Ninfale fiesolano/Parte prima

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Frontespizio II Parte seconda
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NINFALE

FIESOLANO

OSSIA L’INNAMORAMENTO

DI

AFFRICO E MENSOLA



PARTE PRIMA



I.

Amor mi fa parlar, che m’è nel core
     Gran tempo stato e fatto n’ha suo albergo,
     E legato lo tien con lo splendore
     E con que’ raggi a cui non valse usbergo,
     Quando passaron dentro col favore
     Degli occhi di colei, per cui rinvergo
     La notte e ’l giorno pianti con sospiri,
     Che è cagion di molti miei martiri.

II.

Amor è quel che mi guida e conduce
     Nell’opera la qual a scriver vegno:
     Amor è quel che a far questo m’induce,
     E che la forza mi dona e l’ingegno:
     Amor è quel ch’è mia forza e mia luce,
     E che di lui trattar m’ha fatto degno:
     Amor è quel che mi sforza ch’io dica
     D’un’amorosa storia e molto antica.

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III.

Però vo’ che l’onor sia sol di lui,
     Poich’egli è quel che guida lo mio stile,
     Mandato dalla donna mia, il cui
     Valore è tal, ch’ogn’altro mi par vile,
     E che ’n tutte virtù avanza altrui,
     E sopr’ogn’altra è più bella e gentile:
     E non le mancheria alcuna cosa

     Se ella fusse un poco più pietosa.

IV.

Or prego qui ciascun fedele amante
     Che siate in questo mia difesa, e scudo
     Contra ogn’invidïoso e mal parlante,
     E contro a chi è d’amor povero e ignudo;
     E voi, care mie donne tutte quante,
     Che non avete il cor gelato e crudo,
     Prego preghiate la mia donna altera

     Che non sia contro a me, servo, sì fera.

V.

Prima che Fiesol foss’edificata
     Di mura, o di steccati o di fortezza,
     Da molto poca gente era abitata,
     E quella poca avea presa l’altezza
     De’ circunstanti monti, e abbandonata
     Si stava la pianura, per l’asprezza
     Della molt’acqua e ampioso lagume,
     Che a piè de’ monti faceva un gran fiume.

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VI.

Era in quel tempo la falsa credenza
     Degl’Iddii rei, bugiardi e viziosi,
     E sì cresciuta la mala semenza
     Era, ch’ogn’uom credea che grazïosi
     Fussero in ciel come nell’apparenza;
     E lor sacrificavan con pomposi
     Onori e feste, e sopra tutti Giove

     Glorificavan qui siccome altrove.

VII.

Ancor regnava in quel tempo una Dea
     La qual Dïana si facea chiamare,
     E molte donne in devozion l’avea,
     E maggiormente quelle che servare
     Volean virginità, e a cui spiacea
     Lussuria, e a lei si volean dare:
     Costei le riceveva con gran festa

     Tenendole per boschi e per foresta.

VIII.

Ed anche molte ne l’eran offerte
     Dalli lor padri e madri, che promesse
     L’avieno a lei per voti, e chi per certe
     Grazie o doni che ricevuti avesse.
     Diana tutte con le braccia aperte
     Le riceveva pur ch’ella volesse
     Servar virginità, e l’uom fuggire,
     E vanità lasciare e lei servire.

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IX.

Così per tutt’il mondo era adorata
     Questa vergine Dea. Ma ritornando
     Ne’ poggi fiesolani, ove onorata
     Più ch’oltra v’era, lei glorificando,
     Contar vi vo’ della bella brigata
     Delle vergini sue, che lassù stando,
     Tutte eran ninfe a quel tempo chiamate,

     E sempre gien di dardi e d’archi armate.

X.

Avea di queste vergini raccolte
     Gran quantità Dïana del paese
     Per questi poggi, benchè rade volte
     Dimorasse con lor molto palese,
     Siccome quella che n’aveva molte
     A guardar per il mondo dalle offese
     Dell’uom; ma pur quand’a Fiesol veniva,

     In cotal modo e guisa ella appariva.

XI.

Ell’era grande e schietta, come quella
     Grandezza richiedeva, e gli occhi e ’l viso
     Lucevan più ch’una lucente stella,
     E ben pareva fatta in paradiso,
     Raggiando intorno a sè come fiammella,
     Sì che mirarla non si potea fiso;
     Con capei crespi, e biondi non com’oro,
     Ma d’un color che vie meglio sta loro.

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XII.

Ella più volte sparti gli teneva
     Sopra lo svelto collo, e ’l suo vestire,
     Ch’a guisa d’una cioppa il taglio aveva,
     D’un zendado ch’appena ricoprire,
     Sì sottil’era, le carni poteva,
     Tutta di bianco senz’altro partire;
     Cinta nel mezzo, e talora un mantello

     Di porpora portava molto bello,

XIII.

Venticinque anni di tempo mostrava
     Sua giovanezza, senz’averne un manco.
     Nella sinistra man l’arco portava,
     E ’l turcasso pendea dal destro fianco
     Pien di saette, le qual saettava
     Alle fiere selvagge, e tal’or anco
     A qualunque uom che lei noiar volesse,

     O le sue ninfe, gli uccidea con esse.

XIV.

In cotal guisa a Fiesole venia
     Dïana le sue ninfe a visitare,
     E con bel modo graziosa e pia
     A sè sovente le facea adunare
     Intorno a fresche fonti ed all’ombria
     Di verdi fronde, al tempo che a scaldare
     Comincia il sol la state com’è usanza,
     E di verno al caldin facieno stanza.

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XV.

E quivi le ammoniva tutte quante
     Nel ben perseverar virginitate:
     Alcuna volta ragiona d’alquante
     Cacce che fatte aveva molte fiate
     Su per que’ poggi, seguendo le piante
     Delle fiere selvagge, chè pigliate
     E morte assai n’aveano, ordine dando

     Per girle ancor dinuovo seguitando.

XVI.

Cotai ragionamenti tra costoro,
     Com’io v’ho detto, tenía di cacciare,
     E quando Diana si partia da loro,
     Tosto una ninfa si facea chiamare
     La qual fusse di tutto il concistoro
     Di lei vicaria, facendo giurare
     All’altre tutte di lei obbedire,

     Se pel suo arco non volien morire.

XVII.

Quella tale da tutte era ubbidita
     Come fusse Dïana veramente,
     E ciascun’era d’un panno vestita
     Di lin tessuto molto sottilmente:
     Facendo co’ loro archi d’esta vita
     Passar molti animali assai sovente;
     E qual portava un affilato dardo,
     Più destra che non fu mai leopardo.

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XVIII.

Era in quel tempo del mese di maggio,
     Quando i be’ prati rilucon di fiori,
     E gli usignuoli per ogni rivaggio
     Manifestan con canti i loro amori,
     E’ giovanetti con lieto coraggio
     Senton d’amore più caldi i vapori,
     Quando la Dea Dïana a Fiesol venne,

     E con le ninfe sue consiglio tenne.

XIX.

Intorno ad una bella e chiara fonte
     Di fresche erbette e di fiori adornata,
     La quale ancor dimora appiè del monte
     Cecer, da quella parte ove ’l sol guata
     Quand’è nel mezzo giorno a fronte a fronte,
     E fonte Aqueli è oggi nominata:
     Intorno a quella Diana allor si volse

     Essere, e molte ninfe vi raccolse.

XX.

Così a sedere tutte quante intorno
     Si posono alla fonte chiara e bella,
     Ed una ninfa senza far soggiorno
     Si levò ritta, leggiadretta e snella,
     Ed a sonare incominciò un corno
     Perch’ognuna traesse; e poi quand’ella
     Ebbe sonato a seder si fu posta,
     Aspettando di Diana la proposta.

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XXI.

La qual com’usata era così allora
     Diceva lor, ch’ognuna si guardasse
     Che con null’uom facesse mai dimora,
     E se avvenisse pur ch’uomo trovasse,
     Come nimico il fugga in ciascun’ora,
     Acciò che inganno o forza non usasse
     Contro di voi; chè qual fusse ingannata

     Da me sarebbe morta e sbandeggiata.

XXII.

Mentre che tal consiglio si teneva,
     Un giovinetto, ch’Affrico avea nome,
     Il qual forse vent’anni o meno aveva,
     Senz’aver barba ancora, e le sue chiome
     Bionde e crespe, e ’l suo viso pareva
     Un giglio o rosa, ovver un fresco pome;
     Costui ind’oltre abitava col padre,

     Senz’altra vicinanza, e con la madre.

XXIII.

Il giovine era quivi in un boschetto
     Presso a Dïana, quando il ragionare
     Delle ninfe sentì, che a suo diletto
     Ind’oltre s’era andato a diportare:
     Perchè fattosi innanzi il giovinetto
     Dopo una grotta si mise ascoltare,
     Per modo che veduto da costoro
     Non era, ed e’ vedeva tutte loro.

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XXIV.

Vedea Dïana sopra all’altre stante
     Rigida nel parlare e nella mente,
     Con le saette e l’arco minacciante,
     E vedeva le ninfe parimente
     Timide e paurose tutte quante,
     Sempre mirando il suo viso piacente.
     Ognuna stava cheta, umíle e piana

     Pe ’l minacciare che facea lor Dïana.

XXV.

Poi vide che Dïana fece in piede
     Levar dritta una ninfa, che Alfinea
     Aveva nome, però ch’ella vede
     Che più che alcun’altra tempo avea,
     Dicendo, ora m’intenda qual qui siede:
     Io vo’ che questa qui in mio loco stea,
     Però ch’intendo partirmi da voi,

     Sì che com’io obbedita sia poi.

XXVI.

Affrico stante costoro ascoltando,
     Una ninfa a’ suoi occhi gli trascorse,
     La quale alquanto nel viso mirando,
     Sentì ch’amor per lei al cor gli corse,
     Che gli fer sentir gioia sospirando
     Le fiaccole amorose che gli porse;
     E un sì dolce disio, che già saziare
     Non si potea della ninfa mirare.

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XXVII.

E fra sè stesso dicea: chi saria
     Di me più grazïoso e più felice,
     Se tal fanciulla io avessi per mia
     Isposa? chè per certo il cor mi dice
     Che al mondo sì contento uom non saria;
     E se non che paura mel disdice
     Di Dïana, io l’avrei per forza presa,

     Che l’altre non potrebbon far difesa.

XXVIII.

Lo innamorato amante in tal maniera
     Nascoso stava in fra le fresche fronde,
     Quando Dïana veggendo che sera
     Già si faceva, e che ’l sol si nasconde,
     Che già perduta avea tutta la spera,
     Con le sue ninfe assai liete e gioconde
     Si levar ritte, e al poggio salendo

     Di dolce melodia canzon dicendo.

XXIX.

Affrico quando vide che levata
     S’era ciascuna, e simil la sua amante,
     Udì che da un’altra fu chiamata:
     Mensola adianne, e quella su levante,
     Con l’altre tosto sì si fu inviata:
     E così via n’andaron tutte quante,
     Ognuna a sua capanna si tornoe,
     Poi Diana si partì e lor lascioe.

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XXX.

Avea la ninfa forse quindici anni,
     Biondi com’oro e grandi i suoi capelli,
     E di candido lin portava i panni;
     Due occhi ha in testa rilucenti e belli,
     Che chi gli vede non sente mai affanni,
     Con angelico viso e atti snelli,
     E in man portava un bel dardo affilato:

     Or vi ritorno al giovane lasciato;

XXXI.

Il qual soletto rimase pensoso
     Oltramodo dolente del partire
     Che fe’ la ninfa col viso vezzoso,
     E ripetendo il passato disire,
     Dicendo: lasso a me, che ’l bel riposo
     C’ho ricevuto mi torna in martire,
     Pensando ch’io non so dove o in qual parte

     Cercarmene giammai, o con qual’arte.

XXXII.

Nè conosco costei che m’ha ferito,
     Se non ch’io udii che Mensola avea nome,
     E lasciato m’ha qui solo e schernito
     Senza avermi veduto. O almeno come
     Io l’amo sapess’ella, e a che partito
     Amor m’ha qui per lei carche le some.
     Oimè, Mensola bella, ove ne vai,
     E lasci Affrico tuo con molti guai?

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XXXIII.

E poi si pose a seder in quel loco
     Ove prima seder veduto avea
     La bella ninfa, e nel suo petto il foco
     Con più fervente caldo s’accendea:
     Così continuando questo giuoco
     Il bel viso nell’erba nascondea,
     Baciandola dicea: ben se’ beata,

     Sì bella ninfa t’ha oggi calcata!

XXXIV.

E poi dicea: lasso a me, sospirando,
     Qual ria fortuna o qual altro destino
     Oggi qui mi condusse lusingando,
     Perchè di lieto, dolente e tapino
     Io divenissi una fanciulla amando,
     La qual m’ha messo in sì fatto cammino,
     Senza aver meco scorta o guida alcuna,

     Ma solo amore è meco e la fortuna!

XXXV.

Almen sapesse ella quanto amata
     Ell’è da me, o veduto m’avesse,
     Ben ch’io credo che tutta spaventata
     Se ne sarebbe, se ella sapesse
     Esser da me o da uomo disiata:
     Io son ben certo, in quanto ella potesse,
     Ella si fuggiria, siccome quella
     C’ha in odio l’uomo e da lui si ribella.

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XXXVI.

Che farò dunque, lasso, poi ch’io veggio
     Che palesarmi saria ’l mio peggiore?
     E s’io mi taccio veggio ch’è ’l mio peggio,
     Perocchè ognor mi cresce più l’ardore?
     Dunque per miglior vita morte chieggio,
     La qual sarebbe fin di tal dolore:
     Benchè io mi creda ch’ella penrà poco

     A venir, se non spegne questo foco.

XXXVII.

Cotali ed altre simili parole
     Diceva il giovinetto innamorato:
     Ma poi veggendo che già tutto il sole
     Era tramonto, e che ’l cielo stellato
     Già si faceva, il che forte gli duole
     Per lo partir; ma poi ch’alquanto stato
     Sopra sè fu, disse: o me tapino,

     Che or fuss’egli di domane il mattino!

XXXVIII.

Ma pur levato, piede innanzi piede,
     Pien di molti pensier per la rivera,
     Si mosse ver l’ostello, chè ben vede
     Che non ritorna qual venuto n’era:
     Così pensoso, che non se n’avvede,
     Alla casa pervenne, la qual’era,
     Scendendo verso il pian, dalla fontana
     Forse un quarto di miglio o men lontana.

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XXXIX.

Quivi tornato, nella cameretta
     Ove dormia soletto se n’andoe,
     E sospirando in sul letto si getta,
     Ch’a padre o madre prima non parloe:
     Quivi con gran disio il giorno aspetta,
     Nè ’n tutta notte non si addormentoe,
     Ma qua e là ei volgea sospirando,

     E ne’ sospir Mensola sua chiamando.

XL.

Acciocchè voi allora non crediate
     Che vi fusson palagi o casamenti,
     Come or vi son, sì vo’ che voi sappiate
     Che sol d’una capanna eran contenti,
     Senza esser con calcina ancor murate,
     Ma sol di pietre e legname le genti
     Facean lor case, e qua’ facien capanne

     Tutte murate con terra e con canne.

XLI.

E forse quattro eran gli abitatori
     Che facevano stanza nel paese,
     Giù nelle piagge de’ monti minori
     Che sono a piè de’ gran poggi distese.
     Ma ritornar vi voglio a’ gran dolori
     Che Affrico sentia, che presso a un mese
     Stette senza veder Mensola mai,
     Benchè dell’altre e’ ne scontrasse assai.

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XLII.

Amor volendo crescer maggior pena,
     Come usato è di fare, al giovinetto,
     Parendogli che avesse alquanta lena
     Ripresa e spento il fuoco nel suo petto,
     Legar lo volle con maggior catena,
     E con più lacci tenerlo costretto,
     Modo trovando a fargli risentire

     Le fiaccole amorose col martire.

XLIII.

Perchè una notte il giovane dormendo,
     Vedere in visïone gli pareva
     Una donna con raggi risplendendo,
     E un piccolo fantino in collo aveva
     Ignudo tutto, ed un arco tenendo,
     E del turcasso una freccia traeva
     Per saettar, quando la donna, aspetta,

     Gli disse, figliuol mio, non aver fretta.

XLIV.

E poi la donna ad Affrico rivolta,
     Sì gli diceva: qual mala ventura,
     O qual pensiero o qual tua mente stolta
     T’ha fatto volger? credo che paura
     O negligenza Mensola t’ha tolta,
     Chè di suo amor non par che metti cura,
     Ma come uom vile stai tristo e pensoso,
     Quando cercar dovresti il tuo riposo.

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XLV.

Leva su dunque: cerca queste piagge
     Di questi monti, e tu la troverai,
     Chè a suo diletto le fiere selvagge
     Con l’altre ninfe seguir la vedrai,
     E benchè a correr sieno preste e sagge,
     Senza niun fallo tu la vincerai:
     Nè ti bisogna temer di Dïana,

     Perocch’ell’è di qui molto lontana.

XLVI.

E io ti prometto di darti il mio aiuto,
     Al qual nessun può mai far resistenza,
     Pur che questo mio figlio abbia voluto
     Ferir con l’arco per la mia sentenza.
     Ch’io son colei che sì bene ho saputo
     Adoperar con questa mia scïenza
     Che non ch’altri, ma Giove ho vinto e preso

     Con molti Iddii, che niun non s’è difeso.

XLVII.

Poi disse: figliuol mio, apri le braccia,
     Fagli sentir il tuo caldo valore,
     Sicchè tu rompa ogni gelata ghiaccia
     Dentro al suo petto e nel gelato core.
     Or fa’, figliuolo mio, fa’ che mi piaccia
     Come far suogli: e poi parea ch’Amore
     Per sì gran forza quell’arco tirasse,
     Ch’insieme le due cocche raccozzasse.

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XLVIII.

Quando Affrico volea chieder mercede,
     Sentì nel petto giugner la saetta,
     La qual dentro passando il cor gli fiede,
     Sicchè svegliato, le man pose in fretta
     Al petto, che la freccia trovar crede;
     Trovò la piaga esser salda e ristretta,
     Poi guardò se la donna vi vedea

     Col suo figliuol che fedito l’avea.

XLIX.

Ma non la vide, perch’era sparita,
     E ’l sonno rotto che gliel dimostrava,
     E battendogli il cor per la fedita
     Che ricevuta avea, si ricordava
     Della sua amante quando fe’ partita
     Della fontana, e nel cor gli tornava
     Gli atti gentili, col vezzoso modo,

     E ta’ pensieri al cor gli facean nodo.

L.

E poi dicea: questa donna mi pare,
     Che or m’apparve, Vener col figliuolo,
     E s’io ho bene inteso il suo parlare,
     Promesso m’ha di far sentir quel duolo
     A Mensola, che a me ha fatto fare:
     Però s’ella esce mai fuor dello stuolo
     Dell’altre ninfe, io pur m’arrischieroe,
     Per forza o per amor la piglieroe.

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LI.

Così raccesa da questo disio
     La fiamma del suo petto, si dispose
     Di Mensola cercar per ogni rio,
     Finchè la troverrà: e a cotai cose
     Pensando, intanto il bel giorno appario
     Il quale egli aspettava con bramose
     Voglie, e soletto di casa s’uscia,

     E inver la fonte Aqueli se ne già.

LII.

E quivi giunto, alquanto vi ristette
     I sospiri amorosi rinnovando,
     Di qui, dicendo, mi fer le saette
     D’amor partire forte sospirando.
     E poi ch’egli ebbe tai parole dette,
     Saliva il poggio, la fonte lasciando,
     Ascoltando e mirando tuttavia,

     Se ninfa alcuna vedeva o sentia.

LIII.

Così salendo suso vers’il monte,
     Trasviato d’amore e dal pensiero,
     Alto portando sempre la sua fronte
     Per veder meglio ciaschedun sentiero,
     E le gambe tenendo preste e pronte
     Se gli facesse del correr mestiero,
     Ed ogni foglia che menar vedea
     Credea che fosse ninfa, e là correa.

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LIV.

Ma poichè cotai beffe ed altre assai
     Avien più volte il giovane ingannato,
     Senza nïuna ninfa trovar mai,
     E presso che ’n sul monte era montato,
     Quando un pensier gli disse: dove vai
     Pur su salendo, e mai null’hai trovato?
     E già è terza, io non vo’ più salire,

     Ma per quest’altra via voglio ora gire.

LV.

E inverso Fiesol volto, piaggia piaggia
     Guidato da amor ne gía pensoso,
     Caendo la sua amante aspra e selvaggia,
     Che faceva lui star maninconoso.
     Ma pria ch’un mezzo miglio passat’aggia,
     Ad un luogo pervenne assai nascoso
     Dove una valle due monti divide:

     Quivi udì cantar ninfe, e poi le vide.

LVI.

Quando appressato fu a quel vallone
     Alquanto udì un’angelica voce,
     Con due tenori, onde aspettar si pone
     Facendo delle braccia a Giove croce
     Con umil prego stando ginocchione,
     Dicendo: o Iddio, sarebbe in questa foce
     Mensola fra costoro? Or voglia Iddio
     Ch’ella vi sia, ch’i’ v’andrò ora anch’io.

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LVII.

Qual’è colui che ’l grillo vuol pigliare,
     Che va con lunghi e radi e leggier passi
     Senza far motto, tal’era l’andare
     Che Affrico facea su per que’ sassi,
     Pur dietro andando a quel dolce cantare
     Che nella valle udìa, e innanzi fassi
     Tanto che vide dimenar le fronde

     D’alcun querciuol che le ninfe nasconde.

LVIII.

Perchè senza scoprirsi s’appressava
     Tanto che vide donde uscia quel canto:
     Vide tre ninfe, ch’ognuna cantava;
     L’una era ritta, e l’altre due in un canto
     A un acquitrin che ’l fossato menava
     Sedieno, e le lor gambe vide alquanto,
     Che si lavavan i piè bianchi e belli,

     Con lor cantando lì di molti uccelli.

LIX.

L’altra che stava in piedi colse frondi
     E d’esse una ghirlanda ne facea,
     Poi sopra i suoi capelli crespi e biondi
     La si ponea, perchè ’l sol l’offendea:
     Poi per le sue compagne folte e fondi
     Ne fece due, e poi quelle ponea
     In su le trecce lor non pettinate,
     Le quali eran di frondi spampinate.

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LX.

E Affrico diceva fra sè stesso:
     E’ non mi par che Mensola ci sia:
     E poi fattosi a loro un po’ più presso,
     La sua mala ventura maledia,
     Dicendo: Vener, quel che m’hai promesso,
     Non pare ch’avvenuto ancor mi sia.
     Ma che farò? domanderò costoro

     S’elle la sanno, e scoprirommi a loro?

LXI.

Deliberato adunque il giovinetto
     Di scoprirsi a costor, si fece avanti,
     Oltre vicino a lor, poi ebbe detto
     Con bassa voce e con umil sembianti:
     Dïana, a cui il cor vostro sta suggetto,
     Vi mantenga nel ben ferme e costanti,
     O belle ninfe: non vi spaventate,

     Ma pregovi ch’un poco m’ascoltate,

LXII.

Io vo caendo una di vostra schiera,
     La qual Mensola credo che chiamata
     Sia da voi, per ciascuna riviera;
     E bene è un mese ch’io l’ho seguitata,
     Ma ella è tanto fuggitiva e fera
     Che sempre innanzi a me s’è dileguata;
     Però vi prego, dilettose e belle,
     Che la insegnate a me, care sorelle.

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LXIII.

Quali senza pastor le pecorelle,
     Assalite dal lupo e spaventate,
     Fuggono or qua or là le tapinelle,
     Gridando bè, con boci sconsolate:
     O qual fanno le pure gallinelle,
     Quand’elle son dalla volpe assaltate,
     Quanto più possono ognuna volando

     Verso la casa forte schiamazzando:

LXIV.

Tal fer le ninfe belle e paurose
     Quando vider costui: omè gridaro;
     Alzando i panni, le gambe vezzose,
     Per correr meglio, tutte le mostraro,
     E già nessuna ad Affrico rispose,
     Ma ricogliendo lor archi n’andaro
     Su per lo monte, e qual pur per le piagge

     Forte fuggìan, come fiere selvagge.

LXV.

Affrico grida: aspettatemi un poco,
     O belle ninfe, ascoltate il mio dire:
     Sappiate ch’io non venni in questo loco
     Per voi noiare o per farvi morire,
     Ma sol per darvi e allegrezza e gioco,
     In quanto voi non vogliate fuggire:
     Io vengo a voi come di voi amico,
     E voi fuggite me come nemico.

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LXVI.

Ma che ti vale, o Affrico, pregalle?
     Elle si fuggon pur verso la costa,
     E tu soletto riman nella valle
     Senza da loro avere altra risposta;
     Rimanti dunque di più seguitalle,
     Poichè ognuna a fuggire è pur disposta:
     Le tue lusinghe col vento ne vanno,

     E le ninfe di correr non ristanno.

LXVII.

Ell’eran già da lui tanto lontane
     Che di veduta perdute l’avea,
     Perchè di più seguirle si rimane,
     E fra sè stesso forte si dolea
     Di quelle ninfe sì selvagge e strane.
     Che farò dunque, lasso a me, dicea,
     I’ non ci veggo modo niun pel quale

     Io possa aver da loro altro che male.

LXVIII.

E non mi val lusinghe nè pregare,
     E nulla fare’ mai s’io mi tacessi:
     Io non posso con lor la forza usare,
     Che volentier l’userei s’io potessi;
     E s’io potessi almen pure ispiare
     Ove Mensola fusse, o pur sapessi
     Dove cercarne, o dove si riduce,
     Ma vo cercando com’uom senza luce.

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LXIX.

Tanto il diletto l’avea tranquillato
     Di Mensola cercare, e poi di quelle
     Ninfe che nella valle avea trovato
     Istare all’ombra di fresche ramelle,
     E poi del seguitarle trasviato
     Sol per saper di Mensola novelle,
     Che non s’accorse ch’egli era già sera

     E poco già lucea del sol la spera.

LXX.

Perchè malinconoso e mal contento
     Sè malediva, e la vegnente notte
     Che sì tosto venia, e poi con lento
     Passo scendeva giù per quelle grotte,
     Perchè di star più quivi avea spavento
     Delli animai crudeli, che a quell’otte
     Cominciavano a andar pe’ folti boschi

     Donando a chi trovavan de’ lor toschi.

LXXI.

Così senza aver punto il dì mangiato
     Verso la casa sua prese la via,
     Dove quel giorno dal padre aspettato
     Egli era stato con malinconia,
     Paura avendo che non fusse stato
     Da qualche bestia morto, ove che sia,
     E divorato con doglia l’avesse,
     Però a casa tornar non potesse.

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LXXII.

E ancora di Dïana avea temenza,
     Che non si fusse con lui abbattuto,
     Come nimica della sua semenza
     Sempre mai stata, e da lei fosse suto
     O morto o fatto per più penitenza
     Diventar pietra o albero fronzuto:
     E ’n ta’ pensieri stava lui aspettando,
     Ora una cosa or l’altra immaginando.