Otto mesi nel Gran Ciacco/Parte prima/X

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L'ATTENTATO



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forza di stare presso la tolderia mattacca della Cangaglié e di aver relazioni con cotesti Indiani, avevamo perduto ogni diffidenza e andavamo e venivamo senz’armi; ma ci corse poco che non ci costasse caro.

Una sera eravamo tornati d’allora al vaporino, e sulla ripa eravi una moltitudine di Mattacchi, quando ad un tratto le cine si mettono a gridare: Uanc-loi, Uanc-loi! che vuol dire Toba in loro lingua; e si danno a fuggire per tutte le parti, alcune rifugiandosi tra noi.

È tale l’amicizia tra cotesti Indiani, che una visita dei Toba è per loro motivo di terrore!

Ma per cotesto giorno non fu più niente e parve un falso allarme.

Il giorno dopo, ecco si ripresenta quel ladino Toba dai pantaloncioni bianchi, già perduto da quindici a venti giorni avanti, e con lui una compagnia di Toba, tra i quali diverse facce da galera appartenenti a Cristiani indianizzati. Questi erano voluminosamente vestiti, con uno e due ponchos addosso e le mani nascoste.

Si presentarono baldanzosi, e uno di loro disse in pretto santiagueño: «Déme camisa pá mi señora,» e alla nostra risposta [p. 80 modifica]che non ne avevamo, soggiunse che gli dessimo «pañuelo pá su señora». Ma non gli demmo niente, e in quello stesso momento riusciti a vincere un mal paso, andammo via, abbandonando costoro sulla riva.

Avevamo così trapassato anche la tolderia e ci eravamo già licenziati dai suoi abitanti, di cui nondimeno una porzione seguitò accompagnandoci per allora e per molti altri giorni. Fra questi vi era Mulatto, che ho già menzionato altra volta; cacicche allora nostro amico, simpatico perchè prode, e che più tardi ammazzò Faustino, che gli era genero.

La mattina dopo, giunti presso una stretta curva dovemmo traccheggiare la marcia per virarla; erano le 9 antim. e benchè d’inverno faceva un caldo insopportabile dentro e al sole; perciò me ne stavo sopra coperta all’ombra, scarsa per essere al tropico, che proiettava verso il ponente lo stanzino del timone. Ai miei piedi stavano Mulatto e la coppia adamitica sdraiati sulla coperta; ero curioso di apprendere parole e perciò li interrogavo spesso, ma costoro non si alzavano mai e mi rispondevano con un sorriso, che non sapevo decifrare.

A un tratto, m’ero allora allora alzato da ginocchioni per appuntare il nome di una pentolina, di una resina e d’un bocchino, e m’ero rimesso a sedere, quando si principia a sentire due, quattro, dieci, quindici tiri di carabina. Incerti sul principio, il fischio di alcune palle, che ci rasentarono le persone, ci fecero accorti del pericolo, e «i Toba, i Toba!» fu il grido generale. Accorremmo alle armi, e il timoniere correntino e un altro erano già saltati a terra colla carabina in mano, allora i nemici se la dettero a gambe pei boschi.

Era accaduto che i Toba, conoscitori dei luoghi, avevano preparato una imboscata in un punto di dove potessero tirarci quasi a bruciapelo, mentre noi stavamo fermi: come infatti accadde; e sarebbe accaduta qualche disgrazia, se il vaporino non avesse avuto un leggiero movimento di rotazione per passare la curva. E i Mattacchi di bordo lo sapevano! [p. 81 modifica]

Una palla, che rasentò la seggiola dove io sedeva, e la mia spalla all’altezza della mammella, trapassò una doppia parete di legno del casotto, colpi e scheggiò la ruota del timone e andò a conficcarsi nello stipite opposto della porticina penetrandovi un centimetro. La palla la conservo per memoria. Io ed il timoniere ne uscimmo illesi per miracolo, come si suol dire, dovuto al piccolo movimento di rotazione del bastimento.

I fucili erano a retrocarica e probabilmente di quelli saccheggiati al vaporino il Rio de las Piedras di cui già vi parlai.

Quel giorno lo passammo triste. Quei di bordo mi davano il mi rallegro e mi dicevano ch’era rinato. Io mi consolavo col giuoco delle probabilità e pensavo che, avendo già corso un pericolo così imminente, era oramai più difficile che rimanessi vittima di un altro, come quando sortendo un numero accanto al proprio è difficile che sorta poi il proprio. Nondimeno l’impressione del pericolo corso ci tolse la consueta letizia e l’appetito alla mensa di quel giorno.

Questa ostilità ci mise in pensiero. Eravamo ancora in territorio Toba, benchè vi fossero indiade mattacche; il bastimento marciava a giornate di pochi chilometri, e a volte di nessuno; stavamo proprio nel cuore del Ciacco e per li erano già numerose le indiade e si aumentavano, perchè si preparavano per andare a portar guerra ai Mattacchi presso la frontiera cristiana.

Tutti i giorni ci era avvisato che i Toba volevano assaltarci, ma che poi non si animavano. Intanto eravamo obbligati a far guardia rigorosa, e in generale io e il signor Natale Roldan la facevamo dalla mezzanotte alle due; ma non tornarono ad offenderci più.

Figuratevi quelle notti d’inverno, lunghe, fredde (anche quando nel giorno abbia fatto molto caldo) alcune volte piovose! e figuratevele con quelle altre circostanze, e con le provviste che andavano scemando precipitosamente!

Caccia, come farne in mezzo ai nemici? non ammazzavamo che raramente qualche ciaratta, animale tra la gallina e il fa[p. 82 modifica]giano, ma il nostro cibo principale era il pesce. Tuttavia la poesia, che è l’anima degli spiantati e dei disgraziati, ci venne in soccorso.

In un andaluso, chiamato Don Felix, muratore, scoprimmo a bordo un musico di canto e di chitarra. Quasi tutte le notti, dunque, avevamo musica. La poesia del suo scarso repertorio, conteneva le due strofe seguenti, che mi ricordo ancora:

 Si una vez en el mundo adoraste
    y en el caliz de amor tu bebiste,
    ah! porqué compasion no tuviste
    de un amante al jurarte su fé!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Me despierto y te busco á mi lado...
    no te encuentro y maldigo á mi suerte!...
    ah! mil veces prefiero la muerte
    al vivir separado de ti!

Le note toccanti, che per la prima volta agitavano l’aere di cotesti paraggi, la maestosa volta celeste or rischiarata da fulgida luce che simula il far del giorno, or tempestata di innumerevoli stelle che davvero sembra scintillino, facevano profonda impressione. Come la facevano l’immensità del campo che ne contornava e i giganteschi incendi appiccati dagli Indiani, di cui, ora si vedeva il chiarore come di luna piena all’estremità lontana dell’orizzonte, mentre si udiva lo scoppiare e il crepitare delle piante abbruciate da parere un fuoco di artiglieria, e si vedeva pure il guizzar delle fiamme e si sentiva il calore della vampa, e ci molestava il fumo e la pioggia delle pagliuzze carbonizzate spinte dal vento. Pareva proprio essere minacciati da inevitabile sventura. Questo mistero delle foreste nereggianti sul fondo già buio dei prati; solitudine, i pericoli, le incertezze, la distanza di luogo e di tempo dal consorzio dei cari... tutto destava nell’animo una profonda commozione e ne richiamava ai dolci e malinconici pensieri!