Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/VIII. Dante

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Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - VIII. Dante

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Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - VII. Allegoria generale del poema dantesco Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - IX. Beatrice
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Lezione VIII


Dante è insieme l’uomo e quest’uomo, ed a questa condizione solo può essere, com’è, una concezione poetica. Egli è l’uomo dell’allegoria, l’uomo terreno, che si svincola da’ lacci della materia con l’aiuto della Ragione e della Fede. Ma rimane egli genere? E quando il poeta gli dá il nome di Dante Alighieri, non aggiunge egli al genere altro che un nome di battesimo? Non vedete che l’uomo è qui un individuo, e forse il piú possente individuo che la poesia abbia creato? ed in tutto il suo libero arbitrio, in tutte le sue opinioni e passioni? E per farsi simbolo qual parte della sua personalitá è stato egli costretto a gittar via? Egli ci è qui tutto intero, in tutto quello che è in lui di piú accidentale; e la Divina Commedia si può chiamar quasi un diario, nel quale giorno per giorno vedi scritta la sua storia intima in tutta la violenza, in tutte le contraddizioni della sua vita tempestosa, rifacendosi talora, come congettura il Foscolo, sopra il fatto, aggravando, colorendo, mutando secondo le nuove impressioni. Con tanto abbandono, con tanta efficacia ha egli nel suo poema scolpito se stesso che ivi meglio che ne’ biografi è a studiare la sua vita. Vediamo i biografi.

Dante o Durante nacque in Firenze l’anno i265; amò fanciullo con amore di uomo; giovane combattè a Campaldino; morta la sua amata, un anno dopo, il i29i, prese moglie ed ebbe sei figliuoli; entrò ne’ pubblici uffici; fu primo magistrato. [p. 51 modifica]della repubblica; fu ambasciatore a Roma: sbandito, andò ramingo in Italia, in Francia, in Inghilterra, peregrinando di cittá in cittá senza trovar mai pace e con l’occhio sempre rivolto verso la patria che non dovea piú rivedere; mori a Ravenna.

È questa la vita di Dante? Può esser questa la vita di un grande uomo e la vita di un uomo volgare; la vita di un uomo onesto e la vita di uno scellerato. I fatti per se stessi sono ciechi, ove ad essi non date l’occhio dell’intelligenza: la vita di un uomo è la storia della sua anima, meno quello ch’ei fa che quello ch’ei pensa e sente. Vediamo Dante quale egli si dipinge nelle sue poesie.

Ne’ nostri giovani anni sentiamo tutti confusamente agitarsi dentro di noi un mondo intero di forme e d’immagini, forme eteree e tremolanti, senza determinazione, senza limite, raggi di luce non ancora riflessa, non ancora graduata ne’ brillanti colori dell’iride, suoni staccati che non rendono ancora armonia. Ciascuno di noi ha sentito qualche volta in sé del cavaliere errante, ha sognato le sue fate, i suoi palagi d’oro, i suoi castelli incantati; ciascuno di noi ha avuto nella sua prima giovinezza, come canta Goethe, qualche dama a proteggere, qualche magia a disfare, qualche tristo a castigare; né altrove è l’incanto della poesia ariostesca, pittura schiettissima e vivace dell’etá giovanile del mondo moderno. Ma questo stato è transitorio; ben tosto la realtá ci toglie a questi sogni dorati, ed incomincia la serietá, l’austera prosa della vita. Nel solo poeta quel mondo fantastico interiore permane e si fa signore della sua anima, e gli tumultua al di dentro impaziente, cupido di luce e di vita, d’informare di sé tutto il creato. E quando la realtá vi contraddice, quando i poeti si abbattono in un mondo che non comprendono, che non li comprende, costretti a rimaner chiusi in sé in un vano fantasticare, essi si sentono incompiuti; e questo stato di negazione, del quale acquistano coscienza, è dolore, e si chiama la noia: è il santo dolore di Giacomo Leopardi. La noia è una malattia sconosciuta all’etá prima de’ popoli e degl’individui: il mondo è allora ancor nuovo, le illusioni sono ancor fresche e le speranze ancor verdi: l’universo è tutto una [p. 52 modifica]poesia giovane ancora, non inaridita dalla consuetudine, non disabbellita dal disinganno. Nella poesia di Dante nessun vestigio di questo male: la sua potente anima trabocca al di fuori immedesimata con le ire e gli amori e le speranze e gli errori de’ suoi contemporanei, ed egli muore in tutta la giovinezza delle sue illusioni e delle sue passioni. La vita di Dante incomincia da quel di che i suoi occhi s’incontrarono negli occhi di Beatrice. Ci ha nella vita dell’uomo un momento solenne, in cui l’anima si rivela a se stessa. Per molti questo tempo non vien mai: essi muoiono corpo. Eppure in questo lungo sonno dell’anima talora avviene che un súbito commovimento pubblico o privato la svegli d’un tratto; e il dissoluto giocatore diviene Mirabeau, ed il viaggiatore capriccioso e ignorante diviene Vittorio Alfieri. L’uomo ha bisogno del di fuori per sentirsi, per avere questa divina rivelazione di sé, per poter dire un bel di: — Ecco a che sono nato! — Quando Dante la seconda volta vide Beatrice, quando ricordò commosso la potente impressione che quella avea fatto sul suo animo ancora fanciullo, l’arte gli si rivelò e si senti poeta. L’amore è la piú possente musa, e rara è quella poesia ove non entri almeno come accessorio, raro quel poeta che non sia stato da esso ispirato; esso padre delle lingue moderne, primo sentimento della moderna poesia. Ed è ragione: perché nell’amore può principalmente il poeta individuare ed acquetare quel vago mondo di fantasmi che gli tumultua al di dentro: la patria, la gloria, la libertá, tanto possenti sull’anima, tu non puoi rappresentarle poeticamente, se loro non dai apparenza di persona; nel solo amore l’anima trova se stessa in un’altra anima; nel solo amore è realtá quello che altrove è allegoria e figura. Leggete la Vita Nuova, il primo racconto intimo de’ tempi moderni; leggete la lirica dantesca, cosí piena di Beatrice, cosí calda di passione; e non potrete credere a voi stessi, vedendo quanta possanza ha esercitato l’amore su di una grande anima. Voi non vi troverete vestigio di quell’ozioso fantasticare, di quel vano giuoco d’ingegno, che spesso notiamo ne’ lirici coetanei, talora nel Petrarca, quasi sempre ne’ suoi imitatori. Le sue canzoni ed i suoi sonetti hanno per fondamento [p. 53 modifica]un fatto reale, che, quasi focile, cava dalla sua anima vive scintille; un fatto di per sé insignificante e comune, ma di potentissimo effetto sul cuore degli amanti. Una parola, un saluto, uno sguardo basta a destare in lui ineffabili moti, estasi, visioni, rapimenti, delirii. Né è maraviglia, perché l’amore è infinito ed indivisibile; perché l’amante effettua nell’amato tutto se stesso, tutto il suo universo, ed un minimo nulla, un fiore, un guanto, un sorriso, un impercettibile moto fa risonare tutta la musica interiore, commove l’anima in tutta la sua infinitá.

Beatrice mori, e, dopo di averla rimpianta e cantata alcun tempo, la vita di Dante prese un indirizzo pratico e politico. A’ tranquilli studi, al fervente amore sottentrarono le domestiche cure e le torbide passioni della pubblica vita. A Dante artista succede Dante cittadino. E qui l’uomo suole rivelarsi a se stesso come carattere: egli acquista coscienza della sua personalitá e sforzasi d’imporla altrui. La personalitá talora s’infrange contro gli ostacoli, talora si serba invitta: nel che è posto quel che dicesi comunemente un gran carattere. Ma anche qui è a fare qualche differenza. Vi sono uomini di azione, nati per dominare, che sanno piegarsi per premere, servire per comandare, adulare, corteggiare, compiacere per essere adulati, corteggiati, compiaciuti alla loro volta, e che, guardando inflessibili ad uno scopo, sanno per via prendere mille ingannevoli aspetti: ora volpi, ora leoni; ora magnanimi, ora vili; ora clementi, ora crudeli; ora buoni, ora cattivi; incompresi dal volgo che li chiama mutabili, apostati, rinnegati, e consapevoli essi soli di esser sempre rimasti se stessi. Dante non avea questo carattere: egli non era nato per essere un capo-parte, e tenea piú del Catone che del Cesare: gli uomini di questa tempera nascono sventurati, ammirati sempre, ascoltati mai.

                                    Giusti son due, ma non vi sono intesi!                

Inflessibile e severo, fu Dante uomo di passione e di convinzione, o, se vi piace meglio, di passionata fede, e non seppe comprendere né perdonare né tollerare i vizi e gli errori de’ suoi [p. 54 modifica]contemporanei, né farne suo prò, né mescolarsi tra gl’interessi e le ipocrisie e le violenze per trarre di male bene, come è pur forza che facciano coloro che vogliono governare. Priore, ei fu costretto a sbandire i suoi migliori amici senza potere acquetare le civili discordie; ambasciatore presso Bonifazio, ei non riuscí che a farsi ingannare e addormentare, materia d’immortali ire, né potè impedire l’andata di Carlo, e vide a sé tolte le sostanze e la patria, ed a Firenze la libertá, prima quasi ancora che il sapesse. Ramingo, ei non serbò lungamente nel suo partito quel luogo che si conveniva al suo ingegno, e non potè farvi prevalere le sue opinioni, né seppe piegarsi alle altrui. Ben presto gli uomini gli vennero a noia, il mondo gli parve intollerabile e, come suole accadere, a lungo andare rimase solo, parte per se stesso. Il che molti gli attribuirono a lode: non fu in lui elezione, ma necessitá di natura. Chi vuol vivere in mezzo agli uomini deve accettarli quali sono, e chi vuol reggerli, deve comprenderli. Dante era troppo sdegnoso d’ogni viltá, troppo intollerante di ogni errore e di ogni vizio; a questi esseri solitari non appartiene il presente, ma l’avvenire è loro.

Toltosi all’azione, rifuggitosi negli studi, rimettea mano con piú accesa volontá alla Divina Commedia, la sola e vera sua azione, i cui effetti oltrepassano l’angusto giro de’ lini, degl’interessi e delle speranze di quel tempo, e non hanno per confine che l’uomo e il mondo. Ivi legava in un volume eterno, coi destini del genere umano, i suoi dolori, i suoi odii, le sue vendette, le sue convinzioni. E dissi odii e vendette, e dissi vero. Natura possente. Dante fu odiato ed odiò, fu offeso ed offese. Né io posso senza tristezza porre il giovane lirico accanto al maturo autore del divino poema. Nella sua lirica tu vedi un uomo a cui il mondo è ancora straniero, a cui tutto ride, tutto luce; tutto il suo universo sono gli occhi di una donna, nella vergine anima non cape altro sentimento che amore, e in tanti versi tu non trovi una sola parola di odio, di dispetto, di rancore. La giovinezza è santa, e sembra serbi memoria ancora fresca della divina sua origine; è l’etá piú pura e piú generosa della vita. Ed ora quanto mutato! [p. 55 modifica]

Il suo orizzonte si è dilargato; molte cittá, molti uomini ha conosciuto; corti, consigli, popoli, i diversi caratteri, le cozzanti passioni, gli artificii e le maschere del viver civile, tutta l’umana realtá gli sta dinanzi aperta come un libro; né ci ha latebra tanto riposta del cuore, ove il sagace suo sguardo non sia penetrato: ha potuto finora scriver sonetti e canzoni; esperto della vita, può ora scrivere un’epopea. Ma troppo amara è la scienza del bene e del male: il mondo in cui mescolavasi il poeta gittava nel suo animo una profonda turbazione: — Che cerchi? — gli domandava un frate: e il vecchio e stanco fiorentino rispondea: — Pace! — ; né la trovò se non per morte. L’uomo ha nel fondo del suo cuore il germe di tutte le passioni, che vi giacciono sopite infino a che alla prima scintilla scoppiano fuori con un impeto, di cui egli stesso si maraviglia. Le agitazioni civili svegliarono in Dante passioni prima ignote, e violentissime e fatte ancora piú acri dalla sventura. Beati quei tempi ne’ quali il poeta con imperturbata calma poteva rappresentare le ire di Achille! Beato l’artista greco che poteva abbandonarsi alla contemplazione della bellezza senza che il grido profano d’interessi mondani venisse a turbare la serena armonia delle sue facoltá! Vi sono tempi, ne’ quali la penna del poeta dev’essere una spada tagliente. La poesia di Dante è una battaglia ch’egli dá a’suoi awersarii: il mondo ch’egli descrive è un teatro, nel quale egli stesso rappresenta una parte, e canta e milita ad un tempo: è Omero, che è egli stesso Achille. Nondimeno l’uomo nuovo non cancellò l’uomo antico. Né è a dire quanto tesoro di amore si nasconda sotto a quelle ire e quanta dolcezza sotto a quella violenza. I suoi biografi non ci rappresentano che un lato solo del suo carattere; i piú lo vogliono fiero, sdegnoso, vendicativo, tanto che è stato bisogno di dimostrare il suo amor patrio; altri, togliendo a difenderlo, ci mostrano ogni suo minimo detto coniorme alla storica veritá ed alla giustizia; e quando leggo la sua vita dettata da Cesare Balbo, io veggo di sotto la penna di questo scrittore, di una severitá tanto amabile e di una temperanza si dignitosa, uscire a poco a poco fa figura di Dante come di una colomba spirante tutto amore e [p. 56 modifica]gentilezza e benignitá. Dante non è stato né l’uno, né l’altro, o per dir meglio, è stato l’uno e l’altro. Uomo di passione e d’impeto, natura schietta e primitiva, che abbandona tutta la sua anima alla impressione fuggevole del momento, tanto terribile allor che si adira, quanto pietoso allor che s’intenerisce; coloro i quali vanno pescando una logica connessione nelle varie apostrofi e sentenze fuggitegli dalla penna, gittano via la fatica ed il tempo. E colui mi scriverá una vera vita di Dante, il quale, uscendo una volta dalla polemica che ci sospinge sempre nel punto opposto a quello scelto dal nostro avversario, ci ritragga Dante non obliquamente, ma di fronte, tutto intero qual è, in tutto quel suo doloroso alternare dall’amore all’odio, dalla speranza alla disperazione, portando nell’amore tutta l’energia ch’egli porta nell’odio, concependo insieme inferno e paradiso, Francesca e Filippo Argenti, Farinata e Cavalcanti, oggi chiamando i suoi concittadini «bestie fiesolane», e dimani esclamando pietosamente: «popule mi, quid feci tibi?».

Chi di voi può dirmi che Dante, questa individualitá cosí ricca, cosí vivace, sia un essere simbolico? Ciò è troppo assurdo. Onde alcuni affermano di lui, come di Beatrice, che talora sia realtá, talora simbolo, e che appunto in questo indefinibile, in questo ondeggiamento stia la bellezza poetica. Ma ciò non ha senso. Dante mero simbolo è una concezione astratta e prosaica; Dante mera realtá è una concezione empirica e prosaica. Amendue le ipotesi sono contrarie alla natura, contrarie alla poesia. Dante dev’essere a un tempo realtá e simbolo, corpo e spirito: quello che voi chiamate concetto simbolico, dev’essere non un pensiero, ma il suo pensiero, non un ideale, ma il suo ideale: v’è in Dante l’elemento uomo, l’homo sum, che non distrugge la sua personalitá, anzi non può farne senza.

Nel mondo soprasensibile la realtá si dissolve e si fa ombra, e rimane nondimeno realtá; la societá del medio evo va a perdersi nella societá umana, e rimane nondimeno se stessa; l’individuo vanisce nel genere, e rimane nondimeno individuo; Dante è l’uomo, e rimane nondimeno il tale uomo: la poesia non è che a questa condizione. Considerate Dante cosí vivo e [p. 57 modifica]reale, com’io ve l’ho mostrato. Che cosa egli cerca nell’altro mondo? Cerca pace e salute, la libertá dello spirito.

                                         Libertá va cercando ch’è si cara.                

Cerca che il suo disio e il velle sia come ruota che ugualmente è mossa. Ma la via di salute non è privilegio di questo o quell’individuo: è concessa a tutto il genere umano: il mezzo per giungervi è comune. Sgombrate dal vostro animo i terrestri ardori, lasciatevi guidare dalla Ragione e dalla Fede, e sarete salvi. Dante, parlando di se stesso, ha mirato egli piú alto? Nella sua redenzione ha egli rappresentato la redenzione dell’uomo? È fuori di dubbio: Pietro Alighieri l’ha notato il primo. Il qual concetto generale non si cava, raffrontando i particolari individuali con le qualitá del pensiero sottinteso; ché non vi è somiglianza; né qui vi è orma di questa specie di allegoria: e neppure astraendo da Dante ciò ch’egli ha di personale; ché cosí voi me lo annullate. L’umano lampeggia sotto il personale, l’uomo sotto l’individuo, l’idea sotto la realtá. E però nel passaggio miracoloso dell’Acheronte, nelle parole di Virgilio a’ demòni resistenti, a’ rimbrotti dell’angiolo, che disserra le porte di Dite, ogniqualvolta il poeta passa di uno stato in un altro, avanzando nella via del bene, tu non trovi niente di particolare che si riferisca unicamente a Dante. E parimente la volontá divina vi è annunziata in maniera generale, come guidatrice e redentrice dell’uomo ch’ella toglie al demonio. Dante sparisce di mezzo: sono in presenza Dio e il demonio, il bene e il male.

                                         Vuolsi cosí colá dove si puote
Ciò che si vuole, e piú non dimandare.
               

E, per dirne un’altra, credete voi che quando l’angiolo incide sulla fronte del poeta le sette P, questo essere carico di tutt’e sette i peccati mortali sia Dante? Certo è Dante non per quello ch’egli ha in sé di proprio, ma per quello ch’egli ha di umano in quanto uomo, il quale per la [p. 58 modifica]colpa di origine contiene in sé il germe d’ogni peccato, onde si dee redimere con la penitenza, col fuoco purgante. Adunque qua e lá traspare il generale, l’umano; ma Dante ha saputo cosí farlo suo, ma esso è sceso in una personalitá cosí varia e cosí piena che vi ha perduto in gran parte la sua astrattezza. E dico in gran parte, perché gli orientali guardano principalmente che l’emblema o la figura risponda pienamente al figurato senza darsi altrimenti pensiero della bellezza: nei greci l’amore e lo studio delle belle forme giunge a tale che il concetto non di rado si smarrisce e quasi si obblia, laddove le concezioni dantesche non possono dirsi né astrattamente simboliche né schiettamente estetiche. Il poeta non perde giammai la coscienza del generale come generale; il che altera alcuna volta la purezza e la ingenuitá delle sue fantasie e lascia il lettore freddo e perplesso; ma questo difetto cosí comune a’ moderni è in lui largamente ristorato dalla onnipotente immaginazione.

Lo stesso diremo de’ mezzi de’ quali si vale il poeta per la sua redenzione. L’uomo per salvarsi ha bisogno della Ragione e della Fede. Ma siccome l’uomo diviene qui un individuo, cosí la Ragione e la Fede non sono né idee astratte né personificazioni, ma vere persone.