Le lettere di Aldo Moro dalla prigionia alla storia/Agnese Moro

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Agnese Moro

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Mario Bresciano Il fatto

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Apprezzo molto la serie di iniziative, delle quali il presente volume è degna conclusione, che il Tribunale di Roma e l’Archivio di Stato di Roma, congiuntamente all’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario (Icpal), hanno voluto promuovere attorno alla tutela e alla salvaguardia delle lettere autografe che mio padre, Aldo Moro, scrisse nel corso della sua prigionia (16 marzo - 9 maggio 1978) nel carcere delle Brigate Rosse. Ne devo essere riconoscente all’allora presidente del Tribunale, dottor Paolo De Fiore, e al suo successore dottor Mario Bresciano, al direttore dell’Archivio di Stato di Roma, dottor Eugenio Lo Sardo, al dottor Michele Di Sivo, alla dottoressa Maria Cristina Misiti, direttore dell’Icpal, e ai suoi valenti collaboratori. Un particolare debito di riconoscenza sento di avere nei confronti del cancelliere della Corte d’Assise Paolo Musio, che con tanta sensibilità ha voluto custodire e proteggere per molti, silenziosi anni queste fragili carte, così importanti per noi.

Le lettere scritte da mio padre nel corso del suo sequestro sono state, in quei giorni e per molti anni a seguire, materia di aspra polemica, tendente a dimostrare l’inaffidabilità del prigioniero, la sua vigliaccheria di fronte alla morte, la sua poca dignità ed eticità, il suo scarso senso dello Stato, la sua subalternità ai carcerieri, l’alterazione del suo stato mentale. Giudizi tutti volti a screditarlo, a minare la sua credibilità, a far sì che le sue indicazioni e i suoi suggerimenti non venissero neanche presi in considerazione.

Oggi sappiamo che il pericolo contro il quale Aldo Moro cercava di mettere in guardia la classe dirigente e il Paese era un pericolo reale, che non veniva direttamente dai suoi rapitori — che potevano “solo” togliergli la vita — , ma piuttosto dal vuoto che la sua morte avrebbe lasciato nella vita politica e sociale del Paese. Per varie circostanze, infatti, e a causa di quei tentativi “generosi e ingenui” egli cercò di opporsi, quasi fisicamente e in una strana solitudine, all’attacco alla Democrazia cristiana — che in realtà era un attacco alla democrazia repubblicana — proveniente da sinistra e da destra, fuori e dentro il suo partito. Aldo Moro si trovò a essere in qualche modo il perno della democrazia italiana, la persona sulla quale ruotava la possibilità di proseguire il cammino iniziato dal popolo italiano con la Resistenza. Una persona capace di convincere e di coinvolgere e, quindi, una oggettiva pietra di inciampo per coloro che — per diverse, ma convergenti ragioni — volevano tornare indietro rispetto a quella democrazia così ben disegnata nella nostra Costituzione, della quale la DC, con tutti i suoi non pochi limiti, era stata comunque garante. Un ritorno indietro legato al prevalere dei grandi interessi su quelli dei semplici e normali cittadini, ai quali fino a quel momento, tra mille fatiche e ostacoli, era stato proposto un percorso di crescita per ampliare diritti e possibilità per tutti e con il concorso di tutti. Percorso al quale, anche attraverso l’impegno in partiti, sindacati e movimenti, gli italiani avevano attivamente partecipato. [p. 22 modifica]

Consapevole di questo tentativo, sostanzialmente “eversivo” — puntualmente realizzatosi dopo la sua morte, e che tanto è costato e seguita a costare al nostro Paese — mio padre ha condotto, con la debolezza delle parole, la sua ultima battaglia politica, giuridica e istituzionale, in una agghiacciante solitudine. Ha seguitato a farlo per cinquantacinque giorni, pur minacciato di morte dai suoi carcerieri e umiliato e deriso da coloro che avrebbero dovuto essere con lui difensori della democrazia repubblicana.

Proprio per questi motivi i fogli dei quali si parla in questo libro contengono, per così dire, un surplus di drammaticità: vi è nella fragilità di quelle pagine di cui questo libro parla un’immagine quasi allegorica della fragilità stessa della democrazia, quando voglia essere anche strada di giustizia e di pace. Soprattutto perché essa si regge sulla irriducibile volontà di farla vivere da parte di uomini mortali che è sempre troppo facile colpire perché non possano proseguire il loro cammino.

C’è nelle lettere di mio padre tutta la drammaticità di una svolta della storia, vissuta con piena consapevolezza ed impegno dal suo involontario protagonista in una incomprensione stolida o colpevole della politica e della intellighenzia italiana.

Mi sembra tanto importante riproporci nella loro essenzialità quegli avvenimenti, attraverso parole che vengono da tanto lontano. E avere finalmente il coraggio di guardarli in faccia. Per non dimenticarli, ma soprattutto per riflettere su quale strada è giusto intraprendere. E quanto costa farlo.