: ciascuno ha entro di sé più o meno del fanciullo e del popolo.335 E [p. cci modifica]poichè il pubblico s’interessava ancora alla commedia del Goldoni, se ne doveva conchiudere, se le conclusioni ragionevoli fossero possibili in mezzo alla disputa, che tutti e due i generi erano conformi al vero, l’uno rappresentando la società borghese nella sua mezza coltura e l’altro il popolo nelle sue credulità e ne’ suoi stupori.336» Se non che questa larghezza di pensiero non era propria della critica letteraria italiana contemporanea del Gozzi, o immediatamente a lui succeduta, e fino al Foscolo. Essa non dava alcuna importanza alle tradizioni raccolte da Carlo Gozzi; avea in orrore il fantastico ed il meraviglioso; nulla potea farle vincere il fastidio di quella certa sua goffaggine di lingua e di stile, nella quale cascò troppo spesso. Ciò non toglie che in Carlo Gozzi non sia giusto riconoscere un ingegno vivissimo, una grande abilità teatrale, una vena straricca d’ironia, di stravaganza e di satira, una libertà ed un’audacia di forme, meritevole anche oggi di ammirazione e di studio. Che se negli abbozzi frettolosi delle sue Fiabe non si riscontra, come nello Shakespeare, una compiuta fusione del fantastico col vero, del soprannaturale col reale, egli è che a lui difettò alquanto l’arte di unire i materiali, che non inventava del tutto, bensì raccoglieva qua e là; egli è che nelle sue Fiabe prevale non già il fantastico, bensì il meraviglioso, lo spettacoloso anzi, che dal [p. ccii modifica]fantastico è moralmente ed esteticamente diverso. Di più, dove la sua satira è parodia, neppur essa poteva aver lunga vita, perchè la parodia si dissolve col tempo, che l’ha vista nascere, e si giova dell’attualità, fin’anco nelle parole. Ciò non ostante Carlo Gozzi, più forse di tutti gli scrittori suoi contemporanei, sentì ventarsi sul viso l’aura dei tempi nuovi, che si approssimavano, e nell’esecrarli palesò il presentimento storico della catastrofe, che stava per accadere.


Ernesto Masi.





Note

  1. Opere del Conte Carlo Gozzi. Volumi otto. — In Venezia 1772. — I volumi VII ed VIII contenenti, il primo, la Marfisa Bizzarra — Poema faceto — ed il secondo un Saggio di Versi faceti e di prose recano la falsa data di Firenze 1772-1774.
  2. Opere Edite ed Inedite del Conte Carlo Gozzi. — Volumi Quattordici. — In Venezia 1801-1802. Il volume XV di questa ediz., primo delle Opere non teatrali, è assai raro.
  3. Memorie Inutili della Vita di Carlo Gozzi, scritte da lui medesimo e pubblicate per umiltà. — Volumi tre. — In Venezia, Stamperia Palese, 1797.
  4. Charles Nodier, Contes Fantastiques. Du Fantastique en Littérature, pag. 10.
  5. Memorie cit. Parte III, Cap. I pag. 187, 88.
  6. Di Alcune Condizioni della Presente Letteratura nei Bozzetti e Discorsi.
  7. Il Prof. Arturo Graf nel Fanfulla della Domenica del 4 Febbraio 1883 scriveva: «io credo che se ci fosse in Italia un editore di buona volontà che prendesse a ristampare le Fiabe, l’opera sua non sarebbe sprecata.» Quando il Professore Graf scriveva queste parole, il mio ottimo amico, Nicola Zanichelli, di cara memoria, aveva già per consiglio dell’illustre Prof. Carducci deliberata e incominciata la ristampa delle Fiabe.
  8. L’estratto battesimale di Carlo Gozzi, nato il 13 Dicembre 1720, battezzato il 26 del mese stesso, trovasi nei registri di S. Paterniano in Venezia. Comunicazione del sig. Ermanno von Löhner.
  9. Memorie cit. Parte I, Cap. I, pag. 9.
  10. Memorie cit. Parte I, Cap. III, pag. 34.
  11. Archivio di Venezia. — Dispacci di Ser Girolamo Querini (Filza 171). Nella lettera 11 ottobre 1744 dal porto di S. Eufemia dice arrivato il suo successore, Ser Giacomo Boldù (Filza 173) e questi nella sua lettera 13 ottobre stesso comunica al Senato che il Generalato gli fu consegnato dal Querini. Debbo questa comunicazione alla somma cortesia del Comm. Cecchetti, Soprintendente degli Archivi Veneti.
  12. Il primo a fare tale osservazione fu l’eruditissimo e brillante illustratore delle Memorie del Goldoni, il sig. Ermanno von Löhner. Vedi l’Archivio Veneto, Pubblicazione Periodica. Tom. 24 da pag. 203 a 211.
  13. Vedi nella Storia Civile nella Letteraria lo studio su Pietro Chiari, la letteratura e la moralità del suo tempo. (Ediz. Loescher, 1872) pag. 280-291-292.
  14. Romanin. — Storia Documentata di Venezia. Tom. IX, Cap. I.
  15. Memorie cit. Parte I, Cap. II, pag. 26.
  16. Ibid, pag. 18.
  17. Rimando il lettore ai cinque primi numeri del Saggio Bibliografico sul Gozzi, che pubblico in fine del Volume secondo e che mi fu favorito dall’egregio sig. Vittorio Malamani, dal quale ebbi in questa occasione tanti e così amichevoli aiuti, che compio veramente un dovere, significandogli pubblicamente la mia gratitudine.
  18. Memorie, cit. Parte I, Cap. II, pag. 29.
  19. Ibid. Cap. III, pag. 31.
  20. Archivio Veneto cit. Tom. 24, pag. 208.
  21. Foscolo. — Opere — Viaggio Sentimentale dello Sterne. Vol. II, pag. 493 (in nota).
  22. Memorie cit. Parte I, Cap. 4, pag. 39-40-41.
  23. Ibid. Cap. 3, pag. 48 e 49, e la Dedica del Tom. 4, dell’ediz. Colombani. Un dugento lettere circa del Gozzi possiede il sig. Conte Angeli di Padova, pronipote del Massimo, e se ne valse il Malamani per un profilo del Gozzi nella Nuova Rivista di Torino. Io pure potei vedere quelle lettere per mezzo del mio egregio amico Cav. Federico Stefani, illustre cultore di storiografia Veneziana.
  24. Curioso è confrontare questo tema d’un’Accademia officiale con quello che nel Seminario di Treviso proponeva Lorenzo Da Ponte, altro personaggio caratteristico del Secolo, e che gli tirò addosso le ire del Governo. Il tema del Da Ponte era: «Se l’uomo procacciato si fosse la felicità unendosi in sistema sociale o se più felice poteva reputarsi in istato di semplice natura.» Un piccolo Rousseau in Seminario! (Vedi: Memorie di Lorenzo Da Ponte di Ceneda — Nuova Jorca 1629-30 Vol. I.)
  25. Memorie cit. Parte I, Cap. 7, pag. 58, 59, 60, 61, 62.
  26. Memorie cit. Parte I, Cap. 9, pag. 68, 69, 70, 71, 72, 73, 74.
  27. Morpurgo — Marco Foscarini e Venezia nel secolo XVIII, Degli Inquisitori da spedirsi nella Dalmazia. Orazione detta nel Maggior Consiglio il giorno 17 Dicembre 1747. (Firenze, Le Monnier, 1880.) — Romanin. Storia Docum. di Venezia. Tom. cit. Cap. 5. Cita una relazione di tre Inquisitori della Dalmazia nel 1772, Giacomo Foscarini, Paolo Bembo, Antonio Zen, i quali avranno lasciato il tempo, che trovarono, se gli stessi mali denunziava Francesco Falier, Provveditor Generale nel 1786, in un’altra Relazione citata dal Romanin.
  28. Memorie cit. Parte I, Cap. 15, pag. 118.
  29. Memorie cit. Parte I, Cap. 16, pag. 128.
  30. Memorie cit. Parte I, dal Cap. 15 al 32.
  31. Storia Civile nella Letteraria cit. Gaspare Gozzi, Venezia e l’Italia del suo tempo. XIV, pag. 238.
  32. Gaspare Gozzi, Opere. (Edizione della Minerva in Padova, Vol. VII.) Principio dell’adunanza dei Granelleschi, pag. 133. Vedi pure nel Volume XIV della Nuova Raccolta di Operette Italiane (Trevigi, Giulio Trento, 1790) una molto prolissa e pedantesca cicalata di Daniele Farsetti, intitolata: Memorie dell’Accademia Granellesca.
  33. Paul De Musset — Charles Gozzi, Revue des Deux Mondes, Tom. IV, 1844. — Alfonse Royer — Carlo Gozzi Théatre Fiabesque, traduit pour la première fois. — Paris — M. Levy, 1805. Introduction.
  34. Carducci, La Lirica Classica nella seconda metà del Secolo XVIII.
  35. Di queste Annotazioni pubblicai qualche brano nel 1881. Allora erano inedite nel Museo Corrèr di Venezia. Ora, col concorso di V. Malamani, le ha pubblicale integralmente il Magrini nella seconda edizione ampliata del suo lavoro sul Gozzi: I Tempi, la vita e gli scritti di Carlo Gozzi (Benevento, De Gennaro, 1883) lavoro, direi, un po’ farraginoso e non sempre esatto nei fatti e nei giudizi, ma che mostra il brioso ingegno e la molta cultura dell’autore. Al quale va resa lode d’avere per primo nel 1876 tentato, per consiglio del suo illustre maestro, Prof. Alessandro D’Ancona, un vero saggio critico sul Gozzi. Dopo, molti altri s’invogliarono di questo tema di studio.
  36. A. D’Ancona, Un Avventuriere del Secolo XVIII. — G. Casanova e le sue Memorie. Nuova Antologia 1 Febbraio e 1 Agosto 1882.
  37. Études sur l’Espagne et sur les influences de la Littérature Espagnole en France et en Italie par M. Philaréte Chasles (Paris, Amyot, 1847) — D’un Théatre Espagnol-Venitien au XVIII Siècle et de Charles Gozzi, pag. 483, 528.
  38. D’Ancona, Op. cit.
  39. Gozzi, Memorie cit. Parte I, Cap. 34, pag. 293.
  40. La Contessa Ghellini Barbarigo-Balbi.
  41. Antonio Testa. Vedi il Capit. 28, P. I, delle Memorie di Carlo, intitolato: «Non crederei ciò che contiene il seguente Capitolo, se non l’avessi veduto.»
  42. Op. cit.
  43. Gaspare Gozzi, Opere, Ediz. cit. vol. VII. Esopo in Città, Commedia, Atto III, Scena VI.
  44. Forse fu confusa con l’Esopo in Corte, di cui si dubita se la traduzione sia sua.
  45. Marco e Matteo del pian di San Michele (dov’era il teatro S. Angelo, per cui scrissero). Così li chiama nella Marfisa Bizzarra.
  46. Intorno a queste trasformazioni della commedia classica in commedia dell’arte, vedi: Camerini, I Precursori del Goldoni, e Michele Scherillo, La Commedia dell’arte in Italia.
  47. Goldoni, Commedie. Tom. I, Prefazione. (Venezia, Pasquali, 1761).
  48. Dedica della Bottega del Caffè al Conte Widiman. (Ediz. Pasquali. Tom. I).
  49. Vedi: A. Baschet, Les Comédiens Italiens á la Cour de France.
  50. L. Moland, Molière et la Comédie Italienne. (Paris, Didier, 1864). Chap. XVI, pag. 313.
  51. Goldoni, Teatro Comico, Atto I, Scena II.
  52. Vedi lo stupendo studio di Cronologia Goldoniana di Ermanno von Löhner nel Tom. XXIV dell’Archivio Veneto.
  53. Memorie cit. Part. I, Cap. 34, pag. 269.
  54. Lettere di Carlo Goldoni al Conte G. A. Arconati-Visconti, pubblicate dai signori Adolfo ed Alessandro Spinelli. (Milano, Civelli, 1881).
  55. Vedi: Achille Neri, Aneddoti Goldoniani (Ancona, Morelli, 1883) pag. 58, 59. Il Neri cita ia proposito un grazioso sonetto, dove si prende in burla il Chiari per questa sua sciocca gara. È il Chiari che parla:

    Gravido di commedie sempre egli è, (il Goldoni)
        E quando alcuna ne partorirà,
        Subito quel suo parto io storpierò;
    E quei che son cresciuti e adulti già,
        Io così male li mariterò,
        Che ti prometto staranno da Re.

  56. Cod. 1882. Raccolta Cicogna. Dell’attuale Catalogo del Museo N. 2395.
  57. Il sonetto è attribuito al Goldoni e in calce ha questa Nota: «Questo sonetto fu fatto in occasione della Commedia intitolata: L’Avventuriere alla moda, 23 Ottobre 1749.»
  58. Gasparo Gozzi. Opere. Ediz. cit. Vol. XVI, pag. 378.
  59. Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772-74. Tom. VIII. Canto Ditirambico de’ Partigiani del Sacchi Truffaldino, pag. 175.
  60. Fogli topra alcune Massime del Genio e Costumi del secolo dell’abate Pietro Chiari e contro a’ Poeti Nugnez de’ nostri tempi. (Venezia, Colombani, 1761). Il nome di Carlo Gozzi è nell’epistola di dedica.
  61. Sonetto anonimo nel Codice cit., della Raccolta Cicogna. Ma è di Giorgio Baffo, autore di molti altri sonetti riferiti nel Codice Cicogna ed è stampato nella Raccolta Universale delle Opere di Giorgio Baffo Veneto. (Cosmopoli, 1789).
  62. Codice Cicogna cit.: Della Commedia intitolata Le Done de Casa Soa del celebre Sior Dottor Carlo Goldoni.
  63. D’Ancona, loc. cit.
  64. Della Vera Poesia Teatrale — Epistole Poetiche di alcuni Letterati Modanesi dirette al Sig. Abate Pietro Chiari colle risposte del medesimo. (In Modena, Eredi Soliani, 1754).
  65. Lettere di Carlo Goldoni al Conte G. A. Arconati-Visconti, cit.
  66. Gaspare Gozzi. Opere. Ediz. cit. Tom. XVI, p. 260-61.
  67. Vedi nella mia Raccolta di Lettere del Goldoni (Bologna, Zanichelli, 1880) le lettere 9 Dicembre, 24 Dicembre 1757, e 29 Aprile 58 del Goldoni al Vicini. Gli egregi Editori delle Lettere Goldoniane all’Arconati dichiarano d’aver interrogato intorno alle Epistole Modenesi il chiar.mo Cav. Antonio Cappelli, il quale crede che il Goldoni nelle lettere all’Arconati alluda ad un opuscolo del Vicini: La Commedia dell’Arte e la Maschera, Due Epistole in versi Martelliani, citato dal Tiraboschi nella Biblioteca Modenese. Forse questo è un estratto delle Epistole Poetiche che io ho sott’occhi, e nelle quali sono appunto due le Epistole del Vicini. Ma non mi pare si possa dubitare che il Goldoni alluda invece al libretto citato da me. Nei versi del Vicini non v’ha poi, nè vi può essere, allusione a Carlo Gozzi, siccome dubita il Cappelli, e basta riflettere alla data per convincersene. Il Vicini allude al Goldoni, non ad altri; non mai al Gozzi in ogni caso, che nel 1754 nè avea scritto nulla pel teatro, nè scopertamente avea ancora assalito il Goldoni.
  68. Frusta letteraria, N. XXIV.
  69. Gasparo Gozzi. Opere. Ediz. cit. Volumi VIII-IX. Gazzetta Veneta N. 5, 45, 86. La Gazzetta inoltre fu sempre avversissima al Chiari.
  70. Carlo Gozzi. Opere. Ediz, 1773. Tom. VIII, pag. 196.
  71. Il nome Arcadico del Goldoni.
  72. Per: intorbida.
  73. Codice cit. Il sonetto di Carlo è sul verso del foglio bianco di una copia di una lettera di Gaspare. C’è di più questa nota: «Sonetto che dal Sig. Abate Delnea potrà essere sparso
  74. Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772. Tom. VIII. Discorso, notizie, verità e riflessi, i quali, per essere frivolezze, non saranno letti, e perciò non annoieranno i lettori, pag. 258. Ibid. pag. 243: «tronco per lo meno due terzi delle cose da me scritte contro il Sig. Goldoni
  75. Altri due soprannomi dati dal Gozzi al Goldoni ed al Chiari.
  76. Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772. Tom. VIII. La Tartana degl’Infussi per l’anno bisestile 1756, pag. 27. Un anonimo nel Codice Cicogna cit., esce in proposito in questi versi, forse più satirici che veri, e che furono riportati anche da Achille Neri ne’ suoi Aneddoti Goldoniani;

    Le Donne per el più dal Chiari le tegniva:
    Co le lo difendeva, guaì chi le contradiva!
    Proprio le xe portae a star coi colarini,
    Grami quei che glie tocca i so cari abbatini!
    Bisogna compatirle, se le ha sto pregiudizio,
    I ghe commoda molto, i è sempre al so servizio:
    I altri galantonieni gha tutti el so da far;
    Ma quei, co i ha ditto Messa, no i gha altro da pensar.

  77. «Non credo si chiudesse verginella
    In monistero per servire a Dio,
    Nè che andasse a marito mai donzella,
    Senza un gran pezzo del cervello mio.»

    Citati dal Tommasèo, Storia Civile nella Letteraria, p. 236.

  78. Vedi: N. 6 e 8 della Bibliografia in fine del Vol. II.
  79. Vedi: Bibliografìa al N. 5. Versi riferiti anche nelle Opere. Tom. VIII, pag. 219. Ediz. 1772. Per l’Ingresso di S. E. Girolamo Veniero, Procurator di S. Marco.
  80. Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772, Tom. VIII. Questo libretto fu fatto stampare, dice il Gozzi, da Daniele Farsetti, fondatore dei Granelleschi, nel 1757. — Memorie cit. Part. I, Cap. 34, pag. 272. Ne rinnovò il titolo di Tartana degli Influssi da un vecchio Almanacco Veneziano notissimo, che si pubblicava fin dal secolo XVII sotto il nome di Schieson. Vedi: Gamba. Serie degli scritti in dialetto Venez. (Venezia, Alvitopoli, 1832).
  81. Altro soprannome dato da Carlo Gozzi al Goldoni ed al Chiari. Il Nugnez è un personaggio della Storia Galante di Gil Blas di Santillano, che di lacchè, beone e ladro si improvvisa poeta e scrittore di romanzi e commedie.
  82. Fogli sopra alcune Massime del Genio etc. Op. cit. pag. 29.
  83. Tartana, pag. 26, 28, 29.
  84. Ibid., pag. 37.
  85. Ibid., pag. 38.
  86. È quello descritto dal Baretti nella Lettera XIX ai fratelli, a Settembre 1760.
  87. Tartana, pag. 69.
  88. Biblioteca Marciana di Venezia. Codice 327, Classe IX. Terzine del Goldoni all’Avvocato Alcaini. Le pubblicò già il Magrini nell’Opera cit. Questa poesia, scritta in occasione che S. E. Bastian Venier tornava dal reggimento di Bergamo, è pubblicata nella raccolta fatta dal Goldoni delle sue Poesie, Edizione Pasquali, Venezia, 1764, ma il passo relativo alla Tartana è soppresso. Esempio di nobiltà d’animo, che il Gozzi non imitò.
  89. Carlo Gozzi. Opere, Ediz. cit. Tom. VIII, pag. 181.
  90. Nella lettera di dedica a Daniele Farsetti, il Gozzi finge che un amico suo e gran nemico del Goldoni e del Chiari, vedendo i trionfi di questi due, «tutto venne meno di malinconia e rinserratosi in una sua cameretta, scrisse disperato codesta Tartana, che possiamo dire fosse il suo testamento, perocchè, terminata che l’ebbe, e anche non molto ripurgata, sì peggiorò per la mattana, che le dava questa sua noia, che co’ nomi di Luigi Pulci, di Franco Sacchetti e del Burchiello, suoi carissimi, in sulle labbra, morio.»
  91. Ined. nel Codice Cit. della Raccolta Cicogna.
  92. Il Goldoni, già impiegato nella cancelleria criminale.
  93. Ined. nel Codice cit. della Raccolta Cicogna.
  94. Componimenti diversi di Carlo Goldoni (Prato, Giachetti 1837). La Tavola Rotonda. Poemetto per le Nozze Contarini Venier.
  95. La più diretta è il Poemetto del Gozzi: I sudori d’Imeneo. Vedi al N. 19 della Bibliografia in fine del Vol. 2.
  96. Tavola Rotonda cit.
  97. Ined. nel Codice cit. della Raccolta Cicogna. Da pag. 140 a 147 Sonetti di Carlo Gozzi contro il Goldoni. Cinque sono inediti. Gli altri pubblicati nelle Opere, Ediz. 1772.
  98. Carlo Gozzi. Opere. Ediz. cit. Tom. VIII. pag. 183.
  99. Biblioteca Marciana di Venezia. Codice CXXVI, Classe X.
  100. Memorie cit. Parte 1. Cap. 34 pag. 281.
  101. Ibid. pag. 283.
  102. Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772. Tom. VIII. pag. 162-63.
  103. Gaspare Gozzi. Opere. Ediz. cit. Tom. IX. pag. 80-81.
  104. B. Gamba. Galleria etc. — Morelli. Cultura della poesia presso li Veneziani.
  105. Storia Civile nella Letteraria etc. Pietro Chiari etc. pag. 285.
  106. Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772 colla falsa data di Firenze. Tom. VII. — Prefazione scritta tra il dubbio, che sia necessaria, e il dubbio, che sia inconcludente.
  107. Alle solite rassegne di guerrieri dei poemi cavallereschi ed eroicomici sostituisce una rassegna d’invitati ad una festa, con bozzetti caratteristici e mordacissimi.
  108. Avvertimento e Annotazioni al Canto I.
  109. Storia Civile nella Letteraria. Pietro Chiari etc. pag. 296.
  110. Carlo Gozzi. Opere edite e inedite. Tom. XIII. (Venezia, Zanardi 1802). Prefazione alla Commedia: Amore assottiglia il cervello.
  111. Chiacchiera di Carlo Gozzi intorno alla lingua letterale italiana e alcune ricerche sopra il libro intitolato — Saggio sopra la Lingua Italiana dell’Abate M. Cesarotti etc. (Museo Correr di Venezia. Raccolta Cicogna N. 3552-3). Ne pubblicò qualche brano il Prof. Guido Mazzoni nel suo volumetto: In Biblioteca: «Accademicus prò Accademia» pag. 156 e segg.
  112. Memorie cit. Parte 1. Cap. 34, pag. 289.
  113. Tradusse dal francese un libretto sul Genio e i Costumi del secolo corrente e v’innestò osservazioni contro i suoi nemici. A lui ed al Bordoni, autore di un Nuovo segreto per farsi immortale un poeta sulle Gazzette, provocato dagli assalti della Gazzetta Veneta di Gaspare, rispose Carlo coi Fogli sopra alcune Massime del Genio etc. cit.
  114. Memorie cit. P. 1. Cap. 34, pag. 303.
  115. E che altro erano le commedie del Goldoni? Ma qui è il giudizioso Gaspare, che parla.
  116. Atti Granelleschi cart. 42. Vedi: Fogli sopra alcune Massime etc.
  117. Goldoni, Componimenti cit. Anacreontica del Chiari per la vestizione religiosa della Sig. Contarina Balbi e Risposta del Goldoni.
  118. Vedi nella mia Raccolta di Lettere Gold. la 22 all’Albergati del 2 Aprile 1702.
  119. Carlo Gozzi, Opere Ediz. 1802. Tom. XIV. pag. 88. Al Sig. N. N. Poeta Teatrale, Frammenti, Commenti, Riflessioni, Opposizioni etc. etc. — Sopra il Frammento secondo.
  120. Baretti, The Italians. An Account of the manners and customs of Italy. (London 1768).
  121. È stampato con qualche variante nel Tom. VIII delle Opere Ediz. 1772, pag. 184. — Io lo riporto dalle Memorie. Parte 1. Cap. 34, pag. 305.
  122. Parte 1. Cap. 34.
  123. Nel Tomo I delle Opere in tutte e due le Ediz.
  124. La più lunga Lettera di risposta che sia stata scritta, inviata da Carlo Gozzi ad un poeta teatrale italiano. — Opere, Ediz. 1802. Tom. XIV.
  125. Carlo Gozzi, Memorie, Parte 1. Cap. 34, pag. 299.
  126. Opere, Ediz. 1772. Discorso, Notizie, Verità etc. cit. Tom. VIII, pag. 249.
  127. Il Sig. E. von Löhner ebbe la cortesia di farmi in proposito la comunicazione seguente: «Zuanne Donà è morto a Padova il 4 Febbraio 1766 in età di 76 anni. Ho presa io stesso questa annotazione nel Necrologio di Padova. Nel MS. Santo Pengo, che trovasi al Museo, è detto del Donà: fu mandato dalla Repubblica a questo Reggimento come per castigo, perchè essendo di carattere severissimo, quanto integerrimo e giusto, diede motivi di dispiacere ai Patrizi. Fu sepolto senza pompa, perchè era poverissimo. Eppure era stato Bailo a Costantinopoli, il solo impiego diplomatico Veneziano, che fruttasse qualche guadagno! Fu Inquisitore di Stato del 1 Ottobre 1760 al 1 Ottobre 1761.»
  128. A. D’Ancona, Un Avventuriere del Secolo XVIII. cit.
  129. Memorie cit. Parte 2. Cap. 2, pag. 11. Ragionamento Ingenuo cit. Opere Ediz. 1772. Tom. 1, pag. 65.
  130. Al Sacchi, l’ultimo forse dei grandi attori della commedia estemporanea, rimangono documento di gloria imperitura le lodi straordinarie, che gli tributarono il Goldoni, il Baretti, i due Gozzi. Di lui hanno scritto di recente Vittorio Malamani in un bozzetto: La morte di Truffaldino, ed E. von Löhner nelle preziose annotazioni alle Memorie del Goldoni. La sua Compagnia si sciolse verso il 1782. Originario di Ferrara, era nato a Vienna nel 1708. Morì nel 1788, poverissimo e mentre viaggiava per mare da Genova a Marsiglia. Nel n. 93 della Gazzetta Urbana Veneta, citato dal Malamani e dal Löhner, è detto che «il suo cadavere soggiacque al comun destino dei passeggieri marittimi d’essere gettato in mare.» Lo ricorda anche il Goethe, che nel 1780 vide a Venezia gli ultimi superstiti della Compagnia Sacchi.
  131. Carlo Gozzi, Opere, Ediz. 1772. Tom. VIII. Canto Ditirambico de’ Partigiani del Sacchi Truffaldino, pag. 164.
  132. C’è in questo punto una contraddizione curiosa. Celio Mago, ossia il Goldoni, è il protettore di Truffaldino, ossia della Commedia dell’arte. Più curioso è che tale contraddizione è avvertita dallo stesso Gozzi, il quale non sa giustificarsene con alcuna buona ragione. Vedi a pag. 21 del presente volume.
  133. Storia Civile nella Letteraria. Pietro Chiari etc. p. 289.
  134. C. Ugoni, Della Letteratura Italiana nella seconda metà del secolo XVIII. Vol. 3. Art. 2.
  135. Gaspare Gozzi, Opere, Ediz. cit. Tom. IX. Gazzetta Veneta N. 99 pag. 199-200-201. Dell’ediz. del 1761 della Gazzetta: N. 103, del Mercoldì, 28 Gennaio 1761.
  136. Il Gozzi però, come fa sempre, non prende gli avvenimenti di una sola Fola, ma ricompone insieme gli avvenimenti di parecchie. Li Tre Cetra è il Trattenemiento Nono della Iornata Quinta del Pentamerone del Cavalier Giovan Battista Basile, ovvero Lo Cunto de li Cunte — Trattenemiento de li Peccerille di Gian Alesio Abbattutis (Napoli ad istanza di Antonio Bulifon Libraro all’Insegna della Sirena, 1674.) Di molte edizioni del Basile nel secolo XVII, questa è delle meno accreditate per l’arbitraria correzione del testo. Ma io non ne ho altre. Su questo interessante scrittore di novelle popolari vedi il bel Saggio di Vittorio Imbriani: Il gran Basile, nei Volumi 1 e 2. Fascicoli 1, 2, 5, 6, del Giornale Napoletano di Filosofia e Letter.... etc. Giambattista Basile, nato a Napoli nell’ultimo scorcio del Cinquecento, scrittore fecondissimo di poesie e novelle popolari in dialetto napoletano, era fratello della celebre Adriana Basile. Fu soldato di ventura al servizio di Venezia, quindi fu alla Corte di Mantova e a Roma famigliare del Cardinale Barberini. Morì circa al 1634. Scrisse col pseudonimo anagrammatico di Gian Alesio De Abbattutis. Importantissimo il giudizio dell’Imbriani sul Basile ed il suo Pentamerone: «Il Basile ha saputo conciliar due cose, che parrebbe impossibile il conciliare, sopralutto nello stile: personalità spiccata ed impersonalità popolare. C’è la voce del popolo nel suo libro e c’è il letterato Seicentista.... Il Seicento fu il secolo de’ Napoletani: il Seicentismo fu cosa napoletana; ne’ meridionali è natura, negli altri è sforzo. Quando finalmente ci faremo a studiar sul serio quell’inclito secolo, riconosceremo che il maggior numero di grandi nomi letterari, ch’abbia prodotti, sono di meridionali; meridionali il Marini, lo Stigliani, il Basile, lo Sgruttendio, il Rosa, il Muscettola, il Cortese, il Campanella, il Gravina, che valevano, se non altro, un po’ meglio de’ Chiabrera, de’ Testi, dei Bracciolini, de’ Lemene, de’ Guidi.... Ed i difetti del secolo furono difetti napoletaneschi, difetti d’un popolo che ha più immaginazione che fantasia, più acume ed arguzia che sentimento e passione; il quale rimane con la testa fredda in mezzo agli impeti più selvaggi ed arzigogola e sofistica anche quando sragiona.» Queste acute considerazioni fanno ricordare che il Seicento in letteratura albeggia nel Tasso, napoletano per madre e per nascita, e finisce nel Metastasio, che ha la paternità spirituale del Gravina e che a Napoli scopre, la prima volta, il proprio genio. E l’oracolo delfico di Carlo Gozzi è il Basile.
  137. Carlo Gozzi, Opere. Ediz. 1801, Tom. I. Prefazione alla Fiaba: Il Corvo, pag. 106. — Memorie cit. Parte 2. Cap. 10, pag. 5.
  138. Soprannome popolare dell’attrice Bresciani, che rappresentò per prima la parte d’Ircana nella Sposa Persiana del Goldoni. — Vedi: Goldoni. Memorie. Parte 2. Cap. 18.
  139. Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772. Tom. VIII, pag. 180.
  140. Carlo Gozzi, Opere. Ediz. 1772. Tom. VIII. — Addio composto dal Sig. Goldoni e recitato dalla comica Bresciani nel Teatro di S. Salvatore in Venezia, pag. 139, 140, 141.
  141. Ibid. — Risposta data dal pubblico alla Signora Bresciani, da me scritta, pag. 141, 42, 43. Forse anche a questa il Goldoni rispose col Complimento fatto dire dalla Bresciani nel principio della stagione teatrale del 1763, e lo farebbe credere la lettera di lui al Vendramin, scritta da Parigi il 12 Settembre 1763 e pubblicata dai Sig. Dino Mantovani nel suo importante libro: Carlo Goldoni e il Teatro di S. Luca a Venezia (Milano, Treves, 1884). La frase della lettera però, che allude all’Addio recitato dalla Bresciani l’ultima sera del Carnovale 1761, è alquanto ambigua. Io qui, in mancanza d’altri documenti, debbo stare alle date e alle indicazioni, che trovo nelle Opere del Gozzi. Ma probabilmente la data del 1761 è dal Gozzi scritta more veneto o secondo l’anno teatrale. In tal caso l’Addio sarebbe stato recitato più tardi. Ma tuttociò è incerto.
  142. Carlo Gozzi. Opere. Ediz. 1772. Tom. I, pag. 119, Prefazione al Corvo.
  143. Tommasèo. Storia Civile nella Lett. cit. Pietro Chiari etc. pag. 279.
  144. Basile. Op. cit. Lo Cuorvo. Tratteniemento Nono de la Jornata Quarta.
  145. Prefazione cit. al Corvo.
  146. Prefazione cit. al Corvo.
  147. Ragionamento Ingenuo, cit.
  148. Vedi a pag, 97 del presente Volume.
  149. La Commedia dell’arte ora ne fa un tristo, ora un imbecille, ora un dissoluto, reso più ignobile dalla vecchiezza. Vedi: Il Teatro delle Favole rappresentative, overo la Ricreatione Comica, Boscareccia e Tragica, divisa in cinquanta Giornate, composte da Flaminio Scala, detto Flavio, Comico del Serenissimo Sig. Duca di Mantova.All’Ill.mo Sig. Conte F. Riario, Marchese di Castiglione di Vald’Orda et Senatore in Bologna. (In Venetia, Pulciani, 1611).
  150. Corvo. Atto V, Scena 5, pag. 126. La Reggia di Millo è paragonata a quella di Edipo.
  151. Corvo. Atto V, Scena 8, pag. 133.
  152. Corvo. Atto V, Scena ultima, pag. 134.
  153. Pseudonimo di Pompeo Sarnelli.
  154. Opere. Ediz. 1802, Tom. XIV, pag. 24, 25. «Furono le mansuete (sic) fonti de’ miei scelti argomenti e le basi sopra le quali presi a comporre i scenici generi miei, acquali certamente nessuno potrà negare l’originalità e il romoroso buon effetto.» La più lunga Lettera di risposta ecc. cit.
  155. Il Cantù nella Storia degli Italiani, Tom. VI, muta sesso alla bella sdegnosa e ne fa un Re Turandot.
  156. Gesta Romanorum, Ediz. Vesterley, Fascik. II, 251, app. 55, pag. 655. Il Magrini nota che il Gozzi tornò altre due volte su questo tema, ripigliandolo esso pure dal dramma del Moreto, nella Principessa Filosofa e nella Donna contraria al consiglio.
  157. Imbriani, Op. cit.
  158. Vedi nel Vol. 2, Atto V, Scena VI, pag. 304.
  159. Prefazione al Corvo.
  160. Prefazione al Re Cervo.
  161. Prefazione al Re Cervo.
  162. Memorie cit. Part. 2, Cap. 1, pag. 6.
  163. Ibid. loc. cit.
  164. Archivio Veneto, Tom. 24. — Ermanno von Löhner, pag. 203-211. Articolo critico sul Goldoni del Sig. Galanti.
  165. Citato dallo Chasles.
  166. Alcunchè di simile trovasi negli osceni versi del Baffo.
  167. Phil. Chasles, Op. cit. Études sur C. Gozzi, p. 543.
  168. Memorie cit. Parte II, Cap. 1, pag. 6.
  169. Goethe. Italiänische Reise. Briefe, 6 Oct. 1786.
  170. Goethe. Op. cit. Briefe, 4-5 Octob. 1786.
  171. Goldoni. Componimenti cit. Capitolo per le Nozze Barbarigo e Lippomano.
  172. Prefazione alla Donna Serpente.
  173. Ediz. Milanese dei Classici Ital. 1839. Tom. IV. Lettere e Scritti vari di Giuseppe Baretti. Lett. a F. Carcano del 12 Marzo 1784.
  174. Sismondi. Littér. du Midi d’Europe. Tom. I, Chap. XIX.
  175. Prefazione ai Pitocchi Fortunati.
  176. Magrini. Op. cit., pag. 218.
  177. Prefazione ai Pitocchi Fortunati.
  178. Ibid.
  179. Prefazione al Mostro Turchino.
  180. Atto V, Scena I.
  181. M.e De Staël. De l’Allemagne. (Bruxelles, 1832). Tom. 2, Chap. XXIII, pag. 424.
  182. Ibid., pag. 388.
  183. Prefazione al Mostro Turchino.
  184. Archivio Veneto. Tom. III. Articolo del Sig. Conte Gaspare Gozzi, pronipote dei due poeti, intit.: Gaspare e Carlo Gozzi e la loro famiglia, pag. 277-278.
  185. Prefazione al Mostro Turchino.
  186. Vedi nel Vol. II, Il Mostro Turchino, Atto I, Scena I, pag. 204.
  187. Prefazione al Corvo.
  188. Vedi nel Vol. II, Il Mostro Turchino, Atto IV. Sc, VI, pag. 278-79.
  189. Le Fiabe furono Intramezzate da due drammi che appartengono alla seconda maniera del Gozzi, quella dell’imitazione del Teatro Spagnuolo, e sono intitolati: Il Cavaliere Amico e Doride, rappresentati entrambi nel 1763 con scarsa fortuna.
  190. Vedi nel Vol. 2. Zeim Re de’ Genj, Atto II, Scena IV, pag. 458.
  191. Nel Vol. II cit, Zeim Re de’ Genj, Atto I, Scena I, pag. 423.
  192. Morpurgo. Marco Foscarini cit. — Romanin. Storia Document. di Venezia. Tom. cit.
  193. Prefazione all’Augellino Belverde. Il Gozzi stesso narra del Goldoni, che suscitava questi e maggiori entusiasmi. Le sue commedie leggevansi ne’ Collegi, ne’ Monasteri. Il Gozzi sentì un giorno predicare in una Chiesa un Abate Salerni, il quale dichiarò che si preparava alla predica colla lettura delle commedie del Goldoni. Gozzi, Memorie cit. Parte 1. Cap. 34, pag. 266, 67.
  194. In una lettera scritta dalla campagna l’8 Ottobre 1763 Carlo Gozzi, parlando della Frusta Letteraria del Baretti, che usciva allora, scrive: «Io me la passo dormendo, mangiando, cavalcando qualche puledro, camminando, e gridando con questi villani, i quali sono tutti finissimi machiavellisti. Sanno frodare, ridersi del parroco con una sorprendente disinvoltura, interpretare lo spirito delle leggi quanto il Montesquieu. Altro che Frusta Letteraria!» V’ha qui già tutto intero il Truffaldino dell’Augellino Belverde e il Gozzi, Accademico Granellesco, sentiva bene che v’era qualche cosa di più urgente, che restaurare il buon gusto letterario. Vedi il citato articolo del Conte Avv. Gaspare Gozzi. (Archivio Veneto, Tom. III).
  195. Notevolissima su questo argomento è una satira di Carlo Gozzi, premessa alla sua traduzione delle Satire del Boileau e intitolata: Astrazione del Traduttore. Vedi le Opere Ediz. 1772. Tom. VII. pag. 53. Se la piglia sopratutto cogli Abati filosofisti, figurine tipiche del tempo. Cito qualche verso, per darne saggio:

    «Palesa, Creator, se le lumache
    E le rane e le seppie e i polpi ed altre
    Tali fatture tue dalle sublimi
    Chierche notomizzate, e battezzate
    Coll’epiteto raro, che si alletta
    E sì sorprende, di gelatinose,
    Sien forse vegetabili tra noi
    Nuotatori e ambulanti, poichè tronchi
    E le corna e le code, quasi arbusti
    Dall’albero recisi, gli veggiamo
    Ripullular di nuovo e non morire.
    Necessario è, gran Dio, che tu ’l palesi.
    Noi sino ad ora ignari altra scienza
    Non avemmo su questo, che ’l condirli
    Con olio, pepe, e cinnamomi e aceti
    Ed il farne savor, zuppe e insalate,
    Ed a tai nostre notomie ignoranti
    Ghiotte avevamo le tue chierche al studio
    Lodatrici ed assidue....»

    Paragona le oltracotanze della scienza a quella dei Titani, che diedero la scalata al Cielo, e le taccia d’immorale impostura.

  196. Goethe, Italiänische Reise. Briefe, 29 Septemb. 1786.
  197. Prefazione al Zeim Re de’ Genj. Fece altre opere teatrali, dalle quali il meraviglioso non è escluso. Ma vere Fiabe non più. Una sol volta accenna d’averne posta un’altra in ossatura coll’intenzione di comporla. Era intitolata la Pulce. Ma, morto il macchinista della Compagnia Sacchi, non diede alcun seguito a quest’idea. Vedi: Prefazione al Tom. VIII (Ediz. 1772, 74.) pag. 14, 15.
  198. Baretti, Ediz. Milan. dei Classici. Tom, cit. Let. 95.
  199. Qui allude (non se ne scorda mai) al Goldoni, il quale, durante i battibecchi letterari coi Granelleschi, in un accesso insolito d’orgoglio, s’era lasciato sfuggire questo brutto verso: «Vanto l’opre tradotte in più d’un suolo.» Non saprei dire quante volte il Gozzi gliel’abbia rinfacciato! La lettera al Patrizio Minio serve di dedica al Tomo 11 dell’Ediz. delle Opere del Gozzi 1772.
  200. An Account of the Manners and Customs of Italy, Vol. 1. Chap. XII. «In the years 1764 and 1705 I have seen acted in Venice ten or twelve of Gozzi’s plays, and had even the perusal of two or three of them in script; and no works of this kind ever pleased me so much: so that when I saw Mr. Garrick there, I lamented that he did not come in carnival-time, that he might have seen some of them acted; and I am confident he would have admired the originality of Gozzi’s genius, the most wonderful, in my opinion, next Shakespeare, that ever any age or country produced.»
  201. Gozzi, Opere, Ediz. 1802. Tom. XIV. La più lunga Lettera etc. cit. Cemento sopra il Frammento secondo, pag. 86-88.
  202. Archivio Veneto, Tom. 3, Articolo cit. del Gozzi. Lettera di Carlo dell’8 Ottobre 1763.
  203. Baretti, Ediz. cit. Tom. cit. Lettera 120 del 14 Febbraio 1772.
  204. Baretti, Ibid. Lett. 123 del 24 Gennaio 1777.
  205. Baretti, Ibid. Lett. 127 del 9 maggio 1777.
  206. Vedi nella mia Raccolta di Lettere Goldoniane la 49 all’Albergati del 16 Aprile 1764.
  207. Goldoni, Commedie, Ediz. Pasquali, Tom. XIII, Prefaz. alla Commedia: La Scozzese.
  208. Baretti, Ediz. cit. Tom. cit. Lett. 142 del 12 Marzo 1785.
  209. Teatralische Werke von Carlo Gozzi. Aus dem italiänischen übersetz. Theil 1-5 (Bern 1777-1779).
  210. Opere, Ediz 1802. Tom. XIV. La più lunga Lettera etc. cit. Frammento Quinto e Comento etc. pag. 162.
  211. Nel Tomo 1 delle due Edizioni.
  212. Nel Tomo IV delle Ediz. 1772 e V dell’Ediz. 1801.
  213. Frammento Quinto e cemento cit. pag. 162.
  214. Maroncelli, Addizioni alle Mie Prigioni di Silvio Pellico. Dell’ediz. Le Monnier pag. 217 ed in nota.
  215. Dramaturgie de Hambourg. Trad. de Suckau (Paris Didier, 1873) pag. 456. La Dramaturgia finisce al 1768 ed il Gozzi non fu, si può dire, conosciuto in Germania, che dopo l’edizione del 1772.
  216. E. Lessing-Gesammelte Werke. VI Band. (Leipzig 1841) Briefe an Karl Lessing.
  217. A torto, perchè l’Heufeld era sostenitore della Commedia dell’Arte. Vedi un articolo del sig. M. Landau, Die Komödie im Dienste der Reaction. (Beilage zur Allgemeine Zeitung. N. 316, 12 Nov. 1881.)
  218. Ediz. 1772-74 Tom. IV. Appendice al Ragionamento ingenuo del Tomo primo. Pag. 2.
  219. Una più breve rassegna dei critici del Gozzi feci già nel Fanfulla della Domenica, del 4 Dicembre 1881.
  220. Lyceum der Schönen Künste. 1797. Cf.: Koberstein, Grundnisz der Geschichte der deutschen National Litteratur, Band III 4 Auflage, P. 2347.
  221. L. Tieck, Schriften. (Berlin 1828) Vorbericht I Band, pag. VII, in relazione alla sua fiaba Blaubart, che è del 1796.
  222. R. Haym, Die romantische Schule. Ein Beitrag zur Geschichte des deutchen Geistes. (Berlin-Gaertner 1870) Erst Buch. Die Märchen und Komödiendichtung, pag. 91-93.
  223. Schillers Werke (Stuttgart 1867) VII B. pag. X, XI. Il Prof. Guerzoni nel suo Teatro Ital. nel Secolo XVIII afferma che lo Schiller tradusse giovinissimo la Turandot. Ma lo Schiller era nato nel 1759. Avea dunque 42 anni ed era veramente nella piena maturità del suo genio.
  224. Schiller’s Briefwechsel mit Körner, Zweit: Theil: 1793-1803 (Leipzig 1878), Briefen 2 Nov. 1801, 16 Nov. 1801; Körner, 15 Febb. 1802. Al Gozzi (checchè si possa pensare della riduzione, che lo Schiller fece della Turandot) toccò certo colla traduzione dello Schiller un grande e invidiabile onore. Ma gliene toccò forse uno maggiore ancora, che si rileva dalla corrispondenza dello Schiller col Goethe. Vedi: Briefwechsel zwischen Schiller und Goethe, in dem Iahren 1794 bis 1805. Zweiter Band. (Stuttgart 1870) Briefen 832, 834, 835, 837, 838, 851, 934. Da queste lettere si rileva che il Goethe si occupava della rappresentazione della Turandot, che dal Gennaio del 1802 essa fu rappresentata a Weimar molte volte in quell’anno, nel seguente e nell’anno 1804. I due maggiori ingegni poetici della Germania si occupavano amorosamente di quest’opera del nostro Gozzi, curavano ogni particolarità della recita e, quasi per esercizio di fantasia, si divertivano a variare gli enigmi, che Turandot deve proporre al Principe Kalaf. Dico che si occupavano di un’opera del nostro Gozzi, perchè, toltone lo stile poetico, che variò molto, lo Schiller veramente tradusse la Turandot.
  225. Intorno alle molteplici traduzioni e riduzioni dei lavori teatrali del Gozzi in Germania l’illustre Bibliotecario di Weimar, Sig. Dott. Reinhold Köhler (alla cui squisita cortesia m’è caro professarmi pubblicamente gratissimo di molte altre indicazioni e notizie intorno al Gozzi) mi comunicava nel 1881 i dati seguenti:
    Theatralische Werke, (Ediz. di Berna già citata).
    — Wie man sich die Sache denkt! oder Die zwei schlaflosen Nächte. Ein Schauspiel in fünf Akten von Karl Gozzi. Für das deutsche Theater bearbeitet von F. G. Dyk. (Leipzig 1780).
    Das öffentlich Geheimnisz. Ein Schauspiel in drei Akten nach Gozzi von F. W. Götter (Leipzig 1781).
    Die Glücklichen Bettler, ein tragisch-comisch Märchen in drey Aufzügen nach Carlo Gozzi. Aus tausend und einem Tag fürs deutches Theater bearbeitet von K. F. Zimdar, deutschen Schauspieler (Frankfurt a Main 1784).
    — Turandot, Prinzessin von China. Ein tragicomisches Märchen nach Gozzi von Schiller (Tübingen 1802).
    — Der Rabe. Dramatisches Märchen aus dem italienischen des Karl Gozzi von G. A. Wagner (Leipzig 1804).
    — Märchen nach Gozzi von Carl Streckfuss. (Berlin 1805).
    — Die glücklichen Bettler. Morgenländisches Märchen in drei Acten frei nach Carlo Gozzi für die Böhne bearbeitet von Paul Heyse (Berlin 1867).
    Riduzioni.
    — Die zwei feindseligen Brüder. Tragisches Lustspiel. (Leipzig 1782);
    — F. E. Rambach. Die drei Räthseln. Tragikomödie nach Gozzi. (Leipzig 1799).
    — G. N. Bärmann. Die glücklichen Bettler (Leipzig 1819).
    — K. Blum. Das gekannt Geheimniss. (Berlin 1841).
    — Italiänisches Theater, übersetzt von Wolf, Grafen Baidissin (Leipzig 1877). Vi sono tradotti il Corvo ed il Re Cervo del Gozzi.
  226. F. Bouterwek. Geschichte der Poesie und Beredsamkeit, Künste und Wissenschaften, Zweiter B. Carlo Gozzi p. 484-491. (Gottingen, F. Rower, 1802).
  227. Goethe, Italiänische Reise, Briefen 4 Oct 1786, 6 Oct. 1786, 10 Octob. 1786. In una lettera del 5 Ottobre 1786 da Venezia il Goethe scrive: «Esco ora dalla tragedia e rido ancora. Bisogna ch’io vi racconti subito questa buffonata. L’autore ha cucinato insieme tutti i matadors tragici e gli attori hanno recitato bene. Il più delle situazioni era noto, alcune nuove e felicissime. Due padri che si odiano e da queste famiglie divise figli e figlie, che si amano ed una coppia maritata in segreto. Gli orrori e le crudeltà si succedono. Finalmente l’unica via d’assicurare la felicità dei due giovani è che i due padri s’ammazzino fra di loro, su di che il sipario cala fra gli applausi.» Il pubblico vuol riveder tutti gli attori e grida: fuori i morti, bravi i morti. E i morti si mostrano anch’essi. — Ludovico Geiger nelle Note all’Italiädnische Reise del Goethe (Berlin 1879) suppone che la Tragedia, di cui parla il Goethe, sia: La Punizione nel Precipizio del Gozzi, e poichè le indicazioni non combinano perfettamente, dice che il Goethe forse non intese bene del tutto. Io ho tentato, ma inutilmente, di accertare il fatto.
  228. Corso dì Letteratura Dramatica di A. G. Schlegel. — Traduz. It. con Note di G. Gherardini. (Milano 1844).
  229. Corso di Lett. cit. Lezione IX. Su questo argomento delle Maschere nella Commedia un ricordo prezioso è nell’Epistolario di Gino Capponi, Vol. III. A Giovanni Morelli, ora celebre critico d’arte, e che dopo il 1848, fra altri studi, vagheggiava, si vede, di comporre «commedie politiche e aristofaniche» il Capponi scrive: «Le maschere sono cosa rispettabile: tutta l’antica commedia erano maschere, ed erano poi caratteri belli e fatti; il vecchio, il servo etc., e qualche volta peggio. Perchè siamo usciti da cotesto modo, s’è fatto invece di commedie, o melodrammi o dissertazioni. Sarebb’egli poi tanto diffìcile creare il Brighella liberale, e l’Arlecchino diplomatico, e Pantalone il povero popolo ec. ec? Insomma vi pensi. Nelle società tranquille si fu la commedia di carattere, perchè ciascuna personalità ha luogo di farsi prominente: nelle agitate da certe idee comuni, in quelle cioè che danno campo alla commedia politica, gli esemplari sono più ristretti; e si potrebbe dire e dimostrare, che Aristofane ha quelle maschere che intendo io, e non i veri caratteri a uso Menandro, o Molière o Goldoni.» Fatta ragione della diversità dei tempi e dei fini della satira comica di Carlo Gozzi, il concetto proposto dal Capponi al Morelli combina in parte con ciò che il Gozzi tentò in alcune sue Fiabe.
  230. Vedi lo Chasles e il De Musset. Opere cit.
  231. Seltsame Leiden eines Theater-Directors. Aus mündlicher Tradition mitgetheilt vom Verfasser der Fantasiestücke in Callots Manier. (Berlin 1819 in der Maurerschen Buchhandlung).
  232. F. Horn. Ueber Carlo Gozzi’s dramatische poesie, insonderheit über dessen Turandot und die Schillersche Bearbeitung dieses Schauspiels. Briefein. (Penig. 1803 bey F. Dienemann und Comp.)
  233. W. Freiherr von Biedermann, Goethes-Forschungen. (Frankfort ain Mein 1879.)
  234. Il Gherardini nelle Note allo Schegel riporta dal giornale Milanese: la Biblioteca Italiana (Fascicolo di Dicembre 1816 Tom. IV pag. 515) la notizia che nell’Università di Halle, in Germania, i Professori Waschmuth e Beck spiegavano alternativamente dalla cattedra la Divina Commedia e le Fiabe del Gozzi. Su questo importante proposito l’illustre Dott. R. Köhler mi scriveva: «Da Halle ho saputo che Guglielmo Waschmuth, il noto storiografo, morto a Lipsia nel 1863, lesse nel Semestre invernale del 1816 ad Halle, dov’era professore Universitario di Lingua Italiana ed Inglese, sulle Fiabe del Gozzi. Dal resoconto officiale non risulta che abbia letto anche su Dante. Il Beck, anch’esso in quel tempo Professore ad Halle, lesse sulla Secchia Rapita del Tassoni, sul Bugiardo e i Due Gemelli del Goldoni, e sulle Satire dell’Ariosto
  235. Mad. De Staël, Corinne ou l’Italie. Livre Septieme Chap. II pag. 140, (Edit. Garnier.)
  236. Sismondi, De la Littèrature du midi de l’Europe, Tom. 1. Chap. XIX. Soggiunge che Fiaba è parola impropria e poco usata in Italia, del che giustamente lo deride il Tommasèo.
  237. Chasles, Études sur l’Espagne, cit. D’un Thèatre Espagnol-Venitien etc. etc. cit.
  238. Parte 3. Cap. 1.
  239. P. De Musset, Charles Gozzi cit. — Revue de deux Mondes, cit. Tom. IV, 1844.
  240. M. Sand, Masques et Bouffons (Comédie Italienne) Tom. II. (Paris, Levy, 1860).
  241. Vernon Lee, Studies of the Eighteenth Century in Italy. (London, Satchell, 1880). La Vernon Lee ha ripreso molto graziosamente questo tema in una introduzione di maniera Hoffmaniesca ad una sua fiaba, intitolata: The Prince of the hundred Soups.
  242. F. H. von der Hagen, Gesammtabenten hundert altdeutsche Erzählungen. (Stuttgart und Tübingen 1850) Bd. 3, pag. 66.
  243. Narravami, non ha guari, l’illustre Marco Minghetti che, viaggiando nel 1848 in Germania ed in Olanda, ebbe per caso ad accompagnarsi per alcun tempo col Generale Radowitz, noto scrittore e statista, il quale, discorrendo con lui di studi italiani e tedeschi, gli assicurava che, nelle serate di Federigo Guglielmo IV (l’antecessore dell’attuale Imperatore di Germania), presenti l’Humboldt, il Savigny ed altri uomini insigni, si solevano leggere con grandissimo diletto le Fiabe del Gozzi.
    Fra gli ultimi Tedeschi, che fanno onorevole menzione del Gozzi, figurano altri due grandi nomi, il maestro e poeta, Riccardo Wagner, ed il filosofo pessimista, Arturo Schopenhauer. Il primo nella Autobiographische Skizze ed in Eine Mittheilung an meine Freunde, 1851, nei volumi 1 e 4 de’ Gesafmmelte Schriften und Dichtungen, (Leipzig, 1872) dice, fra l’altre cose, che volendo comporre un melodramma sul gusto romantico del Weber e del Marschner, prese ad imitare la Donna Serpente di Carlo Gozzi e, intitolandola le Fate, non mutò che lo scioglimento della Fiaba. È questa un’opera giovanile del Wagner, il quale so d’altronde ch’era e si mantenne sempre fervido ammiratore del Gozzi. Quanto allo Schopenhauer, il mio amico, Prof. Giacomo Barzellotti, dotto espositore delle dottrine del filosofo tedesco, mi fa notare ch’esso ne parla nel Cap. 8 dei Compimenti al Libro I della sua opera maggiore: Die Welt als Wille und Vorstellung, dove trattando della teoria del ridicolo, afferma che questo nasce da un disaccordo repentino tra una realtà qualsiasi ed il concetto, sotto cui tale realtà è richiamata. E cita in proposito la scena 3a dell’atto 4° della Zobeide, in cui Truffaldino e Brighella, dopo essersi bastonati di santa ragione, si pacificano ed applicano a sè il noto verso dell’Ariosto: O gran bontà de’ Cavalieri antiqui, con quel che segue. Nel Cap. 33 dei Compimenti al 3° libro della Opera suddetta, trattando della pazzia, lo Schopenhauer la fa consistere in una malattia della memoria. Non poter riprodursi in mente con precisione un fatto od un sentimento passato è un fenomeno già prossimo alla pazzia. Ed anche qui cita la scena 2a dell’atto 1° del Mostro Turchino, in cui Smeraldina e Truffaldino, i quali per una bevanda incantata smarriscono issofatto ogni memoria del loro amore, sono dal Gozzi rappresentati per pazzi.
  244. Archiv für das Neueren Sprachen und Litterature. — Herausgegeben von L. Herriq. Ueber Carlo Gozzi und sein Theater von J. F. Schnakenburg. — 1859, XIV Jahrgang 26 Bd.
  245. Schack, Geschichte der Dram. Literatur und Kunst in Spanien. — 3 Bd.
  246. J. L. Klein, Geschichte dea Dramas. — Das italienische Drama. — Dritter Bd. — Erste Abtheilung. — 650-778. (Leipzig. Weigel. 1868).
  247. Alphonse Royer, Théatre Fiabesque. — Introduction, pag. 42, 43, 44.
  248. Tutti così questi abati filosofi dei secolo scorso! Anche l’Arteaga giudica da questo punto di vista del ragionevole il meraviglioso del Dramma. (Rivoluzioni del Teatro, Tom. I, Cap. VI). — Per le lettere del Cesarotti e del Taruffi vedi: Epistolario del Cesarotti, Tom. I. Delle Opere (Ediz. Capurro) Tom. 35.
  249. Vannetti, L’Educazione Letteraria del Bel Sesso raccomandata e promossa. (Milano. Pirotta 1833) pag. 5.
  250. Lettere Famigliari (Venezia, Alvisopoli 1829). Lett. al Patrizio F. B. del 3 Febbraio 1763.
  251. Pietro Napoli-Signorelli Napolitano, Storia dei Teatri antichi e moderni. Tom. VI, pag. 238, 39. (Napoli 1790, presso Vincenzo Orsino).
  252. Klein, Op. cit. loc. cit. — Magrini, Op. cit. pag. 223.
  253. T. M, A. Tom. 34.
  254. Memorie cit. Part. 2a, Cap. 4, pag. 32.
  255. Memorie storiche della Vita di Giuseppe Maria Foppa, protocollista di Consiglio di questo I. R. tribunale Criminale scritte da lui medesimo. (Venezia, Molinari, 1840). Comunicazione dal Sig. Vittorio Malamani.
  256. Il Gozzi riferisce a lungo e con parole malinconiche questo fatto, importantissimo nella sua vita. Vedi Memorie etc. Parte 3a. Cap. 2. — Il De Musset parafrasa molto arbitrariamente le parole del Gozzi a questo proposito, anzi se le inventa addirittura, per far credere ad aperti rimpianti del Gozzi sui suoi spassi galanti colle attrici. Il De Musset non ha pensato che, così facendo, alterava il senso delle Memorie, dove il Gozzi cerca nascondere, più che può, le sue debolezze. In questo caso non ci riesce del tutto. Ma le parole citate dal De Musset non esistono nelle Memorie.
  257. Foppa, Memorie cit. pag. 37, 38.
  258. Ibid. pag. 39, 40.
  259. Nella Prefaz. alla Commedia — Il Sofà — Albergati. Nuovo Teatro (Venezia, Pasquali 1774). Vol. I e nelle Lettere Piacevoli etc. (Venezia, Storti 1792).
  260. Memorie cit. Parte 2a, Cap. 4, pag. 32, 33.
  261. Vedi: Comento al Frammento primo nella Più lunga lettera etc, già cit. Ediz. 1801, 1802, Tom. XIV.
  262. Vedila nel Tomo XII delle Commedie Buffe in prosa del Sig. Carlo Goldoni. (Venezia, Zatta 1793).
  263. Memorie cit. Parte 2a, Cap. 4, pag. 34, 35, 36.
  264. Mi conferma in questo la lettera dei Goldoni allo Sciugliaga pubblicata dal Sig. Dino Mantovani nell’Opera citata. «Avrei piacere, scrive il Goldoni, di far vedere in Venezia, come si fanno le commedie di trasformazione, senza le Fiabe, senza i Diavoli e senza le piazzate.» (220-21). Vuol dunque correggere, non imitare il Gozzi, e correggerlo, io credo, secondo il gusto francese.
  265. Vedi nella mia Raccolta di Lettere Goldoniane la Lettera 37.
  266. E non era l’ultimo, perchè il Burbero Benefico e l’Avaro Fastoso ripigliano ed ampliano la commedia di carattere.
  267. Nota 42 alla Drammaturgia dello Schlegel.
  268. Ugoni, Della Letteratura Italiana nella seconda metà del secolo XVIII. Vol. III. Carlo Gozzi.
  269. Tommasèo, Storia Civile nella Letteraria, cit. Pietro Chiari etc. pag. 389.
  270. De la Littérature Populaire en Italie. — Revue des Deux Mondes. A. 1839, Tom. XVIII.
  271. Biogr. Universelle. Art. Gozzi.
  272. Lombardi, Storia della Lett. Ital. Tom. 3.
  273. Saggio Critico Stor. della Commedia Italiana, § XVIII.
  274. Tipaldo, Ital. Illustri. Tom. III e VII. — Emiliani Giudici, Storia delle Belle Lettere in Italia. Lez. XIX.
  275. Settembrini, Lezioni di Letteratura etc. — Vol. 3, Lez. 87.
  276. De Sanctis, Storia della Lett. Italiana. Vol. II.
  277. Magrini, Op. cit. Cap. IX, pag. 233-245.
  278. Memorie cit. Parte 2a, Cap. 3, pag. 20.
  279. Memorie, Parte 2a Cap. 3. Pittura della Compatta comica del Sacchi da me soccorsa.
  280. Parte 2a, Capitoli 48, 49, 50.
  281. Memorie cit., Parte 2, Cap. 46.
  282. Memorie cit., Parte 2, Cap. 47.
  283. Memorie cit., Parte 3, Cap. 1.
  284. Memorie cit., Parte 3, ibid.
  285. L’amante del Gozzi era allora, dicesi, una nipote del Sacchi, valente attrice, conosciuta nell’Arte col nome di Chiaretta.
  286. Nel Canto Ditirambico, più volte citato, è descritta la polenta mangiata in casa del Sacchi e tutti gli attori e le attrici, che stanno attorno al tagliere fumante inneggiando a quel ghiotto piatto, che era una delle bravure del gran Truffaldino. Forse del Canto Ditirambico del Gozzi s’è ricordato il Coppola (Pompiere) nella sua Canzone della Polenta scritta per la società dei Polentoni di Parigi.
    In certe Memorie manoscritte del Consigliere Giovanni Rossi, che trovansi nella Bibliot. Marciana di Venezia (Ital. Classe VII. Cod. 1396. — Vol. 11, da carte 21 a 31) si parla a lungo, e senza novità, delle lotte fra il Chiari, il Goldoni ed il Gozzi e si ricordano le meraviglie dalla Compagnia del Sacchi. Il Rossi soggiunge di essere arrivato a tempo a conoscere e a trattare il Conte Gozzi e ne parla con ammirazione. La commedia delle Maschere non ebbe mai maggiori trionfi che col Gozzi e col Sacchi. Dopo il 1782, scioltasi la Compagnia Sacchi, continuò, e le favole Gozziane si ripeterono più volte coll’Arlecchino Pellandi, col Fiorini già decrepito, col Brighella Martelli, col Pantalone Valsecchi, ma non erano più le medesime. L’età dell’oro del teatro Veneziano, dice il Rossi, fu quella delle lotte del Goldoni, del Gozzi e del Chiari. Poeti e comici gareggiavano. Sempre novità, e la gente accorreva in folla. Fuori del teatro gran discussioni. E uno dei maggiori Areopaghi dei parteggianti era il caffè di Menegazzo posto nella Merceria verso il Ponte de’ Baretteri, alla metà circa, a mano destra, corrispondente all’interno col campiello della Chiesa di S. Giuliano.
  287. Nella Quaresima dell’anno 1771. Memorie cit. Part. 2a Cap. 8, pag. 60.
  288. Fra i lavori fatti per la Ricci, v’è una traduzione del Fajel del D’Arnaud, dramma lagrimoso. Di questa contraddizione il Gozzi si giustifica in una lunghissima prefazione. Vedi: Il Fajel — tragedia del Sig. D’Arnaud, tradotta in versi sciolti dal Co. Carlo Gozzi. (In Venezia 1772, per il Colombani).
  289. Francesco Bartoli, Notizie Istoriche dei Comici Italiani che fiorirono intorno al MDL fino ai giorni presenti. (Padova, Conzatti 1781). All’art. T. Ricci.
  290. A risparmio di citazioni, due sono le fonti principali di questo racconto, le Memorie del Gozzi, e la Narrazione Apologetica di Pier Antonio Gratarol. — Terza Ediz. (Venezia 1797 Anno 1° della Libertà).
  291. Memorie cit. Parte 2. Cap. 32, pag. 287.
  292. «La Cancelleria Ducale, scrive il Morpurgo, si disse con espressione altrettanto efficace, quanto veritiera, il cuore dello Stato. Ufficii vitalizi erano soltanto quelli del Doge e dei nove Procuratori di S. Marco; tutti gli altri, essendo di brevissima durata e spesso colpiti di contumacia, si doveva trovar modo di custodire le tradizioni e le buone consuetudini amministrative dello Stato. La Cancelleria ducale, superiore di dignità alle burocrazie dei nostri tempi.... dovette rispondere a questo bisogno. In essa si compilavano tutti gli atti per le cause «in Serenissima Signoria e in pien Collegio.» Era formata da tre classi di Segretarii: tenevano il primo posto i quattro del Consiglio dei X; poi i cinquanta del Senato, da cui erano scelti gli ambasciatori di secondo grado col nome di Residenti; finalmente i Notari in numero illimitato.» Op. cit. pag. 110, 111. Il Gratarol, quando gli accadde tutta codesta vicenda, stava per essere nominato Residente a Napoli.
  293. Memorie cit. Parte 2, Cap. 32, pag. 289.
  294. Il Cantù nella Storia degli Italiani, Tomo VI, dà il nome dell’attore, che rappresentò il Don Adone, alla gran Dama e la chiama Caterina Vitalba. Così la Dama diventa pedina, come la Turandot era divenuta maschio.
  295. È riferita nella Parte 2 della Narrazione Apologetica pag. LXXIII. Ediz. cit.
  296. Memorie Ultime di P. A. Gratarol coi documenti della di lui morte e dell’ingiustizia del Fisco Veneto etc. (Venezia, Zatta, 1797.)
  297. Memorie cit, Parte 2, Capitoli 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44.
  298. Gozzi, Lettera Confutatoria da me scritta l’anno 1780 e indiririzzata a Pietro Antonio Gratarol a Stokolm. In principio del Vol. 3 delle Memorie cit.
  299. Stampato in fine del Volume 3 delle Memorie cit.
  300. Carlo Gozzi, Opere, Ediz. del 1772 Tom. VII. Dedica della Marfisa Bizzarra a S. E. la Signora Caterina Dolfino, Cavaliera e Procuratessa Tron. pag. 6.
  301. Vedi nelle Memorie di Carlo il Capit. 44 della Parte 2, dove narra il caso pietoso del fratello Gaspare, che a Padova preso da febbre s’era gettato nel Brenta. Riferisce in proposito un suo colloquio colla Tron. Vedi anche nelle Lettere Familiari di Gaspare (Opere, Ediz. cit. Vol. 16) le molte sue lettere alla Tron e quella in particolare del 10 Novembre 1777.
  302. In alcune appendici del giornale Veneziano: Il Rinnovamento.
  303. Enrico Castelnovo, Una Dama Veneziana del Secolo XVIII. Nuova Antologia. Second. Ser. Vol. 33.
  304. Un epigramma del tempo:

    Thronus Eques, sapiens, nunc Procurator,
    at illo si diadema negat Patria, sponsa dabit.

  305. Era nata nel 1736, s’era maritata al Tiepolo nel 1755. Fu annullato il matrimonio e sposò Andrea Tron nel 1772.
  306. Stupenda fra le lettere pubblicate dal Castelnovo la lettera di Caterina Tron, 5 Sett. 1772.
  307. Vedi le Appendici dell’Urbani de Gheltof. Sulla chiusura del Casino di S. Giuliano presso S. Marco l’Urbani riferisce una canzone dell’Abate Barbaro, che è una vivace pittura dei Luni di Caterina. Dell’Abate Barbaro, maldicente emerito, esiste pure un opuscolo, stampato durante il periodo democratico e intitolato: L’Abate Barbaro che tira a penitenza un’Ex Patrizia, che è una satira amara contro la Tron. N’ebbi notizia dal Malamani.
  308. Da Ponte, Memorie cit. Parte 1. — Romanin, Storia Docum. cit. Tom. VIII Cap. 6 e 7. — Molmenti, Storia di Venezia nella Vita Privata etc. Parte 3.
  309. Ritorce contro a’ suoi nemici l’epigramma latino sopra citato, fatto contro di lei.
  310. Dicesi anche ballerina da corda. Ma non è provato. Vedi: Molmenti, La Dogaressa di Venezia, Cap. XVII.
  311. Vedi nelle Notizie Istoriche cit. la sua autobiografia fino al 1781.
  312. Aveva a quest’ora 66 anni.
  313. Memorie cit. Parte 3. Cap. 3, pag. 205 e segg. Opere. Ediz. 1801-1803 Tom. IX. Prefazione al Dramma Tragico: Cimene Pardo. Tomo XI, Prefazione al Dramma Favoloso-Allegorico: La Figlia dell’Aria ossia l’Innalzamento di Semiramide.
  314. Vedi in Tipaldo: Ital. Illustri del Secolo XVIII. T. IX.
  315. Con un poetico esordio a scenici Professori di far l’arte virtuosamente per lasciare in terra non solo nome famoso, ma per non chiudersi viziosamente la via, che ne conduce al Paradiso. Compiesi così il lungo titolo del libro dell’Andreini, intorno al quale è da vedere lo studio del Magnin: Teatro Celeste. Le Comédiens en Paradis. Revue des Deux Mondes. Tom. IV A. 1847 pag. 843-857. Cf. pure il Moland, Molière et la Comédie Italienne, Cap. VIII, ed il Baschet, Les Comédiens Italiens à la Cour de France, Chap. VII. Questo bisogno di riabilitare l’arte in cospetto alle accuse, che specialmente la Chiesa le lanciava, fu spesso sentito dai nostri vecchi Comici e Maschere della Commedia estemporanea. Nel senso del libretto dell’Andreini è scritta: La Supplica di Niccolò Barbieri, detto Beltramo. Vedi: Moland Op. cit. Chap. IX, M. Scherillo, La Commedia dell’Arte in Italia, Magnin, Op. cit.
  316. L’Attore Vitalba, che nel Dramma: Le Droghe d’Amore, avea fatta la parte di Don Adone, seguì, dopo il Carnovale 1776-77, la Compagnia Sacchi a Milano, dove fu ripetuto quel Dramma. Una sera, mentre si recava al teatro, gli fu da ignota mano lanciata sulla faccia una bottiglia d’inchiostro, che per poco non lo deformò. Si sospettò di un mandatario del Gratarol. Così insinua il Gozzi nelle Memorie. Parte 2. Cap. 45, pag. 421-22. Il Gratarol nella Narrazione Apologetica, pag. 130-31, narra il fatto e respinge da sè questa taccia.
  317. Memorie cit. Parte 3, Cap. 30, pag. 208. Oltre alle Dieci Fiabe, il Gozzi ha composto altre ventitrè opere teatrali, senza contare le traduzioni, in un periodo di circa vent’anni.
  318. Memorie cit. Parte 3, Cap. 4. Ibid.
  319. Memorie cit. Ibid. pag. 211.
  320. Vedi il sonetto a pag. 212 delle Memorie Parte 3. Cap. 4. e al N. 93 del Saggio Bibliograf. in fine del Vol. 2, le Ottave in Morte di Daniele Farsetti. Dopo il 1777 In sua disposizione pessimista scatta ad ogni proposito. La satira è più impersonale, ma più amara. In un sonetto, che è inedito io credo, e che mi fu favorito dall’egregio Sig. Conte Tiberio Roberti di Bassano, il Gozzi ad una ballerina che danzava a Mestre sul Teatro Balbi nel 1779, scrive:

    Brami che al tuo valor plauso trabocchi?
       Troppo modesta danzi e troppo schiva,
       Attributo modestia oggi è da sciocchi.
    Saetta il spettator, danza lasciva,
       Non tener neghittosi i tuoi begli occhi
       E udrai tuonar gl’immensi applausi e i viva.

    La ballerina avrà trovate probabilmente molto inutili codeste raccomandazioni del rigido poeta.

  321. Vedi gli Estratti di lettere a Innocenzo Massimo pubblicati da Vittorio Malamani nel suo studio: I Gozzi nella Nuova Rivista di Torino N. LVIII-IX-X.
  322. Ma tracollo era pur sempre! In generale egli fu avverso al matrimonio.
  323. È ciò che mi fa ritenere scritta more veneto la data 6 Febbraio 1785 di questa lettera. La Cimene Pardo fu rappresentata nel 1786.
  324. Vedi Malamani, Op. cit.
  325. Annibale Duca d’Atene, La Donna Contraria al Consiglio, e Il Montanaro Don Giovanni Pasquale, dove nella Scena IV dell’Att. 3, introduce per l’ultima volta la polemica letteraria fra mezzo alle vicende romanzesche del Dramma.
  326. Memorie cit. Parte 3, Cap. ultimo, pag. 340.
  327. Ibid. pag. 241.
  328. L’autografo è nella Biblioteca Civica di Bassano. Collezione Gamba. E ne debbo copia al Bibliot. Sig. Dott. Oscar Chilesotti.
  329. L’autografo è nel Museo Correr di Venezia. Ne ebbi copia dal Malamani.
  330. Ne dà notizia certa il Moschini, Della Letteratura Veneziana del Secolo XVIII. Tom. II, pag. 134, (Venezia, Palese 1806) colle parole: «in grande età morì ai quattro dello scorso Aprile 1806,» la data stessa dell’ediz. dell’opera. Nel Diario di Emanuele Cicogna al Museo Correr (così mi comunica il Malamani) è ricordato che Carlo Gozzi fu sepolto nell’Arca appiè dell’altare della Madonna nella Chiesa di S. Cassiano. Quest’arca fu comperata nel 1757 per la famiglia Gozzi da Antonio, padre di Gasparo e di Carlo. Sull’Arca stava l’iscrizione: Sepulcrum de Gozzi. Oggi non esiste più.
  331. Archivio di Stato di Venezia. Sezione Notarile. Negli atti del Notaio Raffaelle Todeschini (Busta 1). Il testamento fu aperto il 4 Aprile 1806 (il che conferma la data della morte) ad istanza del Nob. Sig. Francesco Gozzi q. Gasparo, di lui nipote, e v’è inserito un Memoriale di Carlo del 28 Dic. 1784, diretto ai fratelli e Nipoti. Debbo anche questo interessantissimo documento alla cortesia del Comm. B. Cecchetti, Soprintendente degli Archivi Veneti.
  332. Vedi l’importante Introduzione del Prof. Adolfo Bartoli agli Scenari inediti della Commedia dell’Arte. (Firenze, Santoni, 1880.)
  333. Moland, Op, cit. Chap. IV.
  334. M. Sand, Masques et Bouffons cit. Tolomei, Delle Vicende del Vernacolo Padovano nell’Opera: Dante e Padova. (Padova, Prosperini, 1865.)
  335. Non posso a meno di citare, quasi a commento di questi bei pensieri del nostro De Sanctis, i versi del La Fontaine:

    «Si Peau d’Ane m’etait conté
       J’y prendrois un plaisir extrème,
       Le monde est vieux, dit-on: je le crois; cependant
       Il le faut amuser encore cmme un enfant.»

    (Fables, Livre VIII, Fable 4: Le Pouvoir des Fables.) E questi altri del Voltaire nei Contes en Vers:

    «O l’heureux temps que cclui de ces fables,
       Des bons démons, des esprits familiers,
       Des farfadets, aux mortels secourables!
       On ecoutait tous ces faits admirables
       Dans sori château, pres d’un large foyer.
       Le pére et l’oncle, et la mere et la fille,
       Et les voisins, et toute la famille,
       Ouvraicnt l’oreille a monsieur l’aumonier,
       Qui leur faisait des contes de sorcier.
       On a banni les démons et les fées:
       Sous la raison les grâces étouffées
       Livrent nos coeurs à l’insipidité;
       Le raisonner tristement s’accredite:
       Ou Court, helas! aprés la vérité;
       Ah! croyez-moi, l’erreur a son mérite.»

    (Nel Racconto intitolato: Ce qui plait aux Dames.)

  336. De Sanctis, Storia della Lett. Ital. Vol. II.