Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini/Discorso intorno la vita e le opere di Luciano/Capo II. Vita ed ingegno di Luciano

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Discorso intorno la vita e le opere di Luciano - Capo II. Vita ed ingegno di Luciano

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Luciano di Samosata - Opere di Luciano (II secolo)
Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862/1863)
Discorso intorno la vita e le opere di Luciano - Capo II. Vita ed ingegno di Luciano
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CAPO SECONDO.

VITA ED INGEGNO DI LUCIANO.


XXV. Le notizie intorno la vita di Luciano non si hanno altronde che dalle sue opere: ma chiunque si fa a leggere, massime in greco, tutte le opere che vanno sotto il nome di Luciano, tosto si accorge che queste non possono esser nate da un ingegno solo, perchè sono diverse tra loro non pure per la forma, ma per la sostanza stessa del pensiero. Imperocchè dove trovi un concetto grande espresso con certo garbo e facilità, dove un concetto frivolo gonfiato di faticose parole; dove ordine lucente e sobrietà modesta, dove affastellamento e confusione scomposta; dove un linguaggio puro ed elegante, dove guasto e trascurato; dove il freddo sorriso del savio che guarda tutto e motteggia, dove la calda ammirazione dello sciocco che magnifica le inezie; dove il motto arguto e spontaneo, dove la freddura tirata fuori a forza; qui un uomo libero che non teme di dire il vero, e sfida l’ira degl’impostori, lì un adulatore che piaggia sino le cortigiane; qui un accorto che dubita di tutto e non crede e ride, lì uno sciocco che si beve ogni cosa e fa ridere di sè buonamente. Sicchè pare indubitato che esse non possono appartenere ad un uomo solo, quantunque vario e diverso abbia l’ingegno. Nè ti deve far peso il trovarle così unite e confuse; perchè gli antichi codici sogliono contenere parecchie opere di scrittori diversi, [p. 46 modifica]specialmente se esse sono brevi, le quali si trovano raccolte per gusto, per bisogno, per capriccio, e forse anche per ignoranza dei copisti. Ci ha potuto ancora essere inganno per il nome di un altro Luciano, sofista, amico dell’imperatore Giuliano, e vissuto due secoli dopo, il quale secondo una ragionevole congettura del Gesnero, scrisse il Filopatride, e potè scrivere altre di queste opere. Finalmente questa specie di scritti brevi e piacevoli paiono facili ad imitare, e sono imitati perchè ogni sciocco suole pretendere all’arguto, e per accreditar l’imitazione la nasconde sotto un nome chiaro: così ai tempi nostri e mentre il buon Giusti era vivo, abbiamo veduto stampate tra le sue savorose poesie parecchie insipidezze dei suoi imitatori. In questa confusione come potremo distinguere l’uomo che vogliamo conoscere? come non ci verrà il dubbio che potremo attribuire ad uno ciò che appartiene a molti? Diremo noi che solamente le ottime sono di Luciano, quasi che gl’ingegni anche sommi non facciano mai nulla di mediocre? Egli è dunque ben difficile diffinire con certezza le genuine, ed è impossibile anzi inutile cercare di chi sono le altre, che non paiono genuine. Nondimeno tra questa confusione spicca e grandeggia un certo concetto rivestito di una forma leggiadra: ed in questo possiamo riconoscere certamente Luciano; se noia sua fama sarebbe senza ragione. Dove troviamo un concetto diverso ed opposto a questo, ed una forma senza leggiadria, lì è un altro uomo, che non possiamo confondere col primo senza sconoscere la natura del pensiero umano. Così l’immagine di Luciano si chiarisce e si spoglia di ciò che ripugna a lei: può rimanerle qualche cosa non sua, ma non isconveniente: noi non possiamo discernere più oltre. È notabile che quelle opere solamente le quali hanno quel concetto e quella forma, [p. 47 modifica]e che però sì stimato genuine, contengono notizie della sua vita: quindi possiamo ragionevolmente credere che queste notizie sien vere.

XXVI. Luciano fu di Samosata, città di Siria su la sponda dell’Eufrate; e nel libretto Come si deve scrivere la storia, ei la chiama sua patria. Nel Sogno dice che ei fu figliuolo di poveri genitori, che lo mossero garzonetto all’arte con uno zio materno che faceva lo scalpellino; ma spiaciutogli lo zio e l’arte, si diede alle lettere, ove lo tirava il suo genio. Più lungamente parla di sè nell’Accusato di doppia accusa, dove dice che essendo ancor giovanetto, parlante la lingua barbara del suo paese, e vestito quasi alla foggia d’un Assiro, capitò nella Jonia, dove apprese la lingua e l’eloquenza dei Greci; e benchè povero e sconosciuto, in breve destò maraviglia a tutti per felicità d’ingegno e di parola, acquistò fama e ricchezze, e fu tenuto il maggior sofista retore del suo tempo. L’essere nato mezzo barbaro, di poveri e rozzi genitori, e l’aver passato i primi anni in una vita dura, contribuì certamente a fare attecchire l’ingegno naturalmente vivace ed acuto del giovane, che si trovò ignorante ma non corrotto. E fu sua buona fortuna che egli capitò in Jonia, e non nella moltissima Antiochia, ricetto delle più stemperate libidini: ed io pensomi che andò a Smirne, capo della Jonia, fiorente di buoni studi e di graziosa nitidezza di favella, e lieta degli ultimi favori di Adriano che vi aveva stabilita una biblioteca e molti maestri: e in questa città che fu colonia ateniese,1 e ritenne sempre l’eleganza del parlare attico, forse egli apprese quella proprietà, quella perspicuità e schiettezza di linguaggio che non s’impara mai a perfezione su i libri, ma viene con le prime idee e quando si comincia a parlare. [p. 48 modifica]Ma comunque ciò sia, è certo che egli venne in grande rinomanza: ed ei continua a dire come il suo nome fu conosciuto non pure in Jonia e nell’Eliade, ma in Italia ancora, dove ebbe vaghezza di andare (e forse necessita, per curarsi d’una malattia d’occhi, come scrive nel Nigrino), ed ancora in Gallia, dove con grossa provvisione insegnò eloquenza, come dice nell’Apologia. Ma giunto su i quarant’anni, noiato e stomacato delle vanità rettoriche, e forse anche avendosi procacciato da vivere indipendente, abbandonò i giudici, i tribunali, le dicerie, le declamazioni, e si ritirò in Atene. Quivi conversando nell’Accademia e nel Liceo, cercò nelle dottrine di Aristotele e di Platone conforto alla vita; ma avendo trovato promesse bugiarde, e la scienza a mano di ciarlatani, deluso ed indispettito non la credette, e la beffò con l’arme di quel dialogo onde Platone aveva confuso i primi sofisti: dipoi parendogli quest’arme poco efficace, impugnò il terribile flagello di Aristofane e di Eupolide, e non risparmiò niente e nessuno che gli paresse sciocco e ridicolo. In una città famosa per gentili piacevolezze egli parve a tutti piacevolissimo, arguto e novissimo scrittore: e correvano a udirlo recitare una specie di scritture non usate mai, certi dialoghi pieni di azione, di fantasia, di bizzarrie, di frizzi, di motti, vere commedie, nelle quali era il ritratto delle opinioni vive e dei costumi. Piaceva non pure la novità ma la bellezza artistica di questi dialoghi, e l’ardire del sofista diventato satirico, il quale faceva rivivere in Atene la libertà, la festività, il lepore, e la lingua del vecchio Aristofane. Ma egli offese l’orgoglio dei filosofanti, che continuamente metteva in canzone, e in un festivo dialogo li vendeva tutti quanti come schiavi. Ne fecero uno scalpore grande, massime i Platonici, come egli fa intendere nel Pescatore, i quali [p. 49 modifica]vedevano il dialogo del loro maestro adoperato a vituperar la filosofia; e tutti irritati avriano voluto farlo a pezzi: ma egli senza punto smagarsi di quelle furie filosofiche, anzi freddamente ridendone, e rincappeliando le beffe, dichiara che ei rispetta ed ammira i filosofi veri, ma che i guastamestieri, gl’ipocriti, gl’impostori ei non ha temuto nè temerà mai di smascherare e di frustare; che gli amatori e seguaci della vera scienza gli debbono esser grati di questo ardito e magnanimo operare; e ingegnosamente pruova che tutti questi sparpagliatori di paroloni sono abietti e sozzi furfanti degni di capestro. Nella vita di Alessandro, o il falso profeta narra come essendo andato dalla Cappadocia nella Paflagonia con due soldati datigli per guardia dal governatore della Cappadocia suo amico, ed essendo venuto alla presenza del profeta, costui gli porse la mano a baciare, ed egli irato di quest’atto, gliela morse bruttamente; come gli astanti volevano sbranarlo per quel sacrilegio, ma le armi dei soldati e la furba dissimulazion di Alessandro lo salvarono. Ma quando s’imbarcò e partì, trovossi dato nel laccio; che i marinai indettati da Alessandro volevano gettarlo a mare, ed appena furono dissuasi dalle preghiere del padrone: e così ei fu salvo da un grave pericolo corso per un atto di sdegno poco dignitoso, e per una baldanza giovanile che lo traportava ad abborrire tutti gl’impostori. Dall’Apologia sappiamo che egli essendo già provetto negli anni fu Procuratore imperiale in Egitto, e tenne gran parte di quel governo con provvisione di molti talenti. Questo alto uffizio che era tutto giudiziale forse gli fu dato da Marco Aurelio, che potè averlo udito in Atene, e pregiatone l’ingegno e le cognizioni. Quando, dove, e come si morisse è ignoto: nell’Ercole e nel Bacco si dice molto vecchio: e da quei due ragionamenti si può [p. 50 modifica]congetturare che forse Commodo lo privò dell’uffizio di procuratore, ed ei negli ultimi anni suoi dovette ritornare a dar saggi di eloquenza per sostenere la vita. Altro di lui non trovo scritto, e non so donde alcuni abbiano saputo che ei visse settanta ed anche ottanta anni. Nè meriterebbe alcuna menzione la favola spacciata da Suida più di due secoli e mezzo dipoi, che egli morì divorato dai cani; se questa favola non valesse a dimostrare il mirabile effetto delle satire di Luciano, e l’odio che gii portavano tutti gl’impostori anche nei tempi appresso, perchè in quelle si riconoscevano dipinti e si sentivano offesi. Se non che Suida, cristiano zelante, ma scrittore di poco giudizio, potè confondere i due Luciani, ed appiccare all’antico e famoso la favola probabilmente inventata pel secondo; il quale per essere amico dell’imperator Giuliano, fu certamente nemico dei Cristiani, e, se scrisse il Filopatride, doveva essere dai Cristiani abborrito e maladetto come un empio.

XXVII. Ma se per manco di notizie non possiamo fare la storia della sua vita, possiamo, considerando bene le sue opere, ritrarne l’ingegno: imago mentis æterna; e sarà più importante ed utile. Nelle sue opere in generale tu non iscorgi quella specie d’intelletto che non comprendendo il mondo reale, e non trovandovi nulla da nutrirsene e contentarsi, si crea un mondo ideale di speculazioni filosofiche, o d’immaginazioni religiose, e in esso ritirasi e vive di memorie e di speranze; ma un intelletto che raccoglie il mondo greco a lui presente, lo conosce, lo giudica, e benchè vi sia in mezzo, pure si sente pienamente libero da esso e superiore ad esso, perchè non crede a nulla, e si ride di ogni cosa. Il problema dell’eterno e terribile contrasto tra il bene ed il male, tra il vero ed il falso, che la [p. 51 modifica]scienza e la religione si sono tanto e vanamente affaticate a sciogliere, per lui è sciolto facilmente: perocchè nè il bene nè il male, nè la verità nè l’errore sono cose reali per lui: la scienza e la religione sono impotenti e vane; il mondo è vuoto, ed in esso esiste solamente la bellezza che riempie questo gran vuoto, e dà colore e moto alle apparenze che sono credute sostanze. Il sentimento non fa conoscere la verità, perchè è cieco e senza il lume della ragione; l’intelletto non sa ritrovarla, perchè ha corte l’ali, e dopo tanti secoli e tanti sforzi non l’ha raggiunta, nè la raggiungerà mai; la sola immaginazione sa cogliere i pochi fiori che sono nell’universo, e ne gode, perchè essi sono la sola verità che l’uomo può raggiungere, che è reale per lui, e non gli dà dolori, e non lo turba: tutto il resto è dolore ed errore. Con la immaginazione Luciano vede sì il contrasto che è nelle cose, ma solamente al di fuori, non penetra dentro, però non se ne commuove, nè si confonde e dispera; anzi tiene questo contrasto come un’apparenza, e vi scherza, e si piace a rappresentarlo come uno spettacolo di bellezza. Da questa libertà pienissima, e dall’amore che egli ha alla bellezza, nasce quella sua serenità, quel suo riso, quella sua spensierata lietezza che niente mai può turbare; e quella tanta cura e diligenza che egli pone nell’arte e nella forma. Per noi il contrasto è profondo, e chi non crede, sente l’amara disperazione nel cuore, e non ride: per lui è superficiale; e la bellezza lo concilia facilmente, e glielo rende piacevole. Per noi la bellezza è cosa fuggevole: per lui è il solo bene, il solo vero, la sola realtà che esista nel mondo, e cerca di goderne abbandonandosi tutto a lei, ed ha pietà di chi la sconosce e non la gode, e cerca il bene altrove. Il suo sapere è comune, non esce della vita; ma il buon senso gli fa scernere e [p. 52 modifica]disprezzare gli errori comuni; cosicchè egli esprime ciò che è di vero nel sapere comune, ciò che tutti sentono; onde tutti lo intendono facilmente, riconoscono in lui i pensieri ed i sentimenti loro, si accordano con lui, e gli prendono amore. A questo sapere comune e volgare egli aggiunge l’arte che è tutta sua, e che abbellisce quel sapere e lo rende eletto e nuovo: onde in lui è a cercare e considerare specialmente l’arte, che fu sua propria, essendo che il resto appartiene al suo secolo.

XXVIII. Nel quale, come ho detto innanzi, lo scetticismo era la dottrina, il sentimento e la pratica più generale: e Luciano fu scettico non pure perchè visse in quel secolo, ma per un’altra cagione particolare, per la professione di retore che egli esercitò. Il retore più di tutti non credeva a nulla: facendo professione di sostenere il vero ed il falso, il torto e il diritto, di biasimare e di lodare la stessa cosa, di vendere insomma la sua parola a chi volesse comperarla, doveva farsi giuoco di ogni cosa, rimaner libero e scevro da ogni passione, e dentro di sè non avere altra idea ed altro fine che il proprio interesse: e se per bontà di natura aveva qualche senso per la bellezza e vagheggiava l’arte, quel senso sottostava a quell’idea, e l’arte era indirizzata a quello scopo. In parecchi scrittori greci troviamo spesso ripetuto che la rettorica si apprendeva per acquistar potere e ricchezze: Aristofane nelle Nuvole la mostra come una trappoleria e un cattivo giuoco per ingannar la giustizia: e Luciano stesso nel Sogno, volendo confortare i giovani suoi cittadini a studiarla, non sa trovare migliore argomento che l’interesse, e parlando al loro senso, dice in modo facile e compagnesco: Mirate me: io ero un povero giovanotto che per buscar pane fui messo all’arte della scoltura; ed io lasciai quell’arte meschina, e mi diedi alla rettorica, la quale vedete [p. 53 modifica]me mi fa tornare in patria, con che fama, con che onore, con che ricchezze, con questo bel robone indosso, e divenuto altro che scultore. Il retore adunque era sozzamente e bassamente scettico: e Luciano benchè retore, pure essendo nato artista, si sollevò di quella sozzura, sentì un altro Dio presente ed immanente in lui, e rimanendo scettico adorò la bellezza. Benchè dalla rettorica avesse avuto assai di quello che essa poteva dargli, cioè ricchezze e fama, pure egli non potè contentarsi, la dipinse come donna impudica e sfacciata, la lasciò per verecondia, e cercò qualche cosa più composta e ornata e vera.

XXIX. Nelle scuole di rettorica gli esempi della più alta eloquenza che si proponeva ai giovani erano specialmente due, Demostene e Platone: ed entrambi si studiavano per la forma. È naturale che un retore dovesse pregiare Platone più di tutti i filosofi, come il più eloquente, ed avente quei pregi che egli poteva meglio intendere: perocchè il nudo rigore delle dottrine di Aristotele, l’ispida dialettica degli stoici, la volgarità dei cinici, e l’epicureismo tutto sperimentale, non potevano gran fatto piacere ad uno educato nelle opere del bello. Ed è naturale ancora che un retore di qualche ingegno volesse penetrare più dentro della forma nelle opere del filosofo, e considerare anche la materia. Ora questo appunto potè avvenire a Luciano, che da giovane doveva avere Platone in grandissimo concetto, come si vede nel Nigrino, opera piena di fede e di affetto giovanile, e come si scorge chiaro in molte sue opere, dove, sia per celia, sia davvero, riferisce assai spesso le sentenze di quel filosofo, dal quale tolse molta vena di atticismo, e la forma del dialogo. Spiaciutagli la vana ed interessata rettorica, attese alla filosofia, alla quale io penso che ei si diede allettato dalle opere di Platone; ma non fu e non poteva essere filosofo per la [p. 54 modifica]natura del suo intelletto, ed il lungo abito della vita. Ogni dottrina filosofica vuol essere intesa tutta ed intera per conoscere la verità che essa contiene: le sentenze e le parole in ognuna hanno un senso particolare; e fuori di essa, intese volgarmente, non hanno senso e paiono strane e ridicole. Però una mente non atta ed usata a profonde meditazioni, a qualunque dottrina filosofica si volgerà, ne rimarrà sempre fuori, non giungerà mai alla verità che sta molto dentro, sarà colpita dall’apparente stranezza delle formole, e disprezzerà la scienza come cosa ridicola ed assurda. Luciano, facile, leggiero, voltabile e poeta aveva coltivata specialmente l’immaginazione, s’era educato e nutrito nelle splendidezze dei poeti e degli oratori, era il rovescio d’un intelletto filosofico. L’unica dottrina in cui egli avrebbe potuto adagiarsi e trovarla conveniente all’abito della sua vita ed alla professione di retore da lui esercitata, sarebbe stato lo scetticismo; ma lo scetticismo scientifico pareva superato dallo scetticismo pratico; e Luciano prima di attendere alla filosofia si trovava già più innanzi di questa dottrina. Egli è fuori della scienza, e però la deride: e deride ancora, e forse più amaramente, lo scetticismo scientifico,2 perchè questo non conservando nè distruggendo nè creando nulla, ma solamente dubitando, era oppostissimo all’arte essenzialmente creatrice, e però doveva spiacere a chi era nato artista. Quando dunque diciamo che Luciano fu scettico, non intendiamo di dire che ei fu filosofo scettico, ma vogliamo indicare a quale forma della scienza appartiene la sua opinione. Egli non dubita, ma sicuramente nega e distrugge tutto; non però si piace del vuoto nulla, ma come artista crea un altro mondo, nel quale pone a sommo bene non il piacere, come facevano [p. 55 modifica]i comuni epicurei, ma la bellezza. Così mi spiego perchè egli loda spesso Epicuro, il cui principio egli nobilitò e rendette artistico. Per sua natura egli non poteva esser filosofo, nè seguire alcuna setta: e per la condizione in cui era la filosofia egli doveva deriderla tutta quanta, perocchè essa non bastava più a quel tempo, era diventata un’astrazione sterile, era fuori della vita, e tutti sentivano che ella era impotente a fare alcun bene e a ritrovare alcun vero. Il Cristianesimo che venne indi a poco è una chiara pruova che il sentimento generale era giusto, e che Luciano aveva ragione di deriderla.

XXX. Luciano fu scettico non come retore, nè come filosofo, ma come artista. In un secolo dubitante di religione e di sapere, la bellezza non era viva: e quelle anime che nascevano impresse da lei, ed a lei tendenti, la vagheggiavano nella natura esterna, o nelle opere degli antichi: quindi Oppiano coi suoi poemi della Caccia e della Pesca; quindi i Comenti agli scrittori antichi, e i faticosi studi dei grammatici. Queste due specie di bellezze, l’una materiale, l’altra morta, non potevano avere che mediocri pittori: un pittore grande come poteva mirare e dipingere esteticamente quel secolo che era lordo di tutte le brutture? Perseo non poteva mirare in viso Medusa senza diventar pietra; ma Pallade Minerva gli diede lo scudo brunito e lucente, nel quale egli riguardando la Gorgone potè compiere la sua impresa. Così Luciano riguardando il male presente in uno specchio ideale, dipinge la bellezza. Ma dov’era questa bellezza, se il secolo era sì brutto? Era nell’anima sua, ed egli rappresenta l’anima sua in mezzo alle sozzure del suo secolo: o per meglio dire egli sa ravvisare la bellezza che è nell’anima umana quantunque contaminata, egli sa raccogliere la luce che cade sopra una pozzanghera, [p. 56 modifica]e sa rifletterla pura. Vi dipinge le cortigiane, e ve le fa piacere, non perchè la cortigiana sia bella e piaccia, ma perchè anche nell’anima della cortigiana v’è qualcosa di divino, che egli vede e rappresenta in mezzo alla miseria ed al vizio: come il poeta inglese dipingeva Riccardo III e lo faceva piacere, non perchè Riccardo era buono, ma perchè nello scuro abisso di quella anima egli seppe trovare uno sprazzo di luce celeste, una forza ed una grandezza più che umana, e questo rappresentare. Or questo saper trovare le tracce dell’angelo su la fronte di Satana, questo saper discernere la bellezza in mezzo alla bruttezza è dato a pochi spiriti eletti, specialmente in tempo di grande scadimento intellettuale e di corruzione morale. E questo è il valore grande di Luciano come artista, che seppe mirare e dipingere la bellezza in un secolo in cui nessun altro la vedeva, e tutti credevano che fosse perduta. Già veniva quel tempo in cui gli occhi degli uomini si aprivano a mirare una luce novella, a riguardare la bellezza immortale dell’anima nell’artigiano, nel povero, nel ladrone, nella meretrice, nello schiavo e in tutte le creature umane straziate dalla miseria, dal dolore e dalla morte. Luciano la vide in mezzo alle superstizioni del paganesimo, agli errori dei filosofanti, alle rilassatezze del costume, e in questa egli ce la rappresentò con sorriso sicuro, perchè si sentiva libero da tutto ciò che lo circondava: e questa è vera rappresentazione artistica. Gli scrittori che dipingono il male come male, il deforme come deforme, ancorchè abbiano tutto il possibile magistero della lingua e dello stile, non saranno mai artisti, ed al più faranno ritratti brutti di troppa somiglianza. L’artista vero trova il bello anche nella bruttezza che lo circonda, o pure lo trova dentro di sè e lo pone in ciò che gli sta intorno e che ei [p. 57 modifica]dipinge: quindi presenta il male che è fuori di lui in contrapposto del bene che è nella sua mente, il brutto reale in contrapposto del bello ideale: e così veramente piace ed è utile agli uomini. Ora consideriamo i concetti di questo artista scettico, e la forma onde egli li esprime.

XXXI. Cornelio Tacito cominciando la vita di Agricola, prima opera che egli scrisse, dice: Nunc tandem redit animus: Ora finalmente ripigliam fiato; e’ pare il naufrago del poeta che esce fuor del pelago alla riva, sbigottito dai pericoli che pure a ricordare lo atterrivano. E non solo quel severo storico, ma tutti gli scrittori romani, da Tiberio in poi, sembrano compresi da un alto sentimento di mestizia; mentre i Greci per contrario se ne stanno in una tranquilla indifferenza, anzi scherzano e pare che godano di quello stesso onde i Romani sì profondamente si addolorano. Quasi mentre Tacito moriva, nasceva Luciano in tempi riposati sì, ma putridi di ogni corruzione: e nella vecchiezza ei vide le vergogne di Commodo, ed i furori d’una guerra civile. Ora come egli che vedeva quei vizi e quei mali, che stava sotto quella tirannide, non si sdegna di quell’impero romano che aveva ridotta la Grecia a provincia, non parla mai degl’imperatori nè vivi nè morti, non getta mai un motto contro quelle belve? Persio e Giovenale satirici romani pare che non abbiano maggior pensiero che trafiggere coloro che erano cagione dei mali pubblici: e Luciano con tanto ingegno, tanta arte, tanti motti, ardito amico del vero, flagello degl’impostori, il più arguto scrittore satirico, come non tocca affatto la satira politica? Chi dicesse che egli tacque per prudenza paura, sconoscerebbe la natura dell’uom motteggevole che non risparmia neppure gli amici e le persone più care quando gli viene il motto; calunnierebbe Luciano, attribuendogli un sentimento che egli non ebbe [p. 58 modifica]mai: e direbbe una ragione non vera, perchè riguardante uno solo, non tutti gli altri scrittori greci, nei quali è lo stesso silenzio e la stessa spensieratezza. È a cercarne adunque una ragione più alta e generale. Il popolo romano ed il greco quando si unirono e mescolarono insieme, ciascuno diede all’altro ciò che esso aveva di particolare, e in che esso valeva. Il cittadino romano aveva il suo diritto come persona, il suo valore giuridico, del quale egli era superbo, perchè da esso gli veniva il sentimento della sua libertà, e della maggioranza e potenza sopra gli altri: ma questo diritto, che fu cagione di molti beni, quando dal cittadino passò e si personificò nell’imperatore, fu cagione di gravi mali e di servitù intollerabile. L’uomo greco non aveva questo valore, e lo acquistò dal romano, e ne sentiva i beni, mentre il romano allora ne sentiva i mali e se ne doleva. I Greci che da molto tempo avevano perduta la dolce libertà e la nazionale independenza, e per più secoli avevano sperimentati i mali delle discordie civili e della servitù forestiera, si acchetarono sotto il giogo romano, perchè acquistarono un bene non avuto mai, che li compensò in parte di quelli perduti irreparabilmente, acquistarono diritti di cittadini romani, valore giuridico individuale. Però essi non abborrivano l’ordinamento politico dell’impero, ma vi trovavano il loro comodo, vi prendevano parte, vi esercitavano uffizi, lodavano l’imperatore con lodi sentite, che per essi non erano sì basse adulazioni, come pareva ai Romani. È stato detto con verità che spesso il tiranno di Roma era il benefattore delle province: e sappiamo che mentre Commodo uccideva i più illustri patrizi di Roma, in suo nome si facevano leggi che portavano nelle province sicurezza e prosperità. Così accadde ancora pel sapere. I Greci che avevano levate le arti e le scienze ad un’altezza [p. 59 modifica]mirabile, le diedero ai Romani quando erano già scadute e guaste: ed i Romani ebbero il secol d’oro della loro coltura tra il fine della repubblica e il principio dell’impero, mentre allora i Greci stanchi e spossati non sapevano trovare novelle verità nella scienza, e novelle bellezze nell’arte. Quello che ai Romani era nuovo e piaceva, ai Greci era vieto e noiava. Mentre i Romani dicevano: Grajis ingenium, Grajis dedit ore rotundo Musa loqui, i Greci sentivano che la lode era un’adulazione, perchè gl’ingegni grandi mancavano, e dalle bocche non piovevano più le parole come neve invernale. E mentre gli scrittori romani erano tanto celebrati dai loro, e parevano dire alte cose e nuove, dai Greci non erano pregiati, erano tenuti imitatori, e poco felici, e non furono mai nominati da alcuno scrittore greco. Insomma come il Greco si sentiva inferiore al Romano pel diritto, così il Romano si sentiva inferiore al Greco pel sapere: e come il Romano rispettava il Greco pel sapere, così il Greco non poteva biasimare il Romano per la politica. Però Luciano non fece e non poteva fare la satira politica del mondo romano: egli non si sentiva superiore a quel diritto e a quel politico ordinamento, anzi, come greco, ne riconosceva i vantaggi; e, come onesto uomo, vi prese parte, ed ebbe l’uffizio di Procuratore in Egitto, dove sovraintendeva ai giudizi ed interpetrava le leggi ed i decreti del principe. Soggetto ad un’idea non ad un uomo, egli non servì in corte, ma ebbe un uffizio pubblico: disprezzò certamente ed abborrì quegli scellerati che sedevano sul trono romano, ma perchè in quelli era l’imperatore, fonte del diritto, egli non poteva farne la satira. E forse si può concedere che nell’Ermotimo ei volle la baia di Marco Aurelio, ma come di un filosofo, non mai dell’imperatore. La satira del mondo romano fu fatta da altri uomini che si sentivano [p. 60 modifica]superiori all’idea romana, e furono i Padri della Chiesa, i quali senza toccare la forma dell’impero e la persona dell’imperatore, attaccarono i principii, e si risero del borioso diritto di cittadino. E forse la satira più amara fu fatta da quelli che fondavano le repubbliche monastiche senza proprietà, senza libertà, senza diritto alcuno, e rovesci della gran repubblica romana.

Per queste ragioni a me pare che Luciano non toccò la satira politica, la quale avrebbe colpito principalmente i Romani. Egli si tenne nel mondo greco: e ne potè ridere anche perchè l’impero era retto da buoni principi e miti. Quando i mali pubblici sono grandi, chi non ne è tocco, può tacere sì, ridere non mai, se egli non è un vile che vuole insultare chi soffre, e dividere l’infamia con chi fa soffrire. Il riso piacevole di Luciano non può venire che da un’anima tranquilla, secura e vivente in tempi senza violenza.

XXXII. Il mondo greco comprendeva la religione, la filosofia e l’arte. Questo mondo già si apriva e si diffondeva in uno più vasto, nel quale una religione novella non si legava all’interesse di una sola città, di una sola schiatta, di un solo popolo, ma penetrava nell’umanità tuttaquanta. Luciano non conobbe il cristianesimo, che allora era una setta con dogmi non ancora fermi, non iscevra di superstizioni, professata da gente di piccolo affare; ed egli coi maggiori uomini del suo secolo appena la guardò, e non volle curarsene: e perchè non la conobbe, ei non la derise affatto. Delle due opere in cui si parla del Cristianesimo, il Filopatride non è suo certamente; ed il Peregrino a chi ben lo legge non parrà contenere alcuna beffa contro la religione novella. Narrando la vita di un furbo ribaldo che era stato ammesso nella Comunione dei Cristiani e poi scacciato, Luciano parla delle nuove credenze e dei nuovi [p. 61 modifica]costumi così di passaggio senza biasimo nè derisione, e chiama i Cristiani infelici, κακοδαίμονες, quasi avendo pietà di loro che rinunziano ai godimento della bellezza, unico bene del mondo, non curano le ricchezze, e per la loro credulità bonaria sono facili ad essere aggirati e spogliati da ogni astuto impostore. Dove ragionerò particolarmente del Peregrino sarà ad evidenza dimostrato che egli non attaccò nè il Cristianesimo nè i Cristiani. Forse gli uomini timorati vorrebbero che Luciano per bene dell’anima sua fosse stato cristiano: ma se egli fosse stato cristiano non avrebbe combattuto il paganesimo con l’arme potente del ridicolo, perchè il combatterlo sarebbe stato per lui un affare grave e serio: quindi se il ridicolo di Luciano fu utile a distruggere la credenza antica, si deve esser contenti che egli non ebbe la nuova; e riconoscere che la Provvidenza a lui diede l’uffizio di distruggere ciò che non doveva rimanere, e ad altri quello di edificare ciò che doveva durare per molti secoli. Egli adunque non uscì del mondo greco, e non intese ad altro che a deridere il politeismo dei Greci, rappresentandolo come un ammasso di antichi errori, e di poetiche invenzioni non più credute e spregiate dalla ragione, ma ancora piacenti alla immaginazione; e però egli vi scherza, si piace di maneggiarli in mille guise, e di giocare con essi per dilettare sè stesso e quelli che sentono come lui. Lo schietto buon senso gli basta per questo giuoco. Se qualcuno piglia sul serio questi errori e queste fantasie, e le tiene per verità, ei lo motteggia e ne ride: ma se qualcuno le adopera per ingannare i semplici, allora egli con l’ira dell’uomo onesto si scaglia contro l’impostore, e non lo deride ma lo ferisce davvero. Egli adunque non tocca nè politica, nè cristianesimo: il suo concetto antireligioso riguarda schiettamente il politeismo greco. [p. 62 modifica]

XXXIII. Questo concetto, molto più antico di lui, era generalmente diffuso tra i Greci per opera dei filosofi e degli artisti, e fu espresso in una forma bella e popolare principalmente da Aristofane. Dopo sei secoli Luciano riprodusse il concetto medesimo più largo e compiuto, ma in una forma meno artistica, siccome richiedeva la natura stessa del concetto e la condizione dei tempi. 11 concetto antireligioso di Aristofane è spontaneo, nasce dalla natura stessa di quel politeismo; ed il poeta, come il popolo, lo esprimeva e non se ne rendeva ragione: non è mai principale, ma secondario, non istà da sè spiccato e solo nella commedia, ma è unito ed armonizzato ad altri, specialmente al concetto politico, che domina e unisce intorno a sè tutti gli altri. Aristofane non si propone per iscopo di beffare gli Dei, ma li motteggia e ne ride come gli viene in taglio così leggermente, e come fa il popolo che morde ogni specie di persone, e i suoi magistrati, ma non vuole tocche le sue istituzioni; che libero e credente vuole esercitare sovra ogni cosa il suo buon senso, e s’irrita contro chi vuole torgli la liberta pienissima di credere e non credere a modo suo. Però il concetto d’Aristofane non è largo nè profondo, ma invece è altamente artistico, è affiancato ed avvivato da liete immaginazioni e da forti sentimenti, e si adagia nella forma fantastica e leggiadra della commedia. Quello di Luciano per contrario è riflesso, appartiene a lui solo che non è il popolo ma uno del popolo, sta solo, esce nudo dell’intelletto, e nudo rimane spiegandosi interamente nel dialogo, che è forma stretta e meno artistica della commedia, ma bastante a contenere un concetto solo. Luciano si propone una sola idea, e di essa non esce affatto: se la piglia direttamente con Giove, gli pone a fronte un cinico, il quale disputando te lo stringe per ogni parte, e poi che l’ha [p. 63 modifica]confutato ed annullato, non si cura d’altro. Il concetto di Luciano attacca la religione dalle sue fondamenta, e l’abbatte, ed è lieto perchè vittorioso: ma sotto quella lietezza per noi c’è qualcosa di tristo, perchè si compie un’opera di distruzione. Luciano deride una religione non più creduta davvero, ma da furbi e da sciocchi mantenuta: ed egli sentendosi libero da ogni specie di credenza, e sicuro di esser libero e di aver vinto, si compiace di sè stesso, e sta sereno e scherza.

Questa serenità manca al concetto antireligioso dei moderni, i quali sentono che non han vinto nè possono vincere; perocchè il paganesimo cadde effettivamente dopo di Luciano, il Cristianesimo sta, nè per crolli cadere facilmente. Il Voltaire, che non troppo giustamente è stato paragonato a Luciano, è lieto per vanità e leggerezza, non ha la coscienza dì aver vinto, anzi sente che i suoi sforzi riusciranno inutili, e vuol nascondere a sè stesso questo sentimento di timore: onde il suo riso è motto e facezia, non opera d’arte. Il concetto del Goethe, del Byron, e del Leopardi, mentre è profondo e fieramente terribile, si dilarga ed abbraccia tutta la vita e l’universo: è il concetto

          Dell’infinita vanità del tutto,

in cui non vedesi altro di piacevole che l’arte, la quale è anch’essa una vanità, come la rosa che Margherita si piace a sfrondare: onde essi non hanno che un lieve sorriso su le labbra e l’amarezza nell’anima. I due primi trasmodano dalla forma ordinaria; la quale trasmodanza essendo necessaria alla natura del loro concetto ed in accordo con esso, è cagione di una bellezza nuova e terribile. Il Leopardi nella forma non trasmoda; è meno ardito perchè si sente meno libero, e non avendo [p. 64 modifica]alcun conforto alla vita dolorosa, si appiglia più all’arte come alla cosa meno vana che esista nell’universo. Il concetto di Luciano così compiuto per i tempi suoi e così popolare, così sicuro, e pieno di tanta gaiezza e lucentezza di arte, non è più possibile nei tempi nostri, e a noi pare superficiale: perocchè la ragione è penetrata assai a dentro nelle cose, da tutti si sente che sotto la bellezza ci è una verità trista, un contrasto eterno ed invincibile; e gli uomini non si trovano più in quella condizione di tempi tra un vecchio mondo che doveva cadere, ed un nuovo che sorgeva.

XXXIV. Il concetto che Luciano ci presenta della filosofia, è espresso e personificato nel suo Menippo. Io non so se questo personaggio fu reale o è immaginario, nè importa saperlo: il certo è che Luciano ci presenta in lui un tipo del sapere volgare, uno già filosofo cinico, cioè della setta più plebea, poi non più filosofo in nessuno modo, ma un libero e piacevole vecchio che ride sempre, e motteggia questi vanitosi filosofi. (Vedi il primo dialogo de’ morti.) Egli non solamente sa di non sapere nulla, ma sa che il sapere è nulla, e ride di coloro che credono di sapere. Questo sapere è interamente negativo, ed il suo concetto è fuori della scienza. Sempre e per tutto la moltitudine vuol trovare la verità nel mondo sensibile che è il mondo delle apparenze, e non intende che ella è puro pensiero, e non si trova che nel mondo del pensiero. La scienza campeggia in una regione libera e superiore, e non ritiene del mondo inferiore che il solo linguaggio da lei adoperato in senso diverso dal comune: e per il solo linguaggio, che la moltitudine crede d’intendere, ella può essere beffata, perchè presenta molte apparenti contraddizioni. Ma ella era giunta nello scetticismo a negare sè stessa e distruggersi; Menippo era stato filosofo, è non era più, aveva [p. 65 modifica]conosciula la scienza intimamente e l’aveva abbandonata; quindi il concetto antifilosofico di Luciano non è interamente volgare, ma trova un riscontro nella scienza, e si accorda pienamente con la condizione dei tempi. Esso è rappresentato in due modi: gei modo volgare, che è poetico, e che adopera le arme del volgo, la satira delle parole frantese, come si vede nella Vendita; e nel modo scientifico, che è quello degli scettici, e adopera l’arme della scuola, il sillogismo ed il dialogo, come si vede nell’Ermotimo. Non dobbiamo credere che Luciano fosse così nemico della scienza o digiuno di essa, che egli non sapesse ravvisarla in nessun uomo del suo tempo. Nigrino e Demonatte sono due belle e nobili figure di sapienti, dei quali il primo è caro ai giovani perchè vivente esempio di virtù intelligente in mezzo ad un secolo corrottissimo: l’altro è un amabile savio, che vive in mezzo al popolo, fa della scienza una pratica, ed è simile a Menippo ed agli antichi e modesti savi. Luciano beffa la filosofia, non come il volgo che beffa ciò che non intende, ma perchè egli la conosce bene secondo il suo tempo, ed egli è il Menippo che è stato filosofo, e poi vecchio si ride della filosofia e dei filosofi. Ora questo avere conosciuto bene è cagione della forza e novità della satira, e dell’amarezza con cui si versa contro i filosofanti: avendo conosciuto bene le dottrine, vedeva meglio quanto esse discordavano dalle azioni. Insomma il suo concetto è filosofico e volgare insieme, come la sua forma è mista del dialogo filosofico e della commedia: la quale unione è cagione della bellezza del concetto e della forma.

Aristofane diede anch’egli labaia ai filosofi; e nelle Nuvole ci rappresenta Socrate: è bene fermarci un poco a considerare questa rappresentazione volgare della filosofia, e paragonarla a quella anche volgare fatta da Luciano [p. 66 modifica]nella Vendita, che è un assai bel dialogo. Nella commedia di Aristofane tu vedi tutto il popolo Ateniese che si move e si agita, coi suoi costumi, le sue leggi, i magistrati, gli oratori, le liti, gli usurai, i giovani scapestrati, la libertà popolare, l’allegria, i giuochi, il culto, gli Dei tutti di Atene; ed in mezzo a questo mondo vitale ed operante, Socrate sospeso in un corbello passeggia l’aere, e contempla e adora le Nuvole, sue divinità: bizzarra e leggiadra immagine di un sapere vano in mezzo ad una realtà sì piena. Le Nuvole non sono la filosofia in generale, ma la filosofia d’un filosofo, il quale insegna artifiziosi e sottili parlari per abbindolare la gente, vincere ogni specie di liti, ingannare la giustizia, negare gl’iddii e ad essi sostituire nomi vani. Io non so se Socrate fu quale Aristofane lo dipinge innanzi a tutto un popolo che udiva e vedeva il filosofo, quale lo dipingono i suoi discepoli: forse l’uno trasmodò per ira, come gli altri per amore. Il poeta, come il popolo, vede che gl’insidiosi parlari, le trappolerie, le sottigliezze che si fanno giuoco della giustizia e degli Dei, sono diventate un’arte, sia quest’arte dei sofi o dei sofisti non importa, essa c’è, ed è un male, e il popolo lo chiama filosofia, e lo attribuisce a Socrate che è più famoso e parla con certa malizia. Questo male Aristofane vuol rappresentare nella vita del popolo; quindi ti fa vedere come quelle vane disquisizioni sorprendono il retto senso degli uomini semplici, confondono il vero ed il falso, il giusto e l’ingiusto, offendono la morale pubblica, pervertiscono il costume, offendono gli Dei e gli uomini; e ti presenta un giovane che avendo appresa la costoro scienza, trae a filo di ragionamento la conseguenza che egli può battere suo padre, e lo batte, e dimostra che fa bene. Così lo scopo della commedia è altamente morale, ed il concetto della filosofia [p. 67 modifica]è particolare, ma in piena armonia con la vita ateniese, e però vivo di bellezza e di poesia. Nella Vendita il concetto è generale: si deride tutta la filosofia nelle sue varie forme, si espone la dottrina di ciascuna setta, e se ne beffa la parte esterna e ridicola. E perchè il concetto è generale, la sua rappresentazione non è nella vita reale, come quello d’Aristofane, ma nella immaginazione. Giove vende i filosofi non vivi ma morti, non persone ma vite, non realtà ma astrazioni, non idee ma sistemi: i compratori non hanno nomi perchè sono l’umanità, e Dione rappresenta un fatto non una persona:3 la filosofia non è cosa nociva, non produce tristi effetti nel costume, ma è cosa inutile, perchè non più creduta da nessuno: i filosofi sono stimati a prezzo, e sono comperati o per curiosità, o per adoperarli a qualche mestiere come a guardar l’orto, o a voltar la mola del mulino. Questa rappresentazione è nel vuoto, non ha scena, è isolata ed astratta, e però non ha la bellezza poetica della commedia. La vita greca aveva perduta sua armonia, e gli uomini se volevano vagheggiar la bellezza, dovevano cercarla in una immaginazione.

XXXV. A voler vivere in questo mondo bisogna pur credere in qualche cosa: e Luciano, come greco, credeva nell’arte, della quale non rise mai: solamente si scagliò contro coloro che la guastavano e l’avvilivano: e se fu acerbo contro di questi, non è a maravigliarsene, perchè gli guastavano la cosa che egli più amava ed aveva unicamente cara. Il concetto che egli aveva dell’arte non lo troviamo espresso direttamente in un’opera, come troviamo il concetto antireligioso nel Giove confutato, e l’antifilosofico nell’Ermotimo e nella Vendita; ma accennato, e indirettamente, nelle opere [p. 68 modifica]che egli scrive contro i cattivi artisti: onde dobbiamo raccoglierlo da tutte le sue opere. Nel libretto che s’intitola Come si deve scrivere la storia, il quale è una satira di quella turba di sciagurati storici che apparvero nel suo tempo, di cui egli per istrazio riferisce i nomi e le sciocchezze più notevoli, espone l’idea che egli ha della storia, e addita come ottimo esempio e legge Tucidide, di cui si piace di annoverare i pregi. Parrebbe che Luciano come artista e poeta dovesse inclinare piuttosto ad Erodoto o a Senofonte, ma egli non crede perfetto se non Tucidide, intelletto severo e tanto diverso dal suo. Nella quale opinione egli mostra il suo buon giudizio, e si oppone a quella di Dionigi d’Alicarnasso, retore famoso e storico mediocre, che scrisse tanti biasimi di Tucidide, sino ad appuntarlo di non sapere la lingua. L’opinione di Dionigi piacque ad un secolo molle ed infingardo, quella di Luciano è stata confermata dal generale consenso dei posteri. Il modo onde i Greci scrivevano la storia è diverso per molte cagioni dal modo onde la scriviam noi: ma la buona storia fu e sarà sempre una, non opera interamente d’arte, come volevano alcuni, nè interamente fuori dell’arte, come vogliono altri: e l’idea che Luciano ne aveva in mente sta in mezzo a queste due opinioni, ed è così giusta che parrebbe ragionevole ai tempi nostri, e fa maraviglia pei tempi suoi. L’idea che egli aveva del buon retore e in generale del buono e semplice scrittore, la troviamo appena accennata nel Precettore dei retori e nel Lessifane; due satire, una contro un tristo ignorante che si spacciava maestro d’eloquenza; l’altra contro uno sciocco che infilzava parole viete e strane per significare sciocchezze nuove: E nel Zeusi leggiamo che la novità dei pensieri negli scritti suoi tanto lodata dagli altri, non era gran cosa per lui, che voleva si pregiasse [p. 69 modifica]l’armonia di essi, e la convenienza, e la verità, e la semplicità e leggiadria dell’espressione. Ma egli non ha bisogno di parlare dell’arte: perchè la mostra nelle sue opere, ed insegna come si deve adoperare. Sdegnando le frivolezze e le sciocchezze degli scrittori contemporanei, e riguardando nei buoni antichi, egli credeva che l’arte non dev’essere oziosa, ma avere uno scopo utile e civile: però a correggere i costumi e le opinioni del secolo corrotto, e a fargli intendere la verità e lasciargliela fitta nel cuore, egli prende a deriderlo, a destarlo dal sonno indolente, a scuoterlo da tante vergogne. Due cose gli stanno sempre innanzi la mente, e non può dimenticarle mai, perchè sono le più grandi ed importanti per un Greco, la scienza e la religione; le quali egli assorbisce nell’arte, e con l’arte le tratta e le rappresenta. Ben egli sente il valore di quel che fa, e l’uffizio che egli adempie, sente la dignità dell’uomo greco, che è artista e savio; e si duole che questa dignità, questo primato intellettuale si vada perdendo per la viltà di alcuni che si mettono a mercede de’ ricchi signori romani: ed a castigare la viltà greca e l’alterigia romana scrive un bel libro, e adopera l’arte a vendicare la dignità dell’arte.

Insomma i tre concetti che Luciano ci presenta della religione, della scienza, e dell’arte del suo tempo sono tutti e tre negativi: i positivi opposti a questi rimangono dentro di lui; noi li intendiamo, ma egli non li esprime o appena li accenna. Egli oppone il buon senso personale alla religione ed alla scienza, l’arte antica alla moderna: e l’arte antica è per lui l’unica forma del vero e del bello. L’arte è religione, è scienza, è tutto per lui, perchè è la forma della bellezza.

XXXVI. Consideriamo ora la forma onde Luciano esprime questi concetti. A dipingere il male [p. 70 modifica]esteticamente non v’è altra forma che la satira: e la satira è la rappresentazione del reale in opposizione dell’ideale, del falso in opposizione del vero, anzi del vero stesso in uno dei suoi momenti. Questa rappresentazione si fa naturalmente con l’imitazione: e presso tutti i popoli la satira ha avuto la sua naturale origine nella commedia. In Atene, dove per la piena liberta popolare era lecita ogni imitazione, la satira fu lungamente unita alla commedia, crebbe liberissima, e giunse ad una perfezione ignota altrove. Le rappresentazioni che si facevano dai contadini siciliani, dagl’istrioni etrusci, e dagli atellani erano libere solamente nelle oscenità: poco di religione e poco di politica potevano toccare senza offendere la gelosia sacerdotale, e l’aristocrazia dorica ed etrusca. Sicchè dove non fu libertà popolare ivi la satira non fu drammatica ma discorsiva, come è quella dei Latini, di altri poeti greci non ateniesi, e dei moderni. Pure la satira anche discorsiva ritiene sempre molto della sua original forma, e introducendo persone a parlare, e frammischiando dialogo e descrizione, si sforza di rappresentare al vivo le cose e le persone. Luciano essendo naturalmente inclinato al motteggio, avendo trovato liberissimo il campo nella religione non più creduta, nella filosofia diventata scettica, nei costumi rilassatissimi, e dotato d’immaginazione potente, di senso acuto, di discorso facile ed elegante, non poteva adoperare altra forma che quella della satira drammatica, nè seguire altro esempio che quello del comico ateniese. Ma Aristofane era in tutto e pienamente libero, e però spaziava nella commedia, che è rappresentazione della vita intera: Luciano non era libero se non nella religione, nella filosofia e nel costume, e libero d’una libertà in gran parte astratta, però si restrinse in una forma più breve, ed inventò un certo [p. 71 modifica]dialogo, che è come una parte o una scena della commedia. Nello scritto indirizzato ad uno che lo diceva Prometeo ei dice e si vanta di essere stato il primo che abbia tentato di unire e di accordare insieme il dialogo e la commedia, prima separati e discordi tra loro. Quando si credeva nella filosofia, alcuni filosofi, e Platone più di tutti, per dare una certa vaghezza ed evidenza alle cose che dicevano, le espressero nella forma che le discutevano tra loro, cioè in dialogo; il quale fu serio e grave come la materia che trattava, senza moto nè azione, perchè non era altro che un puro ragionamento, fatto talora da persona più savia, ed autorevole, ad altre che facevano poche dimande, e rade volte l’interrompevano. Fra le opere di Luciano abbiamo esempi di questa maniera di dialogo filosofico, nel quale si tratta seriamente un argomento, come l’Ermotimo, il Giove confutato, l’Anacarsi, il Tossari, il Ballo, il Demostene. Quando poi non si credette più nella filosofia ed in niente, il dialogo per un concetto più libero pigliò necessariamente una forma diversa e più libera, acquistò moto ed azione, e maggiori piacevolezze, e si avvicinò alla commedia. Di questo dialogo drammatico Luciano fu primo inventore; e gli esempi sono il Timone, la Vendita, il Pescatore, l’Accusato di due accuse, il Tragitto, il Lessifane, i Fuggitivi, Giove Tragedo, il Convito, l’Icaromenippo, il Concilio degli Dei, il Filopseude, che vanno tra i più belli, e contengono la satira libera, piacevole, bizzarra, fantastica. Tu ci vedi il mondo della filosofìa e della religione rappresentato a gran tratti, la scena è il cielo e la terra, il tempo è il passato ed il presente, i personaggi sono Dei ed uomini, esseri reali e fantastici, tutti si muovono ed operano e parlano, eia parola è breve e viva: ma tutto questo mondo è vuoto dentro, si scioglie in un breve riso, e si stringe in un breve [p. 72 modifica]dialogo. Questo dialogo drammatico appartiene interamente a Luciano; e tutte le sue opere per questo si chiamano confusamente dialoghi, quantunque non tutte abbiano questa forma. La quale non fu da altri seguita nè imitata, perchè mutati i tempi mutarono anche i concetti e le forme di essi. Per scrivere dialoghi come questi di Luciano non basta essere scettico, ed avere gran dovizia di motti e di piacevolezze, esser facile scrittore ed arguto ed elegante, e tutto quello che vuoi, ma bisogna trovarsi in un tempo come quello, e sentirsi libero e superiore ad un mondo con cui scherzare. Quando egli tratta dell’arte, nella quale crede e non può sentirsi libero, non adopera mai la satira drammatica, ma la discorsiva, come nelle opere Di quei che stanno coi signori, Del modo di scrivere la storia, la Storia vera, il Precettore dei retori, il Giudizio delle vocali, l’Encomio della Mosca. Di rado usa il dialogo; e se gli viene il capriccio di rappresentare le sciocchezze che alcuni fanno nell’arte, e delle quali egli si sente liberissimo, allora solamente usa il dialogo drammatico che gli viene spontaneo, come nel Lessifane. Per queste ragioni io credo che se egli avesse ardito di scrivere satire politiche, non l’avrebbe fatte drammatiche ma discorsive, non avrebbe scritto dialoghi ma sermoni, come quelli di Persio e di Giovenale. La satira politica può essere amara, violenta, terribile, rovente quanto vuoi, ma se manca la libertà pubblica, le mancherà il pregio dell’arte, le mancherà quell’aere sereno nel quale vive la ragione e la bellezza.

XXXVII. Non bisogna confondere il dialogo drammatico con un’altra forma più breve di leggiadri dialoghetti, iquali a mio credere sono una imitazione dei Mimi, specie di brevissime commedie usate dagli antichi poeti siciliani. «I Mimi inventati e perfezionati da [p. 73 modifica]Sofrone e da Senarco, che fiorivano verso i tempi di Euripide, erano piacevoli imitazioni della vita. Rappresentavano dialogizzando una piccola azione: quale di essi il maschile, quale il femminile costume; alcuni serii, altri giocosi, tutti con una graziosa, con una maravigliosa naturalezza di stile, che era il linguaggio abitualmente proprio delle persone introdotte a parlare. Platone ne faceva le sue care delizie; l’ateniese Apollodoro li cementò: ma se fossero scritti in verso in prosa non è ben risoluto tra i filologi. Credono alcuni che fosse una prosa partecipe del ritmo poetico, come gl’idillii di Gesner, e certamente erano pubblicamente rappresentati.» (Centofanti, Discorso su la letteratura greca.) Tra le opere di Luciano ci ha quattro raccolte di questi dialoghetti, che corrispondono a quattro concetti principali: i dialoghi degli Dei sono satira religiosa; i dialoghi marini sono rappresentazioni di arte; i dialoghi dei morti sono satira filosofica; i dialoghi delle cortigiane sono imitazione d’un costume, e più simili ai mimi. Un’idea breve ma lucida e brillante, un pensiero arguto, un capriccio, e talora un motto, un’immaginetta sì viva che un pittore potrebbe ritrarla, un moto d’affetto, una fantasia, una piacevolezza è espressa in ognuno di questi dialoghetti: taluno dei quali è uno schizzo d’un’opera maggiore; come il dialoghetto tra Minosse e Sostrato contiene un pensiero che è stato largamente trattato nel Giove confutato. Io credo ancora che i mimi siciliani non erano cosi brevi, e che Luciano li raccorciò e fece questi, come raccorciò la commedia di Aristofane e fece il suo dialogo: e forse il Giudizio di Paride, ed il Caronte sono lunghi quanto i Mimi. Luciano usò questi dialoghetti invece dell’epigramma comune e gradito al secolo molle, e invece di tante altre forme nane e sconce usate dagli [p. 74 modifica]Alessandrini nei componimenti satirici, come i silli, a uovi, le scuri, gli altari.4 Di forma più larga e più libera dell’epigramma, questi dialoghetti sono capaci di maggiori bellezze, sono poesie schiette, tranne il verso, e ci presentano una finitezza e leggiadria di stile inimitabile ed unica, una freschezza, una fragranza, una vita che li ristora e t’innamora. E questa forma sì vaga non ornava concetti frivoli. Non le pastorellerie, le sdolcinature e le adulazioni di Teocrito, che furono imitate da Virgilio, piacciono a Luciano, il quale usa l’arte non per adulare potenti e dilettare oziosi, ma per correggere gli errori comuni ed insegnare piacevolmente il vero. Però ti trasporta seco in cielo e ti mostra i pettegolezzi e le vergogne degli Dei, massime di Giove, tanto spregevole lassù, tanto temuto quaggiù: poi ti fa scendere nell’inferno, e quivi giudichi gli uomini ed i fatti che sono stati, e nel passato vedi riflesso il presente; altri uomini ed altri tempi, ma gli stessi errori: poi ti rapisce seco nella libera e lieta regione dell’arte, finisce alcuni quadretti che Omero lasciò abbozzati, ti mostra Perseo bambino che guarda il mare e sorride ignaro della sua sventura, poi garzone volatore che libera Andromeda bellissima legata allo scoglio, e ti pare di seguire quella pompa nuziale che accompagna Europa portata dal toro in mezzo al mare. Le cortigiane stesse sono più vere che non i caprai ed i bifolchi galantemente innamorati, e ti porgono più vere ed utili osservazioni a fare. Luciano mirava sempre nei Greci antichi del buon tempo, e da quelli traeva i suoi liberi concetti e le libere forme dell’arte che egli giudiziosamente accomodava al suo tempo; dai Greci liberi e potenti di tutte le forze dell’ingegno egli derivò nelle sue opere la pura vena della bellezza, non dai Greci cortigiani, che seduti [p. 75 modifica]alle regali mense in Alessandria, avevano corrotto il gusto ed il giudizio.

XXXVIII. E dai Greci antichi del buon tempo egli trasse ancora la forma generale del suo stile e della lingua. Corrispondente ai concetti, lo stile è popolare, ed è ancora mirabile per lucentezza ed eleganza. In Antiochia ed in Alessandria le idee nuove erano assai sparse, la lingua s’era intorbidata e non faceva più trasparire schietto il pensiero, la servitù ed i costumi guasti avevano corrotto il gusto; sicchè le piacevolezze popolari erano lazzi non motti gentili, e la forma generale del dire non era bella, e non poteva essere adoperata da un artista. Atene per contrario era sempre la fonte dell’ellenismo: ivi le idee, la lingua, i costumi erano rimasti schiettamente antichi: onde Luciano trovando quel popolo più conforme alla natura del suo ingegno, fermossi in Atene, ed apprese la lingua dalla bocca del popolo, e lo stile nelle opere degli scrittori. Negli scrittori attici, e sopra tutti nel leggiadrissimo Aristofane, egli avvezzò la mente a quella sobrietà che è pregio raro in un retore, e raro negli uomini asiani, voluminosi nel dire come nel vestire. Quel suo dire schietto, libero, riciso e semplice, e in quella semplicità elegantissimo, non è tutto natura in lui, ma con lo studio ei l’acquistò, come con lo studio si rendè libero l’intelletto. E fa maraviglia considerare che Luciano fra tanto rimescolamento di popoli che confondevano idee, costumi, lingue ed ogni cosa, e fra tutti gli altri scrittori del suo tempo, che nel pensiero e nella lingua ci mostrano segni di quella confusione e procedono con certo impaccio, egli solo va sicuro di sè, usa stile franco ed evidente, lingua pura, modi svelti ed efficaci: sicchè egli è riputato ristoratore dell’atticismo, e va annoverato con gli antichi tra i migliori scrittori che ebbe la [p. 76 modifica]Grecia. La qual cosa non si potrebbe spiegare senza conoscere che intelletto egli ebbe, e quali concetti, e come seppe rimaner libero in mezzo al mondo che lo circondava. I Greci fecero valere nel mondo la bellezza, e Luciano, come greco, la seppe trovare nel suo secolo, e mostrarla, e farla amare anche nello Scetticismo.

Questa è l’immagine di Luciano che io ho veduta nelle sue opere: le quali ora ad una ad una dobbiamo considerare.


Note

  1. Vedi le Immagini, cap. V, e gli annotatori di quel dialogo.
  2. Vedi nella Vendita quanto è maltrattato e disprezzato Pirrone.
  3. Vedi Capo III, § 67, dove si esamina particolarmente la Vendita.
  4. Vedi il Centofanti nel citato Discorso.