Misteri di polizia/XXVI. I Teatri

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XXVI. I Teatri

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CAPITOLO XXVI.

I Teatri.

Il teatro drammatico, in Italia, fra la restaurazione del 1814 e la rivoluzione del 1848, fu dominato dalla figura di G. B. Niccolini, il solo scrittore di tragedie, dopo Vittorio Alfieri, che abbia saputo imporsi al pubblico in un genere, che la scuola romantica surta in Italia fra il 1819 e il 1820 aveva dichiarato morto e sepolto.

Naturalmente la censura imbavagliava gli scrittori anche sulle scene, ed abbiamo visto come il padre Bernardini deplorasse l’audacia invalsa nella penisola di asserragliarsi dietro gli endecasillabi sonori d’una tragedia per ricamare le più compassionevoli variazioni sul noto verso di Dante:


oppure sul sonetto del Filicaia:

„Italia Italia, a te cui feo la sorte.„


E il Niccolini, che da parte della madre discendeva appunto dal poeta patriotta del seicento, si servì del teatro per iscuotere dal sonno i suoi concittadini e per preparare gli animi a quella resurrezione del bel paese, a cui nè Dante, nè il Filicaia poterono assistere, ma a cui il poeta di Giovanni da Procida e di Arnaldo da Brescia potette inviare il suo saluto.

Peraltro, ogni rappresentazione di una nuova tragedia del Niccolini era per Firenze un avvenimento, non esclusivamente letterario. Il Governo lo capiva; lo capiva la censura; ma nè l’uno nè l’altra amavano ricorrere ai mezzi energici; e purchè certe apparenze fossero conservate, che [p. 208 modifica]certe convenienze non fossero poste in dimenticanza, le tragedie del Niccolini, con qualche taglio operato con garbo, vedevano i lumi della ribalta. L’Antonio Foscarini, recitato nel 1827 al teatro di via del Cocomero, destò ciò che nel gergo teatrale di tutti i tempi si è chiamato furore.

Il Niccolini, in quel suo lavoro, aveva bellamente e con armonia ammirabile fuso insieme i due generi che allora si disputavano il campo letterario: il genere classico e il genere romantico. Egli aveva saputo dimostrare non con un discorso accademico, o con un trattato, ma con un’opera d’arte, come non fosse impossibile fondere la tragedia dell’Alfieri col dramma dello Shakespeare, la teorica d’Aristotile con le dottrine svolte dal Manzoni nel suo famoso discorso sulle tre unità. Meno i soliti intransigenti, specie dei partigiani del vecchio sillabo classico, che per bocca del Monti avevano lanciato la loro brava scomunica contro l’Audace scuola boreal, tutti, e partigiani della vecchia scuola e partigiani della nuova, si trovarono unanimi a decretare l’apoteosi del poeta. Laonde la sera del 27 febbraio 1827, replicandosi per la terza volta il Foscarini con un successo straordinario, com’ebbe ad affermare lo stesso padre Mauro, gli ammiratori del Niccolini vollero distribuire al pubblico alcuni passaggi della tragedia che essi avevano fatto litografare. Ma al buon censore parve — e il naso fine non gli mancava — che quei versi fossero stati scelti quasi coll’intendimento di far rilevare la parte politica della tragedia; e da scrupoloso addormentatore dei pubblici teatrali e dei lettori, non permise che si facesse quella distribuzione. Ma gli amici del Niccolini, i quali sapevano che bisognava bussare per farsi aprire, non si smarrirono d’animo dinanzi a quel no, che non essendo stato pronunziato da Tamerlano, ma dalle labbra d’uno scolopio giulebbato, non poteva essere che discretamente innocuo; e pensarono d’aprire una pubblica sottoscrizione per coniare ed offrire una medaglia al poeta.

Il manifesto fu steso e portato alla censura; e il padre Mauro, dopo d’aver torto il niffolo a certe frasi, di cui volle ad ogni modo la soppressione, accordò il permesso. Egli, [p. 209 modifica]per esempio, non volle che vedessero la luce le seguenti parole: „Antonio Foscarini, fatto ora nome di gloria e di pubbliche reminiscenze, benchè condannato in un regolare Governo....„ In altri termini, il censore aveva paura che si sapesse che anche in un regolare Governo..... Al sagace lettore l’indovinare il resto.

Chiesto, in seguito, l’editore, il permesso di stampare la tragedia, il padre Mauro, nel suo rapporto del 4 marzo 1827, al Ministro dell’interno, fra le altre cose, osservò:

„Le molte sentenze politiche ed ardite riguardanti specialmente le forme governative.... fanno una spiacevole impressione e possono far nascere il sospetto che siano state scelte con un fine determinato; e quindi non volendosi sopprimere tutte perchè questo compenso includerebbe virtualmente la proibizione della stampa della tragedia, sembra inutile sopprimere l’una o l’altra, tanto più che non si porge un rimedio allo spirito con poche soppressioni. Altronde queste massime possono considerarsi come pensieri singolari estratti da diversi classici, che l’Autore ha avuto l’arte di rivestire di forma italiana sua propria. A ciò debbo aggiungere che la religione non è in alcun modo vilipesa... La tragedia è stata per cinque volte qui recitata ed applaudita... Ora è riprodotta sulle scene di Brescia, senza che la censura di quella città.... abbia fatto alcuna soppressione. Se però la tragedia è difettosa come vien detto, può facilmente supporsi che questi difetti siano rilevati, stampata che fosse, ed allora la produzione cada nell’opinione del pubblico, mentre all’opposto, se non fosse stampata acquisterebbe nuova stima anche per l’odiosità della proibizione.„ — E conchiudeva col rimessivo parere che fosse accordato il permesso „malgrado i versi:

„.... L’insana plebe estima
Iddio tiranno, ed il tiranno Dio.„

spiegabili, peraltro, in bocca di plebe fanatica.1
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Più gravi scrupoli destò nell’animo del censore e del capo della Polizia la rappresentazione del Giovanni da Procida pel carattere eminentemente politico del soggetto. Ma il solito — lasciate correre — del Fossombroni la vinse sulle paure messe fuori dai rigidi conservatori; e il permesso della rappresentazione fu dato. Giammai, come in occasione della recita del Procida, potè dirsi più opportuna e calzante la riflessione del povero padre Mauro, cioè, che gli scrittori di tragedie, sotto pretesto di fare un corso di storia antica o medioevale diviso in atti, e questi divisi in iscene, facevano un corso di storia contemporanea. Il ministro di Francia che assisteva alla rappresentazione da un palco insieme a quello di Sua Maestà Cesarea, ad un certo punto della recita, e quando gli endecasillabi del Niccolini nella loro sonorità che discendeva da quelli del Monti, colpivano in pieno petto la Francia, rivolto al suo collega, proferì le seguenti parole rimaste famose:

„Sig. Ministro, se l’indirizzo dei versi è per la Francia, il contenuto è per l’Austria.„

Nè s’ingannava. Quando il poeta chiese il permesso di stampare la tragedia, il padre Mauro gli rispose:

— No.

— O se la è stata recitata?

— Ho detto no, per una stampa della tragedia a parte; ma dirò sì pel caso in cui la si volesse stampare insieme alle altre sue sorelle.

— Scusi, ma non comprendo. ....

— Comprendo io, e basta. Stampata a parte la tragedia attirerebbe in modo particolare l’attenzione del pubblico e coll’attenzione del pubblico forse quella di qualcheduno.... che sta molto in alto.... La mi capisce, questa volta; non è vero? Stampata, all’incontro, insieme ad altre tre o quattro tragedie darebbe meno nell’occhio. Insomma, l’alta Polizia se n’è dovuta occupare....

— E colla sua sottile distinzione essa ha creduto di salvare il Granduca e i signori ministri, Dio sa da quale malanno! Ho capito.

— Finalmente! [p. 211 modifica]

— Il principe di Metternich....

— Per carità....

— Non fiaterò. Servitor suo!

Anche a Firenze, come a Milano, a Torino, a Roma, a Napoli, la gioventù, che i forti e solitari sognatori dell’unità e della libertà della patria avrebbero voluto dedita a studî severi, si prostrava di tanto in tanto dinanzi all’ugola vellutata d’un soprano o alle gambe d’acciaio d’una ballerina. Nel carnevale del 1842-43, la gioventù dorata fiorentina si divise in due campi, in occasione che in quella stagione ballavano al teatro della Pergola due dive: la Gusmane la Frassi. Parteggiavano per la prima i nobili, specie il duca di Casigliano, Adolfo Niccolini che la corteggiava, il conte Cicogna e il conte Celani, mentre per la seconda parteggiavano i cadetti; ma un bell’umore avendo fatto correre la voce che quest’ultimi avessero portato al Monte di Pietà la loro alta montura per comprare i regali che avevano offerto alla diva nella sua serata d’onore, i signori cadetti, i quali, peraltro, non avevano da spendere molto, ritirarono la loro protezione alla Frassi, che si ricoverò allora sotto le ali della gioventù borghese. I due partiti cercarono di schiacciarsi a vicenda sotto il peso dei regali che ciascuno di loro faceva alla propria diva. I nobili offrirono alla Gusman una ricca paniera d’arance e in ogni arancia avevano posto dentro uno zecchino, di guisa che la corteggiatissima donna poteva dire d’avere colto quelle frutta nel giardino delle Esperidi. Un’altra sera le offrirono una corona d’oro con rubini e turchesi del valore di oltre cento zecchini. Non diciamo nulla dei fiori, dei versi e degli accompagnamenti con fiaccole. Pareva che la gioventù di Firenze non vivesse che per un paio di gambe, in attesa che da un momento all’altro un astronomo, colla scoperta d’una nuova costellazione, questa intitolasse dalle [p. 212 modifica]estremità preziose della diva, inscrivendole sul libro del cielo, e un Callimaco in dodicesimo ne cantasse i pregi come il poeta greco aveva fatto colla chioma della regina d’Egitto. Ma l’astronomo non capitò in mezzo a quelle teste vuote; vi cascò come una bomba, all’incontro, coi suoi endecasillabi improntati ad un’amarezza profonda, un poeta, che scaraventò contro quella turba elegante di fiacchi e di corteggiatori i seguenti due sonetti:

Quando di guelfi sdegni e ghibellini,
     Italia mia, bolliva ogni tua parte,
     Bella crescea tra l’ire e il dubbio Marte
     Progenie di gagliardi cittadini.

Ma or che gloria aspetti o che destini,
     Tu che mancipio della mimica arte
     Si del prisco t’infiammi odio di parte
     Pei compri vezzi di tue scaltre Frini?

E tu sei la famosa itala donna
     A cui si piacque l’immortal tuo figlio
     Rendere il serto e ricuprar la gonna?

Oh mal si porge a tue lusinghe orecchio!
     Lo scettro no, ma con miglior consiglio
     Darti in mano dovea t’uso e pennecchio!



Nefando esempio di furor tu davi
     Italia, contro te fatta delira.
     Quando t’offese di Lamagna l’ira
     E il doppio incarco delle somme chiavi.

Ma quale ignoto al costume degli avi
     Folle desire a parteggiar ti tira?
     Per un piè che volubile si gira
     Pugnan fra loro i cittadini ignavi!

Oh nobil gara! E delle membra sparte
     Di tue città brami l’imperio a Roma
     Comporre e ristorare ogni tua parte?

Ancella vile, accorciati la chioma,
     Danza, gorgheggia con lascivia ed arte:
     Gran tempo ancor ti graverà la soma!

Altri entusiasmi, altri delirî per la Cerrito venuta a ballare a Firenze nel febbraio del 1844. Già, appena [p. 213 modifica]ch’ella ebbe posto il piede nella città de’ fiori, si formò intorno ad essa la leggenda. Si diceva che fosse arrivata accompagnata e seguita, come una regina, da due o tre principi e da quattro o cinque marchesi, tutti, si capisce, soggiogati dalla bellezza di quella figlia di Tersicore, e che il suo appartamento fosse addirittura quello d’una fata o d’una principessa orientale. Arazzi preziosi alle pareti, tappeti regalati dal Sultano di Costantinopoli e dallo Scià di Persia, sui pavimenti; brillanti, zaffiri, turchesi, rubini, smeraldi, da abbacinare la vista dappertutto. In realtà — come riferiva l’Ispettore di Polizia — era arrivata modestamente in vettura in compagnia del padre e d’una governante. Il suo appartamento era elegante, ma non principesco, e per colazione, pranzo e cena spendeva un luigi di ventotto lire al giorno. Poi la diva s’ammalò; e tutto un mondo di galanti e giovani zerbini s’affollò alla porta dell’albergo chiedendo notizie della silfide. Essa metteva un dente, quello del giudizio; e il popolo disse finalmente che la Cerrito doveva venire a Firenze per diventare una donna di giudizio. Un poeta, quelle dimostrazioni di gente frolla, mise in burletta in una certa poesia, dove vede, nell’avvenire, i cittadini di Firenze innalzare alla Cerrito un mausoleo in Santa Croce:

Su tosto innalzisi
     Ricco trofeo;
     E là fra i tumoli
     Del Galileo,
     Dell’Alighieri,
     Del grande Alfieri,
     Sia questo ancor.

E quei magnanimi
     Non fremeranno,
     Ma il nostro secolo
     Benediranno,
     Che riconosce
     Fin nelle coscie
     L’abilità.

Delle tragedie dell’Alfieri a due era assolutamente [p. 214 modifica]proibito di far capolino dalle scene toscane, Don Garzia e La Congiura dei Pazzi, probabilmente in omaggio della famiglia dei Medici, malgrado che i laudatori di casa Lorena, per fare spiccare vieppiù i meriti di questa, fossero usi bistrattare i discendenti di Cosimo I granduca, e facessero un quadro tristissimo delle condizioni della Toscana ai tempi degli ultimi principi di quella casa. La proibizione si estese anche ai teatri privati, e avendo appreso il Bologna, nel 1846, come in casa dell’avvocato Giuseppe Panattoni si volesse recitare il primo di codesti due lavori dell’Astigiano, chiamò a sè il Panattoni e con un lungo giro di parole gli fece comprendere come quella rappresentazione sarebbe riuscita sgradita al Governo. Il Panattoni, che ci aveva sulla coscienza una certa recita del Nabucco, del Niccolini, fatta precisamente in casa sua e con grave scandalo della Polizia alla presenza del Salvagnoli, di Celso Marzucchi, di Filippo de Boni e d’altre teste sventate, capì a volo; e il Don Garzia non fu rappresentato.

Ma non sempre la Polizia arrivava ad impedire le rappresentazioni di lavori da essa, stimati perniciosi. I censori, qua e là, non ubbidivano sempre alle istruzioni diramate dal ministero dell’interno; e più d’una volta il Bologna ebbe a lamentarsi della soverchia condiscendenza di taluni di essi. Così, nel 1835, a Siena, fu recitato un Pandolfo Collenuccio, che i prudenti stimarono pieno di massime sovversive e il Presidente del Buon Governo in un rapporto al Granduca scriveva, che egli non sapeva capire come la censura avesse potuto permetterne la rappresentazione. Nello stesso anno, a Livorno, la recita d’un Ruggero degli Ubaldini, della poetessa Palli, suscitò uguali scrupoli nei sanfedisti; e il Bologna, facendosene l’eco, chiese che gli fosse rimesso il manoscritto; ma, per quanto egli tempestasse, il copione non venne mai nelle sue mani. E sì, che scrivendo al Granduca egli diceva che era stato assicurato come quella tragedia fosse un’opera cattiva e pericolosa! D’allora in poi si prescrisse che i lavori destinati alla rappresentazione portassero il visto del dipartimento della Polizia.


Note

  1. I rapporti del p. Bernardini sono tratti non dall’Archivio Segreto del Buon Governo, ma dall’Archivio particolare dello stesso p. Bernardini, ora posseduto dall’Archivio di Stato di Firenze.