Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/XX. Francesca da Rimini

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Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XX. Francesca da Rimini

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Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XIX. Fusione dei vari elementi nel Canto III Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XXI. Farinata
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Lezione XX

[FRANCESCA DA RIMINI]


— Perché Dante ha raccontato con tanto affetto i casi dí Francesca da Rimini? — Perché, risponde il Foscolo, Dante ha abitato in casa di Guido da Polenta, padre della giovane, e forse vide la camera dove dimorò la donzella prima di maritarsi, e forse udí narrare il pietoso accidente dalla famiglia e dovè in quella prima impressione concepire quest’episodio, che poi di anno in anno andò toccando e ritoccando insino a che non l’ebbe condotto a perfezione. — E perché il poeta ha gittate nell’ombra il peccato, e dato rilievo alla passione? — Per delicatezza e per gratitudine, risponde il Foscolo; perché accolto ospite in casa il padre, gli sapea male di doverne infamar la figliuola. — E perché, volendo giustificarla, non ha fatto menzione di una circostanza di tanto momento, storia o tradizione ch’ella fosse, cioè a dire del perfido inganno in che fu tratta la misera che si credea di sposar Paolo, e solo la mattina svegliandosi si accorse di avere accanto il deforme e sciancato Lanciotto? — Perché una rappresentazione ideale, risponde il Foscolo, non dovea esser sovraccaricata di accidenti reali che ne avrebbero alterata la purezza. — E perché Dante ha uniti insieme nell’inferno i due amanti? — Perché per sf lieve fallo non sono a dir propriamente dannati, risponde Ginguené; e perché, corregge il Foscolo, il loro fallo è stato anzi ben grave, se si pon mente al verso con che si chiude il racconto; e nondimeno Dio nella sua misericordia volle aver riguardo a tanto amore e scemare la [p. 138 modifica]pena, concedendo loro di potersi amare anche nell’inferno. — E perché quel paragone delle colombe? — Perché sono animali lussuriosissimi, salta su un interprete. — E perché il poeta fa parlare Francesca e tacer Paolo? — Perché le donne, risponde con poca galanteria il Magalotti, sono di lor natura ciarliere; e perché, ripiglia il Foscolo che ha il torto di prendere sul serio tali futilitá, le donne quando sono appassionate sentono il bisogno di parlare e di disfogarsi. — E perché Dante sente tanto dolore che la mente gli si chiude «dinanzi alla pietá de’ due cognati»? — Perché, risponde insolentemente un altro, egli dovè ricordarsi di aver commesso un peccato di símil natura. —

Io non mi tratterrò a confutare queste assurde risposte, o per dir meglio questi assurdi perché; perché il torto qui non è di aver fatto queste risposte, ma di aver poste queste domande; il che avviene quando non sapendo cogliere l’intero della situazione, la mente si smarrisce nel caos de’ particolari. I quali, separati dal tronco ovvero dalla loro unitá, in cui è posta la loro ragion d’essere ed il loro significato, si sciolgono nell’arbitrario, e si prestano a questa o a quella supposizione gratuita come ei salta in capo al primo venuto. Sgombriamo il terreno di questi forse e di questi perché, di assurde spiegazioni e di assurde preoccupazioni storiche ed accostiamoci alla poesia col puro sentimento dell’arte.

La passione in senso stretto dicesi dell’amore; cupidigia d’oro, studio d’onore e di regno che altro sono che voglie a petto a lui? E queste voglie, quali esse si sieno, hanno virtú di gittar l’uomo in uno stato poetico, perché svegliano ed aguzzano le sue facoltá interiori, avvivano l’immaginazione, raffinano l’intelligenza, infiammano il sentimento. Ma l’obbietto delle nostre voglie è sempre un inanimato o un astratto; né questo si può rappresentare poeticamente se non simulando in lui una personalitá di cui è privo: poni un gruppo d’oro dinanzi all’avaro e costui palperá quelle monete e le bacerá e parlerá loro come se fossero persone; ed il Petrarca rappresentaci l’Italia sotto l’aspetto d’una vecchia oziosa e lenta, ed il Leopardi in sembianza di donna in catene sparsa di lividore e di sangue. Solo [p. 139 modifica]nell’amore è realtá quello che altrove è simulato: nel solo amore tu trovi un simile a te, un te stesso in un altro, un essere che ti comprende e ti risponde, un pensiero eco de’ tuoi pensieri; e però quello che giace in fondo a tutte le poesie è l’amore. L’amore ha anche nella poesia la sua storia: prima passionato e rozzo, a poco a poco si fa gentile e si compiace delle belle forme, e poi s’inebria di voluttá, e poi va sfumando nel manierato, nel galante, nel convenzionale, e la freschezza del primo linguaggio diviene un dizionario di moda. Dicono che Amore nudo in Grecia e nudo in Roma sia stato dalla poesia moderna ricoverto d’un velo candidissimo: in veritá che questo velo fu troppo denso ne’ primordii della nostra poesia: non di rado convenzionale e fattizio: spesso allegorico e metafisico. Di tanti sonetti amorosi non uno che parli al cuore: in luogo di rappresentare l’amore si disserta sull’amore. E lo stesso gentil Cino da Pistoia ha potuto dirozzare alquanto ma non colorare la nostra lingua; e sembra che la bella Selvaggia, della quale erasi invaghito, abbia avuto virtú d’illeggiadrire il suo spirito non d’infiammare il suo cuore.

Dante dovè sottostare a questo andazzo; e parecchi suoi sonetti ci ha, ne’ quali l’astruseria allegorica e platonica guasta la poesia: di che può far fede il noto sonetto che comincia:

                                                   Amore e cor gentil sono una cosa.
Dante sará poeta, quando dirá:
                              Amor che a cor gentil ratto s’apprende,
     
che esprime lo stesso pensiero, ma come fatto, ed un fatto che, quantunque in forma generale, contiene un’allusione delicata di colei che parla, la quale nella lode comune intende lodare il suo amante. Gloria di Dante è stata d’avere squarciato questo velo, mostrandoci nella Francesca da Rimini la passione nella sua integritá. Si afferma che nell’antica poesia l’amore è desiderio; e nella moderna sentimento: guardiamoci dal correr dietro a queste [p. 140 modifica]distinzioni sistematiche; le epoche storiche mal si misurano col solo compasso metafisico: il sentimento vuoto di desiderio, vuoto di corpo, degenera, come è degenerato, massime presso i francesi, in vacue sottigliezze, in declamazioni rettoriche, in analisi anatomiche. Gloria di Dante è stata d’averci mostrata intera la passione, desiderio intenso e pieno di voluttá, ma innalzato a sentimento, ma reso verginale dal velo che la natura stessa suole insegnare all’amore, dal velo della verecondia.

Francesca niente dissimula, niente ricopre; e chiama «bella persona» quello di che s’invaghí Paolo; e chiama «piacere» il sentimento che ancora non l’abbandona; e quando Paolo «la bocca le baciò tutto tremante», credete voi, o signori, che la carne di Paolo tremasse per paura? Ma insieme con questo trovi un sentimento che purifica ed un pudore che rivergina: talché a tanta gentilezza di linguaggio mal sai discernere se ti sta innanzi la colpevole Francesca o la ingenua Giulietta.

Chi è Francesca da Rimini? La Francesca di Dante è la Francesca della storia? Che cosa ha serbato il poeta, che cosa ha alterato della sua sembianza storica? Vane dispute queste: delle quali chi ha minimo senso di poesia se ne ride. Vi è una regione poetica la quale ci apparisce e sparisce in certi momenti ideali della nostra vita, quando vediamo tremolar nello.spazio una serie di giovani ed infortunate beltá che si tengono per mano, Giulietta ed Ofelia e Desdemona e Clara e Tecla e Medora, e Virginia ed Atala, ed Ermengarda e Silvia; giovinette immortali le quali godono una vita più salda e piú sicura e piú reale che non tutte le donne storiche realmente vissute; poiché l’ariditá della cronaca e la gravitá della storia toglie a queste tutta la vita intima, ed elle stanno come in lontananza da noi, e le vediamo in piazza e non le conosciamo in casa, e sappiamo le loro azioni ed ignoriamo il loro cuore, laddove con le altre ci sentiamo a fidanza e quasi dimestichi e familiari; ed elle ci si porgono amabili, e con un caro abbandono ci rivelano tante riposte gioie, tanti arcani dolori. Differentissime per qualitá accidentali, elle si rassomigliano tutte per un comun fato e per una comune natura; niente è in loro che resista, che reagisca, [p. 141 modifica]fragili fiori a cui ogni lieve soffio è mortale; gittate in un mondo che non comprendono e da cui non sono comprese, tu le vedi come Dante le rappresentò, «di qua, di lá, di su, di giú» menate dall’onda della loro passione; né possiamo senza strazio vederle nelle tragedie accostarsi piú e piú ridenti e spensierate a quell’abisso che elleno stesse si scavano, che tutti noi vediamo e che elleno sole non veggono, e dove va a profondare, prima ancora che sia gustata la vita, tanta gioventú e bellezza. Con questo comun fato s’accoppia una comune qualitá, quella squisita delicatezza di sentire che i nostri buoni padri del trecento chiamavano senza piú «gentilezza», e che oggi che la gentilezza è divenuta un cerimoniale e che le piú notili qualitá dello spirito si spiegano con la fisiologia, è detta barbaramente «impressionabilitá», lucido specchio che rende tutte le immagini che vengono dal di fuori. Questa delicatezza è la poesia della loro tragica morte; la loro sorte sarebbe troppo straziante, se elleno stesse non rabbellissero con la gentilezza de’ loro lamenti, con quella morbidezza e direi quasi mollezza femminile, in che è l’incanto di queste nature, e che si sente tanto bene nel verso:

                                    Farò come colui che piange e dice,      
che tutti sanno distinguere da un altro verso simile ma di ben altro accento:
                                    Parlare e lacrimar vedrá’ mi insieme.      

Ho io bisogno di aggiungere che, facendo io il ritratto di queste creature poetiche, ho fatto in veritá il ritratto di Francesca da Rimini, la prima concezione di tal sorta che sia apparsa nel mondo moderno? nella quale la delicatezza non giunge mai a raffinatezza, ed è congiunta e temperata con una amabile ingenuitá. Nessuna qualitá in lei volgare o malvagia, come odio, livore, vendetta, e neppure alcuna speciale qualitá buona; sembra che nel suo animo non possa farsi adito altro sentimento che l’amore: «Amore, Amore, Amore». E lo confessa [p. 142 modifica]francamente; né se ne duole né se ne pente né si giustifica, e non si pone ad argomentare contro di Dio. E qual maraviglia che essa non faccia menzione dell’inganno in cui fu condotta? Credete voi che si tratti qui di fare un processo, ed andarvi pescando delle circostanze attenuanti? Francesca è assai piú generosa e ti parla del suo amore con una candidezza da fanciulla: — «Paolo mi ha amata perché io era bella, ed io l’ho riamato perché mi compiaceva di essere amata e sentivo piacere del piacere di lui»: di tali cose, che le donne volgari non sogliono confessare neppure all’orecchio. E qual delicatezza ne’ suoi sentimenti! Un minimo atto di bontá che passa inosservato per gli animi rozzi, diviene un tesoro per un’anima delicata. Che cosa infine le avea detto Dante?

                                    .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  O anime affannate
[Venite a noi parlar, s’altri noi niega.]
     

Un interprete si maraviglia perché Dante qui non la prega per il suo amore, come gli avea consigliato Virgilio; ed un tal D’Aquino, traduttore latino del poema, si compiace d’aver corretto Dante. Che cosa è quell’interprete? che cosa è questo traduttore? Orecchi sordi, a far sentire i quali si richiede il suono del cannone. La sola parola «affannate» basta a Francesca da Rimini: è una voce viva di compassione che giugne al suo orecchio nel regno dove la pietade è morta, e nella prima impressione il suo primo pensiero è di pregare per l’uomo benigno Iddio, come solea fare in terra, e le sovviene che Dio non è piú il suo amico e che ella non ha piú il diiitto di volgere a Lui la preghiera. Chi di voi non ha sentito quanta dolorosa malinconia [ci sia] in questa preghiera condizionata che dal fondo dell’inferno manda uno spirito gentile? in questo rincrescimento ch’ella prova dell’inferno non per altro se non perché a lei è tolto di pregare per colui che le ha avuto compassione? E quando soggiugne appresso:

                                         Ma se a conoscer [la prima radice
Del nostro amor tu hai cotanto affetto.....]
     
[p. 143 modifica][i comentatori] notano: — Affetto qui è figura rettorica, e significa desiderio. — Gente senza cuore, e il genio che ha ispirato Dante in questa poesia è meno nella sua testa che nel suo cuore. Quando Francesca, sforzando la grammatica, dice «affetto», non è giá il desiderio che Dante ha di conoscere la sua storia che le si presenta dinanzi, ma l’affetto col quale esprime il suo desiderio, non avendo potuto sfuggire a quell’anima delicata il modo commovente col quale Dante chiamandola per nome le avea detto:
                                    .  .  .  .  .  Francesca, [i tuoi martiri
A lagrimar mi fanno tristo e pio.]
     

Tale è Francesca; e chi è Paolo? Non so. E se voi mi nominate Francesca io vi dirò: ha tale e tal carattere; e se voi mi nominate Paolo, io vi ripeterò pensandovi: non lo so. Paolo è la espressione muta di Francesca; la corda che freme quello che la parola parla; il gesto che accompagna la voce; l’uno parla, l’altro piange; il pianto dell’uno è la parola dell’altro: sono due colombe portate dallo stesso volere; tal che al primo udirli non sai quale parli e quale taccia, ed in tanta somiglianza ti par quasi che la stessa voce parta da tutti e due, e puoi ripetere con veritá quello che Dante ti dice:

                                    Queste parole da lor ci fûr pôrte.
Quando io intesi quell’anime offense...
     

E perché il poeta ha resi indivisibili questi due cuori? — Perché non sono dannati — risponde il Ginguené. Perché sono dannati, perché tutt’i peccatori dell’inferno dantesco serbano le stesse passioni, e perciò sono impenitenti e dannati; perché Filippo Argenti è nell’inferno cosí bestiale come fu in terra, e Capaneo bestemmia nell’inferno non altrimenti che in terra; perché Francesca ha amato ed ama ed amerá e non può non amare; perché l’infelice non sa risolversi a staccarsi [p. 144 modifica]dal cuore questo Paolo e lo ha sempre innanzi agli occhi; sentimento che il poeta ha rappresentato sensibilmente ponendole eternamente accanto il suo Paolo. Il qual concetto balenò innanzi a Silvio Pellico in uno de’ luoghi meglio indovinati della sua tragedia, quando ispirato da Dante pone in bocca a’ morenti le ultime parole:

                                         .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    Eterno
Martir sotterra ohimè ci aspetta!
     .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    Eterno
Fia il nostro amore.
     

Eternitá d’amore, eternitá di martirio. E voi credete che il poeta abbia voluto gittar nell’ombra il peccato? Ma voi scindete quello che è indivisibile; ma non vi è qui un minimo particolare sul quale non sia scritto «peccato». Francesca nel suo primo racconto lascia un’immensa lacuna: tra il suo innamoramento e la morte giace tutta una storia e la vereconda giovane si arretra e tace. Ma ben la sa Dante e rimane assorto e distratto, finché il poeta gli dice: — «Che pense?» — A che cosa pensava Dante? L’amore senza ostacolo è prosa arcadica o poesia pastorale, gli amori di Dafni e Cloe, il cui piú caro ornamento è la campestre ingenuitá. Ci ha piú specie di ostacoli: alcuni sono perituri ed accidentali, come l’ostacolo della nobiltá, o l’altro, oggi piú serio, l’ostacolo della borsa: quando vi si crede, la poesia è seria; e quando non vi si crede piú, la poesia comincia con una transazione, e vediamo nella fine comparire un messo, una lettera, un Deus ex machina, il quale ci annunzia che il creduto borghese ha nientemeno che tre quarti di nobiltá, o, se si tratta di danaro, che lo zio del giovane per buona ventura è morto e gli ha lasciato una buona ereditá. Questi lavori sieno serii quanto volete nella forma, e chiamateli pure drammi, commedie borghesi, commedie lacrimose, sono tutti comici nel fondo: comica è la passione che non sa levarsi al di sopra di questi ostacoli. Ci ha ostacoli piú serii che nascono da passioni, come divisioni di famiglie, divisioni [p. 145 modifica]politiche, ecc.; ed allora gli amanti hanno coscienza che la ragione è dal canto loro, e combattono contro ostacoli che son posti fuori di loro, e la tragedia si riduce a cozzo di contrarie passioni. Ma vi è un ostacolo insuperabile, il piú alto pathos della tragedia, il peccato; perché questo non è posto fuori, ma nell’anima stessa degli amanti. La passione è un infinito: ma il peccato è un altro infinito; ed amendue coesistono nella coscienza senza potersi distruggere l’un l’altro: distruggetemi il sentimento della colpa ed avrete una Cleopatra o una Semiramide, non una Francesca da Rimini. In lei è lotta senza termine, né può dire: — Io amo — senza che una voce non le risponda: — È peccato — ; né può questa voce parlarle, senza che nel costante pensiero non le si allacci la male allontanata immagine. E che cosa avviene allora? Innanzi agli altri si studiano le parole e gli sguardi; si vorrebbe celare non che ad altri a se stesso l’arcano del cuore; ma nel silenzio della stanza, nel segreto dell’anima si accarezza quella immagine, e si beve il dolce di que’ pensieri, e si nutrono que’ desiderii, insino a che non giunga il momento dell’obblio:

                                    Quanti dolci pensier, [quanto disio
Menò costoro al doloroso passo!]
     

È tutta la storia del peccato che il poeta ci fa intravedere. E nel racconto di Francesca qual valore ha mai quella storia se ne togli il peccato?

                                    Soli eravamo e senza alcun sospetto.      

Chi mai fa questa osservazione se non l’amore colpevole? E non osano di guardarsi e temono che i loro sguardi tradiscano quello che l’uno sa dell’altro e l’uno nasconde all’altro; e quando in alcuni punti della lettura veggono un’allusione al loro stato, uno stesso pensiero fa violenza, sforza, sospinge i loro sguardi, e gli occhi immemori s’incontrano, e non osano di sostenerli e li riabbassano, e la coscienza di essersi traditi si rivela nel volto che si scolora: [p. 146 modifica]

                                    Per piú fiate [gli occhi ci sospinse
Quella lettura, e scolorocci il viso.]
     

«Per piú fiate»: la lotta si ripete, è un resistere, e poi un obbliarsi, e poi un resistere ancora.

                                    Ma solo un punto fu quel che ci vinse.      

E non è vero; è una naturale illusione piena di veritá nella quale cade Francesca; non è un punto solo che li vinse: essi furono vinti a poco a poco; ed il giovine cade quando innanzi alla infiammata fantasia si presenta l’obbietto desiato, «argomento di sogno e di sospiro», non la bocca, no, e neppure la bocca ridente, come spiegano, ma il «riso», che è l’espressione, la poesia, il sentimento della bocca, qualche cosa d’incorporale che si vede errar fra le labbra e come staccato da esse, e che tu puoi vedere, ma non puoi toccare.

Rispettiamo, signori, quel velo che il poeta ha creduto di dover qui calare, e fermiamoci piuttosto sopra un’ultima pennellata potente la quale riassume tutta intera la situazione.

Francesca nel suo racconto si ricorda per poco del suo tempo felice e la sua fantasia rimane in quel giardino; ma quando giunge al punto che è vinta, la misera si riscuote e tra «questi» e «la bocca mi baciò», tra l’amante e il peccato le lampeggia di mezzo l’inferno, ed il tempo felice si congiunge con la miseria ed un momento d’obblio si continua nell’eternitá. Che cosa è questo? È gioia, è dolore? È gioia ed è tormento, è amore ed è peccato, è l’inferno ed è terra, è l’amarezza dell’amore che ha per dote l’inferno, è la voluttá dell’inferno che ha per soggiorno l’amore; è un sentimento complesso che non ha parola. E notatelo: in poesia non vi sono sentimenti semplici: ciascun sentimento se ne trae appresso mille altri: il cuore umano è un caos misterioso, nel quale l’amore siede accanto all’odio, ed accanto alla bontá la ferocia; e Medea può un momento prima, innamorata di Giasone, parerci un angelo d’amore, ed un momento appresso può scannare i suoi figli. [p. 147 modifica]Dante che comincia questo canto commosso; che usa le immagini piú delicate, quasi apparecchio alla scena; che al nome delle donne antiche e de’ cavalieri rimane per pietá quasi smarrito; che al primo racconto resta fuori di sé; e quando Virgilio gli ha parlato, non può rispondere subito, e risponde come trasognato e parlando a sé stesso, né può volgere il discorso a Francesca senza piangere; nella fine si abbandona come corpo morto, e non è la donna che parla, ma l’uomo che piange che fa su lui l’ultima impressione. In questa graduata espressione di pietá è egli necessario un perché? — Perché dovè ricordarsi di un peccato simile da lui commesso. — Questa grossolana spiegazione non ci rivela un uomo straniero nel chiostro ad ogni affetto umano e avvezzo a sentir colpe nel confessionale? Dante è l’eco dolorosa dell’inferno; un uomo vivo che porta laggiú un cuore di uomo e rende profondamente umana la poesia d’un regno invisibile.