Martirio de' Santi Padri del Monte Sinai e dell'eremo di Raitu/Incominciasi il Martirio de' Santi Padri

Da Wikisource.
Incominciasi il Martirio de' Santi Padri

../L'editore a chi legge IncludiIntestazione 23 gennaio 2021 25% Da definire

Incominciasi il Martirio de' Santi Padri
L'editore a chi legge
[p. 223 modifica]

incominciasi

IL MARTIRIO DE’ SANTI PADRI

del monte sinai e dell’eremo di raitu

composto da

AMMONIO MONACO

CAPITOLO PRIMO

Stando io un di nella mia celluzza presso ad Alessandria in un luogo che ha per nome Canopo, vennemi in pensiero d’andarmene in peregrinaggio nelle parti di Palestina, con ciò sia cosa che non mi sofferisse l’animo di vedere le persecuzioni e tirannie che erano fatte ai fedeli di Cristo, e quello nostro santissimo vescovo Piero il quale era costretto di rifuggire e nascondersi ora qua e ora lá, e impedito che e’ non potesse pascere la sua santa greggia. Appresso a questo, egli m’era nato in cuore uno disiderio grande di vedere quelli onorati luoghi, e la sepoltura e la resurrezione di Cristo signore nostro, e gli altri luoghi santi per li quali andava esso Cristo al tempo che e’ recava a fine i suoi misteri. E cosi venuto a quelli santi luoghi, e adorato che io gli ebbi, e preso molto diletto delle opere di Dio, e goduto di quelli santi luoghi, secondo che era stato il mio disiderio, anche mi dispuosi a dover vedere il monte Santo, acciocché ancora io fussi fatto degno di fargli onore: sicché messomi per lo diserto, e abbattutomi a una brigata di religiosi uomini che teneano quello medesimo viaggio, con esso loro insieme, si come piacque a Dio, andai quanto è [p. 224 modifica]a dire diciotto giornate, e venni al santo luogo. E fatto orazione, stetti pochi di, e mi pigliava piacere di quelli santi padri spirituali, imperciocché io per lo profitto dello spirito gli andava a trovare spesso alle loro celline. Ed era la virtú d’essi padri come séguita qui appresso. Tutta la settimana passavano in silenzio continuo, e la notte del sabato in sul barlume della domenica, si raunavano alla chiesa, e recitato le ore notturne, come egli aggiornava, participavano i salutiferi misteri di Cristo, infino a tanto che e’ si ritornavano ciascheduno a suo luogo. Egli erano a vedere angioli, con ciò sia cosa che e’ fussono smorti e disfatti, e quasi che incorporali dalla grande astinenza, come quelli che né vino né olio né pane usavano né altro che facesse a lussuria, ma pure alcuni pochi datteri, che sono a dire certe frutte, in tanto solamente che e’ sostentassono la necessitá del corpo: salvo che e’ serbavano alquanti pani appo il proposto del luogo per servigio de’ peregrini i quali colá capitavano per alcuno loro voto.

CAPITOLO SECONDO

Ora non andarono molti di, che repentemente e’ ci venne addosso uno stormo di saracini, morto che egli era il capo di loro tribú; e quanti trovarono per li casamenti che erano attorno a quella parte, tutti gli uccisono: ma le genti che stavano presso alla torre, come elle ebbono udito il romore e lo scompiglio, cosí ricoverarono dentro dalla fortezza in compagnia del santo padre il quale aveva nome Dula (e questi si era il proposto), come quello che era vero servo di Dio, e molti erano che lo chiamavano per nome Moisè, considerando la pazienza e la mansuetudine che esso dimostrava sopra tutti gli altri. Adunque ammazzarono in Getrabbi quanti vennono loro alle mani, che furono assai, e in Cabar e Codar altresi, e per tutte le circostanze del monte Santo, tutti missono a morte. E giunti lá dove noi eravamo, poco mancò che non ne uccidessono, avvenga che niuna contesa fusse loro fatta; se [p. 225 modifica]non che il pietoso Iddio, il quale si è usato di porgere la mano a quelli che lui cordialmente invocano, fece che in sul comignolo del Monte santo comparse uno grande fuoco, in tanto che la montagna si fu piena di fumo e i tagli delle fiamme correvano infino al cielo. E noi sbigottiti di quello grande miracolo, faccendo orazione a Dio che menassene a salvamento di quella fortuna, avvenne che ancora i barbari, per la novitá di quello incendio, cotale spavento presono che e’ non missono tempo in mezzo, e lasciato le armi e i cammelli, tutti a un tratto si fuggirono.

CAPITOLO TERZO

La qual cosa veggendo noi di sopra il castello, demmo gloria a Dio, il quale non lascia perire qualunque è che lui fedelmente invoca, e scesi giú della torre, cercando quale e dove fusse stato ucciso, montáro i nomi de’ padri morti di quella sciagura infino a trentotto; i quali erano feriti tra d’una o d’altra maniera di piaghe in diverse membra; ma il modo come egli erano venuti a morte, niuno fu che ridire lo potesse, con ciò sia che niuno si fusse trovato a vedere il caso: e questi si furono in Getrabbi infino a’ dodici, e gli altri infino a’ trentotto in diverse parti. Anche furono il padre Esaia e ’l padre Saba i quali traevano ancora il fiato, pognamo che e’ fussono feriti. E cosí, fatto le esequie a’ defunti con grande corrotto e lagrime, ponemmoci dattorno agl’infermi. Perciocché quale è si disumanato e sviscerato uomo che egli non fusse stato tocco di grande pietá e cordoglio a vedere uomini santi e onorati vecchi prostesi in terra, col capo spiccato dal busto per modo che e’ si teneva solo alle pelle, e chi spartito per lo mezzo, e alcuni a’ quali per la grande percossa sostenuta nel capo, le pallotte degli occhi fuori delle occhiaie penzolavano, e tale altro, mozzo le mani e i piedi, rivesciato in terra si come è a vedere un fusto di legno? Ma per certo niuno è che bastasse a potere spiegare quello che a noi venne veduto mentre [p. 226 modifica]che trattavamo i corpi de’ santi padri. Ora quanto si è a’ due fratelli infermi, l’uno d’essi, ciò è a dire Esaia, la sera del giorno vegnente passò di questa vita. L’altro, ciò fu il padre Saba, come quello che non portava molto pericolo dalla piaga ed era in isperanza di guarigione, rendeva grazie a Dio delle cose che gli erano intervenute, e stava pure di mala voglia, come e’ non fusse fatto degno della compagnia de’ Santi, e però piangendo diceva: ’ Sconsolato a me peccatore, sconsolato a me indegno del coro de’ santi Padri che sono morti per amore di Cristo! Imperciocché io sono stato rigettato in sulla undecima ora, e io ho veduto il porto del regno e io non sono entrato dentro’. Ancora diceva: e O Dio Padre onnipotente, il quale mandasti il tuo Figliuolo unigenito per la salute del mondo, il quale se’ buono e misericordioso, non volere che io sia scompagnato dalla schiera de’ santi Padri che avanti di me sono morti, ma si bene che io compia il quarantesimo novero de’ servi tuoi. O signore Giesú Cristo, esaudisci la mia orazione, il quale amai e seguitai te infino dall’ora del mio nascimento, avvenga che io mi sia peccatore e immondo E detto questo con tanto animo, rendette lo spirito a Dio quattro giorni di poi la morte de’ Santi, la quale avvenne il secondo di del mese di Tibi.

CAPITOLO QUARTO

Ora ecco, in quella che noi stavamo ancora con grande amaritudine e pianto della morte de’ Padri, venne uno Ismaelita dicendo come tutti i monaci dell’eremo piú addentro, il quale si chiama di Raitu, erano stati uccisi da’mori. Ed è il sito di questo eremo in sulla piaggia del Mare rosso, due giornate dal Monte santo; e avvi dodici fontane e settanta palme, secondo che dice la Scrittura, se non che elle oggi si veggono essere inultiplicate in processo di tempo. E dimandato colui del modo come egli erano stati uccisi, e quanti, rispuose che non sapeva, ma solo aveva udito dire che i monaci che nel predetto luogo abitavano, erano stati messi a morte. Veramente [p. 227 modifica]andò il grido attorno, e altri eziandio vennono e rapportarono quelle stesse cose. E ivi a pochi di venne uno monaco di quello eramo, volendosi fermare nel Monte santo, con ciò fusse cosa che i blemmi avessono disfatto l’eremo suo. E vedutolo il padre Dula, raccolselo di buona voglia: e dimandavamolo che e’ ne dovesse raccontare per ordine il caso di quelli santi padri, e come e’ fusse campato dalle mani de’ barbari, e le virtudi e opere di quelli santi.

CAPITOLO QUINTO

Adunque esso incominciò a raccontare, e disse come, egli non è grande spazio di tempo che io dimorava nell’eremo, con ciò sia cosa che e’ potrá essere da poi che io venni quivi ad abitare, circa di vent’anni, dove che alcuni erano i quali infino da quaranta e cinquanta e sessanta anni addietro, stavano nel predetto ermo. Tutto il luogo si è piano e campestre, e per lo lungo corre infino a grandissimo tratto verso mezzodi, e per lo largo fa dodicimila passi. Da levante ha una ordinanza di montagne in forma d’una muraglia, tale che l’uomo, salvo se e’ non è pratico del paese, no ’l puote mai penetrare. Da ponente confina col Mare rosso, il quale si come egli è il grido, aggiugne infino all’oceano. A questo mare sovrasta una montagna, e da questa montagna scendono dodici fontane che annaffiano grande moltitudine di palme. Ancora sono a poco intervallo altri pozzi e fiumicini, i quali danno acqua ad altre arbori di palma e discorrono a mano a mano su per la campagna infino al mare. In questo monte facevano loro stanza molti eremiti, i quali abitavano, secondo che dice l’Appostolo, per monti e spelunche e nelle rotture della terra; e loro chiesa non era in sullo stesso monte, ma quivi presso. Questi si erano veramente angioli in carne, con ciò sia cosa che e’ non curassono il corpo loro piú che se e’ fusse stato altrui, e non pure una virtude avessono, ma in tutte fussono provati. E se io volessi raccontare a una a una le battaglie e [p. 228 modifica]agonie di quelli santi uomini e le tentazioni fatte loro dal diavolo, per certo io non potrei, considerato la grande moltitudine di loro opere. Ma come io avrò tocco solamente una o due cose, lascierò stare, acciocché voi da queste prendiate argumento di tutte le altre.

CAPITOLO SESTO

Fu uno santo uomo di quella contrada chiamato Moisè, il quale veniva della terra di Faran, e insino da puerizia sempre vivette in solitudine, e perseverò in vita eremitica per ispazio di settantatré anni. Questi dimorò in sul monte, dentro d’una spelunca vicino alla chiesa, e fu novello Elia sanza alcuno dubbio, perciocché niuna cosa era la quale e’ dimandasse a Dio, che e’ non la impetrasse; ed ebbe virtú contra gli spiriti immondi e curò molti demoniaci, e si come piacque a Dio, tante infírmitadi sanò, che egli ebbe recato alla fede di Cristo quasi tutta la gente che sta in sui confini degl’ismaeliti della terra di Faran. La quale veggendo i segni e miracoli fatti da questo santo uomo, credeva in Giesu Cristo, e venuta alla santa chiesa cattolica, riceveva l’acqua del santo battesimo. E come è detto, molti liberò dello assediamento degl’immondi spiriti per la potenzia di Cristo. Mentre e’ fu nel romitorio, mai non gustò pane, pogniamo che certi se ne cibassono, imperciocché la gente della contrada procacciava frumento in Egitto, e fornivali d’alcuno poco pane, e in quello scambio toglieva di loro lavoríi e del frutto delle palme. Ora esso cibavasi di pochi datteri e beeva acqua, e ’l vestimento facevasi di quella buccia delle palme la quale si chiama sibinnio. Solitudine e silenzio amò quanto niuno altro, come che molto amorevolmente riceveva quelli che a lui venivano per loro quistioni e dubbi. Tutte l’ore del di vegghiava, se non solamente di poi l’officio notturno, che e’ prendeva un poco di sonno. In tempo di Quaresima, per insino a Pentecoste, mai non apriva l’usciuolo della spelunca, e non aveva dentro per lo suo [p. 229 modifica]nutrimento altro che venti datteri e uno sestiere d’acqua, li quali molte fiate, secondo che il suo converso diceva, guardò infino a tanto che e’ non ebbe aperto l’uscio della cellina. Adunque nel tempo di Quaresima fugli menato un demoniaco della terra di Faran acciò che e’ lo dovesse curare, il quale era capo della sua gente e aveva nome Obediano. E come esso fu arrivalo presso della cella del santo uomo quanto a uno stadio, incominciò l’immondo spirito a rompergli la gola, e con grande voce gridava e diceva: * Oimè che io non sono bastato a fare che questo vecchio si parta dalla regola sua pure uno momento di tempo \ E detto questo, usci del corpo di quello uomo, il quale subitamente fu guarito, e credette in Giesú Cristo con altri molti insieme i quali ancora non avevano ricevuto il santo battesimo, e ritornossene alla sua stanza sano, e per tanto e’ non ebbe veduto il servo di Cristo. E dove molte altre cose sarebbono a dire di questo santo uomo, tutte passerò via, con ciò sia che elle non fanno per questo tempo.

CAPITOLO SETTIMO

Ebbe il detto Moisè uno scoiaio di nome Soe, il quale nascette nelle parti di Tebaida e abitò piú sopra in sul monte anni quarantasei, né della regola del predetto santo uomo nulla cosa mutò, anzi fu come una impronta e una scolpitura del suo maestro. E in quello primo tempo che io mi presi a stare nell’ermo, puosimi per discepolo con questo Soe, ma per la sua grande austeritade presto dipartiminene, con ciò sia che io non potessi durare la sua ismodata penitenzia e macerazione della carne. Questi di poi fu messo a morte da’ barbari insieme cogli altri. E di quale di loro che io volessi fare menzione, si maggiori opere io potrei dire di quelle che io abbia detto. Ma lasciato pure tutte le altre, una sola dirò, avvenga che questa sia tanto fiera e mirabile che ella mai non convenga essere passata. Uno cotale Gioseppo, di nascimento elesio, dimorava nella pianura, discosto dalla marina forse duomila passi, lá [p. 230 modifica]dove e’ s’aveva fatto una casuccia di sua mano; e fu uomo savio e discreto, e fu perfetto in ogni cosa e pieno della grazia di Dio. Stava questo Gioseppo nel predetto luogo giá d’intorno di trent’anni, e aveva uno suo discepolo quivi dappresso in un altro abituro. A questo Gioseppo venne non so quale uomo a fare una sua quistione, e come e’ picchiava e niuno rispondeva, e guardando per gli spiragli dell’uscio, viddelo che egli si stava ritto in piede, e da imo a sommo tutto era in modo d’una fiamma di fuoco. Di che per lo grande spavento cadde in terra come morto; e poi che e’ fu stato cosí per ispazio d’un’ora, levossi e puosesi a sedere quivi appiè dell’uscio. E di questa cosa il vecchio, come quello che era assorto in contemplazione, niente s’avvedeva. E in capo di cinque ore, tornato in sembiante di uomo, aperse, e menò il fratello dentro; e, posti a sedere, dimandollo: ’Quando se’ tu venuto?’ il quale rispuose e disse: c Giá quattro ore e piú, ma per non ti noiare io non ho picchiato se non pur dianzi ’. E comprese il vecchio che quello uomo avea conosciuto le sue bisogne; e di ciò non fece parola con esso lui, ma soddisfattogli di ciascuno suo dimando, e liberatolo delle sue perplessitadi, rimandollo in pace; e di poi, temendo la gloria mondana, si fu fatto invisibile. Appresso a questo, venendo l’abate Gelasio, il quale era suo discepolo, come e’ no ’l trovò, e cercato molto e non trovandolo, con grande sconforto stettesi nella cella del santo vecchio. E passato sei anni, in sull’ora nona, senti battere all’uscio, e aperto, vidde lo abate, il quale stava di fuori: e maravigliando, si pensò che quello fusse uno spirito; ma però A niente isbigottito, disse: ’Ora, Padre’; e come quegli ebbe orato, ricevettelo con grande allegrezza; e abbracciatisi l’uno coll’altro, baciaronsi del bacio santo: e disse il vecchio: ’ bene hai fatto, o figliuolo, che la orazione m’hai dimandato innanzi a ogni cosa, imperocché molti sono i lacciuoli dello nemico ’. Alla qual parola rispondendo il fratello, disse: ’ Perché, o santo padre, pigliasti consiglio di partirti da’ tuoi compagni e me lasciare orfanello? Ecco, io stava con grande scontentamento per tua cagione ’. E ’l vecchio rispuose e disse: ’Il [p. 231 modifica]ché voi non mi uggiate veduto, sasselo Iddio. Ma non però di meno io mai per insino a ora non mi sono dilungato da questo luogo, e io non ho passato pure un di di domenica che io non abbia partecipato i misteri di Cristo E maravigliossi l’abate Gelasio come il vecchio entrando e uscendo, niuno l’avesse veduto. E disse a lui: ’ Come dunque vieni ora al tuo servo? 5 il quale rispondendo disse: * Oggi da questo corpo tristo io me ne vo al Signore. E io sono venuto a diporre questo corpo nelle tue mani, acciocché tu lo seppelliscili nel modo che tu vorrai, e che tu rendi alla terra quello che è suo \ E cosí, poi che egli ebbono ragionato lungamente dell’anima e de’ beni a venire, steso le mani e i piedi, si riposò in pace. Allora l’abate Gelasio correndo, tutti noi convocò. E venuti con ramicelli di palma e cantici, portammo quello sacro corpo, il quale fiammeggiava in viso d’una grande chiaritá di luce, e ponemmolo nella sepultura de’ santi Padri morti per lo addietro.

CAPITOLO OTTAVO

Ora potendo io, come detto è, raccontare molte piú cose, queste voglio che mi bastino, imperciocché il tempo richiede che io venga in ultimo a dire delle cose de’ barbari, le quali voi sopra ogni altra, come io bene m’avveggio, disiderate di udire. Vivevano adunque i santi padri, cosí perfetti di spirito, in grande povertá e disagio, con forte animo sostenendo per amore di Giesu Cristo il patimento e la corporale afflizione, sanza niuno difetto, intendendo a pregare e lodare il signore Iddio. Eravamo, tra tutti, quarantatré di novero, i quali stavamo in esercizio di virtudi ciascheduno da sé, noti soli a Dio, il quale conosce ancora le cose occulte. Ed ecco dall’altra riva del mare vennono due in su certi battelli strani, i quali battelli sono delle parti di Etiopia, e dissono che una mano di blemmi in su la piaggia di lá, fatto émpito, avevano tenuto uno cotale navilio, il quale era da Eia e stava in un porto della predetta piaggia. — E quelli blemmi volevano passare a Clisma. [p. 232 modifica]E a noi che eravamo in su quello navilio, dissono: ’ Toglietene su, e portatene a Clisina, e niuno di voi non ammazzeremo ’. E tanto promettemmo loro di fare: e aspettavamo il di che e’ traesse vento di Noto, che noi dovessimo sciòrre la nave dal porto. Ma in questo mezzo noi due di nottetempo, la buona mercé di Dio, siamo potuti fuggire dalle mani de’ barbari; e cosí vegnamo e annunziamovi che v’aggiate cura per questi pochi di e guardiate le anime vostre, che forse i barbari, passando di queste parti, non iscorressono qua, e tutti voi non uccidessono. E loro numero si è nel torno di trecento.

CAPITOLO NONO

Noi dunque, udito questo, ponemmo certi speculatori presso alla marina i quali n’avisassono se egli avessono veduto venire il navilio, e pregavamo Iddio che e’ disponesse quello che ne dovesse tornare in benefício deH’anime. L’altro giorno, in sull’ora del vespro, fu veduto il navilio, il quale veniva dirittamente verso noi a vele alte: per la qual cosa tutti i laici del paese de’ faraniti si missono in punto di combattere contro i blemmi per loro donne e figliuoli e per le mandrie de’ cammelli. E ragunaronsi circa a dugento fra tutti, sanza le donne e i fanciulli, a un luogo poco di lá dalle palme. E noi raccogliemmoci dentro la chiesa, la quale era murata d’intorno intorno d’opera di mattone alta quanto è due stature d’uomo. Or dunque i barbari, preso terra, scorgendogli i marinari, vennono infino presso alla costa di ponente della montagna, e ivi stettono quella notte, a poco andare dalle fontane. Fatto di, legato i marinari, lasciarongli in quello medesimo luogo, salvo uno, il quale missono a guardia della nave solo, acciò che e’ non potesse spiegare le vele, e puosono seco uno moro, e cosí vennono alle fontane. E in questo fattasi loro allo incontro la gente del paese, e’ s’abboccarono insieme a battaglia presso delle fonti e de’ collicelli, intra le fosse dell’acqua, e uno nugolo di saette volavano dall’uno lato e dall’altro. Ma i barbari, [p. 233 modifica]come quelli che di numero avevano grande vantaggio e bene erano esperti di guerra, in poca d’ora ebbono rotto e fugato i nostri; e perseguitandogli, n’uccisono infíno a centoquarantasette. Gli altri, parte correndo su per lo monte e parte appiattati infra gli arbori, providdono a loro scampo. E quelli ribaldi, predato le donne e i fanciulli, tenevangli quivi presso le fonti.

CAPITOLO DECIMO

E di subito sanza niuno indugio, come bestie salvatiche e indomite, vennono al castello nel quale noi eravamo, credendosi di trovare quivi molte ricchezze nascoste: e accerchiato il muro, schiamazzando e urlando per isconci modi, e in voci barbare minacciando, noi, per la istremitá del pericolo, venuti in grandissima ambascia e caduti d’animo, non sappiendo che ci fare, levavamo gli occhi a Dio e piagnevamo forte; e chi durava con grande cuore in quella stretta, chi piagneva, chi faccendo orazione rendeva grazie a Dio, chi sforzavasi d’innanimare il vicino, e tutti insieme con grandi voci gridavano: ’ Domine, miserere di noi ’. Qui levatosi su il nostro santissimo padre chiamato di nome Pagolo, il quale era da Petra, stando nel mezzo della congregazione, disse: ’ Ascoltate il mio parlare, padri e fratelli, il quale mi sono peccatore e minimo di tutti. Ben sapete che per amore di Giesú Cristo signore nostro siamo convenuti in questo diserto brutto e aspro, dipartendoci dalla vanita del mondo, a fare vita penitente e portare il giogo di Cristo, quantunque indegni e peccatori, in fame e sete e grandissima povertá e travaglio, dispregiando ogni utilitá e agiamento della vana e stolta vita, acciocché dovessimo avere luogo e parte nel regno d’esso Cristo. E per certo in questa medesima ora niente n’addiverrá che esso no ’l sappia e disponga. Adunque se egli ne vuole diliberare di questa vita misera e transitoria e levarne a stare con esso seco, molto debbiamocene rallegrare e ringraziarlo, e niente isconfortare, con [p. 234 modifica]ciò sia cosa che quale è maggiore diletto e dolcezza che vedere la gloria e la faccia di Cristo signore nostro? Ricordivi, padri e fratelli miei, come spesse fiate, seggendo e ragionando insieme, per beatissimi reputavamo quelli che al santo nome di Cristo rendettono testimonianza di martirio, e come tutti di buon cuore saremmo voluti essere in compagnia di quelli santi. Ora ecco dunque, o figliuoli, il tempo è venuto, e il vostro disiderio avrá fine, che insieme con esso loro, secondo che disperaste, abiterete in eterno nella vita a venire. E perciò non vogliate prendere affanno e rammaricarvi né spaventare, e non fate opera che a voi male si convegna; ma vestite fortezza, e la morte sostenete con buon animo, imperciocché il signore Iddio gradevolmente nel suo regno raccèttavi ’. Allora tutti rispondendo dicemmo: f Cosí come tu hai detto, venerabile padre, cosí faremo. Imperocché qual cambio potremo rendere al signore Iddio di tutto quello che e’ diede a noi? Veramente berremo il calice della salute e chiameremo il nome di Dio ’. E voltatosi il nostro santissimo padre inverso l’oriente, e levato gli occhi e le mani al cielo, mirando colassu nell’alto, disse: ’ Giesú Cristo signore e Dio onnipotente, il quale se’ la speranza e ’l refugio nostro, non dimenticare i servi tuoi, ma rimèmbrati della nostra meschinitá e miseria, e fortificane in questa necessitade, e l’anime di tutti noi ricevi per graziosa ostia in odore di suavitá; con ciò sia cosa che a te si convegna onore e gloria in questo di e sempre e ne’ secoli de’ secoli, amen ’. E replicando noi, amen, udendo tutti, venne come dallo altare una voce che diceva: * Venite a me tutti che siete affaticati e gravati, e io riposerovvi \ Della qual voce incominciammo a palpitare e tremare, e le ginocchia non ci potevano reggere, imperciocché, come dice il Signore, lo spirito è apparecchiato, ma la carne si è fiebole. E cosí disperati al tutto di questa vita, mirando fiso inverso il cielo, stavamo pure cogli occhi levati in alto. [p. 235 modifica]

CAPITOLO DECIMOPRIMO

E i barbari, niuno contrasto avendo, recarono certe travi lunghe, e per quelle montati in sulla muraglia, e spalancato la porta, in guisa di lupi famelici e di fiere selvagge, colle spade isguainate, s’avventarono dentro; e la prima cosa che feciono, preso uno monaco di nome Geremia, il quale sedeva in sul sogliare della chiesa, favellandogli per uno interprete, il quale si era l’uno di loro novero, impuosongli che mostrasse loro quale fusse il proposto. Alla qual parola il predetto monaco, mirando quelli visaggi barbari e quelle coltella ignude, niente impaurito, rispuose e disse: ’ Io di voi, scellerati uomini e nimici di Dio, veruna temenza aggio, e quello che cercate non vogliovi dimostrare, avvenga che e’ sia qui presso E maravigliati i barbari di tanta sicurtá e franchezza, come quello monaco nulla fusse ismarrito, anzi rampognatili arditamente, all’ultimo datogli di piglio, e legatogli le mani e i piedi, e spogliatolo tutto ignudo, missonlo come per segno, e lo incominciarono a saettare, e non si rimasono che e’ non ebbono lasciato parte del suo corpo che fusse ignuda. E cosí quello santo monaco valentemente portatosi incontra il diavolo, e conculcato infino alla morte la testa del serpente, imprima di tutti gli altri fu incoronato, e fu primizia de’ santi e nobile essemplo negli occhi loro.

CAPITOLO DEC IMOSECONDO

Le quali cose veggendo il nostro santissimo padre Pagolo, immantenente venne fuori allo incontro de’ barbari, gridando e dicendo come: ’ Io sono quello che voi cercate e disegnava sé col dito, mostrando come egli era quello che essi cercavano. E diedesi nelle mani de’ barbari, come prode servo di Cristo, nulla ispaurito, non pensando, le pene e i tormenti che quelli perversi uomini gli erano [p. 236 modifica]per fare avanti che e’ l’uccidessono. I quali messogli le mani sopra, dimandaronlo che insegnasse loro il luogo dove e’ tenesse celate le sue ricchezze. E quegli, si come era usato di favellare, cosí piacevolmente e per dolce modo rispuose e disse: ’ Credete a me, figliuoli miei, che per veritá io non ho cosa niuna se non se questo ciliccio vecchio e logoro che io porto addosso . E colla mano pigliando della sua tonacella, mostravane a quelli barbari. I quali picchiandogli il collo con certi sassi, e con loro frecce foracchiandogli il viso e le guance, dicevano: ’ Recane qua la tua roba 5 . E poiché lungamente ebbonlo martoriato e fattone beffe, a nulla riuscendo, trassongli a mezzo il capo uno fendente di spada; e quello sacro capo partito in due, rivesciossi di qua e di lá in su gli omeri del santo padre. Il quale, ancora tagliandolo e trafiggendolo i barbari di moltissime piaghe per tutta la persona, cadde morto appiè dell’altro padre ucciso, e fu secondo vincitore e trionfatore del diavolo, e come che grande e mirabile strazio avesse durato, mai non ebbe rammorbidito l’animo per niuno tormento.

CAPITOLO DECIMOTERZO

Ora io miserello, veggendo quello inumano scempio, e sparto il sangue de’ santi, e le loro interiora versate in terra, dalla grande temenza cercava pure un luogo dove io mi nascondessi e salvassimi. Erano quivi in un cantoncello da mano manca della chiesa certi rami di palme ammontati; e io nascosamente dai barbari, in quello che egli erano intorno al santo padre Pagolo, corsi e ripuosimi di sotto questi cotali rami, cosí discorrendo meco medesimo: c O che io camperrò dalle mani de’ barbari, o perché elli pure mi truovino, niuno maggior male che trarmi di vita non mi faranno; e pognamo che io mi rimanga e non mi nasconda, tanto m’addiverrá ’. Dopo questo i barbari, lasciato quelli due che elli avevano morti di fuori, concordevolmente urlando e menando le coltella [p. 237 modifica]per lo aere e tragettando le mani, corsono dentro della chiesa, e dettono cominciamento allo eccidio; e quale di loro in un modo e quali in un altro fedivano tutti quelli che egli scontravano, a questo dando in sul capo, a quello cacciavano tutta la spada nel ventre per insino alla manica, e ritraggevanla con esso tutte le interiora appiccate alla punta; e a chi per lo dosso piantavano la lancia nel cuore, ed e’ non l’avevano ritratta che ’l santo uomo era passato. E quello monaco queste cose narrando, piagneva a dirotta, e noi simigliantemente provocava a lamentare e piagnere.

CAPITOLO DECIMOQUARTO

Poi soggiunse: ’ Che dirò, fratelli carissimi? e come seguiterò di narrare quello che io viddi con questi propri occhi? Era quivi uno padre chiamato di nome Salatiello, il quale aveva uno suo parente monaco vissuto seco nell’eremo giá per ispazio forse di quindici anni, che quello buon vecchio avevasi notricato infino da piccioletto e ammaestrato della scienzia monacale e bene informato a combattere contro il nimico. E quelli barbari, veduto questo monacello, e come egli era giovanetto e aveva uno cotal viso gentile, seco dispuosono di serbarlo; e uno di loro, afferratolo colla mano, si il tirava al di fuori. Onde quello garzonetto veggendo come e’ non era fatto degno di morire insieme cogli altri santi, e come gli bisognava ire per compagno di quelli spietati e malvagi uomini, amaramente piagneva e traeva guai: e veduto ciò niente valere, pigliato grande animo, e gittato da sé ogni paura e viltade, arditamente correndo, arrappò il coltello di mano a un barbaro e con esso détte a uno di loro in sulla spalla, volendo fare che e’ si crucciassono e uccidessonlo. E veramente cosí fu; con ciò sia cosa che i barbari fortemente arrabbiati, stralunando gli occhi e strignendo i denti, a membro a membro tutto lo minuzzarono; il quale rideva e a gran voce gridando diceva: ’ Benedetto sia lo signore Iddio, il quale [p. 238 modifica]non mi die’ nelle mani de’ peccatori E dicendo questo, rendette l’anima a Dio; e morto ancora, fu percosso di molte piaghe per la persona. Questo monaco avea nome Sergio.

CAPITOLO DECIMOQUINTO

Sicché io queste cose veggendo, pregava il buono e pietoso Iddio che mi coprisse da quelli barbari, e loro accecasse per modo che essi non mi vedessono, acciò che io fussi salvo e dessi sepoltura ai corpi de’ santi uomini: i quali morendo sanza niuno contristamento, avevano piena la chiesa di sangue, godendo, e ringraziando Iddio, e tegnendo la mente rivolta inverso il cielo in esso Signore. E per questo modo, bene avendo retto la vita loro in sulla terra, come vivi templi di Dio altissimo, e lasciata ogni cosa temporale e corruttibile, e seguito solo Iddio, morirono di spada in diverse forme, e ora vivono colassi! in cielo mescolati ai cori degli angioli. Poiché i barbari si credettono avere ucciso tutti quanti, sperando trovare alcuna poca di roba, diedonsi a tastare per tutto, non sappiendo che quelli martiri niuno bene avevano in questa terra, con ciò sia cosa che ogni loro sustanzia fusse nell’altro mondo. E io veggendo questa cotale cosa, non restavami pure una gocciolina di sangue, ma giaceva quasi come morto, fermamente credendo che elli dovessono frugare in quelli rami di palme e cosí mi fussino per trovare. E tratto tratto piegando un cotal pocolino il capo tra li predetti rami, spiava quando venissono i barbari, veggendomi la morte davanti; e pregava Iddio che se a lui fusse piaciuto, che mi campasse. Vennono dunque i barbari anche colá, e veduto essere rami, nulla curandosene, tornarono addietro; imperciocché Iddio coperse loro gli occhi e la mente acciò che e’ non cercassono nel detto luogo. E da indi a poco, lasciato i corpi de’ Santi riversati in terra gli uni in sugli altri, ni una cosa avendo trovato che pigliare, tornaronsene alla fontane. [p. 239 modifica]

CAPITOLO DECIMOSESTO

E volendosi da capo imbarcare e tornare a Clisma, trovarono rotto il navilio: con ciò sia cosa che quello guardiano che e’ v’avevano lasciato, il quale era seguitatore di Cristo, nascosamente da quello barbaro che era rimaso con esso lui tagliato i canapi del navilio, percosselo in una secca e roppelo, e ammazzato quello moro, notando, venne a terra, e salvossi in sulla montagna. Scherniti dunque i barbari della loro speranza, non sappiendo che fare, non potendosi riducere alla loro contrada, vennono in grandissimo accoramento e affanno; e imprima per la smisurata niquitá e furia, dato di piglio a quelle donne e a quelli fanciulli che egli avevano riservato, le quali donne e i quali fanciulli erano grande moltitudine di persone, tutti gli ammazzarono; e fatto questo, accesono uno indicibile fuoco, e spietatamente arsono e consumarono quasi tutti gli arbori delle palme. E in questo mezzo che elli adoperavano queste cotali cose, molto isconfortandosi e tribolandosi per lo disiderio della patria; convennono da secento ismaeliti della terra di Faran, i quali tutti erano saettatori scelti, e avevano udito quello che era intervenuto: per la qual cosa i barbari, intendendo lo avvenimento di questi ismaeliti, s’apparecchiarono a cambattere, e ritrassonsi alcuna cosa inverso il mare. Azzuffaronsi gli uni e gli altri insieme in uno luogo piano nell’ora che nasceva il sole, e malamente saettavansi di qua e di lá: e i faraniti, come quelli che erano molti piú di numero, maggiore uccisione faceano. Ma i barbari niuna speranza avendo di poter fuggire e salvarsi, valentemente contrastavano, e reggevano la battaglia, la quale durò infino all’ora della nona. E morirono in questo di ottantaquattro uomini delle gente di Faran, e molti altri della medesima gente furono fediti. E i barbari morirono tutti quanti in quello medesimo luogo, niuno de’ quali aveva dato le spalle e niuno mossosi da quello cotale luogo che gli era toccato. [p. 240 modifica]

CAPITOLO DECIMOSETTIMO

Dunque io in quel tanto, preso un poco di sicurtá, uscito del mio nascondiglio, incominciai a ricercare i corpi de’ Santi che erano stati uccisi; e trovai che tutti erano passati, se non tre, i quali si chiamavano Domno, Andrea ed Orione. E primieramente Donino, ferito nel fianco d’una spaventevole piaga, giaceva in terra con grande spasimo. Andrea, come che molte piaghe avea ricevuto, per tutto questo non mori, con ciò sia che le dette piaghe non fussono mortali. Orione niuna piaga aveva, imperciocché il barbaro menògli colla spada un colpo da mano ritta, e la spada venne a dare nella parte manca, e non toccò la persona, avvenga che passasse il ciliccio. Onde quello barbaro, pensandosi averlo finito, lasciò stare questo, e volsesi contro un altro. E Orione gittatosi sopra i cadaveri degli uccisi, giaceva come fusse morto. Questi levatosi su, andava attorno insieme con esso meco palpando le reliquie de’ Santi, lamentando e piagnendo forte di quella sciagura. Dopo questo i faraniti, ucciso tutti i blemmi, lasciato i corpi ile’ barbari in sulla ripa del mare per cibo alle fiere e agli uccelli, tornaronsi, e raccolsono i corpi della loro gente che erano morti da prima e di poi, li quali erano grande numero, e feciono sopra loro uno maraviglioso pianto, e seppellitili appiè del monte in certe spelunche presso delle fontane, vennono a noi s’apparecchiarono di seppellire i corpi de’ Santi insieme con esso noi e con Obediano capo della loro gente. Ed entrati a raccòrre i predetti corpi, lacrimavamo e sospiravamo veggendo la greggia di Cristo prostrata in terra, a modo di pecorelle ammazzate dal lupo. Imperocché molti spaventevoli e orrende erano le uccisioni di quelli servi di Cristo e martiri, alcuno tagliato dall’omero in giú per insino al bellico, alcuno partito in due, altro diviso dalla cima del capo per insino al collo, e chi aveva le interiora metá nel ventre e metá spase per terra. Cosí adunque i santi martiri quale in uno e quale in altro modo piagati, passarono di questo secolo; e ora godono [p. 241 modifica]in cielo insieme cogli angioli: i quali santi, pognamo che avessono il corpo in terra, neentemeno ogni loro pensiero e conversazione si fu pure nel cielo, nulla curando di loro corpo, ma portando in esso la mortificazione di Cristo acciocché fussono vivificati nel secolo avvenire: e in tutta la loro vita conversarono virtuosamente per amore di Dio, e fu lo estremo d’essa vita uno accrescimento di virtude, con ciò sia cosa che elli fussono chiarificati per lo proprio sangue, e messi nell’ordine de’ martiri, imperciocché tutti questi santi furono uccisi per lo nome di Cristo. E ragunati che furono i corpi di tutti loro in un medesimo luogo, Obediano e gli altri principi della terra di Faran, recate certe vesti lucenti e preziose, acconciarono i predetti corpi, i quali furono trentanove, con ciò sia cosa che Domno, il quale era romano, ancora non fosse passato. E tutti quelli che erano quivi, presso de’ rami delle palme, vennono incontro ai santi corpi, e cantando salmi, con grande allegrezza, portarongli e ripuosongli dirimpetto al castello tutti insieme, salvo Domno. Il quale eziandio, in sul far della sera, rendette l’anima, e simigliantemente portaronlo e sotterraronlo, non insieme coi santi, ma in un altro luogo in disparte, vicino a loro, non volendo da capo aprire il sepolcro, e turbare le reliquie de’ santi martiri. Morirono questi valenti cavalieri di Cristo a di due del mese di Tibi, in sulla nona ora; ma secondo i romani, la memoria di questi santi si fa del mese di gennaio adi quattordici. L’abate Andrea ed Orione perseverarono a stare in quello eremo infino al presente, dubitando seco medesimi se elli vi dovessono rimanere o se elli se ne partissono. Ma io non potendo sostenere la calamitá della desolazione di quello luogo, e ’l compianto che v’era per li santi padri uccisi, venni qui da voi, come che il religioso uomo Obediano molto mi pregava che io mi dovessi rimanere quivi, promettendo che esso voleva venirci a vedere spesso, e servirci di buona voglia. Ma io non mi lasciai muovere a questi prieghi per le ragioni dette. Sono anche certe altre cose a noi addivenute, le quali io racconterovvi paratamente. Ora prego voi che per simile mi debbiate narrare quelle che sono state qui, poiché bene siete informati delle cose nostre. [p. 242 modifica]

CAPITOLO DECIMOTTAVO

E detto che noi gli avemmo ogni cosa, ciascheduno si maravigliò come tutti erano morti in un medesimo giorno, e come uno era il numero e si de’ santi che morirono nel monte Sinai e si di quelli che morirono in Raitu. E levatosi in piedi lo abate Dula, ciò era il proposto, disse: ’ Questi, o santissimi padri, come degni servi di Cristo ed eletti ministri suoi, furono fatti degni della letizia e del regno d’esso Cristo, e di poi tante battaglie e afflizioni e tentazioni, all’ultimo furono incoronati della corona de’ martiri, e vivono in grande onore e gloria. Ora noi leviamoci su, e a noi medesimi attendiamo, ringraziando il Signore Iddio il quale ci liberò dalle mani de’ barbari, e preghiamolo che ci conceda grazia d’avere a essere uccisi insieme coi santi martiri \ E queste parole dette, con ispirituali ragionamenti tutti noi consolò. Ed io umile fraticello Ammonio, fatto ricordo delle sopraddette cose in una carta, come Dio volle, tornamene alle parti d’Egitto, non in quello mio primo luogo il quale si chiama Canopo, ma vicino a Menfi in un abitacolo piccolissimo, nel quale io mi rimango e assiduamente leggo le istorie de’ valenti martiri di Cristo, godendo delle loro battaglie e passioni, a gloria del Padre e del Figliuolo e dello Spirito santo. Io Giovanni prete, come piacque a Dio, trovai questa leggenda in casa d’uno eremita vecchio, presso a Naucrate, la quale leggenda era scritta in lettera egiziaca; e traslataila in greco, secondo che di sopra si mostra, come bene intendente della lingua egiziaca, pigliandomi questa fatica a gloria de’ santi, insieme colli quali déaci il Signore Iddio parte nel suo regno. E tutti quelli che leggerete queste narrazioni de’santi martiri, orate per me peccatore. E sia gloria a Dio per tutti i secoli de’ secoli, amen.