Lezioni accademiche/Lezione terza

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Della Forza della Percossa.
Lezione terza

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Della Forza della Percossa.
Lezione terza
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DELLA FORZA

DELLA PERCOSSA.

LEZIONE TERZA.

SS
I diceva nel passato ragionamento, Sereniss. Principe, Dignissimo Arciconsolo, Sapientissimi Accademici, che la gravità ne’ corpi naturali è una fontana continuamente aperta, la quale ad ogni istante di tempo, o (se non piacciono gli istanti) ad ogni brevissimo tempo, produce un momento eguale al peso assoluto di detti corpi. È ben vero, che quando i gravi stanno quiescenti, tutti gl’impeti prodotti se ne trascorrono via, venendo, o ricevuti, o annichilati dal corpo sottoposto, il quale col contrasto dell’indiscreta repugnanza, va continuamente estinguendo tutti quei generati momenti. Ma quando i medesimi gravi cadono per l’aria, quegl’impeti non s’estinguono più, ma si conservan là dentro, e vi si moltiplicano: e però quando i gravi velocitati arrivano a percuotere, la forza, o virtù loro dee essere infinitamente accresciuta. Discorremmo anco intorno a quella principale obbiezzione, per qual causa, dunque se la forza della Percossa era infinita, nell’atto poi del percuotere non faceva l’effetto infinito. Sorge ora una nuova difficoltà, ed è; che se un grave, cadente avesse dentro di se momento infinito, doverebbe avere anco velocità infinita; il che repugna all’osservazione dell’esperienza.

A questo si risponde, concedendo ogni cosa; ma prima con produrrre l’argumento come pare che vada portato nel caso nostro. Chi dicesse così. In qualunque grave cadente, quando il momento interno sarà accresciuto infinite volte, la velocità ancora doverà esser infinitamente accresciuta, io crederò che discorra benissimo. Poiche se quel grave aveva per momento una libbra di peso mentre era quiescente, e dopo qualche caduta l’ha multiplicato infinite volte; il medesimo per appunto egli ha fatto anco della velocità. Quando egli nella quiete aveva il momento [p. 14 modifica]d’una libbra, allora di velocità non aveva cosa alcuna, avendo poi dopo la caduta acquistato qualche velocità, questo mi pare che si possa chiamare accrescimento infinito. Il passaggio dall’esser nulla all’esser qualche cosa, suol giudicarsi mutazione infinita.

Osservisi che quando si fa questo argomento contro, e si dice, dunque doverebbe avere velocità infinita, l’avversario intende, velocità infinite volte maggiore di qualche altra minor velocità. Ma io non ho mai detto, che il momento dopo una caduta grande sia infinite volte maggiore, che il momento dopo una caduta più piccola, anzi so che questo non è assolutamente vero.

Rappresentasi con forza d’obbjezzione la difficoltà, che s’incontra nell’immaginarsi, come quei momenti infinite volte multiplicati, possano poi estinguersi in un tempo quasi istantaneo, come è quello nel quale si fa il concorso di due ferri, che si percuotono insieme. A questo risponderò, che par difficile a me ancora, ma non già impossibile. Impossibile mi parrebbe, se ciascuno di quei momenti per estinguersi volesse tempi quanti, e divisibili; ma l’estinzione si và facendo in tempi istantanei, e siccome tutto quell’aggregato di forze era nato in quattro battute di musica, io non sò perch’e’ non passa in una sola, ovvero in una mezza, o nella millesima parte di una mezza esser’annichilato.

Mentre cade un grave, ed arriva a percuotere in qualche solido, già s’è detto, ch’e’ non è possibile averlo di tal materia, che possa senza ceder punto ricevere il colpo momentaneo. Se ambedue i corpi concorrenti fossero materie cedenti, come piombo, ambedue si acciaccherebbero assai; se uno fosse piombo, e l’altro marmo, il piombo riceverebbe grandissima ammaccatura, ed il marmo poca; se ambedue fossero acciajo, ambedue patirebbero, ma pochissimo. Ora nell’ammaccarsi i due corpi concorrenti, il centro del grave percuziente con moto grandemente impedito, discenderà per qualche spazio. E il tempo, o lo spazio di questa discesa impeditissima, è quello che si dà per effettuare l’estinzione dell’impeto.

Sul principio del contatto il moto, o impeto del percuziente, è tutto vivo; dopo aver superato un quarto della detta scesa impeditissima, se ne sarà estinta parte; quando sarà à mezzo dell’ammaccatura, ne sarà estinto più, avendo avuto più [p. 15 modifica]contrasto; in fine si riduce a non camminar più oltre, cioè ad aver perduto tutto l’impeto, e si riduce al punto della quiete senza moto alcuno, privo di tutta la velocità, che aveva acquistata nella caduta precedente. Così niuna materia del mondo risalterà, ma resterà dopo la percossa, e cedenza, immobile, e morta: se però qualche nuova causa non produce nuovo impeto, e nuovo momento di velocità nel mobile.

Abbiamo l’esempio nei projetti all’insù, nei quali l’impeto và mancando, e finalmente s’annichila tutto, perche egli opera in contrario, e gli si oppone la repugnanza della propria gravezza. Quando il projetto è giunto al punto sublime, l’impeto impresso è estinto tutto. Se nuova causa operante non producesse impeto nuovo, sarebbe sciocchezza aspettare, che il mobile ritornasse in giù, in virtù dell’impeto della projezione.

Si potrebbe opporre l’esperienza del pallone, ed altre cose, le quali mentre risaltano danno segno che l’impeto non si è estinto. Ma in favor nostro sarà non solo l’esperienza del pallone, ma anco di tutte l’altre materie corporee.

Ogni sorta di materia conviene, e s’accorda in questo, che tutte, o poco, o assai cedono alle percosse. Ma dall’altra parte poi son differenti in questo, che dopo la cedenza, e ammaccatura, alcune si restano ammaccate, alcune ritornano alla lor primiera costituzione.

Quelle che restano ammaccate come piombo, oro, terra molle, e cose simili, sieno pure scagliate con quanto impeto è mai possibile, per un piano, contro una parete a quello eretta, che mai torneranno indietro se non in quanto, o comprimessero qualche poco d’aria fra i pori del contatto, la quale compressa nel dilatarsi poi rispingesse il percuziente, o pure, che anco il piombo, e l’oro avessero qualche poco, benche insensibile, di quella virtù, che dopo l’ammaccatura rispinge la materia compressa al suo luogo di prima. Questo effetto però, quando sia, sarà pochissimo, e tanto più insensibile, quanto più il percuziente sarà materia cedente. Ciò sia detto per le projezioni, che si faranno sul piano ad angoli retti verso la detta parete opposta, ma quando si scagliasse ad angoli obbliqui per una linea inclinata, vedremmo far la reflessione, non per la linea, che fa l’angolo eguale a quello dell’incidenza, ma per una [p. 16 modifica]che, o tocca, o pochissimo si discosta dal piano eretto, come più volte ho esperimentato con palle di piombo e di terra. Non è però vero, che la percossa estingua quell’impeto, che è nel mobile, di direzione equidistante alla parete, ma solo smorza quello, che vi è di perpendicolare alla parete; perchè questo nell’urtare trova la contrarietà sua, cioè che gli impedisce il suo viaggio, ma quell’altro no.

L’altre materie risaltanti, come palle di legno, palle piene di lana compressa, e più d’ogni altra il pallone, hanno questa proprietà (e la causa è nota abbastanza) che la loro superficie compressa per qualunque violenza, ha forza di ritornare al suo stato di prima, ed anco con maggiore, e minore impeto, secondo che sarà stata maggiore, o minore la forza, che avrà calcata là dentro quell’aria imprigionata. Cade il pallone da alto, e nel percuotere riceve una tale ammaccatura, che gli spiana una parte della sua superficie; quando stà così l’impeto che aveva della caduta, è estinto tutto, avendo contrastato con tutta la repugnanza, che aveva la superficie, all’essere spianata in questa guisa. Ma perchè l’aria inclusa compressa di prima, ed ora maggiormente ricompressa, vuol ritornare allo stato suo, spinge con gran forza nel pavimento, e fa come quel barcaiuolo che stando in barca spinge lo scoglio, e pur non cammina lo scoglio, ma la barca. A quell’urto furioso dell’aria inclusa, il pallone si solleva per tanto spazio quanto fu la cedenza, e torna al suo primo stato in tempo insensibile, cioè con gran prestezza, e però con impeto, il quale, quando è concepito, si conserva per qualche tempo, e fa il balzo. Che l’impeto impresso nella caduta non sia quello, che fa risaltare il pallone, ci è l’esperienza manifesta. Caschi il pallone dal tetto sgonfio, cioè con quant’aria può naturalmente capire, ovvero pieno di crusca, o di fieno, che al sicuro non ribalzerà, ma resterà tutto l’impeto estinto ancorche sia maggiore come quando era pieno d’aria.

Quel che fa l’aria nel pallone, l’opera la lane nelle palle, l’aria ne pori del legno, o cose simili, che io non sò. L’istesso seguirà quando sia scagliato il piombo, o la terra sulla superficie dell’istesso pallone, o sulla pelle del tamburo. Risalterà il projetto, non già perchè gli resti più parte alcuna dell’im[p. 17 modifica]peto della projezione; ma solo perchè in lui si genera impeto nuovo dalla forza della pelle, che volendo tornar con prestezza alla sua costituzione, lo rispinge da se, come fa la corda dell’arco nello scagliar la saetta.

Ma seguitando le obbiezioni; potrebbesi opporre, che fin ora abbiamo scusato, per così dire, la codardia della percossa, la quale avendo in se forza infinita, non fa poi effetti se non piccoli. Ma chi la difenderà quand’ella non faccia operazione di sorte alcuna? O questo si, che si nega assolutamente; anzi asserisco, che niuna sorta di percossa tanto debole si può mai ritrovare, che non faccia effetto in qualunque gagliardissimo resistente. E chi diminuisse anco mille volte più la forza di quella debolissima percossa, ed invigorisse mille volte più la durezza del solidissimo repugnante, in ogni modo un colpo solo di quella percossa farebbe effetto in questo fortissimo resistente. Segno manifesto (quando ciò sia vero) che la forza della percossa sia infinita. Confesso che nelle percosse debolissime, non si conoscerà l’effetto d’un colpo, ne di dieci, ne anche di cento; ma però col progresso del tempo si vedrà ben l’operazione di molti; indizio, ed argomento evidentissimo, che il primo colpo operò. La dimostrazione è chiara. Imperciocchè se il primo non avesse operato cosa alcuna, adunque il secondo colpo si potrebbe chiamare, e considerar per primo: essendo poi il secondo eguale di forza al primo, e ritrovando il resistente nella medesima disposizione per appunto, ne esso ancora opererà cosa alcuna. Così proveremmo che nè il millesimo, nè il milionesimo, potrebbe giammai operare, se non avesse operato anco il primo. Che poi li molti operino, parli questa volta per me l’ingegnosissimo Ovidio. Qual cosa, dice egli, è più dura de’ sassi, o men dura dell’acqua?

Dura tamen molli saxa cavantur aqua.
Il ferro non è egli materia durissima? Nulla dimeno.
Ferreus assiduo consumitur annulus usu.

Rammentatevi fra l’anticaglie di Roma, o le porte di Agrippa, o le statue del Vaticano. Si vedono pure benché di bronzo durissimo consumate dal solo accostamento delle mani del popolo curioso, e devoto. Io quanto a me credo poi, che molto maggiore effetto avrebbero fatto in quei metalli, [p. 18 modifica]se non fossero stati toccamenti di mano, ma percosse di qualche grave.

Gli oppugnatori degli infiniti Indivisibili hanno abbondanti materia di contradire. Imperocche avendo un grave velocitato, maggior forza dopo la caduta da dieci braccia d’altezza, che dopo quella di due, seguirebbe che gli infiniti momenti di quella fossero, o più di numero, o maggiori di forza, che quelli di questa. Di forza no, perchè essendo dell’istesso grave, son tutti eguali; dunque saranno più di numero; e così un infinito sarebbe maggiore d’un altro.

Qui bisogna che io rimetta questa causa al foro del meraviglioso Fra Buonaventura Cavalieri, appresso al quale non solo non è assurdo, che un infinito sia maggiore d’un altro, ma è necessario. Che tutte le linee d’un parallelogrammo a tutte le linee d’un parallelogrammo minore, abbiano la medesima proporzione, che il parallelogrammo al parallelogrammo, benche sono infinite; e che tutti i cerchi d’un cilindro maggiore a tutti i cerchi d’un cilindro minore, sieno come il cilindro al cilindro, benche sono infiniti, appresso di lui son verità, che vanno fra i principi della sua dottrina. La nuova Geometria degli Indivisibili va per le mani de i dotti come miracolo di scienza; e per essa ha imparato il mondo, che i secoli d’Archimede, e d’Euclide furono gli anni dell’infanzia per la scienza della nostra adulta Geometria.

Che poi il medesimo grave dovesse esser sempre diverso da se stesso, potendo venir costituito con diversi, e diversi momenti di forza, secondo le maggiori, o minori cadute, io credo che sia una delle più evidenti verità, che si possano praticare nella Meccanica Filosofia. Mi maravigliava una volta come fosse possibile, che nella stadera il medesimo romano, solo coll’esser avvicinato, o allontanato dal sostegno, equiponderasse ora con quattro, ed ora con venti, ed ora con cento libbre di peso; finalmente l’assiduità dell’esperienza m’ha addomesticato quella maraviglia, che l’acutezza della Mattematica non potè mai diminuirmi colla dimostrazione. Basta che il peso assoluto de’ corpi naturali sia invariabile, e che nel commercio civile quando si pesano le mercanzie, non posino velocitate, ma quiescenti, che quanto al resto io credo, che nel medesimo [p. 19 modifica]corpo sia necessario concedere la varietà de i momenti, conforme che varie saranno, o le distanze dal centro della Libra, o le inclinazìoni de i piani, su quali si troverà, o i tempi delle cadute perpendicolari, che averà fatto. Siccome non si può dire diversificato da se stesso il medesimo corpo, per avere in se una volta più caldo che l’altra, o maggior lume, o più colorita tintura; così anco mi pare non possa inferirsi, che avendo or maggiore, or minor virtù di momento, sia variato, e mutato da quel che era prima, quanto alla quantità.

Ma che il momento interno de’ gravi cadenti vada continuamente crescendo, e moltiplicandosi, è manifesto dall’effetto stesso. Io domanderò qual’è la causa del moto de’ gravi all’ingiù? Certo non può esser altro che l’interna gravità, la quale se fusse sempre la medesima, ed invariabile, anco la velocità del moto doverebbe sempre esser eguale a se stessa; ma noi vediamo l’accrescimento troppo cospicuo nella velocità, adunque bisognerà concedere, che si accresca anco la causa. Se da questa soffitta pendesse uno spago lungo fin quì, ed all’estremità di esso fusse attaccata una palla di piombo, la quale formasse un pendolo. Immaginiamoci che detta palla venisse rimossa dal perpendicolo per trenta, o quaranta gradi del suo cerchio. Certo è che ella lasciata in libertà tornerà all’ingiù, reciprocando più volte l’andate, e le tornate: è anco certo, che con maggior velocità trascorrerà le infime parti del suo cerchio, che le più alte. Ma non dovrebbe egli seguire il contrario? Chi non sa che le infime parti del giro son le meno declivi di tutte l’altre? però la palla doverebbe correr per esse con minor velocità, che per le più alte, e più declivi (parlo della palla quando viene all’ingiù). Quì mi pare che bisogni necessariamente concedere, che mentre la palla passa per le bassissime parti del giro, sulle quali, per esser quasi orizontali, ell’ha pochissima inclinazione al moto, molto maggior momento abbia dentro di se, che non aveva sul principio del moto, quando discendeva per le più precipitose. E questo è certo, poichè mentre la palla arriva al bassissimo punto del suo viaggio, ha dentro di se conservati tutti quei momenti, che l’interna gravità ha prodotti in tutto il tempo del precedente movimento. [p. 20 modifica]

Qui non vorrei che e’ si facesse ricorso all’ajuto della velocità, per levar di possesso la moltiplicazione interna, e conservazione de’ momenti. La velocità ne’ gravi cadenti, altro non è, che un non so che posteriore, e propriamente un effetto causato da i momenti intrinsechi del corpo che discende: ma i momenti intrinsechi sono un certo che precedente, e son la vera, e l’unica causa della maggiore, e minor velocità, e possono stare, e sussistere da se stessi, senza l’ajuto, o compagnia di velocità alcuna. Ciò si vede ne’ gravi applicati alla Libra con diverse lontananze, ovvero posti sopra piani diversamente inclinati, dove hanno i diversi momenti in atto, ma le diverse velocità solo in potenza. Ma la velocità per se stessa non può già sussistere senza i momenti interni.

Sieno fin quì dette le opposizioni contro l’infinità della forza della percossa. L’esperienze che la favoriscono, e le invenzioni di quel famosissimo Vecchio eran queste. Egli mentre viveva in Padova fece far dimolti archi, tutti però di diversa gagliardezza. Prendeva poi il più debole di tutti, ed al mezzo della corda di esso sospendeva una palla di piombo di due oncie incirca, attaccata con un filo lungo, per esempio, un braccio, fermato l’arco in una morsa, alzava quella palla, e lasciandola ricadere, osservava, per via d’un vaso sonoro sottoposto, per quanto spazio l’impeto della palla incurvasse, e si tirasse dietro la corda dell’arco; noi supporremo che fusse intorno a quattro dita. Attaccava poi alla corda del medesimo arco, un peso quiescente tanto grande, che incurvasse, e tirasse giù la corda dell’arco per lo medesimo spazio di quattro dita, ed osservava che tal peso voleva essere circa dieci libbre; fatto questo, prendeva un altro arco più gagliardo del primo, alla corda di esso sospendeva la medesima palla di piombo col medesimo filo, e facendola cadere dalla medesima altezza, notava per quanto spazio ella attraesse la corda. Attaccava poi del piombo quiescente, tanto che facesse il medesimo effetto; e trovava, che non bastavano più quelle dieci libbre, che bastavano prima, ma volevano esser più di venti. Pigliando poi di mano in mano archi sempre più robusti, trovava che per agguagliar la forza di quella medesima palla di piombo, e di quella medesima caduta, sempre vi voleva maggiore, e mag[p. 21 modifica]gior peso, conforme che l’esperienza si fosse fatta con archi più, e più gagliardi. Adunque, diceva egli, se io piglierò un arco gagliardissimo, quella palla di piombo, che non passa due oncie, farà effetto equivalente a mille libbre di piombo. Pigliandosi poi un arco mille volte più gagliardo di quel gagliardissimo, quella medesima pallina farà effetto equivalente ad un milione di libbre di piombo; segno evidentissimo, che la forza di quel poco peso, e di quel braccio di caduta, è infinita.

Abbelliva egli le specolazioni della filosofia con ornamenti di erudizione. Assomigliava la forza della percossa a quei Cani generosi, i quali non degnavano di mostrare il lor valore nello steccato, contro bestie poco feroci; ma si fanno ben conoscere nello strangolar Leoni, e sbranar Elefanti.

Diversa dall’esperienza de gli archi, ma però simile di conseguenza, è quest’altra operazione, colla quale egli inferiva, che la forza d’ogni percossa sia infinita. Prendasi due palle di piombo eguali: pongasi l’una, e l’altra sopra l’incudine, e si faccia cadere sopra di esse un martello dell’altezza di un braccio. È certo che quel piombo si ammaccherà. Pongasi sopra quell’altra palla un peso quiescente tanto grande, che faccia la medesima ammaccatura, che nell’altra aveva fatta il martello, ed osservisi il peso sovraposto, che sarà, per esempio dieci libbre. Ora alcun crederebbe, che la forza di quella percossa fusse equivalente al momento di quelle dieci libbre di peso quiescente. Ma pensatelo voi. Prendasi i due medesimi pezzi di piombo egualmente ammaccati come stanno; se sopra uno di essi io poserò dieci libbre di peso quiescente, certa cosa è, che non si spianerà più di quello che sia; avendo egli già un’altra volta sostenuto il medesimo peso di dieci libbre. Ma se vi farò cadere il martello dalla medesima altezza come prima, farà ben nuova ammaccatura; e per agguagliar questa, bisognerà posare sopra l’altro pezzo di piombo, molto maggior peso, che quel di prima. E’ questo succederà sempre con progresso, sino in infinito. Dunque si potrà dar caso, che la forza di quella medesima percossa farà maggior effetto, che mille, anzi che un milione, e mille milioni di libbre di peso quiescente. Segno manifesto, che la forza della percossa sia infinita. Ad un altra tornata rinnuoveremo il tedio, e daremo ora fine al discorso.