Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella III

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Prima parte
Novella III

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Beffa d’una donna ad un gentiluomo


ed il cambio che egli le ne rende in doppio.


Non son ancora molti anni, che in una cittá di Lombardia fu una onorata gentildonna, maritata molto riccamente, la quale era d’un cervel piú gagliardetto e capriccioso che a donna di gravitá non conveniva. Ella meravigliosamente si dilettava di dar la baia a tutti e spesso beffare alcuno, e poi in compagnia de l’altre donne ridersi di questo e di quello, di modo che nessuno ardiva far a l’amor con lei, o seco troppo dimesticarsi, perciò che essendo come era baldanzosa ed avendo tagliato, anzi rotto, il silinguagnolo, diceva tutto quel che in mente le cadeva, pur che a chi si fosse desse la sua e pungessi questo e quello. E perché nel vero non sta bene a gentiluomini contender con donne e voler con esse questionar con parole, ché sempre deveno esser riverite e da noi onorate, fuggivano quasi tutti di venir troppo con lei a parole, conoscendosi da tutti quanto era sfrenata di lingua e mordace, e che a nessuno portava rispetto. Ella era poi oltre misura bella e in tutte le parti che facciano una bella donna sí ben formata, e con sí leggiadre maniere e con tanta venustá e grazia il tutto faceva, ch’ogni cosa, ogn’atto, ogni cenno e ogni movimento pareva in lei accrescesse un certo non so che, con sí bell’aria, che ella in tutta Lombardia era senza pari. Erano stati alcuni che, non conoscendo intieramente la qualitá de la donna, s’erano messi a corteggiarla e far seco a l’amore, i quali ella, poi che di dolci sguardi aveva un tempo pasciuti, or con una or con un’altra beffa in modo se gli levava d’intorno, che gli incauti amanti restavano miseramente scherniti. E ancor ch’ella fosse, com’io v’ho divisato, spiacevole, nondimeno le piaceva d’esser vagheggiata, e spesso per meglio adescar gli amanti fingeva voler il giambo ed esser di questo o di quello accesa, ma in fine, come il grillo in capo le montava, pareva che nessuno conosciuto avesse giá mai, Ora avvenne che un ricco giovine e nobilissimo di quella cittá, ancor che udito avesse narrar le beffe da la donna a molti fatte e intese le condizioni di quella, veggendola cosí bella e leggiadra, e ogni dí pensando piú che non si conveniva a lei e a le bellezze che le parevano angeliche e non mortali, sí fieramente si trovò di quella innamorato, che ad altro non poteva rivolger l’animo e i suoi pensieri, e conobbe che piú era in poter d’altrui che di se stesso. E cosí varie cose di questo suo nuovo amore per la mente rivolgendo, e a le condizioni di quella, che gli erano state dette, pensando, e or lieto e or tristo divenendo, secondo che sperava e disperava, deliberò, per ogni via che a lui fosse possibile, acquistar l’amor di lei. Onde si messe a passar spesso per la contrada ov’ella albergava, e tutto il dí veggendola su la porta se le inchinava molto affettuosamente, e alora fermandosi o a piedi od a cavallo secondo che si trovava, si metteva a ragionar con lei. E ben che non fosse ardito di scoprirsele con parole, gli occhi tuttavia e i focosi sospiri parlavano per lui. Ella che avveduta e maliziosa era, e d’esser vagheggiata non mezzanamente si dilettava, e quel che era o forse piú si stimava, con la coda de l’occhiolino alcuna volta il guardava e s’ingegnava a poco a poco di mostrargli che di lui gl’increscesse. Aveva il giovine una sua sorella, la qual abitava appresso a la casa di questa sua innamorata. E perché non mi par di dir, per buon rispetti, i lor proprii nomi, avendo anco taciuta la cittá, nominaremo la sorella del giovine Barbara, e l’altra diremo Eleonora. Era Barbara rimasta vedova, e nodriva un picciol figliuolo che del morto marito l’era solo rimaso molto ricco, essendo lasciata donna e madonna dal marito. E andando il giovine, che Pompeio sará detto, a casa de la sorella, era sforzato passar dinanzi a la stanza d’Eleonora. Il che Pompeio si riputava a grandissimo favore, e tanto piú che sua sorella era molto domestica d’essa Eleonora, e sovente praticavano insieme. Ora ebbe egli un giorno tanto ardire, che a la sua innamorata manifestò tutto il suo amore, supplicandola che di lui volesse aver pietá ed accettarlo per servidore, molte altre cose dicendo, come costumano questi innamorati. La donna, che d’uomo del mondo non si curava, e non le pareva di beffar Pompeio per esser de’ primi de la cittá, lo risolse che d’altra donna si provedesse e che piú di simil materia non le favellasse. Il giovine, non sbigottito per questo, attendeva pur a seguitarla, e sempre che aveva comoditá entrava su ’l fatto suo. Ma ella sempre piú dura e piú ritrosa se gli mostrava. Di che egli si ritrovava mezzo disperato. Stando in questo modo la bisogna, avvenne ch’un giorno Pompeio a caso intese come il marito d’Eleonora se ne era ito in villa, essendo circa il fin di giugno. Il perché cadutogli in animo d’andar a parlar con la donna e a veder di renderla pieghevole a’ suoi amorosi disii, senza pensarvi su troppo, fatto d’amor audace e securo, montato su la mula, con i suoi servidori a casa di lei se n’andò, e mandati tutti i suoi con la mula a casa di sua sorella, commettendo loro che quivi l’aspettassero, entrò tutto solo dentro, essendo l’ora de la nona. Egli ebbe in questo la fortuna assai favorevole, perciò che la donna, che da merigge non dormiva, era in una camera terrena per scontro ad un uscio che in sala usciva, e quivi certi suoi lavori di seta faceva. Egli, entrato in casa e nessuno ritrovando, andò diritto a la sala, e posto il capo dentro vide la donna prima che da lei veduto fosse, ed entrato verso quella s’inviò. Ella alzata la testa vide il giovine e tutta sbigottí, perciò ch’ella era sola e ciascuno di casa dormiva. Onde, prima che egli parlasse, gli disse: – Oimè, Pompeio, chi v’ha ora qui cosí solo condotto? – Egli, fattole debita riverenza, le rispose: che avendo inteso che il marito suo era ito in villa, aveva voluto venir a visitarla e a starsi un pezzo a ragionar seco, e che senza esser visto, avendo prima mandato i suoi a casa de la sorella, era entrato dentro. Voleva egli entrar su l’istoria del suo amore, quando ella interrompendolo gli disse: – Oimè, a che pericolo voi mettete la vita vostra e la mia? e in qual bilancia ponete voi a questo punto l’onor mio? Perciò che il mio marito non è ito fuori de la cittá, e non può molto tardar che a casa non ritorni, ché essendo dopo il desinare andato per un certo servigio, deve esser in via di ritorno. Deh, Pompeio, se di me vi cale, se punto amate l’onor mio, partitevi. Che altrimenti il cor nel petto mi trema e parmi di veder a mano mano il mio marito. – Né aveva a pena queste parole dette, che il marito ne la strada parlava tanto alto, che ella a la voce lo conobbe, ed altresí riconobbelo Pompeio. Tremava di paura la donna, e Pompeio tutto tremante non sapeva che farsi. Stette il consorte de la donna alquanto dinanzi a la porta a ragionar con uno, prima che smontasse da cavallo. In questo ella da subito conseglio aiutata, in quella medesima camera ove Pompeio trovata l’aveva, il fece suso una gran cassa corcare, e con alcune vestimenta che quivi erano lo ricoprí sí bene, che nessuno di lui accorger si poteva, e comandògli che in modo alcuno punto non si scotesse. Svegliò poi una de le sue donne che in un camerino dormiva. Smontato il marito entrò in sala. Eleonora, fatto buon viso, con una ferma voce disse: – Chi è lá? chi viene? – Il marito le rispose, e rispondendo entrò dentro in camera e sovra il letto si messe a sedere. Indi disse a la moglie: – Consorte mia, io ho comperata una spada di lama vecchia da un pover compagno, la megliore e la piú fina che sia in questa cittá, e forse che un’altra simile non se ne trovarebbe di qui a molte miglia. Io ho pensato di farla un poco meglio imbrunire e di farle un bel fodro di velluto e poi donarla al nostro amico il capitan Brusco, ché certamente a cosí fatto uomo, come egli è, non sta bene altr’arme che questa. – E dicendo queste parole se la fece recare, e a la moglie mostrandola disse: – Ecco; mirate se ne vedeste mai una tale. – La donna alora scherzevolmente ridendo gli rispose: – Io non ho posto troppo mente a queste armi, ché non è mestieri da donne né me ne intendo, e non saprei che dir de la lor bontá, se non quando le veggio ben guarnite ed innorate, ché a quel modo mi paion belle. Ma io non so che vogliate di tante arme ed armature fare, quante ne avete dentro il vostro camerino, e poi non tagliareste una ricotta in tre colpi con queste vostre spade e scimitarre. Fareste meglio a comperar altre cose e a spender i vostri danari in cose di piú profitto. – Mai sí, – rispose egli, – io comprerò de le cuffie e di quelle bagattelle che voi tutto ’l dí comperate, e ogni giorno, se non avete nuove foggie di conciature di capo, nuovi colletti, e coperte fregiate d’oro a la carretta, con quattro corsieri del reame di Napoli o quattro gran frisoni, par che non possiate comparire. – Sí sí, – soggiunse la donna, – dite pur sempre mal de le donne, e date lor contra. Queste cosette stan ben a noi e sono nostre proprie; ché se noi ci abbigliamo cosí a la carlona, senza aiutar con l’arte le nostre natural bellezze, voi altri ci beffate e dite che noi siamo mal nette, vestite a la contadinesca e da star in cucina. Poi, come vedete alcuna altra ben abbigliata, ancor che non sia bella, pur che sia col viso ben impastato e con la pezzuola di Levante fatto rosso, le correte dietro come la capra al sale. Sapete ben ch’io vi conosco. Ma in cose d’arme che faceste mai voi? che pare a tante arme, come avete, che siate capitan de l’imperadore, e giá v’ho detto che voi non tagliareste una ricotta. – Bene sta, – disse il marito, – che io debbo aver le braccia di cera od essere assiderato. In fé di Dio che io con questa lama tagliarei un cavallo in due parti in un colpo solo, tanto è tagliente, buona e fina. – Sorrise in questo la moglie, e levatasi in piedi se n’andò appresso ove era celato Pompeio, e messa la mano sovra una de le sue vesti ch’era di velluto carmesino, sotto a cui l’amante era nascosto, disse al marito: – Mi vien voglia di giocar con voi qualche bella cosa che in dui colpi voi non la tagliate questa veste, qui ove io ho la mano, – e la mano aveva suso le gambe di Pompeio. Era in quel punto montata la fantasia a la donna di far una solenne paura a l’amante, e per questo invitava il marito a voler tagliar la veste, non perciò avendo animo che l’effetto seguisse. Pensate or voi che animo deveva aver Pompeio, il quale sentendo ciò che la donna diceva rimase piú morto che vivo, fu vicino a palesarsi e a saltar fuori. Ma trovandosi solo e non avendo arme da diffendersi, e sentendo che il marito era con i servidori in camera e aveva tuttavia la spada in mano, il faceva star tanto mal contento, che gli pareva essere con il capo su ’l ceppo e d’aver il manigoldo con la mannara di sopra, che dovesse ferirlo. Cosí varie cose tra sé rivolgendo, e pensando pur ch’egli aveva tante vestimenta a dosso, che non gli pareva esser possibile che in un tratto fossero tagliate, restò col cor tremante, aspettando che fine questi ghiribizzi d’Eleonora devessero riuscire, e sudava d’un sudor freddo come un freddissimo ghiaccio. Ora, teneva pur detto la donna al marito che cosa egli volesse giocare, che quella veste non tagliarebbe. Il marito le disse: – Moglie, io non so che profitto né a voi né a me ci rechi il guastare le vostre vestimenta, perché mi par che a tutti dui sarebbe di danno. Ma facciamo la prova in qualche altra cosa, e vederete che dolce taglio sará quello di questa spada, che non ci è rasoio che tanto tagli. – Giochiamo, giochiamo, – rispose la donna, – su questa vesta, che se voi la tagliate, io vi farò far un saio di broccato d’oro, riccio sovra riccio, e se non potrete tagliarla voi mi farete aver una veste di raso bianco. – Aveva ella alcune entrate da per sé, per una ereditá che le era da una sua zia stata lasciata, da la quale non picciolo profitto cavava; per questo parevale poter liberamente col marito giocare. Egli veggendo pur la donna sua deliberata di veder la prova de la tanto lodata spada, dopo alcuni contrasti vi s’accordò, e levatosi da sedere e alzato il braccio, disse: – Donna, ditemi: ove volete che io percuoti e taglie? – Aveva ella, come s’è detto, la mano su la veste dritto a le gambe, e levatola via la pose per iscontro a le coscie di Pompeio e disse: – Tagliate qui, se vi dá l’animo di riuscirne con onore. – Dite voi da senno o mi burlate? – disse il marito, – ché per l’anima mia io ve ne caverò ad un tratto la voglia. – Da dovero dico e da meglior senno che io mi abbia, – soggiunse ella. – Ma forse vi potrebbe venir fatto che qui di leggiero tagliareste, ma non perciò qui, – e pose alor la mano quasi sovra il petto del nascosto amante, e dal petto la pose per mezzo il collo, e disse: – Orsú, tagliate qui, dov’è questo nastro giallo, – e tuttavia vi teneva su la mano. Il marito alora essendosi concio in atto di ferire, disse a la moglie: – Fatevi in costá, se volete ch’io vi faccia veder ciò che questa spada sa fare, e vederete un colpo per una volta. – Erano de l’altre robe sotto a Pompeio e a dosso. Onde ridendo al marito disse: – In buona fé, io credo che voi sète cosí buono che mi guastareste queste vesti. Andate andate, ché quando le aveste guaste, io non so quando poi n’avessi de l’altre. La forza del vostro braccio io non vo’ per ora che si dimostri sovra i miei panni. – E con queste ed altre parole condusse il marito fuor di camera, il quale montato a cavallo andò per la cittá a diporto. Ella, mandate le sue donne per casa a far faccende, entrò in camera e scoperse il povero amante che era piú morto che vivo, e mille volte la donna, se stesso e il suo amore aveva biasimato. Scoperto che la donna l’ebbe, sorridendo gli disse: – Or via, andate per i fatti vostri, e piú non mi molestate di cose d’amore, perciò che ogni volta che voi ardirete venirmi in casa a questo modo, io di tal moneta vi pagherò, e forse di peggiore. – Pompeio preso alquanto d’animo: – Signora mia, – le rispose, – non incolpate altro se non il troppo amore, che a far questo m’ha sospinto. – E non volendo ella che moltiplicasse in parole, si partí tutto combattuto d’amore e da sdegno. E pensando in che modo poteva goder del suo amore e de la donna vendicarsi, gli cadde ne l’animo uno strano pensiero, ed altro non aspettava se non l’occasione, e come prima corteggiava e seguiva la donna, la quale quando lo vedeva era astretta a ridere, ricordandosi come trattato l’aveva. Avvenne, non molto dopo, che il marito d’Eleonora partí di Lombardia e andò a Roma, ove sapendo Pompeio che qualche mese egli starebbe, l’istesso dí che quello se n’andò, egli finse d’esser infermo, e fece per la cittá divolgar che la sua infermitá era gravissima. Onde alcuni giorni chiuso in camera dimorò, avendo un solenne medico a la cura sua, che tanto faceva quanto voleva Pompeio. Aveva anche de l’animo suo instrutta madonna Barbara sua sorella. Questa un dí invitò madonna Eleonora a desinar seco, la qual di grado accettò l’invito, perché tra loro era gran domestichezza. Mentre desinavano e del mal di Pompeio ragionavano, venne un servidore e a madonna Barbara disse: – Signora, egli è in quest’ora venuto a vostro fratello un strano accidente, e ha perduta la favella. – Oimè, – rispose ella, – fa metter in ordine la carretta. – E confortandola madonna Eleonora e offerendosi andar seco, lasciate le donzelle in casa a desinare, elle montarono amendue in carretta, e calate l’antiporte de la carretta, se n’andarono di lungo a casa di Pompeio. Egli era nel letto in una camera molto oscura. Arrivarono in camera le due donne e accostatesi al letto gli disse la sorella: – Fratello, fa buon animo; ecco qui madonna Eleonora, ch’è venuta a visitarti. – Egli con debolissima voce dicendo alcune parolucce che non s’intendevano, mostrava star malissimo. I servidori, che ammaestrati erano, lasciarono le due donne col padrone; madonna Barbara, mostrando di far non so che, se n’uscí scaltritamente di camera e serrò l’uscio. Come lo scaltrito giovine s’accorse di aver in preda la sua crudel innamorata, saltò del letto e gettatole le braccia al collo, le disse: – Voi sète mia prigioniera. – Voleva ella uscirgli di mano, ma indarno si scuoteva. Egli, tenendola ferma, aperse una finestra. Piangeva la donna conoscendo che il gridare non le valeva, e fieramente di madonna Barbara si lamentava, nomandola disleale e traditora. Il giovine con amorevol parole la confortava a la meglio che poteva, dicendole che mettesse l’animo in pace perciò che egli era disposto giacersi seco amorosamente, e che mai da le mani sue non uscirebbe fin ch’egli non avesse avuto il suo intento, e vendicato non si fosse de la fiera e spaventevol beffa che ella fatta contra ogni convenevolezza gli aveva. Ma che in questo sarebbero assai differenti, con ciò sia cosa che egli non adoprarebbe ferro. Ella a modo alcuno non si voleva dar pace, ed essendo, com’era, superba, ritrosa e forte, piena di sdegno arrabbiava di còlera e di stizza, e non v’era ordine che in modo alcuno si volesse acquetare. E cosí dirottamente piangendo e senza aita e soccorso in poter del suo amante veggendosi, voleva disperarsi. Pompeio, poi che buona pezza l’ebbe lasciata piangere e fieramente lamentarsi, avendosela recata in braccio e a mal grado di lei piú volte basciatole la bocca e il petto, cominciò di nuovo a rammentarle le cose vecchie, e sí le disse: – Signora mia, voi sapete quanto tempo è ch’io vi son stato servidore, e che cosa non era al mondo per difficil che si fosse, che io per amor vostro non avessi fatta. Voi molte fiate mi faceste buon viso e mostraste che v’era caro ch’io vi servissi. E perché mi pareva non aver né luogo né tempo comodo a manifestarvi il mio ferventissimo amore, e come per voi era privo d’ogni pace e riposo, avendone perduto il cibo e ancora il sonno, mi deliberai pigliar quella comoditá che a me pareva d’aver trovata, quando mi fu detto che il consorte vostro era andato in villa. Cosí tremando e ardendo venni a trovarvi. Voi devete ricordarvi de la maniera che mi trattaste, e ciò che contra ogni convenevolezza faceste. E se per sorte l’alterezza e superbia vostra v’avessero levato di mente l’estrema paura che mi faceste in quel punto, devete creder ch’io non me l’ho smenticata, anzi ognora l’ho nel core, e sovviemmi tuttavia che voi, non l’avendo io meritato, mi poneste a rischio di morire. Non devevate usar quei termini meco, ma conoscendomi, come mi conoscevate, ch’io v’amava, se l’amor mio non vi piaceva, potevate darmi onesta licenza, che io averei messo l’animo altrove. Ora io intendo prender di voi quella vendetta che mi parrá. E sapendo che a casa mia di vostra voglia non sareste venuta, mi son ingegnato con inganno ivi condurvi, ov’ora essendo, farete gran bene a darmi quel che tormi non potete. – A la fine, dopo molti contrasti, ella fu astretta a spogliarsi ed entrar con l’amante nel letto, ove giocarono piú fiate a la lotta, e sempre a lei toccò a trovarsi di sotto. Onde Pompeio prese quel amoroso piacer di lei, che tanto aveva bramato. Dopo la fine del giocar de le braccia, aperse Pompeio uno degli usci de la camera e fece la donna entrar in un’altra camera ricchissimamente apparata, dentro a cui era un letto che sarebbe stato onorevole per ogni gran signore. V’erano quattro materazzi di bambagio, con le lenzuola sottilissime tutte trapunte di seta e d’oro. La coperta era di raso carmesino tutta ricamata di fili d’oro, con le frange d’ognintorno di seta carmesina, meschiata riccamente con fila d’oro. V’erano quattro origlieri lavorati meravigliosamente. Le cortine di tocca d’oro carmesine di preciose liste vergate, circondavano il ricco letto. La camera, in luogo di razzi, era di velluto carmesino maestrevolmente ricamato tutta vestita, nel mezzo de la quale v’era una condecente tavola coperta d’un tapeto di seta, ed era alessandrino. Vi si vedevano poi otto forsieri fatti d’intaglio molto belli, posti intorno a la camera. V’erano anco quattro catedre di velluto carmesino, e alcuni quadri di man di mastro Lionardo Vinci il luogo mirabilmente adornavano. In questo mezzo aveva madonna Barbara fatto venire circa venticinque gentiluomini giovini de’ primi de la cittá. Avvisato di questo Pompeio, che giá aveva fatto corcar in quel letto la donna, e copertole il viso d’un velo ricchissimo e profumata la camera di legno aloè, d’augelletti cipriani, di temperati muschi e di altri odori, fece ritrar le cortine, comandando a la donna che non facesse movimento alcuno per cosa che ella udisse. Dopo queste cose egli riccamente vestito, in viso tutto allegro, entrò in sala e con grate accoglienze quei gentiluomini raccolse. Quivi da tutti con grandissima meraviglia fu veduto, con ciò sia cosa che ciascuno il tenesse per gravissimamente infermo. Il perché egli che l’ammirazion di quelli poteva di leggero indovinare, in questa maniera disse loro: – Signori ed amici miei, io credo che tutti voi forte di me devete meravigliarvi, veggendomi qui sano che dianzi credevate che io gravemente infermassi. Egli è vero che io sono stato molto male ed in periglio de la vita; ma oggi presi una salutifera medicina, che m’ha, come vedete, guarito. E perché so che tutti del mio male prendevate dispiacere, hovvi voluto con la presenza mia rallegrare. Voglio altresí farvi veder quella salutifera medicina che m’ha sanato, con questo che io vo’ che tutti m’impegnate la fede vostra di non movervi per cosa che si faccia. – Con questo gli introdusse in camera. Parve a chi v’entrò d’entrar in un paradiso, tanto era bello il luogo, e tanto soave odor spargeva. La donna, che queste genti sentí, e forse a la voce alcun parente o suo domestico conobbe, tutta tremante stava, non sapendo ciò che Pompeio far volesse. Or poi ch’assai fu l’apparato da tutti a piena voce lodato, e ciascuno desiderava vedere chi in letto giacesse, disse Pompeio: – Dentro questo letto, signori miei, è la preciosa e salutifera medicina che oggi m’ha sanato, la quale io intendo farvi vedere, ma a parte a parte. – Cosí detto, avvertendo che il volto non si scoprisse, egli con l’aita d’un suo servidore levò soavemente via la coperta dal letto, di modo che la donna restò solamente coperta da un sottilissimo lenzuolo, che nessuna parte del delicato e morbido corpo pienamente nascondeva. Pompeio dopo, levato un poco di lenzuolo, scoperse dui piedi bianchissimi piccioli alquanto lunghetti, con le dita che parevano d’avorio schietto sottili e lunghe, e con l’unghie che di perla rassembravano. Né guari stette ch’egli scoperse quasi tutte le coscie. Essendo la donna distesa, a l’aparir de le delicate gambe e coscie, sentirono i riguardanti svegliar tal che dormiva. Domandò loro Pompeio che gli pareva di cotal medicina. Eglino sommamente la commendarono, desiderando di saporirla. In questo egli, con una parte del lenzuolo, ascoso ciò che tra le coscie dimora, tutto il petto fin a la gola scoperse, il che a’ riguardanti fu di mirabilissima gioia a vedere, perciò che essendo quel corpo bellissimamente formato, era il petto oltra ogni credenza meravigliosamente bello. Miravano tutti con diletto incredibile il ben rilevato e candidissimo petto, con due poppe ritonde e sode che parevano formate d’alabastro, se non che, tremando ella, vi si vedeva un certo ondeggiamento, che mirabil gioia rendeva. Aspettavano tutti veder l’angelico viso, quando Pompeio in un tratto le scoperte membra ricoperse, e condusse i gentiluomini in sala, ove madonna Barbara aveva fatto preparar de le frutte che la stagione apportava, con confetti ed ottimi vini. E confettando e bevendo, diverse cose dissero, andando poi ciascuno ove piú gli era a grado. Mentre le frutte si mangiavano, madonna Barbara, entrando dove madonna Eleonora ancor in letto giaceva, le disse: – Madonna, mio fratello v’ha pur reso pan per ischiacciata? – Ella piangendo la pregò che le facesse recar i panni, di lei che tradita l’aveva forte rammaricandosi. Sovravvenne Pompeio, e salutandola le disse: – Signora mia, noi siamo par pari. Tuttavia la ragion vuole che voi abbiate il torto, – e tante cose le disse che la si pacificò. E giá gustato avendo gli abbracciamenti de l’amante esser piú saporosi di quelli del marito, si lasciò in tutto passar la còlera, e fece di modo che lungo tempo goderono del loro amore, e lasciando di beffar piú nessuno divenne piacevole e gentilissima. E perciò, donne mie care, imparate a non beffar altrui, se non volete esser beffate con forse doppia vendetta.


Il Bandello a l’illustrissima ed eccellentissima


signora la signora Isabella da Este


marchesana di Mantova


Piú volte, madonna, dopo il pietoso caso de la morte de la contessa di Cellant, m’è sovvenuto di quel che voi, non è gran tempo, nel vostro amenissimo luogo a Diporto mi diceste, alor che ella ne le prime nozze era moglie del nostro signor Ermes Vesconte, che Dio abbia in gloria, perciò che egli era riputato esser di lei geloso. Del che era in Milano assai biasimato. Egli non permetteva che ella praticasse in molti luoghi, se non in casa de la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, ove spesso io la vedeva e seco domesticamente ragionava. Onde mi ricordo che, essendo ella fanciulletta, e volontarosa, come le fanciulle sono, d’andar a le feste con quella libertá che le donne milanesi vanno, pregò essa signora Ippolita, che l’impetrasse dal marito di poter andar in certo luogo, massimamente essendovi invitata. La signora Ippolita fece in effetto l’ufficio a la presenza mia con il signor Ermes, un giorno che di compagnia eravamo noi tre soli a ragionar insieme. Ascoltò il signor Ermes la richiesta fattagli, e poi sorridendo cosí le rispose: – Io, signora mia, non mi guarderò dal Bandello, sapendo quanto egli v’è servidore ed amico mio. Voi mi perdonarete s’io non lascio andar la mia moglie ov’ella vuole e se non le do tanta libertá quanta in Milano si costuma, perché io conosco il trotto e l’andar del mio polledro, non mi parendo di lasciargli la briglia sul collo. E chiedovi di grazia che di questo piú non mi parliate. Ché da questa casa in fuora, ove di giorno e di notte può sempre venire, quando voi ci sète, io non vo’ che pratichi altrove. – Per queste parole la signora Ippolita ed io, poi che egli si fu partito, ragionammo assai onde ciò avvenisse, ma al vero perciò mai non ci sapemmo apporre. Ora la fine che la sfortunata ha fatto e la vita che ella dopo la morte del signor Ermes viveva, hanno tutti quelli sgannati, che pensavano il suo marito esser geloso. Ma il savio signore sapeva molto bene ciò che si faceva, e, come disse, conosceva il trotto de la sua chinea. E nel vero fu il signor Ermes giovine molto prudente e saggio, e la governò mentre che visse di tal maniera, che ella era stimata una de l’oneste e costumate donne di Milano. Ma in questo mi par ch’egli grandemente s’ingannasse, perciò che sendo, come si sa, uno dei primi gentiluomini di questa cittá, nobilissimo e ricchissimo, deveva prender per moglie donna nobile e ben nata e in casa nobile nobilmente nodrita, e non pigliar una che in conto alcuno di sangue non se gli agguagliava, tratto solamente da la grandezza de la roba tutta fatta d’usura. Chi vuol nodrire razze di cavalli, ricerca cavalle generose prodotte da buone e nobili cavalle. Medesimamente costoro che de la caccia si dilettano, se i cani, siano di qual sorte si voglia o per augelli o per fiere, non sono di buona razza, non li vogliano, e con diligenza investigano qual fu il padre e qual fu la madre; e se per sorte una lor cagna è coperta da tristo cane, tutti i figliuoli che nascono gettano a l’acque. Che dirò io? se l’uomo vuol comprar panno o scarpe, vuol che di buona lana e di buon coio siano. E nel prender moglie altro oggidí non si ricerca che roba. E nondimeno a questo piú si deverebbe metter mente e con maggior cura intender, chi fu il padre e chi la madre, che al resto. Io non vo’ nomar uno dei primi feudatarii di Lombardia, il quale, per aver il favor del duca Galeazzo, prese per moglie una figliuola d’un suo capitano che era pazza da catena. E sí bene gliene avvenne, che tutti i figliuoli che generò, ancor che fossero gran signori e ricchi, erano nondimeno tutti pazzi, e fecero molte solennissime pazzie, che forse sono state cagione de la rovina di quella schiatta. Ragionandosi adunque di questa materia, non è molto, e varie cose dicendosi, messer Antonio Sabino, uomo di buone lettere e di molta esperienza, governator dei signori conti Bolognini, figliuoli del conte Matteo Attendulo e de la signora Agnese da Correggio, signori di Sant’Angelo, disputò buona pezza sovra questa materia, dichiarando con gran piacer degli ascoltanti tutte quelle parti che in una giovane da maritare si deveno diligentemente ricercare, conchiudendo con vive ragioni che l’ultima de’ esser la dote. Essendosi venuto su ’l particolar de la signora Bianca Maria, io, perché alora che la sua fine occorse era in Romagna, il pregai che per mia sodisfazione volesse narrarmi l’istoria degli amori infelicissimi e morte di quella. Il che egli, che sempre è prontissimo a l’ubidir in tutto quel che può agli amici, puntalmente al mio giudicio mi recitò. Onde avendola scritta per metterla con l’altre mie novelle, a ciò che con loro poi possa a qualche tempo esser letta, le ho voluto preporre il nome vostro e a voi donarla. E cosí questa, madonna mia illustrissima, vi mando, supplicandovi umilissimamente a non sdegnarvi se in cosa di cosí picciol momento del valoroso e vertuoso nome vostro mi prevaglio. Il nostro gentilissimo messer Mario potrá talor, quando non vi rincrescerá, questa leggervi. Nostro Signor Dio vi conservi.