Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella IV

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Prima parte
Novella IV

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La contessa di Cellant fa ammazzare il conte di Masino


e a lei è mózzo il capo.


Voi, signori miei, devete sapere che questa signora Bianca Maria de la quale s’è parlato – dico signora per rispetto ai dui mariti che ha avuti – fu di basso sangue e di legnaggio non molto stimato, il cui padre fu Giacomo Scappardone, uomo plebeo in Casal di Monferrato. Questo Giacomo, tutto quello che aveva ridotto in danari, si diede a prestar ad usura publicamente con sí larghi interessi, che avendo da giovine cominciato a far questo mestieri, ci divenne tanto ricco che comperò possessioni assai, e tuttavia prestando e poco spendendo acquistò grandissime facultá. Ebbe per moglie una giovane greca, venuta di Grecia con la madre del marchese Guglielmo, che fu padre de la duchessa di Mantova. Era la moglie di Giacomo donna bellissima e piacevol molto, ma dal marito assai differente d’etá, perciò che egli era giá vecchio ed ella non passava venti anni. Ebbero una figliuola senza piú, che fu questa Bianca Maria, per la quale ho cominciato a parlare. Morí il padre e restò questa figliuola molto picciola sotto il governo de la madre greca, con facultá di beni stabili al sole per piú assai di cento mila ducati. Era la figliuola assai bella, ma tanto viva e aggraziata che non poteva esser piú. Come ella fu di quindeci in sedeci anni, il signor Ermes Vesconte, figliuolo di quel venerando patrizio il signor Battista, la prese per moglie, e con solennissima pompa e trionfi grandissimi e feste la condusse in Milano. A la quale, prima ch’ella v’entrasse, il signor Francesco, fratel maggiore del signor Ermes, mandò a donar una superbissima carretta tutta intagliata e messa ad oro, con una coperta di broccato riccio sovra riccio tutto frastagliato e sparso di bellissimi ricami e fregi. Conducevano quattro corsieri bianchi come uno armellino essa carretta, e i corsieri medesimamente erano di grandissimo prezzo. Su questa carretta entrò la signora Bianca Maria trionfantemente in Milano, e visse col signor Ermes circa sei anni. Morto che fu il signor Ermes, ella si ridusse in Monferrato a Casale, e quivi trovandosi ricca e libera, cominciò a viver molto allegramente e fare a l’amor con questo e con quello. Ella era da molti vagheggiata e domandata per moglie, fra i quali erano principali il signor Gismondo Gonzaga figliuolo del signor Giovanni e il conte di Cellant barone di Savoia, che ha il suo stato ne la valle d’Agosta, e v’ha molte castella con bonissima rendita. La marchesana di Monferrato per compiacer al genero signor di Mantova faceva ogni cosa per darla al signor Gismondo, e quasi il matrimonio era per conchiuso. Ma il conte di Cellant seppe sí ben vagheggiarla e dirle sí fattamente i casi suoi, che celatamente insieme si sposarono e consumaron anco il matrimonio. La marchesana di Casale, ancor che questo sommamente le dispiacesse e fosse per farne qualche mal scherzo a la signora Bianca Maria, nondimeno dissimulando lo sdegno, per rispetto del conte non fece altro movimento. Si publicò adunque il matrimonio e si fecero le nozze con tristo augurio, per quello che seguí. E parve bene esser vero il proverbio che volgarmente fra noi si dice, che chi si piglia d’amore, di rabbia si lascia, perciò che non stettero molto insieme che nacque una discordia tra loro la piú fiera del mondo, di modo, che che se ne fosse cagione, ella se ne fuggí dal marito furtivamente, e in Pavia si ridusse, ove condusse una buona ed agiata casa, menando una vita troppo libera e poco onesta. Era in quei giorni al servigio de l’imperadore Ardizzino Valperga conte di Masino, col signor Carlo suo fratello. E per sorte trovandosi Ardizzino in Pavia e veggendo costei, se ne innamorò, e tutto il dí le stava in casa, facendole il servidore e usando ogni arte per venir a l’intento suo. E quantunque fosse un poco zoppo d’un piede, era nondimeno giovine assai bello e molto gentile, di modo che in pochi giorni venne de la donna possessore, e piú d’un anno si diede il meglior tempo del mondo seco, cosí manifestamente, che non solamente ne la cittá di Pavia, ma per tutta la contrada se ne tenevano canzoni. Avvenne che il signor Roberto Sanseverino conte di Gaiazzo, giovine de la persona valente e gentilissimo, capitò a Pavia, al quale la signora Bianca Maria gettati gli occhi a dosso, e giudicatolo meglior e piú gagliardo macinatore che non era il suo amante, del quale forse ella si trovava sazia, deliberò procacciarselo per nuovo amante. Onde cominciando a far mal viso al signor Ardizzino e non le volendo dar piú adito di ritrovarsi seco, vennero insieme a qualche triste parole. La giovane, piú baldanzosa che non si conveniva, e non pensando ciò che seco aveva fatto, cominciò a dirgli villania, non solamente chiamandolo zoppo sciancato, ma dicendogli molte altre vituperose parole. Egli, che mal volentieri portava in groppa, allargato il freno a la sua còlera, le diede piú volte de la putta sfacciata per la testa e de la bagascia e de la villana, di modo che dove era stato grandissimo amore vi nacque ne l’una parte e ne l’altra un fierissimo odio. Partí da Pavia il signor Ardizzino, e in ogni luogo ove accadeva che de la signora Bianca Maria si ragionasse, ne diceva tutti quei vituperosi mali che d’una femina di chiazzo si potessero dire. Ella a cui spesso era riferito il male che di lei il vecchio amante diceva, fece cosí col conte di Gaiazzo, che tutta in preda se gli diede. E pensando d’averlo di tal maniera adescato che di lui a modo suo potesse disporre, essendo un dí sui piaceri amorosi, e mostrando il conte tutto struggersi per lei, ella gli chiese di singolarissima grazia che volesse far ammazzar il signor Ardizzino, che altro non faceva che dir mal di lei. Il conte, udendo cosí fatta proposta, si meravigliò forte. Tuttavia le disse che non solamente farebbe questo, ma che per farle servigio era per far ogni gran cosa, e che era presto sempre a servirla. Da l’altra parte, conoscendo la malignitá de la donna e che il signor Ardizzino era persona nobilissima ed amico suo, dal quale mai non aveva ricevuto dispiacere alcuno, deliberò di non gli voler nuocere, e tanto piú parendogli che piú tosto il signor Ardizzino averebbe avuto qualche color di ragione di reputarsi offeso da lui, che l’aveva, nol sapendo perciò, cacciato de la possessione amorosa de la signora Bianca Maria. Attendeva dunque il conte a darsi buon tempo con la detta donna, e cosí perseverò alcuni mesi. Ma veggendo ella che il conte, essendo stato due o tre volte il signor Ardizzino a Pavia, non l’aveva mai fatto assalire, né cercato di farlo ammazzare, anzi l’aveva accarezzato, e mangiato alcune volte con lui di compagnia, deliberò levarsi da questa pratica del conte. Ora, che che se ne fosse cagione, cominciò a fingersi inferma e a non si lasciar piú veder da esso conte, trovando or una scusa ed or un’altra, e massimamente che il suo marito monsignor di Cellant le aveva mandato messi per riconciliarsi seco, e che ella era d’animo di far ogni cosa per ritornar col marito. Per questo che lo pregava a non voler piú praticar con lei, a ciò che quelli che dal marito venivano a Pavia potessero far buona relazione di lei. Il conte di Gaiazzo, o credesse questa favola o no, mostrò almeno di crederla, e senza altre parole se ne levò, e da questa amorosa impresa si distolse; e per non aver occasione di ritornarvi, da Pavia si partí e andò a Milano. La signora Bianca Maria, veggendo il conte esser partito, e sovvenendole che era piú libera col signor Ardizzino che sommamente l’amava, tornò a cangiar l’odio in amore, o forse, per dir meglio, a cambiar appetito. E tra sé deliberata di ritornar al primo gioco amoroso con il detto signor Ardizzino, ebbe modo di fargli parlare e di scusarsi seco, con fargli intendere che ella era tutta sua e che perpetuamente intendeva d’essere, se da lui non mancava, pregandolo che egli volesse far il medesimo e disporsi a voler in tutto e per tutto esser di lei, sí come giá ella era determinata esser eternamente di lui. Le cose si praticarono di tal maniera, che il signor Ardizzino ritornò di nuovo al ballo e riprese un’altra volta il possesso dei beni amorosi de la signora Bianca Maria, e di continovo, giorno e notte, era con lei. Stettero insieme piú e piú giorni, quando cadde ne l’animo a la donna di far ammazzare il conte di Gaiazzo. E chi le avesse chiesto la cagione, dubito io assai forte che non averebbe saputo trovarne alcuna, se non che, come donna di poco cervello e a cui ogni gran sceleratezza pareva nulla, averebbe addutti i suoi disordinati e disonestissimi appetiti, dai quali senza ombra alcuna di ragione, non dico governata, ma furiosamente spinta, a l’ultimo e sé ed altri a miserando fine condusse, sí come ascoltandomi intenderete. Entrata adunque in questo umore, e non le parendo di poter allegramente vivere se il conte di Gaiazzo restava in vita, e non sapendo che altra via trovare, se non indurre il signor Ardizzino a servirle di manigoldo, essendo seco una notte nel letto e scherzando amorosamente insieme, gli disse: – Sono piú dí, signor mio, che io aveva animo di chiedervi un piacere, e vorrei che voi non me lo negassi. – Io sono – rispose l’amante – per far tutto quel che mi comandarete, quantunque la cosa che vorrete sia difficile, pur che sia in mio poter di poterla menar a fine. – Ditemi, – soggiunse ella, – il conte di Gaiazzo come è vostro amico? – Certamente, – disse alora egli, – io credo che mi sia amico e buono, perciò che io l’amo da fratello, e so ch’egli ama me, e che ove potesse mi farebbe ogni piacere, sí come io farei a lui. Ma perché mi chiedete voi questo? – Io vel dirò, – rispose la donna; ed amorosamente baciandolo piú di sei volte, soggiunse: – Voi sète, vita mia, gravemente ingannato, perché io porto ferma openione che non abbiate il maggior nemico al mondo di lui. E udite come io lo so, a ciò che non vi pensassi che cotesta fosse una imaginazione. Quando egli praticava meco, venimmo a certo modo a ragionar di voi, dove egli mi giurò che non si trovarebbe mai contento se non vi faceva un dí ficcare un pugnale avvelenato nel petto, e che sperava in breve di farvi fare un cosí fatto scherzo che piú non mangiareste pane. E molte altre male parole mi disse di voi; ma la cagione che a questo lo movesse non mi volle egli discoprir giá mai, quantunque io molto affettuosamente ne lo ricercassi. Tuttavia, ancor ch’io fossi in còlera con voi, non restai perciò di pregarlo che non si mettesse a cotesta impresa. Ma egli mi replicava iratamente che era determinato di farlo e che io gli parlassi d’altro. Sí che guardatevi da lui e andate avvertito mettendo mente ai casi vostri. Ma se voi mi credessi, io vi consigliarei ben di modo che non avereste tema di lui né de le sue bravarie. Io giocarei di prima, e ciò ch’egli cerca di fare a voi, io farei a lui. Voi avete benissimo il modo di potergliela cingere, e ne sarete sempre lodato e tenuto da piú. Credetelo a me, che se voi non cominciate prima, egli non dormirá, ma un giorno che voi non ci porrete mente, egli vi fará ammazzare. Fate al mio conseglio, fatelo ammazzare quanto piú tosto potete, ché oltre che farete il debito vostro ed ufficio di cavaliero assicurando la vita vostra che vi deve esser carissima, a me anco farete voi un dei piú singolari piaceri che mi possano oggidí esser fatti. E se per vostro conto non lo volete fare, fatelo per amor mio, ché se voi mi donassi una cittá non mi sarebbe il dono cosí caro, come veder questo scilinguato morto. Sí che se m’amarete, come credo mi amate, voi levarete dal mondo questo superbo ed arrogante, che non stima né Dio né gli uomini. – Poteva la donna persuadere al signor Ardizzino questa sua favola esser vera, se non avesse mostrato questa sua ultima affezione, di modo che egli giudicò la donna essersi mossa per odio particolare che al conte portava e non per cagion di lui, e tenne per fermo che il conte mai non l’avesse fatto motto di simil materia. Nondimeno mostrò aver avuto molto a caro simil avviso, e senza fine ne la ringraziò, promettendole di attenersi al suo saggio conseglio. Ma egli non era giá per seguirlo, anzi aveva in animo d’andare a Milano e di parlarne col conte, come fece; ché, tolta l’oportunitá, essendo in Milano si ridusse a ragionamento col conte, e puntalmente gli aperse tutto ciò che da la donna gli era stato detto. Il conte si fece il segno de la croce, e tutto pieno di meraviglia disse: – Ahi putta sfacciata che ella è. Se non fosse che non può esser onore ad un cavaliero d’imbruttarsi le mani nel sangue di donna, e massimamente di donna vituperosa come è costei, io le cavarei la lingua per dietro la nuca; ma prima vorrei che ella confessasse quante volte m’ha con le braccia in croce supplicato che io vi facessi ammazzare. – E cosí l’un l’altro discoprendo le magagne de la rea femina, conobbero la malignitá sua. Il perché ne dissero quel male che di rea e disonesta femina si possa dire, e in publico e in privato narravano le ribalderie di quella, facendola divenir favola del popolo. Ella, sentendo ciò che questi signori di lei dicevano, ancor che mostrasse non se ne curare, arrabbiava di sdegno e ad altro non pensava che a potersene altamente vendicare. Venne ella poi a Milano, e condusse la casa de la signora Daria Boeta e quivi si fermò. Era in quei dí a Milano don Pietro di Cardona siciliano, il qual governava la compagnia di don Artale suo fratello leggitimo, perché egli era figliuol bastardo del conte di Collisano, che morí al fatto d’arme de la Bicocca. Questo don Pietro era giovine di ventidui anni, brunetto di faccia ma proporzionato di corpo e d’aspetto malinconico, il quale veggendo un dí la signora Bianca Maria, fieramente di lei s’innamorò. Ella conoscendolo e giudicatolo piccione di prima piuma ed instrumento atto a far ciò che ella tanto bramava, se le mostrava lieta in vista, e quanto poteva piú l’adescava, per meglio irretirlo e abbarbagliarlo. Egli, che piú non aveva amato donna di conto, stimando questa esser una de le prime di Milano, miseramente per amor di lei si struggeva. A la fine ella se lo fece una notte andar a dormir seco, e con amorevolissime accoglienze lo raccolse, e mostrandosi ben ebra de l’amor di lui, li fece tante carezze e gli dimostrò tanta amorevolezza nel prender amorosamente piacer insieme, che egli si reputava esser il piú felice amante che fosse al mondo, e in altro non pensando che in costei, cosí se le rendeva soggetto, che ella non dopo molto entrata in certi ragionamenti, domandò di singular grazia al giovine che volesse ammazzar il conte di Gaiazzo e il signor Ardizzino. Don Pietro, che per altri occhi non vedeva che per quei de la donna, promise largamente di farlo, e a la cosa non diede indugio. Onde, essendo in Milano il signor Ardizzino, deliberò cominciar da lui, perché il conte di Gaiazzo non v’era, e, tenutogli le spie dietro, seppe che una sera cenava fuor di casa, Il perché essendo di verno che si cena tardi, presi venticinque dei suoi uomini d’arme, che tutti erano armati da capo a piedi, attese il ritorno di esso signor Ardizzino. Sapete esser una vòlta sopra una viottola che dá adito da mano sinistra da la contrada de’ Meravegli al corso di San Giacomo. E sapendo che il signor Ardizzino passarebbe quindi, s’imboscò con le sue genti in una casetta vicina, ed avuto da la spia che il signor Ardizzino veniva col signor Carlo suo fratello, dispose gli uomini suoi di modo che gli chiusero sotto la vòlta, e gli misero in mezzo. Quivi si cominciò a menar le mani. Ma che potevano dui giovini con otto o nove servidori non avendo altro che le spade, contra tanti uomini, tutti armati e con arme d’asta in mano? La mischia fu breve, perché i dui sfortunati fratelli furono morti, e quasi tutti i servidori. Il duca di Borbone, che alora fuggito di Francia era in Milano a nome de l’imperadore, fece dar de le mani a dosso quella istessa notte a don Pietro e metterlo in prigione; il quale confessò aver fatto questo per comandamento de la sua signora Bianca Maria. Ella sapendo don Pietro esser preso, avendo spazio di poter fuggire, non so perché se ne restò. Il duca di Borbone, intesa la confessione di don Pietro, mandò a pigliar la donna, la quale come sciocca fece portar seco un forsiero ove erano quindeci migliaia di scudi d’oro, sperando con sue arti d’uscir di prigione. Fu tenuto mano a don Pietro e fatto fuggir di carcere. Ma la disgraziata giovane, avendo di bocca sua confermata la confessione de l’amante, fu condannata che le fosse mózzo il capo. Ella, udita questa sentenza, e non sapendo che don Pietro era scappato per la piú corta, non si poteva disporre a morire. A la fine essendo condutta nel rivellino del castello verso la piazza, e veduto il ceppo, si cominciò piangendo a disperare e a domandar di grazia che, se volevano che morisse contenta, le lasciassero veder il suo don Pietro; ma ella cantava a’ sordi. Cosí la misera fu decapitata. E questo fin ebbe ella de le sue sfrenate voglie. E chi bramasse di veder il volto suo ritratto dal vivo, vada ne la chiesa del Monistero maggiore, e lá dentro la vedrá dipinta.


Il Bandello al valoroso signore il signor


Francesco Acquaviva marchese di Betonto


Nel ritorno suo da Bari il nostro messer Giacomo Maria Stampa m’ha portato una vostra lettera, la quale a me non accade dir se m’è stata cara, sapendo voi, quando qui in Milano eravate, quanto io v’onorassi e riverissi sempre. Devete anco ricordarvi di quanto al partir vostro in casa del vostro gentilissimo signor cognato il signor Alfonso Vesconte cavaliere, essendovi presente la cortese signora Antonia Gonzaga sua consorte, mi diceste, e di quello ch’io vi risposi. Onde non vi convien dubitare ch’io non resti eternamente ricordevol di voi, e che le lettere vostre non mi siano in ogni luogo e tempo gratissime. E circa a quanto mi scrivete s’è pienamente sodisfatto. Restami solo di mandarvi quella novella, che giá narrò in casa de la vertuosissima signora Camilla Scarampa il signor Antonio Bologna a la presenza vostra, alora che voi con molti altri signori e gentiluomini eravate quivi per udir sonar e cantare la bella e vertuosa figliuola d’essa signora Camilla, alor chiamata Antonia, ora suor Angela Maria, essendosi ella in Genova fatta monaca; la qual nel vero al presente ha sortito nome piú a lei convenevole e a le sue vertú e rare bellezze, che prima non aveva, perciò che qualunque persona la vede, e ode sonar e cantare, tien per fermo di veder e sentir un angelo celestiale. Venendo adunque a parlar de la novella, io, secondo che voi mi commetteste, quella scrissi cosí a la grossa senza ornamento alcuno. Ora che voi me la richiedete, l’ho compitamente scritta e al nome vostro intitolata, a ciò che anco ella abbia il suo padrone. L’apportator di quella sará un servidore del signor vostro cognato, il signor cavalier Vesconte, che egli a posta vi manda per condur cavalli in qua. Essa novella chiaramente dimostra che, quando una donna delibera ingannar il suo marito, che se egli avesse piú occhi che Argo, che a la fine ella stará di sopra e gliela appiccherá. Dimostra ancora che i mariti deveno ben trattar le mogli e non dar loro occasione di far male, non divenendo gelosi senza cagione, per ciò che chi ben vi riguarderá troverá la piú parte di quelle donne che hanno mandato i loro mariti a Corneto, averne da quelli avuta occasion grandissima, ché rarissime son quelle da’ mariti ben trattate e tenute con onesta libertá, le quali non vivano come deveno far le donne che de l’onor loro sono desiderose. Né per questo mai sará lecito a donna veruna far torto al suo marito, ancor che mille ingiurie da lui riceva. State sano.