Nell'ingranaggio/VI

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V VII
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VI.

Arrivarono a Milano con le grosse nebbie e le giornate piovose. L’appartamento in via Bigli era piuttosto scuro dalla parte della strada, sfogato e arioso dalla parte posteriore che dava su un [p. 79 modifica] piccolo giardino; ma in quei giorni grigi del novembre, tutto era avvolto nella stessa penombra.

Questa intonazione dell’ambiente si armonizzava con l’umore delle persone. Parevano tutti foschi, annojati.

Soltanto Sabina stentava a frenare di tratto in tratto una nota trionfante.

Quando era sola con Gilda le usava dei riguardi, la trattava con una cert’aria di sommissione e di rispetto, assai diversa dalla famigliarità dei primi mesi.

Poi tutto ad un tratto si rabbujava, diventava ispida, insolente.

Gilda l’avrebbe schiaffeggiata.

Un giorno la sorprese che discorreva fitto fitto col cuoco, e senti queste parole:

— ... Si avvicina il momento tante aspettato: la zingara se ne dovrà andare: il padrone è stufo: vuole la giovine adesso; a momenti gli dirò tutto... La signora Edvige andava molto fuori di giorno, e sola.

Lea rimaneva in casa per le lezioni che doveva prendere, lezioni di francese, di pianoforte e di ballo.

Gilda assisteva alle lezioni, poi conduceva la bimba alla passeggiata in carrozza. Ai giardini scendevano. Qualche volta vedeva una o l’altra delle antiche compagne di scuola, le salutava, le chiamava per nome, e non poteva sfuggirle la specie di meraviglia astiosa, o di disprezzo affettato, con cui alcune la guardavano, poi rispondendo al suo saluto con apparente cordialità.

Quando s’imbatteva in quelle che le volevano ancora bene e le facevano festa, tornava a casa [p. 80 modifica]più contenta: le pareva di essersi rituffata nella sua giovinezza, di avere riconquistata la spensierata baldanza di quando andava alla scuola.

Ma in casa ritrovava la sua oppressione.

Le pareva che la signora Pianosi la trattasse con sorda ostilità e cercasse di coglierla in fallo; qualche volta leggeva nei suoi occhi un sospetto, un rimprovero. Quantunque innocente ella si sentiva tutta turbata sotto quello sguardo fisso, diventava rossa e chinava i suoi grandi occhi neri per nascondere le lagrime che li facevano lustrare.

Non era più una posizione sostenibile quella per lei; se lo diceva tutti i giorni; eppure non aveva il coraggio di licenziarsi!

Licenziarsi voleva dire, forse, non rivedere mai più Giovanni; e questa le pareva insopportabile.

Egli non aveva più cercato di trovarsi solo con lei.

Ma quando la incontrava insieme agli altri, afferrava tutti i pretesti per starle vicino; la colmava di gentilezze, s’indirizzava sempre a lei col discorso, anche se erano presenti altre signore, come se avesse voluto mostrare apertamente che la stimava sopra tutte, che per lui era la più nobile.

La coscienza del sacrificio intimo a cui si era sottomesso spontaneamente, gli creava questo bisogno di sfidare le apparenze. Non aveva nulla a rimproverarsi: quella ragazza gli era diventata sacra; ma appunto per questo si credeva in diritto di imporre agli altri la sua preferenza, di mostrare a tutti fino a qual punto la venerava,

Edvige, che non mancava di spiarlo, sapeva tutto, ma n’era assai più offesa e allarmata, che se Gilda fosse stata davvero la sua amante. [p. 81 modifica]

Questo non avrebbe che ferito il suo amore, dato che ne avesse avuto per lui; quello che accadeva invece, pungeva il suo amor proprio. Malgrado ciò, dissimulava abilmente. Suo marito in quei giorni le aveva recato un dispiacere molto più grave; aveva dubitato dell’onestà dell’avvocato Anselmi, e fatto licenziare il direttore dello stabilimento industriale di ferramenta e macchine.

Con questo spediente, ed essendosi buttato al lavoro con la furia di un disperato, non permettendo che si concludesse un solo affare senza averlo studiato, sorvegliando tutto, sperava, se la fortuna gli sorrideva, di poter salvare sè stesso e lo stabilimento medesimo dalla catastrofe che li minacciava.

Ma l’Avvocatino se l’era, come si suol dire, legata al dito. Già non metteva più piede in casa: e quando Edvige, tormentata dalla sua passione, che le difficoltà rinverdivano, andava a trovarlo nel quartierino da scapolo elegante, di cui teneva ancora la chiave (con rabbia grande di lui), invece dell’amore ch’essa cercava, non riceveva che rimproveri, sgarbi, minacce.

Una volta, Gilda la vide rincasare pallida come una morta, con gli occhi rossi, il viso sfatto, invecchiata di dieci anni. Un’altra volta, Lea le raccontò che la mamma piangeva, chiusa in camera.

In tali casi pensava: forse è per colpa mia!... E poi subito: che! che! sarà per il suo caro Paolino.

Ma la coscienza le suggeriva di allontanarsi, in tutte le maniere, dicendole che quella non era più casa per lei; che lei vi faceva una parte falsa, [p. 82 modifica]antipatica; che Giovanni la comprometteva con le sue innocenti cortesie e che la gente non poteva a meno di pensar male, come la Sabina.

Ma la sera, quando si trovava seduta a tavola di fronte a Giovanni, o quando parlavano insieme nel salotto in mezzo alle visite, e lui le mostrava una tenerezza così rispettosa, tutti i pensieri del giorno le parevano sofistici, stupidi, da bambina.

O perchè avrebbe dovuto andarsene, lei, che non faceva niente di male?

Perchè doveva recare tanto dolore, mostrare tanta ingratitudine all’uomo che l’amava ed era tanto buono e generoso con tutti?

Che le doveva importare a lei se la gente ciarlava? Il loro amore era così alto, che non potevano macchiarlo.

E in buona fede, credeva che dovesse rimanere sempre così, e si esaltava nei sogni della fantasia eccitata.

Fra le molte visite che i Pianosi ricevevano, c’era una gran varietà di tono e di grado, secondo il giorno della settimana. Il sabato fra le due e le cinque la signora riceveva le persone più distinte: il lunedì sera, una gran società mista: le altre sere, quand’era in casa, riceveva sempre, meno gente, ma sempre mista. In queste serate confidenziali capitavano a volte dei tipi curiosi, specialmente tra quella classe di artisti teatrali, che a Milano si trova un po’ da per tutto.

Edvige, essendo stata cantante, conosceva moltissimi di questi artisti, e molti frequentavano la sua casa, come la signora Laura Mantrilli che abbiamo veduta sul lago.

Il Banchiere li divideva in tre classi: celebrità [p. 83 modifica]smesse, celebrità in attività di servizio e celebrità in erba: tutti celebri anche se nessuno li ha sentiti nominare una volta! Fra i più assidui vi era un tenore diventato padrone di case e stabili, in pochi anni di carriera, che si era ritirato ancor giovine perchè il pubblico gli aveva usato uno sgarbo, una sera che non era in voce. Questo avvenimento ritornava sempre nei suoi discorsi.

Non si poteva parlare di un povero diavolo fischiato in teatro, senza che il tenore Tofanetti non cogliesse il destro per raccontare che lui non avrebbe mai sopportato un affronto simile, che era bastato un mancato applauso per fargli rinunziare a quella vitaccia.

I colleghi, naturalmente, dicevano ch’erano stati fischi da buttar giù il teatro. Una prima donna drammatica, che negli ultimi anni s’era rassegnata a sposare un contrabasso, non poteva trattenersi dal far sentire a Edvige, che certamente lei aveva avuto più fortuna nel matrimonio, ma che nel rango artistico però era inferiore, essendo sempre stata una prima donna di genere leggero.

Una debuttante che aveva colto i suoi primi allori nella Traviata stendeva il suo immenso entusiasmo su tutta la classe delle traviate; e una sera che il Banchiere le fece qualche osservazione sarcastica, lei, indignata, rispose: — Le traviate, signore, sono gli angeli e le martiri in cielo, lo ha detto anche il povero Dumas!

Quel povero Dumas fece perdere la bussola anche al padrone di casa, e per un momento risuonò di risate spasmodiche.

La debuttante stimò che la sua frase avesse ottenuto un gran successo, e se ne tenne. [p. 84 modifica]

Di tratto in tratto capitavano tre vecchi, un maschio e due femmine, che a Gilda parevano molto curiosi.

L’uomo, faccia volgare, corpo secco ed arzillo, cinguettava amabilmente, ingolfandosi in lunghi e dettagliati racconti, in osservazioni comuni, improntate da una schietta allegria. La più vecchia delle due signore non aveva più nulla di femmina, era lunga, secca, coi denti rotti, la pelle e i capelli gialli; Tentasi con cui discorreva, certe esclamazioni ultra sentimentali sulla pace deliziosa della famiglia, sul benessere che Dio le aveva concesso, sulla bontà di suo marito che faceva, poveretto, tanti sacrifici per prolungarle la vita (tutto ciò con gli occhi discretamente levati a cielo, il gesto rotto, la voce languida) ne facevano un personaggio nojoso sì, ma assai comico nel medesimo tempo.

La controscena del marito non era meno degna di nota. Appena lei cominciava a intenerirsi, lui si arrestava di botto — qualunque cosa stesse per dire — l’ascoltava a bocca aperta, col suo sorriso grossolano di furbo, toccava il gomito all altra femmina e mormorava come rapito: che donna! che angelo! non te l’avevo detto io? bisogna ado Un giorno alla fine del desinare mentre prendevano il caffè, nelle belle tazze di porcellana cinese che Giovanni predilegeva, la conversazione cadde su questa gente.

— È tutta una lezione di morale in viaggio. — osservò il banchiere.

— Ma che gente sono? — domandò Gilda ridendo. [p. 85 modifica]

— Gente accolta nella migliore società; chè li riceverei io altrimenti? — disse Giovanni ridendo ironicamente.

Gilda, però, messa in curiosità voleva sapere qualche cosa di più preciso.

La signora Edvige prese la parola; ma suo marito la interruppe. Voleva raccontare lui.

Ecco, secondo lui, era una storia semplicissima, che diventava comica soltanto per l’intonazione dei personaggi.

La signora Clelia, la magra declamatrice, apparteneva a una buona famiglia di negozianti torinesi: a vent’anni aveva sposato il signor Pietro Bellieri, portandogli trecentomila lire di dote. In pochi anni la dote era sfumata, e con essa l’amore dello sposo, che s’era preso della signora Ersilia, giovine e bella cantante loro parente: l’altra vecchietta, taciturna, le cui forme appariscenti non erano ancora interamente distrutte.

La Clelia fu abbandonata e i due amanti andarono a vivere insieme continuando la carriera teatrale finchè l’Ersilia potò cantare e il sor Pietrino fare l’impresario coi danari di lei: una ventina d’anni circa.

Intanto la Clelia non aveva perduto il tempo; dopo molte avventure trovò un signore forestiero dal quale ebbe un figlio e — più tardi — l’eredità di mezzo milione, più un eccellente consiglio: quello di ritornare col marito e fare in modo che costui accettasse il figliuolo come suo legittime.

Pietrino accettò... naturalmente... danari e figliuolo. In compenso portò con sè anche l’Ersilia, che non poteva essere abbandonata sur una strada. [p. 86 modifica]

— Ora vivono tutti e quattro insieme in buonissimo accordo a quanto pare — concluse Giovanni — e, dato il mondo com’è, sarebbero persone di spirito, se non si rendessero ridicole con la smania di santificare la loro posizione, dando a bere ai gonzi che i danari li ha guadagnati il sor Petrino con le sue imprese teatrali e che il figliuolo è proprio suo, perchè la sua Clelia, una vera santa, gli ha sempre perdonato le sue scappatelle e non ha mai mancato ai propri doveri.

— Buffoni! — esclamò a guisa di riepilogo, dopo un momento di silenzio.

— Perchè dici così? — domandò Edvige scattando. — Niente più buffoni loro di tanti altri. Prima di tutto tu non hai raccontato con esattezza: la signora Clelia non ha convissuto mai con nessuno durante le assenze di suo marito, il quale, passando per Milano, andava sempre a farle visita; e il figliuolo ha sempre portato il nome di lui, e lui non ha mai protestato; se pei lei, povera donna abbandonata, aveva trovato un amico, un protettore, questo non riguarda nessuno. L’affare dell’eredità fu tenuto segretissimo: noi l’abbiamo saputo per caso, e in pubblico abbiamo sempre fatto le viste di non saperlo: così fanno certamente anche gli altri, se lo sanno. Perchè, fino a prova del contrario, cioè, finchè non succede uno scandalo qualunque, la società è tenuta a credere quello che essi dimostrano e che è un omaggio per le sue leggi. Il resto è maldicenza: una maldicenza a cui ciascuno può credere in particolare, ma che tutti trovano giusto di rifiutare in pubblico; tanto più che in fondo si tratta di buone persone, incapaci di far male [p. 87 modifica]a chi che sia. Per questo io dico, anche se fanno un po’ di commedia, niente buffoni, ma giudiziosi e intelligenti: è un’ottima madre la Clelia, in tutte le maniere! Se fossero stati tanto Sciocchi da mettere la verità in piazza, la società li avrebbe messi al bando forse, o almeno, certo, non li accoglierebbe come li accoglie. E tu, che ora ragioni diversamente, perchè forse ci hai i tuoi motivi, saresti stato il primo a proibirmi di riceverli!

A queste ultime parole, che implicavano un’allusione diretta, il Banchiere aveva crollate le spalle; nonpertanto un fugace rossore era passato sulla sua fronte.

Dopo un momento di silenzio che egli impiegò a masticare il suo sigaro, brontolò con disinvoltura simulata:

— Io?... figurati!... Tu mi fai torto, mia cara! Io non ti ho mai proibito di ricevere chi ti piace. Non sei tu la regina qui dentro?...

E su questo, preso il pastrano e il cappello, salutò garbatamente dicendo che andava alla banca, dove lo aspettavano.

Un soffio di vento diaccio passò sulle dolci e poetiche visioni dell’amore di Gilda. Rabbrividì tutta. Perchè?

Non avrebbe potuto dirlo con precisione, ma si sentiva il cuore stretto.

Le due donne rimasero sole, con Lea che giuocava in un canto.

Gilda non osava alzare gli occhi. La signora Pianosi, col braccio appoggiato alla tavola, il mento nella mano, pensava, guardandola fisso.

— Gilda — disse finalmente, con voce profonda — voi vedete in me una donna molto infelice. [p. 88 modifica]

Gilda la guardò senza rispondere.

— Non vi siete accorta, Gilda — riprese la moglie del Banchiere — non vi siete accorta di quello che soffro? Non dite di no, i vostri occhi vi smentiscono. La vostra coscienza vi deve aver detto che voi mi avete rapito tutto il mio bene, dacchè vi ho accolta in casa mia.

Gilda, con un movimento di sorpresa e cruccio, fece per alzarsi.

La signora la trattenne.

— Bisogna che mi ascoltiate — disse abbassando la voce: — è nel vostro interesse come nel mio. Da un pezzo io mi sono accorta di ciò che succede nel vostro cuore, e dell’influenza che esercitate sul cuore... o meglio sulla fantasia... di un uomo, che non potrà mai appartenervi legittimamente, finchè ci sono io, Un’altra al mio posto vi avrebbe mandata via subito. Io ho avuto pietà della vostra posizione e della vostra giovinezza. Siete povera e bella e senza madre! Una dama benefica, mia carissima amica, che s’interessa alle ragazze esposte come voi ai pericoli della vita, vi aveva raccomandata a me, e fu per rispondere alla sua fiducia ch’io vi ho presa in casa mia nonostante la vostra giovinezza; perciò non potevo cacciarvi come un’altra. Ho aspettato: sperando sempre che vi sareste ravveduta spontaneamente...

— Oh! signora — gridò Gilda esasperata — questo è troppo, io non ho fatto male... io sono innocente!

— Oh! calmatevi — disse la signora Pianosi, a bassa voce ma con accento imperativo, non bisogna destare l’attenzione di Lea. [p. 89 modifica]

E dopo un momento, esalando un sospiro, che forse si riferiva a molti anni addietro:

— Benedette ragazze! — mormorò — sono sempre le stesse: non hanno fatto male... sono innocenti!... Bella roba! Si può essere, come dite voi, «innocente» e fare la disperazione di una famiglia. Voi avete fatta la mia, e siete innocente... lo so, lo credo. Che vantaggio ne ho io della vostra innocenza? Mio marito vi ama, o almeno vi desidera, con una violenza che forse non sentirebbe più, se voi foste stata più... facile, o... meno civetta: gli uomini, si sa, sono capricciosi. In conseguenza di questa vostra famosa virtù, egli pensa forse a sacrificare sua moglie e sua figlia, ben più innocenti di voi! o almeno le offende, le trascura!... Voi non ci avete pensato?... Non c’è premeditazione da parte vostra?... Vi credo. Vedete? lo sono sempre pronta a credere il bene: io non dubito del vostro cuore. Da giovani siamo raramente cattive: si è spensierate, ci si lascia trascinare, lo so pur troppo! È appunto per questo ch’io ho tollerato tanto, fin l’umiliazione di vedermi posposta a voi in società, da mio marito, davanti ai miei amici!

«Ma ora è venuto il momento in cui voi mi dovete provare la vostra lealtà. Io vi offro un mezzo di allontanarvi da casa mia, senza vergogna, anzi col massimo onore e la massima soddisfazione. Se siete leale davvero — ciò che molto spesso vai meglio della innocenza — accetterete, ne sono certa.

Gilda non fece alcun segno di affermazione nè di negazione. Oramai aveva risoluto di lasciarla parlare fino alla fine, per sapere a che cosa mirava. Soltanto i suoi occhi interrogarono. [p. 90 modifica]

— Del resto, spero che vi costerà poco. Per quanto non si abbia l’abitudine di ragionar molto alla vostra età, e ci si lasci esaltare da sogni e fantasmi seducenti, dovrete pur comprendere che la mia proposta racchiude in sè una vera fortuna, forse la felicità. Un uomo di mente straordinaria, una celebrità, e quello che importa più un galantuomo in posizione agiata e brillante, ha concepito per voi, fin dal primo momento, una simpatia irresistibile. Io me ne sono accorta subito. Ma lui, da principio, non aveva fiducia in me, non gl’ispiravo confidenza. A poco a poco però mi sono fatta conoscere e ho guadagnato la sua stima. Ora sono la sua confidente. È un’anima ingenua e forte che non conosce mezzi termini. La scienza dell’antico lo ha preservato dallo scetticismo moderno. Egli vi vuol proprio bene, la vostra posizione subalterna lo intenerisce, e sarebbe veramente felice se voi accondiscendeste ad accettarlo per vostro marito. Ha forse un po’ troppi anni più di voi, io non lo nego, ma è un uomo simpaticissimo. Ne avete già indovinato il nome: è il professore Rachelli. Che ne dite?

Il viso di Gilda non diceva proprio nulla; e la signora Pianosi provava già un certo disagio.

— Perdono, Signora — disse finalmente l’istitutrice: — io vorrei soltanto sapere se il signor professore le ha dato lui l’incarico di farmi questa proposta?

L’accento che accompagnava queste parole era freddo e corretto: Edvige non osò mentire.

— Veramente.... proprio direttamente no — rispose, un poco disorientata; — lui non mi ha dato nessuno incarico, ma.... io gli ho letto nel cuore, e se voi dite di sì.... [p. 91 modifica]

— Scusi, veh, Signora. Se lei non ha avuto nessun incarico, io non ho bisogno di darle nessuna risposta. La cosa non la riguarda, lo uscirò domani da questa casa — riprese a dire dopo un momento — non perchè creda di averla offesa, che non ci ho mai pensato, ma per me, per il mio decoro. Posso aver avuto torto nel coltivare un sentimento che si era impadronito di me senza mia colpa, ma non ho mai immaginato che questo potesse farla soffrire: sapevo che il suo cuore era occupato altrove.

— Che cosa intendete di dire? — esclamò Edvige, interrompendola furiosamente.

— Ella, lo sa, Signora. E anche la sua cameriera, lo sa, come lo so io, come lo sanno tanti, i quali fingono, in pubblico, di non sapere nulla fino al momento in cui il suo marito se ne accorga e succeda uno scandalo....

— Maldicenze! calunnie! — gridò la signora Pianosi, dimenticando la presenza di Lea.

— Già, maldicenze, come quelle che il signore mi ha raccontato sulla coppia Bellieri. Ma.... Gilda abbassò la voce. — L’ultima sera, alla villa quando era sulla terrazza con.... lui, io ero alla finestra della mia camera.

— Ebbene?... Ah! volevate spiarci?

— No, Signora! Non potevo immaginare che lei commettesse una tale imprudenza, mentre suo marito e sua figlia le stavano così vicini. Io ero là a sognare, a fantasticare, come facciamo noi altre fanciulle esaltate. Ella mi ha dato un saggio della vita reale, specialmente quando è rientrata ridendo in salotto per fare dei complimenti a suo marito che giuocava... [p. 92 modifica]

Si erano levate in piedi tutte e due, fronte a fronte, con gli occhi fissi l’una nell’altra, la gola anelante, come due leonesse pronte ad azzannarsi.

Edvige, stretta nel lungo busto, incaricato di contenere l’incipiente pinguedine, soffocava. Il suo sangue irruente di zingara, in cui si accendevano le fiamme intense dell’ultima giovinezza, le gonfiava le vene, le imporporava il viso.

Coi pugni stretti, fece atto di gettarsi sulla rivale.

— Siete una bugiarda e una pazza! — le gridò sul viso.

Ma Gilda la fermò con un gesto glaciale:

— Lea ci guarda — disse — si calmi, Signora!

Lea guardava difatti, con i grandi occhi sorpresi e curiosi della donnina, che si risveglia, dal torpore infantile, alle prime scosse della vita.

Senza voltarsi, la signora Pianosi la vide nel grande specchio che ornava la parete di fronte.

Nel medesimo tempo vide tutta la scena, schiacciante per lei: prima Gilda, elegante e snella, le forme dalle curve fini, armoniose, gli occhi sfavillanti di baldanza giovanile, resa più bella dal vivo incarnato che le illuminava il viso; poi sè, deturpata dalla collera, che metteva in evidenza tutti i danni dell’età: la fronte, le guance, il collo violacei, gli occhi duri, metallici, la bocca stirata, il torso con le curve ardite dei fianchi, ancora scultorio, ma sostenuto da gambe troppo corte; privo di elasticità e di finezza, indurito dalla necessità di portare il busto eccessivamente stretto; c in fondo Lea, testimone e giudice, che forse aveva compreso troppo con la sua intelligenza indagatrice di bimba precoce. [p. 93 modifica]

Nè basta: come una visione, in quella nebbiolina leggera, che le vivande calde e il fumo di sigaro avevano lasciato nella sala da pranzo e che pareva addensarsi nella profondità dello specchio, ella vedeva l’immagine dell’avvocato Anselmi, freddo, quasi sprezzante, e il dolce sguardo amoroso, che suo marito serbava a Gilda.

Così volgeva al tramonto la sua giovinezza, così andava a finire nella miseria quel tesoro immenso di forza e di venustà, che le era parso inesauribile! Quelli che l’avevano adorata, ch’ella aveva creduto di dominare per sempre, ora le sfuggivano, la tradivano, l’abbandonavano. Tutto le sfuggiva; tutto, vale a dire la giovinezza, la bellezza, l’amore. Ora, sì, poteva dirsi perduta, ben altrimenti che il giorno in cui la sua protettrice la aveva cacciata, o il giorno in cui gl’impicci finanziari l’avevano forzata a separarsi da Paolo!

Allora egli l’amava e le lagrime che versava lasciandola, erano sincere. Allora tutti l’amavano, tutti invocavano la sua presenza. Poteva credere che il mondo fosse prostrato ai suoi piedi. Se avesse continuato per quella via sarebbe ancora nel massimo splendore dei trionfi artistici e femminili: avrebbe l’indipendenza con una ricchezza tutta sua, l’amore sempre rinascente, e un piedestallo sfolgorante e adoratori instancabili alla sua matronale bellezza. Così invece era sulla soglia dell’età ingrata, presso a quel fatale momento psicologico, in cui pare che tutto ci abbandoni. Ella si sentiva nel grave pericolo di perdere le cose e le persone a cui teneva di più, per affetto o per ambizione: vita ricca e decorosa, amante e marito, e quel posto in società, conquistato con [p. 94 modifica]tanta pena, mantenuto a costo di tanti sacrifizi e umiliazioni segrete.

E non era più al caso di ricominciare, altro che per precipitare rapidamente nell’oscura mediocrità, e poi nella abbiettezza che le sta tanto vicina.

Forse era venuto il momento di eclissarsi, di sparire, facendosi un’aureola con quel resto di gloria giovanile, che i bei capelli biondi le mettevano ancora intorno alla fronte.

Sparire! Sfuggire agli occhi avidi di contemplare la miseria altrui, lasciando ancora qualche rimpianto e il ricordo incancellato di una splendida apparizione. Atterrare con un sol colpo la statua già tanto ammirata e distruggerla, prima che lo scherno degli uomini noti la sua decadenza, e il rozzo villano la inzaccheri di fango. Naufragare superbamente in mezzo all’oceano piuttosto che rimaner galleggiante alla riva, nudo e spregiato avanzo della tempesta.

L’anima assorbita in questa tetra meditazione, Edvige rimaneva immobile, con le braccia pendenti, il collo teso, le pupille fisse. Non vedeva più Gilda, non vedeva più Lea. Pensieri torbidi e immagini confuse turbinavano nel suo cervello. Si sentiva annientata.

Cercò di scuotersi. Ma una strana sensazione fisica la fece traballare: non sentiva più il peso del corpo e le pareva che il pavimento si allontanasse. Cercò un appoggio e trovò la sedia, su cui s’abbandonò, nascondendo la testa fra le mani.

Piangeva. Era un intenerimento improvviso, una reazione dei nervi, contro cui la sua volontà non poteva nulla. [p. 95 modifica]

Vi andava soggetta: tutte le sue grandi crisi finivano così.

Gilda la guardava colpita da stupore e più commossa che non si sarebbe immaginata.

La posizione diveniva imbarazzante per lei.

Pensò che il meglio era di andarsene, e portar la bambina nelle sue camere.

Ma Lea non volle.

La povera piccina aveva gli occhi pieni di lagrime; all’invito di Gilda scoppiò in singhiozzi, e andò a nascondere il viso sulle ginocchia della sua mamma.

Questa si scosse tutta; alzò il capo, vide la bimba piangente, si chinò su lei, se la prese in collo, se la strinse al cuore e si diè a baciarla furiosamente, come se si fosse sovvenuta soltanto allora di quel tesoro d’amore che le rimaneva.

Quando si fu un po’ calmata cercò Gilda con gli occhi. La vide che aspettava nell’ombra, con le spalle voltate. La chiamò dolcemente, per dirle ch’era libera di ritirarsi, che lei teneva Lea con sè, e le stese la mano.

Ma Gilda non si mosse: la sua fibra era meno elastica, quantunque più giovine. Non serbava rancore; ma quel passaggio così repentino dalle minacce alle gentilezze, dalla collera agl’intenerimenti, le restava indecifrabile.

Si limitò ad un inchino, ed uscì.

La mattina seguente, all’ora della colazione, l’istitutrice entrò come di consueto nella sala da pranzo, testimone della scena, ch’ella non avrebbe dimenticato mai più, e invece di sedere al suo posto pregò i signori Pianosi di ascoltarla un momento. Poi subito, senza rispondere allo sguardo [p. 96 modifica] ardentemente scrutatore, con cui Giovanni la interrogava, disse che sua zia era ammalata, che ciò richiedeva la sua presenza in famiglia, e che le avrebbero fatto una vera gentilezza lasciandola libera subito.

Giovanni lasciò cadere il coltello col quale giuocava, e balzò in piedi. Ma uno sguardo supplichevole della fanciulla gli fermò la protesta sul labbro.

Edvige intanto si era affrettata a rispondere e ad acconsentire.